La "Carovana della Giustizia" da Rebibbia alla Calabria di Valentina Stella Il Dubbio, 9 giugno 2017 Radicali e penalisti insieme nel nome di Marco Pannella. Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino: "insieme alle migliaia di reclusi, virtualmente in viaggio con noi, crediamo che non si possa più aspettare". La "Carovana per la Giustizia", partita ieri dal carcere romano di Rebibbia e promossa dal Partito Radicale insieme all’Unione delle Camere Penali Italiane, è giunta nella notte in Calabria. Gli obiettivi sono gli stessi per i quali ha lottato Marco Pannella: informare e sensibilizzare società civile e politica sulla necessità di una riforma strutturale della Giustizia. Ma ci sono anche dei traguardi a tempo da raggiungere: 3.000 iscritti al Partito Radicale entro il 31 dicembre per continuare a farlo vivere e 50.000 firme entro novembre sulla proposta di legge d’iniziativa popolare sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. "L’andamento della campagna di raccolta firme - ha dichiarato Giuseppe Belcastro, coordinatore separazionedellecarriere.it, durante la conferenza stampa - conferma che l’avvocatura italiana ha percepito perfettamente la rilevanza di quella che da tempo viene definita "madre di tutte le battaglie" ed ha risposto con un entusiasmo inaspettato. 36.000 firme in poco più di 30 giorni indica che l’iniziativa ha intercettato un bisogno largamente avvertito dai cittadini". E tra i cittadini ci sono i detenuti, i primi diretti interessati della giustizia: "Insieme alle migliaia di reclusi, virtualmente in viaggio con noi, crediamo - dice Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino - che non si possa più aspettare per risanare la Giustizia in tutte le sue declinazioni: dalla lentezza dei processi all’abuso della custodia cautelare, passando per la tortura di Stato del 41bis e dell’ergastolo ostativo". Ma quello che si può fare subito, precisa la radicale Rita Bernardini, giunta al quindicesimo giorno di sciopero della fame, "è stralciare dalla parte del Ddl sul processo penale la parte che riguarda l’ordinamento penitenziario". E dunque, conclude Francesco Petrelli, segretario dell’Unione delle Camere Penali Italiane "saremo compagni di viaggio per un carcere più giusto, rispettosi dei diritti e dei principi della Costituzione, per l’amnistia come unico strumento capace di rimediare con urgenza alla condizione di sostanziale illegalità nella quale vivono migliaia di detenuti". Il partito dei giudici, la barbarie delle intercettazioni, la dittatura del moralismo… Il Foglio, 9 giugno 2017 Pubblichiamo la trascrizione del Convegno "Magistrati e politica, dove è il cortocircuito?", organizzato dal Foglio al Teatro Eliseo di Roma, che si è tenuto mercoledì 7 giugno. Hanno partecipato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, il giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese. Ha moderato Claudio Cerasa, direttore del Foglio. Claudio Cerasa: "Il tema di cui parliamo oggi è il grande cortocircuito. Una delle questioni chiave che vengono osservate fuori dal nostro paese, è la giustizia. Andiamo quindi a parlare di quali sono i grandi cortocircuiti all’interno del sistema giudiziario. Vorrei cominciare con un video che credo sia importante, di Ilaria Capua, una grande virologa, scienziata e per un periodo della sua vita un membro di questo Parlamento. Poi la gogna si è abbattuta su di lei, è diventata un mostro che non poteva più girare nel suo paese, che ha pensato di togliersi la vita. Dopo lunghi mesi di gogna, si è dimostrato che le accuse contro dei lei erano campate per aria". "Ministro Orlando, di fronte a una testimonianza del genere, a un’accusa abbastanza circostanziata sul sistema giustizia, cosa pensa? Viviamo davvero in una Repubblica giudiziaria?" Andrea Orlando, ministro della Giustizia: "Il ministro ha a disposizione strumenti, come l’avvio dell’azione disciplinare. Il punto è un altro: qualunque ordinamento giudiziario può commettere degli errori. Io sento citare come esempi paesi nei quali davvero spero che nessuno dei presenti sia processato. Noi abbiamo un sistema che, nel suo insieme, ha un margine d’errore più basso che in altri ordinamenti. Io difendo i tre gradi di giudizio, sono contrario a qualunque velocizzazione che sia realizzata a scapito delle garanzie. Il problema del nostro sistema è che questa pena accessoria o anticipata deriva dalla disfunzione del processo stesso, cioè dall’utilizzo improprio delle intercettazioni e da un tempo che non è sufficientemente definito nella conduzione delle indagini. Tenere una persona sotto indagine per un tempo illimitato è di per sé un elemento che espone alla crescita del sospetto. Credo che questi siano i punti sui quali si deve intervenire, oltreché sulla selezione dei magistrati. Io però comincio a pensare, se è consentita una provocazione, che così vada bene a tutti. Tre anni e mezzo fa ho presentato un disegno di legge che affronta proprio questi punti". Cerasa: "Perché non è stato approvato o trasformato in una battaglia politica o civile?" Orlando: "Ho fatto battaglie che mi hanno anche comportato tensioni con i miei colleghi al governo e con il precedente presidente del Consiglio, che riteneva non fosse da affrontare questo argomento sotto referendum. In questa vicenda, comunque, c’è un altro tema importante che riguarda la specializzazione: tu hai magistrati che si occupano di materie molto diverse tra loro, ad esempio indagare su una vicenda legata ai virus non è uguale a indagare su una rapina in banca. Sul perché questi temi non li si voglia affrontare, non lo so dire, se non per questioni che esulano dal merito". Cerasa: "Non pensa che tutti i governi in questi ultimi vent’anni non sono riusciti a regolare in maniera più efficace le intercettazioni (e la loro pubblicazione, soprattutto) perché hanno avuto paura della reazione che si sarebbe scatenata nell’opinione pubblica, educata per anni a spacciare per libertà di stampa la libertà di sputtanamento? E poi, che cosa pensa della nostra battaglia contro la pubblicazione delle intercettazioni, che ci sembra la cosa migliore per tutelare la privacy delle persone sotto indagine?". Orlando: "La paura io non l’ho avuta, all’inizio ho subito critiche dalla magistratura, dicevano che volevo mettere il bavaglio. Su alcuni punti ci siamo chiariti, su altri no. Comunque, non mi sento di aver ceduto a questo tipo di argomento, anche perché io la riforma l’ho fatta approvare sia alla Camera sia al Senato, e ora è all’ultimo miglio. Il clima è un po’ cambiato nel rapporto tra politica e magistratura, alcune procure si sono poste il problema di come gestire le intercettazioni. Anche procuratori noti per posizioni radicali su alcune posizioni, penso ad esempio ad Armando Spataro, non un apologeta di questo governo, hanno fatto una scelta che ci ha aiutato a compiere questo passo. Se non si realizza questa sfida, perdiamo un’occasione storica. Io apprezzo il Foglio anche perché dà prova di una qualità di giornalismo e penso che le intercettazioni abbiano ucciso o quantomeno compromesso il giornalismo d’inchiesta. Non sono convinto che ci possa essere una soluzione normativa che vada in quella direzione. E questo perché nell’epoca di internet, ormai quel che diventa pubblico è di per sé pericoloso e una notizia non pubblicata ma già nelle mani di qualcuno spesso è addirittura più pericolosa di una notizia pubblicata. Non si hanno neppure gli strumenti per potersi difendere. Apprezzabile quindi la scelta di non pubblicarle, ma non credo che la questione si potrà risolvere per via normativa. Semmai bisogna lavorare sulla responsabilizzazione di chi deve gestire questa situazione. A volte si fanno uscire le intercettazioni per ragioni oblique, ma spesso per semplice sciatteria. Si fanno semplici copia-incolla dall’attività della polizia giudiziaria e si mettono dentro l’ordinanza. Il fatto è che ci sono due grandi categorie di vittime, quelle note che fanno vendere i giornali e che magari fanno fare il talk-show, ma poi ci sono quelle meno note. Il meccanismo analogo esiste anche nelle cronache locali. In questo caso, è vero che spesso esiste un rapporto tra polizia giudiziaria e magistrato, ma il più delle volte si tratta di una sciatteria nell’emanazione degli atti. Potrei fare una serie di esempi. Non penso che il giornalista volesse colpire quella persona specifica, ma visto l’interesse della notizia, la butto sulla locandina e vendo tre giornali in più. Non sempre c’è il disegno politico, il complotto, la congiura. C’è, alle volte, un semplice limite nel modo in cui si trattano queste informazioni delicate e poi il modo con cui si trattano". Cerasa: "Vicepresidente Legnini, forse una soluzione facile c’è. Perché la pena per chi pubblica le intercettazioni, che sono illegali, è così bassa? Non sarebbe intelligente aumentare la pena?". Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: "È una materia su cui si discute da più di vent’anni (tutti i governi hanno provato a regolamentare questa materia, anche aumentando le pene. Io fui relatore di minoranza, nel 2009-2010, del progetto del governo Berlusconi di limitare l’uso delle intercettazioni, e non solo della loro diffusione). Ero allora all’opposizione di questo disegno. Oggi noi abbiamo un’opportunità: c’è un disegno di legge, quello che richiama il ministro Orlando, che ha affrontato già tre letture parlamentari. Ne manca una. Lì ci sono norme che al Csm non piacciono ma credo sia doveroso approvare quel disegno. Basterebbe un giorno di lavoro in Aula. Credo sia doveroso e giusto, dopo vent’anni. In questi anni, certo in virtù di battaglie culturali e anche per un ruolo di una parte dell’informazione, come voi del Foglio, noi - e quando dico noi intendo chi ritiene che quella testimonianza costituisca un fatto inaccettabile per un paese civile e democratico; che siamo di fronte a episodi che sono annoverabili come atti di barbarie, lesivi di diritti fondamentali - in questi ultimi due anni il Csm non si è opposto, si è espresso in modo positivo su quel disegno di legge, perché questo non limita l’utilizzo delle intercettazioni, ne disciplina la gestione al fine di evitare il verificarsi di quelle patologie di cui si parlava prima. Tre procure della Repubblica hanno prodotto le circolari che conosciamo. Il Consiglio superiore della magistratura ha avuto il coraggio di acquisire quelle circolari - espressione di potere organizzativo dei capi delle procure - e lo dico non per rivendicare un merito, di rielaborala, arricchirla e metterla a disposizione per tutti gli uffici di procure italiane. Un modello, quindi, a cui ispirarsi. Al di là della vicenda Consip, da un anno a questa parte, io non ricordo che ci siano stati episodi rilevanti su questo tema. Io sono convinto che, anche in virtù di un’evoluzione culturale e di sensibilità da parte dei cittadini, dire che l’utilizzo improprio, illecito e distorsi-vo, da gogna mediatica, delle intercettazioni, la loro diffusione illecita o indebita, ormai costituisce un disvalore nella percezione della stragrande maggioranza dei cittadini. Cosa che non era o non era in questa misura fino a qualche tempo fa. Mi auguro che ci si riesca in questa legislatura. Dico questo anche, o forse anche per diversi aspetti soprattutto, per l’autorevolezza e il prestigio della magistratura. Non è possibile che pochi magistrati che maneggiano questa materia con disinvoltura compromettano l’onore e il prestigio della stragrande maggioranza dei magistrati che non si comportano così". Cerasa: "Non possiamo non dire nulla sulla vicenda Consip. Oggi è stato indagato il numero due del reparto dei Carabinieri per la tutela ambientale, che ha avuto un ruolo ovviamente nella stesura dell’informativa sulla quale poi è stata costruita l’indagine. Ci sono molti fuochi, la Procura di Roma, la Procura di Napoli, il procuratore generale che ha acceso un faro sulla Procura di Napoli. Perché il Csm non è ancora intervenuto?". Legnini: "Lo dico con estrema chiarezza: su questi fatti, oggi ne abbiamo avuto un’ulteriore riprova, è in corso un’indagine penale disposta della Procura di Roma. Fino a quando è aperta un’indagine penale, il Csm non può dire neppure una parola. Perché, e lo prevede la legge, deve attendere l’esito di quell’indagine. Se poi, come è su questo caso, sugli stessi fatti e dintorni è aperta un’indagine in sede disciplinare da parte della Procura generale, il Csm (che è giudice disciplinare) non può che attendere l’esercizio dell’azione disciplinare, cioè la richiesta di incolpazione e di fissazione dell’udienza da parte del procuratore generale o del ministro della Giustizia. Residua uno spazio molto ristretto di competenza esclusiva anche quando a iniziativa del Csm, che è quello della cosiddetta incompatibilità funzionale e ambientale, istituto molto svuotato; arma abbastanza spuntata che abbiamo utilizzato per affrontare e risolvere alcuni temi e in alcuni casi ci siamo riusciti. Stiamo valutando il da farsi. Ciò che è certo è che davanti a ipotesi di reato gravissime, come il falso e i depistaggi, noi dobbiamo dare fiducia a chi indaga in sede penale e disciplinare, attendere gli esiti di queste attività, e mi auguro si concludano nel più breve tempo possibile. Dopodiché ci occuperemo di queste vicende in modo rigoroso e fermo. Certo, la sola ipotesi che un atto di indagine sia caratterizzata - fino a questo momento mera ipotesi che riguarda un ufficiale di polizia giudiziaria e non la magistratura - da questi fatti, desta inquietudine. Abbiamo diritto tutti alla verità. Tutti i cittadini, perché dobbiamo recuperare piena fiducia nella giustizia". Cerasa: "Professor Cassese, la sua opinione su questo punto?". Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale: "Secondo me dietro il problema delle intercettazioni c’è un vizio di fondo: non è l’intercettazione l’unico modo per fare un’indagine o per raccogliere delle prove. Ce ne sono molti altri. Si possono ad esempio fare delle analisi documentali, sequestrare dei dati che sono raccolti in altro modo. Le intercettazioni, tra tutti i modi per compiere delle indagini, sono sicuramente il modo più sproporzionato. Noi che ci riempiamo tutti i giorni la bocca con il principio di proporzionalità, dovremmo rispettare il criterio che si adopera lo strumento meno invasivo in modo tale da realizzare minori invasioni nella dignità delle persone. La domanda è: perché si abusa delle intercettazioni? Non perché si rendono pubbliche, ma perché si utilizzano le intercettazioni. Il problema sta alla fonte. Per me ci sono due ragioni. La prima è l’inerzia. È più facile. Si dà un ordine ai Carabinieri: tenete sotto controllo il telefono di quella persona, dell’amico di questa persona, dell’amico, e così via. Ma questo non è tutto. In questo modo, chi ordina queste intercettazioni costruisce per sé un monumento come tutore della moralità pubblica. Io ho letto una volta una dichiarazione di un procuratore che diceva "Ah certo, sono stati messi in ballo dei fatti privati di questa persona, ma questo è importante perché il pubblico deve sapere cosa si dice in quella casa". Quindi c’è un problema di fondo. Diciamo la verità: i capi delle procure svolgono delle mansioni per cui i magistrati non sono preparati. Svolgono compiti di polizia per cui non sono preparati. Ci sono quindi diverse componenti. Quella che a me preoccupa di più, che non è dominante ma è presente per un trenta o quaranta per cento, e cioè che questo faro che si accende sulla vita privata delle persone consente a chi accende questo faro di presentarsi all’opinione pubblica in questo particolare modo, come tutore della moralità pubblica. Ed è per questo che per me si deve affrontare il problema di cosa fanno i magistrati e di cosa non debbono fare i magistrati. Parlo di quelli che svolgono attività nelle procure e quindi nasce un problema diverso da quello che abbiamo affrontato finora, ma che io vorrei fosse affrontato stasera, e cioè quello del rapporto tra magistratura e politica su cui avrei qualche considerazione da fare, ma aspetto che Cerasa mi faccia la domanda". Cerasa: "La domanda gliela faccio una volta che ha sentito cosa ne pensano Orlando e Legnini. Orlando, in questi tre anni in cui è ministro, ha osservato in maniera diretta e indiretta i cortocircuiti tra politica e magistratura, quali sono secondo lei le cose che non devono fare i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni per non dare l’impressione di essere guidati da un’ideologia politica?" Orlando: "Non penso siamo nell’epoca in cui il tema è affermare un’ideologia politica, ma il tema è quello di costruire su un personaggio il modello di moralizzatore. Non mi pare che ci sia qualcuno che predica l’attuazione". Cerasa: "Beh, è un’ideologia essere dei moralizzatori". Orlando: "Sì, ma non siamo più nell’epoca in cui si diceva che si poteva attuare pienamente la Costituzione attraverso un certo tipo di giurisprudenza, quindi a prescindere che c’era una giustizia di classe che doveva tenere conto di..., oppure che la magistratura doveva essere il baluardo di un ordine costituito. Cioè, non siamo più dentro le ideologie collettive. L’idea di fondo, è di assumersi un ruolo non solo di ricostruzione di fatti processuali, ma di valutazione censoria dei costumi di una comunità, di alcune funzioni. Quando mi fanno questo ragionamento mi diverto a fare questa domanda: e voi? Un magistrato ha un potere molto più grande di un parlamentare. Se vale il ragionamento secondo il quale ci deve essere una restrizione della privacy in funzione del fatto che tu eserciti un grande potere, bisognerebbe anche sentire cosa si dicono al telefono magistrati tra di loro. Sarebbe interessante da questo punto di vista". Cerasa: "Come mai non ci sono intercettazioni sui magistrati?" Orlando: "Non mi auguro siano intercettati anche i magistrati, ma lo uso come argomento per il fatto che si dice che questioni di privacy possono essere messe sul tavolo per aiutare i cittadini a capire esattamente quella persona, che qualità morali ha, come se le qualità morali di una persona si possano valutare da una frase estrapolata da una discussione che magari è durata quaranta minuti. Come se un uomo non fosse un universo e lo si potesse giudicare sulla base di una frase pronunciata nel corso della sua vita. Il rischio più grosso è quello di interpretare questa funzione impropria, che però io credo sia anche la conseguenza di una rinuncia della politica. Sul processo penale si sono scaricate una serie di aspettative che la politica non è stata in grado di soddisfare. Da Tangentopoli in poi, tante tensioni non risolte dalla politica sono state poste al processo penale, che invece non sempre si è sottratto a questo ruolo improprio. Non vedo più in auge la categoria dei magistrati giustizieri. Penso quindi che interventi normativi darebbero risposte serie e credo anche che la magistratura abbia fatto tesoro delle esperienze precedenti. Certo, se prendiamo in considerazione alcune frasi del precedente presidente dell’Anni, il mio ottimismo potrebbe essere ampiamente smentito, però devo dire che in un’altra stagione quelle affermazioni avrebbero avuto probabilmente molto più consenso e più eco. E anche, in qualche modo, anche più tifo all’interno della magistratura. Tutto sommato, invece, sono state viste come elementi di bizzarria. Non prenderei quelle affermazioni come il senso comune della magistratura". Cerasa: "In molti, vicini al segretario del Pd e al Pd stesso, hanno subito con sofferenza le conseguenze mediatiche del caso Consip. Non pensa che anche il suo ministero si sia mosso in maniera non così decisa come sarebbe stato lecito aspettarsi? La seconda questione: i magistrati non dovrebbero forse evitare di partecipare a eventi politici, così da evitare di mostrarsi complici di un pensiero politico?" Orlando: "Penso di aver agito come dovevo. Non potevo agire sulla vicenda che aveva a che fare con un ufficiale di polizia giudiziaria. Ho fatto anche un atto atipico, perché ho chiesto al procuratore generale di mandare un rapporto sul funzionamento della polizia giudiziaria della Procura di Napoli. E poi nelle altre vicende ho disposto gli accertamenti come ha fatto la Procura generale. Insomma, ho fatto come ho fatto in altre occasioni. Ho chiesto ad esempio informazioni alla Procura di Roma quando l’interrogatorio del sindaco di Roma è stato diffuso in modo improprio. L’ho fatto tutte le volte che erano interessate persone meno note. Sarebbe stato grave se avessi usato un metro diverso nei confronti del presidente del Consiglio o dell’ex presidente del Consiglio. L’importante non è chi è colpito dall’illecito, ma impedire l’illecito, prevenirlo e contrastarlo. Non mi sento assolutamente questa responsabilità. Devo dire che mi ha un po’ dato fastidio che questa domanda mi sia stata posta anche da miei compagni di partito chiedendomi perché non avessi mandato gli ispettori a bloccare le inchieste". Cerasa: "Chi glielo ha chiesto?". Orlando: "Il vicepresidente della commissione Giustizia o il vicedirettore dell’Unità che è un giornale di area politica. Ho risposto che se volevano cercarsi un ministro che utilizzasse gli ispettori per inibire le inchieste, sul mercato ne potevano trovare tanti. Io non sono quello. Io penso che gli ispettori servano per valutare adeguatamente il funzionamento delle procure, non per condizionare la loro attività. Non penso che il problema sia la loro partecipazione a convegni, lo dico con molta franchezza. Io penso ci sia una colossale ipocrisia. In verità le trame, le filiere, in questo paese si formano non nei convegni. Io preferisco le cose che si vedono alla luce del sole, che si possono prevenire, valutare e contrastare. Più che i salotti, le cene e i pranzi dove effettivamente si costruiscono i sistemi di relazione, anche perché in un convegno non è che si dicono fino in fondo quali sono le proprie strategie. Io non sono di quelli che fanno battaglie contro le correnti. Penso che le correnti funzionino molto male, ma gli altri tipi di soluzioni che spesso vediamo, le cordate che si formano in altri corpi dello stato, non sono più rassicuranti. Sono soltanto meno trasparenti. In una democrazia liberale, più cose si vedono, meglio è. Più l’opinione pubblica si fa un’idea. Non è con i divieti alla partecipazione a eventi pubblici che si risolvono i problemi. Semmai si tratta di creare un’opinione pubblica critica, che in questi anni non c’è stata. È passata un’egemonia giustizialista, l’idea che il rinvio a giudizio (se non anche l’avviso di garanzia) fossero già delle sentenze, che le intercettazioni fossero elementi che in qualche modo definivano il profilo di una persona. Ecco, questa è stata la battaglia che non è stata condotta dalla politica, non tanto quella di non mandare un magistrato a un convegno. A me non ha sorpreso che Davigo sia andato all’evento del Movimento cinque stelle. Avevamo capito che più o meno la pensavano così. Non è che se non ci andava non avremmo capito come la pensa". Cerasa: "Ma lei si rende conto di quello che stiamo dicendo? Cioè stiamo dicendo che diamo per scontato che ormai ci sono magistrati che ormai...". Orlando: "No. Il magistrato porta con sé tutta una serie di visioni del mondo e opinioni che è meglio conoscere piuttosto che non conoscere. Questo è il punto fondamentale. Ed è meglio anche per l’imputato conoscere che non conoscere. Escludo poi che uno che va al convegno dei Cinque stelle poi si metta a fare inchieste per far vincere le elezioni ai Cinque stelle. Non credo che lì abbiano discusso delle singole inchieste o prefigurato giudizi". Cerasa: "Vicepresidente Legnini, non sarebbe favorevole a promuovere nella prossima legislatura una regolamentazione del Csm che possa prevedere un sorteggio per la scelta dei membri del Csm? Così si potrebbe depurare completamente il problema a mio avviso grave della sovrapposizione tra pensiero politico di un magistrato e la usa funzione? Seconda questione: siamo sicuri che la trasformazione in campioni del moralismo di alcuni magistrati non sia un problema? Non è un problema sul quale bisognerebbe agire? Mi riferisco alla non terzietà dei magistrati. Perché un magistrato deve esternare su ogni cosa?" Legnini: "Io mi batto quotidianamente non contro le correnti, che sono libere associazioni assolutamente legittime. Io cerco di arginare gli effetti negativi del correntismo, dell’occupazione correntizia dell’istituzione che oggi rappresento. Mi sono convinto che l’argine principale al correntismo deteriore è costituto da regole consiliari nostre più incisive, nella direzione della trasparenza, della leggibilità delle decisioni, delle motivazioni delle decisioni. E noi su questo abbiamo prodotto una quantità enorme di atti in questa consiliatura, da due anni e mezzo a questa parte. Non ho il tempo e non voglio elencarvele, ma vi garantisco che il tasso di riforma e di autoriforma del Csm in questo settore è molto alto. È possibile consultare quasi tutto online. È perfino possibile leggere i curriculum dei candidati. Noi abbiamo superato le 650 nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Se lei mi chiede se hanno influito le correnti le dico di sì, certamente. Ma è come chiedere se nell’approvazione delle seicento leggi del Parlamento hanno influito i partiti. Chiaramente sì. Ma quelle scelte fatte sono leggibili, che rispettano criteri di merito, che rispettano le regole che abbiamo riformato integralmente nel 2015? Questa è la domanda. E a questa domanda mi sento di rispondere che il tasso di rispetto di questi princìpi è molto più elevato rispetto al dato di partenza. I contenziosi sono crollati, gli esiti negativi per il Consiglio sono crollati. Sono aumentate anche le contestazioni e le critiche nella magistratura, perché il numero degli aspirati è talmente vasto e talmente esteso che il numero degli insoddisfatti è molto vasto e molto esteso. Io penso che lungo la via della trasparenza, della leggibilità dalla motivazione, della procedimentalizzazione, è possibile arginare gli effetti negativi del correntismo. Questa è la mia opinione. Il ministro stava tentando di far approvare una nuova legge elettorale, ma l’effetto è uguale a quello in sede parlamentare. La deriva del partitismo: è la stessa cosa. Spero che anche questo progetto si possa discutere in Parlamento. Quanto alla funzione pubblica dei magistrati, anche lì le norme e i princìpi costituzionali sono chiarissimi. Il magistrato può partecipare, non possiamo impedirlo. Dobbiamo risolvere in maniera definitiva il problema dei magistrati in politica, non del rapporto tra i magistrati e la politica. Anche qui siamo a un passo da una soluzione dignitosa, ma voglio sottolineare anche su questo tema una novità che il professor Cassese commentò in un suo articolo: la proposta che il plenum nel 2015 fece al Parlamento per regolare in modo più rigoroso l’accesso alle cariche elettive e di governo locali regionali e nazionali e soprattutto il reingresso successivo nei ruoli della magistratura. Noi abbiamo proposto, a Costituzione invariata, che un magistrato che ha fatto il ministro, il parlamentare, che ha svolto ruoli di governo a vari livelli, non torni a fare il magistrato. C’è un vincolo solo a livello costituzionale: la conservazione del posto di lavoro. Glielo assicuriamo consentendogli il passaggio in altri ruoli della Pubblica amministrazione. Si può fare una legge di questo tipo? Il Parlamento l’ha approvata in due letture, seppure in una versione che a me non soddisfa particolarmente, comunque è qualcosa. Allora, disinneschiamo queste mine. È possibile farlo, anche su questa materia". Cerasa: "Professor Cassese, siamo sicuri che il problema siano i magistrati che vanno in politica e non i magistrati che fanno politica senza entrare in politica?" Cassese: "Bella domanda, vediamo un momento di analizzare le cose e di vedere come sono state interpretate in tutti questi anni. Il problema fondamentale è che anche un solo magistrato che svolge un ruolo attivo nella politica dà un’immagine della magistratura come di un corpo che è impegnato anche in politica. Tuttavia, c’è un dato statistico: dal 1994 il numero dei magistrati presenti in Parlamento è triplicato. Rispetto al numero dei magistrati che c’erano prima del 1994. La domanda quindi è: perché è accaduto un fenomeno di questo tipo? E questo senza parlare dei Consigli regionali, dove abbiamo esempi noti. Dovremmo vedere tutti i corpi della politica. La preoccupazione che avevano i nostri costituenti era la politicizzazione esogena, cioè della politica che entrava nella magistratura. Che cosa fecero allora? Costruirono una barriera, che era il Csm. Il Csm garantiva la magistratura dall’invadenza della politica, perché metteva la carriera dei magistrati nelle mani del Csm. Il Csm è poi diventato un’altra cosa, io sono critico su questo aspetto, ma non ne parliamo. Ma oggi siamo davanti a una politicizzazione endogena, che nasce dall’interno della magistratura. E che deriva dalla maggiore visibilità che ha acquisito il magistrato. Non ci dimentichiamo che la visibilità dei magistrati nel 1947-’48 era minima, tant’è che si decise di creare la Corte costituzionale perché l’idea era di dare il controllo di costituzionalità ai giudici ordinari. C’è quindi un problema di forte visibilità dei magistrati dovuto all’esercizio della funzione e alle modalità dell’esercizio della funzione, quindi non dovuto alla qualità della persona, non dovuto alla natura dell’attività che svolgono e invece dovuto al modo in cui è gestita la funzione, e in particolare a come sono gestiti i rapporti con i mezzi di comunicazione di massa. Poi c’è un problema che ha a che fare con la narrazione della storia di questo paese. Il corpo della magistratura in questi anni ci ha spinto a percepire l’Italia come un paese governato dall’assenza di diritto, dominato dalla mafia, dalla corruzione, da trame oscure. E, badate bene, nessuno si preoccupa mai di fare delle indagini precise. Per esempio, tutti gli studi dimostrano che la corruzione aumenta quando aumenta il decentramento. Avendo aumentato i poteri trasferiti in periferia, è aumentata la debolezza della qualità delle persone che lavorano in periferia. C’è un maggiore contatto con la società, c’è una maggiore permeabilità e quindi aumenta la corruzione. E poi c’è un terzo motivo: la politicizzazione endogena si è alleata con un comodo pretesto per la politica. Perché Di Pietro è stato chiamato a fare il ministro? Perché faceva comodo. Perché così si poteva dire "li mettiamo dalla nostra parte, siamo tutti dalla stessa parte". Quindi noi dovremmo cercare di capire le ragioni specifiche del tipo di rapporto che si è venuto a creare tra la politica e la giustizia in Italia, che è molto diverso da quello che pensavano i nostri costituenti, che avevano fatto invece una scelta saggia, di creare questa paratia stagna che era appunto il Consiglio superiore della magistratura. Allora la mia domanda, che però voglio lasciare aperta per ora, è che cosa possiamo fare per eliminare questo ulteriore fenomeno che ho chiamato politicizzazione endogena, cioè la corsa di un certo numero di magistrati verso la politica? Questa, secondo me, è la vera domanda cui bisogna dare una risposta". Cerasa: "Giro la domanda al ministro Orlando e vorrei poi concludere dicendo che oggi in Parlamento non si discute della legge di cui abbiamo parlato, ma della legge elettorale. Eppure i due temi sono forse collegati, visto che con il proporzionale la politica è più soggetta a infinite mediazioni e, probabilmente, anche a influenze esterne. È un’interpretazione corretta?" Orlando: "Parto riprendendo una considerazione del professor Cassese che mi trova perfettamente d’accordo, e mi riferisco a come abbiamo consentito che si raccontasse l’Italia. Penso per esempio al fatto che noi prendiamo per buone le comparazioni sulla corruzione percepita, ma la corruzione percepita è meno forte nei paesi dove non c’è libertà di stampa; così come è meno forte dove non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Sono stato a un convegno dell’Ocse, tutti ci bacchettavano perché ci mancava qualche tassello nella normativa che a livello Ocse era stata emanata su quel terreno. Poi quando abbiamo iniziato a fare il giro del tavolo per sapere quante inchieste c’erano in Inghilterra su quel reato, si è scoperto che in Inghilterra ce n’erano due e in Francia una. In Italia, centotrentacinque. Quindi l’idea che la rappresentazione che diamo del paese corrisponda a parametri oggettivi è assolutamente non solo viziata da un complottismo che è un male che ha assunto forme politiche, ma anche di un ordinamento che ha una capacità di segnalare la patologia anche quando la patologia non è grave. Se da noi ogni volta che c’è una notizia di reato bisogna aprire un fascicolo e questo finisce sui giornali, la gente penserà che c’è tanta corruzione. L’idea di rilanciare adesso la questione della separazione delle carriere mi pare una cosa totalmente anacronistica. Ma per motivi diversi rispetto a quelli del passato. In precedenza, il tema era quello del controllo della politica sul pubblico ministero. Oggi, invece, ho paura di un pubblico ministero che sia fortemente influenzato dall’opinione pubblica, nel momento in cui nell’opinione pubblica si è diffuso un sentimento forcaiolo che, se legato al consenso del pubblico ministero, genererebbe dei mostri. Sono convinto che in questo momento lo statuto del nostro pubblico ministero, che ha molti limiti e andrebbe controllato meglio - per esempio in quella legge si dice che passati i sei mesi o si rinvia a giudizio o si archivia, ma forse il Csm su questo non è d’accordo. Ma questa disposizione avrebbe cambiato molti processi in Italia. Lo considero un passaggio molto importante. Sulla legge elettorale e le relative tempistiche, non penso sia un problema. Penso che questa legge elettorale sia il contrario di quello che ci si aspettava all’inizio della legislatura. Dovevamo varare una legge elettorale che garantisse più stabilità e ci troviamo con una legge elettorale che va nella direzione opposta. Io faccio parte di un partito, seguo il principio di maggioranza. Mi sono cimentato in un congresso nel quale ho sostenuto queste tesi - non che il mio avversario avesse sostenuto il contrario, ma diciamo che non ha mai chiarito dove volesse andare a parare". Cerasa: "Legnini, non vede il rischio di una politica sottomessa a un pensiero moralista e giustizialista? Legnini: "I magistrati che si assegnano un compito di moralizzazione non fanno il loro lavoro. La missione, la funzione del magistrato non è quella di moralizzare una società, ma di accertare e sanzionare reati. Punto e basta. Chi la pensasse in modo diverso, esorbiterebbe dalle funzioni costituzionali. E vedo che qualche tendenza, qui e lì, è rintracciabile. Tornando al tema dei magistrati in politica, cinque sono i parlamentari nazionali magistrati, di cui uno ministro; uno è un parlamentare europeo, due sottosegretari magistrati, un presidente di regione magistrato, un sindaco, un assessore regionale. In tutto, undici. È un numero esiguo, che nulla toglie ai ragionamenti che abbiamo fatto fino a ora. Perché il problema non è il numero, ma la terzietà e l’imparzialità percepita. L’immagine e la credibilità che non possono essere minate dall’idea che vi sia una politicizzazione endogena. Questo noi dobbiamo contrastarlo, perché è il gioco democratico che rischierebbe di essere alterato. Non si tratta di ribadire la divisione classica dei poteri, perché sarebbe insufficiente. I confini si sono fatti fragili, vi sono zone grigie, vi sono incertezze, l’imprevedibilità della risposta giudiziaria, e via così. Si tratta di ribadire un concetto cardine della democrazia, e cioè che la politica faccia la politica e la magistratura amministri giustizia in nome del popolo, come dice la nostra bella Costituzione". Cerasa: "Professor Cassese, vuole aggiungere qualcosa? Vuole dare un voto al ministro della Giustizia e al vicepresidente del Csm?". Cassese: "Io do a entrambi 30 e lode. Il problema è che abbiamo decenni di scarsa attenzione a questi problemi. Abbiamo un passato che va ricostruito. E abbiamo anche un passato di una politica che stava indietro e che non è riuscita ad affermare le proprie idee nei confronti della giustizia, cioè a dire chi deve fare cosa e a consentire troppa attività e un’esondazione generale. Il problema non sarebbe così grave se non fosse che ogni decisione di interesse collettivo in Italia passa attraverso una decisione di un soggetto che ha comunque la parola finale. E questo soggetto sono i magistrati". Caso Riina. Le opposte bugie sulla sentenza della Cassazione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 giugno 2017 Familiari degli uccisi, pm, mafiologi: impressiona come da giorni la disfida sulla sorte in carcere di Totò Riina prescinda totalmente dalla sentenza criticata o applaudita. Eppure la Cassazione mai ha detto che Riina vada scarcerato per assicurargli una morte dignitosa, né il Tribunale di Sorveglianza di Bologna mai ha detto che debba morire in carcere. La Cassazione trova invece contraddittorio che il Tribunale prima additi "le deficienze strutturali del carcere" rispetto alle cure necessarie (arrivando a raccomandare di "ovviarvi nel più breve tempo possibile, non potendosi ammettere che la mera assenza delle condizioni materiali di cura possa assurgere a possibile causa di scarcerazione di un soggetto di tale risaputo spessore criminale"), e poi però dichiari quel tipo di detenzione "compatibile" con le gravi condizioni di salute di Riina. Qui sta la contraddizione che il Tribunale (oltre a meglio precisare "l’attualità" della "altissima pericolosità di Riina") dovrà sciogliere, rimotivando in concreto quanto quelle mancanze "incidano sul superamento o meno" della "soglia di dignità" che "deve essere rispettata pure in carcere". Il percorso non è nuovo, è lo stesso di sentenze del 2009 e 2011, e del resto sul divieto di "trattamenti inumani e degradanti" c’è nulla da inventare dopo l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Ovvietà che tuttavia non arginano opposte bugie. Non è vero che tutti gli ergastolani malatissimi (come Riina) vengano per forza lasciati morire in carcere: sta nel codice da tempo l’art. 147 che per "grave infermità fisica" differisce la pena, e basta andare al cinema per vedere "Socialmente pericolosi", un film sulla detenzione domiciliare (a casa di un cronista Tg3) concessa all’ergastolano camorrista Mario Savio per fargli fare un trapianto salvavita. Ma neanche è vero il contrario, e cioè che ogni ergastolano malato (come Riina) sia per forza liberato in punto di morte: Provenzano, capo di Cosa Nostra certo non meno simbolico di Riina, fu trattenuto al 41 bis fino alla morte (in ultimo nel reparto-detenuti di un ospedale) da giudici che in quel centro clinico individuavano anzi il miglior luogo di cure possibili. Nessuna guerra di religione, dipende dai casi in concreto. E da come li si sa distinguere. Un po’ come nel ping-pong: dove, più ancora della direzione della pallina, conta il tipo di "effetto" (cioè di rotazione) che le si imprime. E sono le parole usate nelle sentenze, al pari delle parole usate poi per raccontarle, a imprimere quell’effetto. Delle due l’una: o Riina non è più un boss o il "carcere duro" è un’inutile tortura di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 9 giugno 2017 Riina, gravemente malato e ultraottantenne, dentro o fuori? Su questo interrogativo l’Italia si ferma, si scontra, polemizza, dimenticando che il terrorismo insanguina ogni giorno una città europea, che il parlamento sembra incapace di varare davvero una buona legge elettorale, che la disoccupazione giovanile sfiora il 40%. E su questo dilemma si esercitano gli ingegni dei commentatori e dei politici, la moralità dei benpensanti, la sagacia dei giuristi. Ovviamente, tutte le opinioni sono rappresentate: da chi pretende che Riina muoia in carcere soffrendo come egli fece soffrire le proprie vittime (alla faccia della carità cristiana e dello spirito di umanità); a chi invece lo vorrebbe subito fuori, per potersi curare adeguatamente. Tutte opinioni rispettabili, anche se alcune si basano su di uno spirito di rivalsa inestinguibile nel tempo, tranne una: non perché non sia rispettabile il suo portatore, ma perché davvero non si capisce quale fondamento possa avere. Infatti, il Procuratore Nazionale Antimafia Franco Roberti, ha solennemente dichiarato che "abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa nostra", chiedendo quindi che non venga scarcerato e che muoia in cella, seguito a ruota da Luciano Violante e da altri che non ricordo. Parentesi fra il comico e il tragico: Stefano Vaccari, componente PD della commissione antimafia, dopo un personale sopralluogo nel carcere di Parma ove è detenuto Riina ci assicura che vi ha rilevato "condizioni che non pregiudicano una morte dignitosa" : meno male che ce lo ha fatto sapere, ora stiamo tutti più tranquilli, perché nel carcere di Parma si può (non è detto si debba) morire dignitosamente: ci saranno forse le tendine alle finestre, la carta da parati color pastello e il televisore in ogni cella. la morte potrà essere dignitosa, a patto di non chiedersi quando una morte possa dirsi dignitosa (domanda che evidentemente il buon Vaccari evita di porsi). Tornando a Riina ammalato e bisognoso di cure, dobbiamo una osservazione al Procuratore Nazionale Antimafia Roberti: speriamo ardentemente che la sua sia solo una battuta scherzosa, nulla più di un motto di spirito. Infatti, delle due l’una: o si tratta appunto di una semplice battuta, e allora siamo autorizzati a sorriderne ammiccando alla sagacia di Roberti; oppure, si tratta di una affermazione seria e frutto di adeguata riflessione. In questo secondo caso, si impone allora una conclusione altrettanto seria e frutto di adeguata riflessione: se Riina, dopo 24 anni di carcerazione continua in regime di alta sicurezza come quello dell’art. 41 bis, condannato a 14 ergastoli, continua ancor oggi ad essere il capo di Cosa nostra, allora vuol dire che ci troviamo davanti al definitivo fallimento dello Stato in termini di sicurezza penitenziaria e di programmazione processuale. Infatti, se le cose stanno così, è del tutto inutile ed insensato continuare a mantenere costose strutture penitenziarie destinate ad accogliere i detenuti più pericolosi, tanto anche dopo 24 anni - e forse anche dopo 30 o 45 anni - costoro resterebbero comunque perfettamente calati ed inseriti nel ruolo criminale di loro spettanza, senza che lo stesso risulti minimamente scalfito dagli apparati dello Stato. Ma allora perché spendere tanto denaro? Perché impiegare tante risorse umane? Perché preoccuparsi della sicurezza e della necessità di impedire ogni comunicazione con l’esterno? Che Roberti risponda. Se può. Grasso: "Riina ancora capo di Cosa nostra, progettò un attentato contro di me" di Giovanni Bianconi La Repubblica, 9 giugno 2017 Il presidente del Senato: "Se vuole un allentamento del regime carcerario collabori, è detenuto in modo dignitoso". "Mi sono trattenuto dall’intervenire sul tema perché ho delle ragioni personali con Riina: lui aveva progettato un attentato nei miei confronti. Dopo Falcone e Borsellino, e accantonati gli attentati contro i politici, Riina aveva detto a Brusca: "Ci vorrebbe un altro colpettino" per riavviare una trattativa che probabilmente languiva e quel colpettino ero io". Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso parlando di Totò Riina a Radio 24. "Poi, per l’arresto di Riina, per il sistema di sicurezza di una banca vicina che avrebbe potuto interferire sull’elettronica dei telecomandi e per il cambio di strategia che si spostò dagli attentati dalle persone ai monumenti l’attentato contro di me non ci fu. E nel corso delle indagini uscì fuori anche che era stato progettato il sequestro di mio figlio. Se ne sarebbe dovuto occupare Brusca e un altro esponente della mafia locale", ricorda ancora Grasso. "Secondo le nostre leggi e secondo la Costituzione la carcerazione deve essere dignitosa. E io ritengo che siano adottate tutte le misure idonee per poter rendere dignitosa la carcerazione di Riina, naturalmente questo deve essere dimostrato ai giudici che dovranno decidere, in modo tale che si possa garantire ancora il 41 bis". Ha chiarito il presidente del Senato che avverte: "non dobbiamo dimenticare che Riina è ancora il capo di Cosa Nostra" ma ricorda anche che "la legge può dare la possibilità di interrompere il regime del 41 bis collaborando". Quindi "Riina potrebbe ottenere la cessazione delle misure facendoci sapere chi erano queste persone importanti che lo hanno contattato prima di fare delle stragi". "Secondo le nostre leggi e secondo la Costituzione - ricorda la seconda carica dello Stato - la carcerazione deve essere dignitosa e io ritengo che siano adottate tutte le misure idonee per potere rendere dignitosa la carcerazione di Riina. Naturalmente - sottolinea - questo deve essere dimostrato ai giudici che dovranno decidere, in modo tale che si possa garantire ancora il 41 bis". Caso Riina. Maisto: la Cassazione non ha detto di scarcerarlo Ansa, 9 giugno 2017 Da presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna si è occupato boss. "La sentenza della Corte di Cassazione su Totò Riina ha indicato principi di diritto di carattere generale ed annullato con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna richiedendo la motivazione su due punti specifici per quel caso. Comunque non si tratta di dire sì o no alla scarcerazione perché, in caso di accoglimento, il Tribunale potrebbe concedere una detenzione domiciliare a tempo con divieti e prescrizioni strette". A chiarire i principi contenuti nella sentenza con cui ieri la Cassazione ha trattato la richiesta del difensore del boss di Cosa Nostra per un differimento della pena o, in subordine, per la detenzione domiciliare, è Francesco Maisto, dal 2008 al dicembre 2015 presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna competente per il carcere di Parma in cui sono rinchiusi molti detenuti al 41 bis. Di sua competenza sono stati prima Bernardo Provenzano, poi Totò Riina. Esperto di criminologia clinica, per un decennio magistrato di sorveglianza a San Vittore, prima di approdare a Bologna, Maisto è da sempre impegnato per la difesa dei diritti in carcere. "Trattandosi di una sentenza della Suprema Corte - dice - mi auguro di non registrare accuse di filo mafiosità, come invece ho potuto verificare personalmente a proposito di sentenze di Giudici di merito. Questo nostro è uno strano paese in cui facilmente si affibbiano etichette". Per la Cassazione, il tribunale di sorveglianza di Bologna nel motivare il diniego aveva omesso "di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico". Non aveva inoltre verificato e motivato "se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità" da andare oltre la "legittima esecuzione di una pena". Secondo la Cassazione, inoltre, il tribunale non ha chiarito "come tale pericolosità "possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico". La decisione della Cassazione ha sollevato polemiche soprattutto tra i familiari delle vittime di mafia. "È comprensibile - dice Maisto - che chi ha sofferto per mano di Riina sia contrario a qualsiasi atto di clemenza nei confronti del boss, ma per la decisione sul differimento pena o sui domiciliari la Legge non prevede un intervento o un parere, come in altri casi, delle vittime. È in gioco soltanto la potestà punitiva dello Stato di diritto". Il giudice si dice convinto anche della serietà dei rischi sollevati dal presidente dell’Antimafia Rosy Bindi che ieri ha evocato il pericolo che trasferire Riina ai domiciliari possa trasformare la sua casa in un santuario della mafia. "L’on. Bindi - dice Maisto - è persona "impastata" nei valori della nostra Costituzione e giurista di scuola personalista che tanto ci ha insegnato. I rischi a cui fa cenno Bindi ci sono sempre, ma ho grande stima della professionalità delle nostre forze di Polizia per pensare che quanto paventato non avvenga". Infine sul fatto che per quanto riguarda Bernardo Provenzano la Cassazione si sia espressa in maniera diversa trattenendo il boss in carcere al 41 bis fino alla morte, Maisto commenta "ogni caso è un caso con connotazioni particolari. Qui la tempistica e la relazione tra le decisioni è diversa". "Il generale Mori non favorì Provenzano". La Cassazione rende definitiva l’assoluzione di Salvo Palazzolo La Repubblica, 9 giugno 2017 La Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Palermo. Mori: "Ho la coscienza a posto, sono stato sempre molto tranquillo". È definitiva l’assoluzione del generale Mario Mori, che era finito sotto processo con l’accusa di aver favorito il capomafia Bernardo Provenzano. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Palermo, accogliendo le argomentazioni degli avvocati Basilio Milio ed Enzo Musco. La procura generale della Cassazione aveva invece chiesto l’accoglimento del ricorso. Assoluzione definitiva anche per il colonnello Mauro Obinu. Il processo fa riferimento al mancato blitz del 31 ottobre 1995, secondo il colonnello Michele Riccio le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo avrebbero potuto portare alla cattura del capomafia corleonese, che aveva organizzato un summit tra i suoi fedelissimi nelle campagne di Mezzojiuso. "Quel blitz non fu possibile perché i vertici del Ros non misero a disposizione i mezzi necessari", ha accusato Riccio. Già in primo grado, però, i giudici del tribunale di Palermo avevano espresso riserve sulle accuse del testimone. In secondo grado, la corte d’appello ha ribadito l’assoluzione, scrivendo: "Non può ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiano posto in essere la condotta loro contestata con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano". E ancora: "Le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa". Per la corte d’appello di Palermo presieduta da Salvatore di Vitale la scelta dell’ex comandante del Ros Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu di non dare seguito alle indicazioni del confidente Luigi Ilario fu solo il "frutto di una, sicuramente colpevole, sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo". I giudici hanno parlato di una "omissione" che ha messo in risalto una "condotta negligente e poco solerte". Parole che non sono piaciute a Mori, ma il generale incassa comunque le parole sull’assenza della "trattativa", che utilizzerà di certo nel processo in corso a Palermo. Dopo la sentenza della Cassazione, dice all’Ansa: "Sono soddisfatto, certo, ma devo dire che, avendo la coscienza a posto, sono sempre stato molto tranquillo". L’avvocato Milio ribadisce che "la suprema corte con questa sentenza ha suggellato quelle che sono state le valutazioni espresse dai giudici di merito, condensate in due monumenti di diritto di circa 1800 pagine". Per il legale, "oggi si realizza in primo luogo una vittoria delle istituzioni, poi quella di due uomini che hanno sempre servito fedelmente questo Paese ed hanno dato, con il loro comportamento processuale e con la rinuncia alla prescrizione, l’ennesima prova di tale loro correttezza, attaccamento allo Stato e fiducia nella giustizia. Questa sentenza - conclude Milio - rappresenta anche la sconfitta di teorie e teoremi". È stalking il bullismo a scuola di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2017 Corte di cassazione - Sentenza 28623/2017. Condannati per stalking i bulli che perseguitano il compagno di scuola. La Cassazione (sentenza 28623) "fa entrare" per la prima volta il reato, previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale, nelle aule scolastiche. Ad essere puniti, con 10 mesi di reclusione, pena sospesa, quattro ragazzi, all’epoca dei fatti minorenni ed ex studenti di un istituto tecnico campano. Gli adolescenti avevano preso di mira, per due anni, un compagno di scuola, picchiandolo e insultandolo, a turno, fino ad indurlo dopo essere finito in ospedale a lasciare la scuola per trasferirsi in Piemonte. La Cassazione si allinea alla Corte d’Appello per i minori di Napoli che aveva condannato i bulli per atti persecutori. Inutilmente la difesa muove una serie di contestazioni. Ad iniziare dal peso dato alla testimonianza della vittima priva di riscontri: gli altri compagni e gli insegnanti erano inconsapevoli delle violenze. Un argomento boomerang che la Corte territoriale aveva utilizzato per sottolineare "il clima di connivenza e l’insipienza di quanti, dovendo vigilare sul funzionamento dell’istituzione, non si accorsero di nulla". La Cassazione precisa poi, che nel reato di stalking la deposizione della persona offesa, se esauriente, vale come prova. A supporto delle parole del ragazzo, sbeffeggiato anche per il taglio di capelli, c’era comunque anche un filmato, realizzato con il cellulare, proprio da uno degli aggressori. È corretta anche la scelta di ritenere il reato di ingiurie assorbito dal più grave stalking. Non serve, come pretendeva la difesa, la prova della illiceità dei fatti di ingiuria per "comprenderli" nell’articolo 612-bis, perché "l’insulto" è solo una componente obiettiva di una condotta più grave. Inutile negare anche l’esistenza degli elementi costitutivi del reato di stalking: il turbamento psicologico, lo stato di ansia e di paura e la modifica dei propri comportamenti. Sul punto dice molto la deposizione della persona offesa. Il minore aveva riferito di essere diventato succube della violenza: dopo un iniziale tentativo di ribellione, aveva accettato le prevaricazioni per evitare altre botte. E non importa che il ragazzo, malgrado il timore di ulteriori molestie, abbia continuato a frequentare la scuola. La circostanza va letta, al pari dell’assenza di iniziali denunce e di certificati medici, alla luce della soggezione psicologica e del finale abbandono dell’istituto teatro delle violenze. Esclusa anche la via d’uscita della prescrizione: per lo stalking il termine non decorre dalla fine delle violenze ma del danno o del percolo e dunque quando la vittima riprende le sue abitudini e smette di temere per la sua incolumità. La Corte Europea dei diritti dell’uomo e il diritto alla riservatezza camerepenali.it, 9 giugno 2017 L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria segnala due importanti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in tema di bilanciamento tra la libertà di stampa e il diritto all’informazione, da un lato, e il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte in vicende giudiziarie e al buon andamento della giustizia, dall’altro. In allegato il testo delle due pronunce e dell’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria segnala due importanti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in tema di bilanciamento tra la libertà di stampa e il diritto all’informazione, da un lato, e il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte in vicende giudiziarie e al buon andamento della giustizia, dall’altro. Le pronunce, una del 1.06.2017, ed una del 6.06.2017, in risposta a due ricorsi specifici, hanno stabilito che non c’è stata violazione della libertà di espressione, tutelata dall’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nella prima pronuncia, la Corte ha stabilito che il diritto dei ricorrenti e della pubblica opinione a comunicare e ricevere informazione, su un qualcosa d’interesse pubblico, non può essere considerato preminente sui diritti dei soggetti interessati e sulla corretta amministrazione della giustizia. Con la seconda pronuncia, del 6.06.2017, ancora più importante, la Corte ha stabilito che non c’era stata violazione della libertà di espressione (art. 10 Cedu) con la sanzione economica comminata al giornalista per aver divulgato notizie coperte da segreto istruttorio - anche con estratti di atti giudiziari riportati - senza che questo, inoltre, fosse finalizzato a fornire un contributo ad un dibattito sul funzionamento del sistema giudiziario. La sanzione, infatti, derivante dall’aver violato la segretezza di un’indagine penale, ha protetto la (buona) amministrazione della giustizia, il diritto ad un processo equo e al rispetto della vita privati dei soggetti coinvolti (comprese le parti lese), stabilendo inoltre che, nel caso di specie, la sanzione per la violazione della segretezza dell’indagine era legata ad esigenze generali, e non solo ai diritti delle persone coinvolte. Due pronunce molto importanti dunque, che imporrebbero una riflessione anche all’interno dei nostri confini nazionali, sia per il mondo della giustizia, sia per il mondo dell’informazione giudiziaria, sul delicato tema del bilanciamento dei diritti, e sulla preminenza di alcuni di essi rispetto alla libertà di stampa e all’oggetto di interesse della stampa stessa. La Procura Ue lancia la sfida contro le frodi di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2017 L’accordo di massima per creare la figura del procuratore europeo è stato raggiunto nella riunione di ieri a Lussemburgo dei ministri della giustizia dell’Ue, presente il guardasigilli Andrea Orlando. Il Parlamento Ue dovrà comunque dare il consenso prima che il regolamento possa essere adottato definitivamente. L’Ufficio del procuratore funzionerà come una struttura collegiale composta da due livelli, si legge in una nota del Consiglio Ue. Al centro sarà il procuratore capo, con poteri di direzione e supervisione di tutta l’attività, con delegati "nazionali" incaricati delle indagini. La competenza tocca reati contro il bilancio Ue, frodi, corruzione, e frodi sull’Iva transfrontaliera superiori ai 10 milioni di euro. "Abbiamo lavorato duro per l’accordo di 20 Paesi - ha detto il commissario Vera Jurova - l’intesa è un grande successo, l’ufficio del procuratore europeo funzionerà dal primo giorno". Per il ministro Orlando "il percorso per la costruzione ha avuto un consistente miglioramento, ma a nostro avviso non ancora sufficiente per cogliere tutte le potenzialità del Trattato di Lisbona. L’Italia ha delle riserve, il testo non è ancora come lo vorremmo, ma siamo pronti a partecipare alla cooperazione rafforzata". Gli Stati che hanno già formalizzato la partecipazione sono Belgio, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Grecia, Spagna, Finlandia, Francia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Portogallo, Romania, Slovenia e Slovacchia, mentre Austria e Italia hanno espresso la loro intenzione ma non hanno ancora firmato. L’amministratore giudiziario non è un dipendente pubblico di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2017 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 8 giugno 2017 n. 28644. L’amministratore giudiziario non può essere inquadrato in un rapporto di pubblico impiego. È un ausiliario del magistrato, selezionato tra soggetti con particolari competenze tecnico-professionali e iscritti in un apposito albo. L’importante precisazione arriva dalla Cassazione, con la sentenza n. 28644, depositata ieri, impegnata a decidere su un caso di sostituzione. Il caso - Il ricorso era stato presentato da un amministratore giudiziario contro il provvedimento di sostituzione che lo rimuoveva dall’incarico. L’uomo aveva in un primo momento rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico per revocarle successivamente. Ma il suo ripensamento non aveva inciso sulla decisione del Tribunale di Palermo che aveva comunque emesso l’atto di sostituzione. La tesi del ricorso punta tutto sulla natura pubblicistica del rapporto tra amministratore e ufficio giudiziario. Questo renderebbe necessario un atto di accettazione delle dimissioni da parte dell’ufficio: non essendo tale accettazione mai arrivata, resterebbe valida la revoca delle dimissioni a preclusione dell’atto di sostituzione. La decisione - La Cassazione esclude categoricamente l’inquadramento in un rapporto di pubblico impiego e su questa base conclude per la inopponibilità assoluta al provvedimento di sostituzione emesso da un tribunale. L’amministratore giudiziario non ha diritto al mantenimento dell’incarico - un diritto di chiara matrice pubblicistica. Su questo prevale un interesse primario al corretto svolgimento della procedura di sequestro e confisca con la conseguenza della insindacabilità in sede di impugnazione della scelta di sostituire o revocare il professionista incaricato. Toscana: Corleone in Consiglio regionale "positiva la chiusura dell’Opg di Montelupo" gonews.it, 9 giugno 2017 Con una proposta di risoluzione licenziata all’unanimità, la commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), ha espresso apprezzamento per l’attività svolta dal Garante delle persone private della libertà Franco Corleone nel corso del 2016. "È stato un anno caratterizzato dal contrasto tra elementi positivi ed elementi negativi" ha rilevato il Garante nella sua relazione in commissione. Tra i primi, ha ricordato la chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo fiorentino, "una riforma epocale, straordinaria, che richiede però una serie di misure ulteriori per garantire i diritti di sicurezza e salute". L’apertura della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) a Volterra è infatti insufficiente e si pensa di aprirne una seconda ad Empoli, appena saranno superati i problemi burocratici e amministrativi nel passaggio della struttura dal demanio alla Regione ed infine all’Asl. Tra gli aspetti negativi, Corleone ha sottolineato il difficile rapporto con l’amministrazione penitenziaria, perché il provveditore, che sovrintende a tutto il sistema carcerario, non si occupa soltanto di Toscana ed Umbria, ma anche della Campania. Altrettanto difficile la situazione dei direttori. Il carcere di Sollicciano, il più grande della Toscana, ha visto un cambio di tre, quattro dirigenti nel giro di un anno, con l’attuale che deve occuparsi anche di Parma, un istituto con il 41 bis. San Gimignano è seguito da un direttore che viene da Grosseto una o due volte la settimana. Viceversa, la presenza di un direttore "molto appassionato" ed un garante "altrettanto vigile", in un anno e mezzo, ha trasformato il carcere di Porto Azzurro. "Sono state aperte una falegnameria ed una panetteria, uno spazio verde - ha rilevato - cose che sembravano impossibili". Il Garante ha informato la commissione che l’ufficio di Beirut della Cooperazione italiana ha chiesto una collaborazione per un progetto di due anni sulle carceri libanesi di Beirut. "È un progetto molto impegnativo - ha commentato - che conferma come la Toscana sia punto di riferimento importante e significativo". Secondo Corleone le risorse economiche ci sono. "Non costruire il carcere di Lucca ha messo a disposizione dell’amministrazione penitenziaria circa 17 milioni di euro - ha sottolineato - Si possono ristrutturare tutte le carceri toscane in maniera decente". Il garante si è infine soffermato sulla "partita aperta" della salute, a partire da quella mentale. "Nel corso del 2016 sono stati registrati nelle carceri toscane sei suicidi (due a Firenze Sollicciano, uno a Grosseto, uno a Lucca, uno a Massa ed uno a Porto Azzurro) su 39 casi registrati a livello nazionale - ha osservato - I tentati suicidi sono stati 125, con punte di 50 a Firenze Sollicciano, 30 a Pisa, 13 a Livorno. Di grande allarme anche gli atti di autolesionismo ben 1.103". Secondo Claudio Borghi (LN) i problemi nascono fondamentalmente dal fatto che su 3182 detenuti, ben 1540 sono stranieri. "Un dato che dovrebbe far riflettere, ma nessuno lo fa" ha osservato. Sono seguiti gli interventi di Valentina Vadi (Pd), Gabriele Bianchi (M5S), Monica Pecori (gruppo Misto), Francesco Gazzetti (Pd), Andrea Pieroni (Pd), Jacopo Alberti (LN). Alle osservazioni di Borghi, Franco Corleone ha replicato citando la sua relazione a pagina 29: "In Toscana l’incidenza di detenuti di origine straniera supera ampiamente la media nazionale attestandosi, alla fine del 2016 sul 47,8% dei presenti, a fronte di un 34,07% registrato a livello nazionale. In Toscana spicca l’altissima percentuale di stranieri presenti presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Firenze Sollicciano (68,3% al 31.12.2016)". Sardegna: l’Assessore Arru incontra il Coordinamento delle comunità per i detenuti regione.sardegna.it, 9 giugno 2017 "Piena condivisione su welfare generativo, snellimento procedure burocratiche". "Dall’incontro - dice l’assessore Arru - è emerso che le esigenze espresse dai rappresentanti del Coordinamento sono coerenti con l’indirizzo politico della Giunta, fortemente incentrato sul Welfare generativo. "Rigenerare le risorse che vengono impiegate attraverso azioni che responsabilizzano chi riceve l’aiuto, fa sì che gli interventi producano ricchezza e siano un valore per l’intera comunità". L’assessore della Sanità Luigi Arru ha incontrato ieri mattina il Coordinamento delle comunità che si occupano di reinserimento sociale dei detenuti, per un confronto sui problemi e le prospettive di questo tipo di strutture. "Dall’incontro - dice l’assessore Arru - è emerso che le esigenze espresse dai rappresentanti del Coordinamento sono coerenti con l’indirizzo politico della Giunta, fortemente incentrato sul Welfare generativo. Rigenerare le risorse che vengono impiegate attraverso azioni che responsabilizzano chi riceve l’aiuto, fa sì che gli interventi producano ricchezza e siano un valore per l’intera comunità". Il Coordinamento, nell’esprimere piena condivisione su questo tipo di approccio, ha manifestato alcune difficoltà gestionali delle strutture, in particolare dovute ai tempi dei bandi. A tal proposito, il direttore generale delle Politiche Sociali, Stefania Manca, insieme ad alcuni dirigenti dell’assessorato, ha illustrato le modalità attraverso cui risolvere gli ostacoli burocratici: la redazione di un progetto annuale e la presentazione del rendiconto dei costi sostenuti dal 1 gennaio al 10 giugno di quest’anno, che consentirà di trasferire velocemente le risorse relative alle spese dei primi mesi del 2017. Brindisi: la direttrice del carcere "qui attività e otto ore fuori dalla cella" di Lucia Pezzuto Quotidiano di Puglia, 9 giugno 2017 Il carcere di Brindisi è sovraffollato ma all’interno della struttura viene comunque garantito il minimo individuale per trascorrere una detenzione "dignitosa". A Brindisi come nel resto del paese il problema del sovraffollamento si fa sentire e sono sempre più numerosi i detenuti che chiedono il risarcimento danni, in denaro o in sconto della pena, per le condizioni di detenzione. La direttrice della struttura carceraria brindisina, Anna Maria Dello Preite, non nasconde le difficoltà di spazio con le quali fanno conti i detenuti ma al tempo stesso quella di Brindisi resta una situazione tollerabile. Direttrice quale è realmente la situazione del carcere di Brindisi, si parla di sovraffollamento, ma in che misura? "È vero, anche qui abbiamo questo problema. Al momento c’è una popolazione detenuta che è superiore a quella regolamentare, a tutti i detenuti però viene garantito il minimo individuale previsto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Tutti però usufruiscono delle otto ore previste al di fuori della stanza di pernottamento. Certo permane la criticità della mancanza degli spazi da adibire alle attività in comune". Parliamo di numeri, quanti detenuti ci sono attualmente nel carcere di Brindisi e quanti ne prevede la legge? "Attualmente nel carcere di Brindisi ci sono 186 detenuti. In realtà la capienza regolamentare è di 114 unità. Ma è anche vero che, sempre per legge, abbiamo un tollerabile di 173 posti. C’è un po’ di esubero ma le condizioni dei detenuti sono discrete ed il problema lo si avverte più che altro negli spazi comuni". Però sempre più detenuti chiedono il risarcimento danni per il sovraffollamento ed ottengono somme di denaro o addirittura sconti di pena perché lo Stato non garantisce spazi adeguati al numero dei detenuti? "C’è una legislazione, una norma che è stata emanata proprio all’indomani dello stato di emergenza che è stato rilevato negli istituti carcerari di tutto il Paese, nel sistema carcerario italiano, perché poi comunque il problema del sovraffollamento è un problema strutturale che non riguarda il singolo istituto. Ma certo l’amministrazione penitenziaria ha fatto davvero tantissimi sforzi e tante situazioni sono cambiate per migliorare il livello di dignità e le condizioni detentive. Dall’abbattimento del muro divisorio nelle sale dei colloqui con i famigliari al prevedere una permanenza al di fuori della cella di almeno otto ore, all’allestimento di salette della socialità e tanto altro ancora". Come trascorre il suo tempo un detenuto? "Ci sono diverse attività al di là del tempo trascorso fuori dalla cella, della cosiddetta ora d’aria, 5 ore loro possono trascorrere all’aperto, poi ci sono le attività scolastiche piuttosto che altre attività organizzate all’interno dell’istituto, come il laboratorio teatrale, quest’anno ne abbiamo avuti due, il laboratorio artistico-artigianale, un corso di legalità, diversi progetti che vengono poi di volta in volta valutati dal gruppo di osservazione dell’istituto. Diciamo che rispetto alla mancanza di spazi sono davvero tante la attività che si fanno all’interno della struttura. Importantissimo un progetto di sostegno alla genitorialità proprio perché la carcerazione diciamo spezza i legami affettivi e famigliari. Quindi è importante che anche nel corso della detenzione i nostri papà, perché noi abbiamo una popolazione maschile, non perdano quello che è il loro ruolo di padri". Visto che il problema della struttura è quello degli spazi, ci sono progetti di ampliamento in itinere? "C’è un’ala completamente chiusa, il vecchio reparto che ospitava tanto tempo fa i detenuti ad alta sicurezza. C’è ora un progetto che è all’attenzione del Dipartimento. Sono stati stanziati dalle opere pubbliche 3 milioni di euro e quindi possiamo ben sperare di migliorare la situazione in istituto per quanto riguarda la carenza degli spazi perché non si creerebbero soltanto delle celle ma avremo la possibilità di creare laboratori, aule scolastiche e persino palestre". Brindisi: i Radicali dopo la visita "c’è dignità, ma il carcere è da ampliare" di Lucia Pezzuto Quotidiano di Puglia, 9 giugno 2017 Il carcere di Brindisi ospita 186 detenuti che nonostante gli spazi ridotti svolgono attività di ogni tipo, dai laboratori artistici ai progetti legalità. Molti di loro sono impiegati anche in mansioni finalizzate al reinserimento nel mondo del lavoro. Nello spirito del recupero e della socializzazione, quindi, ieri mattina i detenuti della struttura penitenziaria brindisina hanno ricevuto in dono tre biliardini offerti dall’associazione "Famiglie Fratelli Ristretti", consorella di "Nessuno tocchi Caino". Per la consegna, erano presenti il deputato Nicola Ciracì e i dirigenti dei Radicali Rita Bernardini, Sergio D’Elia (segretario di "Nessuno tocchi Caino") e Renato De Giorgi (presidente dell’associazione "Famiglie Fratelli Ristretti"). "In un momento particolare in cui è tornata l’attenzione sul sistema carcerario, abbiamo appurato che nella struttura detentiva di Brindisi c’è un problema di socializzazione a causa degli spazi ridotti - spiega l’onorevole Nicola Ciracì, di Direzione Italia - così abbiamo pensato di donare i biliardini visto che non c’è spa- zio neppure per fare una partita a calcetto. Era un impegno che avevamo assunto da tempo e lo abbiamo mantenuto. E poi vorremmo che non ci si dimenticasse di questo problema". Il carcere di Brindisi per molti aspetti è una struttura che garantisce una detenzione "dignitosa" ma per altri aspetti a causa degli spazi ristretti non consentirebbe ai detenuti di socializzare. Tanto il parlamentare brindisino quando i responsabili dell’associazione hanno spesso visitato la struttura e dialogato con i detenuti per capire quali fossero le criticità. Resta in ballo anche il problema della localizzazione, la presenza di una struttura simile all’interno di un contesto urbano è sempre stata oggetto di discussione. Ma ad oggi purtroppo il governo non ha previsto investimenti in materia di edilizia carceraria. "Quello di Brindisi è un buon carcere, dove il 25% della popolazione è costituita da stranieri, ma c’è un grosso problema: non c’è spazio" afferma Ciracì. "L’ultima volta che sono venuto c’era un esubero di 30 persone. Se avessimo i fondi basterebbe ampliare e la struttura, anche per una questione di integrazione potrebbe star bene dove sta. Le famiglie ed i bambini dei detenuti potrebbero continuare a venire senza problemi. Ma fondi non ce ne sono e non si può fare molto purtroppo quando non si hanno le disponibilità economiche. Non bisogna pensare al detenuto come colui che deve scontare la pena e basta, bisogna garantire un minimo di dignità. Qui non sono tutti assassini, bisogna pensare che c’è gente anche con pene minime". Per dirla tutta, rispetto al passato, la condizione dei detenuti nelle celle è molto migliorata a differenza del passato. Oggi in ogni cella vi sono due o al massimo tre persone, un tempo nello stesso spazio vi erano anche quattro, cinque detenuti. Nelle celle oltre ai letti ed il televisore vi è anche un angolo con il fornelletto per chi non vuole consumare il pasto distribuito dalla struttura e vuole cucinare da sé, ed anche il bagno. Mancano gli spazi comuni, o meglio sono risicati e questo non consente di fare le attività che si vorrebbero. La scorsa settimana è stata inaugurata una stanza per i colloqui è stata trasformata per renderla a misura di bambino. L’area è stata ridipinta, ai muri sono stati appesi i disegni realizzata dai ragazzi del Liceo Artistico Simone di Brindisi ed è stata arredata con tavolini e giochi. Qui i figli dei detenuti incontrano i loro papà e possono trascorrere del tempo con il genitore in un ambiente meno angusto. Trento: il ddl sui Garanti dei detenuti e dei minori diventa legge con 28 sì e 4 no di Andrea Tumiotto lavocedeltrentino.it, 9 giugno 2017 Approvato il ddl Civico con il quale viene istituita la figura del Garante dei detenuti e di quello per i minori. All’inizio di ieri pomeriggio si è affrontata la discussione dell’articolato del ddl Civico: all’articolo uno sono stati accolti gli emendamenti di Borga della Civica Trentina (no alla competenza del garante dei detenuti sui trattamenti sanitari obbligatori; la valutazione dell’incompatibilità dei garanti affidata all’Ufficio di presidenza); sì anche a quello di Zanon (PT) che assegna al garante dei minori il compito di coordinamento e tutela da pare del garante dei tutori volontari; approvato l’emendamento Fugatti della Lega col quale si stabilisce che i garanti vengano nominati, con votazione segreta, con i due terzi dei consiglieri provinciali. Sull’articolo due, sì dell’Aula all’emendamento Borga sul trattamento economico dei garanti, fissato in un terzo dell’indennità lorda dei consiglieri. In dichiarazione di voto Rodolfo Borga ha annunciato il voto positivo della Civica Trentina, soprattutto perché si introduce il garante locale dei detenuti, evitando così l’intervento di quello nazionale. Borga ha ricordato gli ordini del giorno a favore delle guardie carcerarie, anche se rimane il problema della situazione di Spini causata dal mancato rispetto da parte dello Stato nei dell’accordo con la Pat. Infine, il consigliere della Civica ha respinto qualsiasi ipotesi di delega dallo Stato alla Provincia sul carcere. Marino Simoni (PT), confermando il sì di Progetto Trentino, al ddl Civico che dà poteri al Consiglio sulle nomine, offre garanzie a minori e detenuti ma anche a chi in carcere lavora. Simoni ha inoltre sottolineato l’odg sul Provveditorato della carceri di Padova che va riportato all’interno dell’autonomia regionale. Maurizio Fugatti (Lega), annunciando il voto negativo, ha affermato che il Trentino non sentiva certo la mancanza di questo disegno di legge. Quanto a interesse è paragonabile al quello sull’omofobia e alle quote rosa e, in più, viene approvato mentre c’è una situazione pesantissima a Spini, al punto da rappresentare un affronto alle guardie carcerarie. Walter Kaswalder (Misto) ha detto di essere stato convinto da Civico e ha annunciato il suo sì. Donata Borgonovo Re, annunciando il voto favorevole del Pd, ha ricordato che nel 2007, come ufficio della difesa civica si decise, d’accordo con il direttore della casa circondariale, di aprire un recapito del difensore civico in carcere. Ma questa esperienza mise in luce la limitatezza di questo ruolo da parte del difensore civico e quindi la necessità di un garante. Anche la "fusione" del garante dei minori col difensore civico, ha ricordato la consigliera Pd, per una supposta logica di risparmio, ha creato seri problemi. A partire dal fatto che la formazione richiesta al difensore civico, di tipo soprattutto giuridico, è distante da quelle richieste dalla tutela dei ragazzi. Infine, Donata Borgonovo Re, ha riconosciuto la grande pazienza di Civico nel portare avanti questa legge. Claudio Cia (Agire), dichiarando il suo voto negativo, ha auspicato un aumento del personale del difensore civico perché possa essere presente su tutto il territorio. Sì convinto alla legge Civico da parte di Manuela Bottamedi (Misto) perché va nel verso di salvaguardare la dignità anche di chi ha commesso errori anche gravi. Giampaolo Passamani ha ricordato che l’UpT ha sostenuto questo ddl anche in commissione e ha riconosciuto la capacità di dialogo da parte di Civico. Un lavoro paziente, ha aggiunto, che ha permesso al ddl di arrivare al traguardo e di assegnare una vittoria al parlamento trentino. Civico ha ringraziato i consiglieri, gruppo Pd e Giunta, per la serenità del dibattito; grazie anche ai capigruppo che hanno detto sì al contingentamento dei tempi che ha permesso al ddl di arrivare al voto. Il consigliere Pd ha infine ringraziato detenuti e detenenti ricordando che la norma è per loro. In conclusione Mattia Civico a dedicato il ddl a padre Fabrizio Forti. Una giornata felice, ha commentato prima del voto il Presidente Dorigatti. Pisa: "Ombre della sera", documentario racconta il reinserimento sociale dei detenuti Adnkronos, 9 giugno 2017 Quanto è difficile rientrare in famiglia e inserirsi nel mondo del lavoro dopo un periodo trascorso in carcere, in particolare all’interno di quello romano di Rebibbia? Tornare al mondo esterno dopo anni di lontananza forzata è il tema del film documentario "Ombre della sera" che sarà proiettato domani alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (inizio ore 21.00 in aula magna) su iniziativa di Associazione Allievi della Scuola Superiore Sant’Anna e Associazione "L’Altro Diritto Pisa". L’articolo 27 della Costituzione italiana assegna alla pena detentiva una funzione precisa: sostenere e accompagnare i cittadini reclusi in un percorso di rieducazione e di riabilitazione che dovrebbe metterli in grado, scontata la condanna, di reinserirsi nella società civile, anche grazie al lavoro. Di questo percorso, di questo cammino che passa dalla condanna alla liberazione, la società conosce ben poco perché è ancora condizionata da una visione del carcere come luogo di espiazione fine a sé stesso. Il film documentario "Ombre della Sera", interpretato dai detenuti in misura alternativa e dagli ex detenuti di Rebibbia (Roma), nasce per raccontare il percorso di reinserimento familiare e sociale che intraprendono i ‘liberanti’, uscendo dal carcere. L’Associazione "Altro Diritto Pisa" collabora da tempo con il garante per i detenuti del Comune di Pisa, Alberto di Martino, docente di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna. La proiezione ha ricevuto il patrocinio del Comune di Pisa e quello del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Pisa. Partecipano alla proiezione il produttore del film, Riccardo Neri, alcuni degli attori, tutti ex detenuti del carcere di Rebibbia, l’avvocato penalista Annarosa Francini, in rappresentanza del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. "Ombre della sera" è stato realizzato con il sostegno del Ministero della Giustizia e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. "Trattare della questione penitenziaria, grazie al messaggio veicolato da questa pellicola - commenta l’avvocato Annarosa Francini del Foro di Pisa - è adesso di vitale importanza, vista l’attenzione mediatica sull’argomento, provocata anche dai recenti sviluppi della vicenda penitenziaria di Totò Riina. Credo che si debba approfittare di ogni occasione di sensibilizzazione culturale ed etica sul tema carcerario. Ombre della sera è una di queste rare e coraggiose occasioni". Piacenza: il carcere, la scuola e il cinema, intervista al Garante Alberto Gromi Piacenza Sera, 9 giugno 2017 "Universi", la rubrica fissa di Piacenza Sera, che vi racconta il mondo dell’Università Cattolica di Piacenza, ha ricevuto nei giorni scorsi una visita speciale, quella di Alberto Gromi. Ex preside, ex docente della Cattolica di Piacenza, Garante dei detenuti del carcere di Piacenza e anche attore negli ultimi due film di Marco Bellocchio. Un personaggio così non poteva non diventare protagonista di un’intervista collettiva realizzata dai nostri redattori Chiara, Micaela e Hassan. Una lunga chiacchierata che abbiamo sintetizzato così. Secondo lei si può parlare di rispetto della Costituzione per quanto riguarda le condizioni dei detenuti in Italia? No. Questo è il problema più grosso delle carceri italiane. Purtroppo l’opinione pubblica viene informata solo sulle emergenze del carcere (es. il sovraffollamento). Ma non è solo questa l’emergenza del carcere. L’emergenza del carcere è quella del rispetto della Costituzione, cioè la pena deve tendere alla rieducazione. E questo è molto difficile perché è tutta la struttura carceraria che deve andare in questa direzione. Non basta un’iniziativa per parlare di rieducazione. Io ho protestato molto sulla circolare ministeriale per cui i carcerati più turbolenti vengono messi tutti nella stessa sezione dei "cattivi"; questo non ha senso perché metti insieme quelli che hanno più bisogno di stare con gli altri e di avere un rapporto normale con gli altri in ogni sezione. Il carcere di Piacenza ha due strutture: il vecchio e il nuovo padiglione. Il nuovo padiglione è stato costruito negli anni 2011-2013, è costato tantissimo, può ospitare 200 detenuti e le celle, che ora si chiamano camere di pernottamento-di soggiorno, sono belle: non ci sono letti a castello ma brande singole, sono molto grandi e c’è il bagno con doccia. In ogni sezione ci sono quelli più noiosi, quelli più lavativi, quelli più collaborativi e così via, e secondo me bisognerebbe metterli a confronto, e quando c’è qualcosa che non va lì sarebbe davvero necessario un lavoro di mediazione, per far capire che cosa funziona o meno, come mai ti stai comportando così. Un mese fa circa abbiamo incontrato la maggiore esperta in Europa di mediazione penale, Jacqueline Morineau, e sarebbe interessante fare un lavoro di questo tipo, ma il carcere non è pronto per queste cose. Quindi no, la Costituzione non è rispettata. Facendo riferimento alla sua esperienza come garante dei detenuti dal 2010, cosa considera più necessario per attuare un’opera di rieducazione come afferma l’art. 27? Dovete pensare che nel carcere di Piacenza ci sono 200 agenti e circa 440 detenuti. Gli educatori sono 3 di cui uno fa lavoro d’ufficio. C’è un ottimo servizio sanitario nel carcere di Piacenza e quindi c’è tutta una struttura di accompagnamento per quello che riguarda il "trattamento", termine tecnico ma una parola terribile, che sta ad indicare l’attività di rieducazione. Ma siccome la sanità funziona molto bene e in particolare funziona bene la struttura psichiatrica, ecco che in tutte le carceri emiliane, quando c’è qualche caso che ha problemi psichiatrici, lo mandano a Piacenza. Le mie risposte sono comunque condizionate dal mio ruolo di garante, che è quello di partire dal presupposto che, chi entra in carcere, non perde i suoi diritti costituzionali ma viene limitato un solo diritto, quello della libertà di movimento e, solo su decisione del giudice, altri diritti come la sospensione della patria potestà oppure non possono godere dei diritti civili, ma solo in alcuni rari casi. Tutti gli altri diritti devono essere garantiti, quali il diritto all’istruzione, al lavoro, all’identità, al proprio nome, alla salute, alla conoscenza, alla libera espressione. Quindi io ho l’occhio un po’ male abituato, perché io vedo non il bicchiere mezzo pieno, ma mezzo vuoto perché devo garantire che quello che manca sia dato. Ci sono anche elementi molto positivi come il volontariato all’interno del carcere, che fa un lavoro molto interessante e bello. Ma anche sul volontariato, a volte, ci si offre nei termini "Io so fare questo e quindi mi metto a disposizione" ma il tutto non rientra in un progetto educativo vero e proprio; c’è un progetto che è però totalmente istituzionale a cui manca il cuore del rapporto educativo. Recentemente una volontaria mi ha detto "Io lavoro con le detenute e facciamo acquerello" e ogni attività può avere una funzione educativa, e allora le ho detto "Quando tu fai acquerello puoi cominciare a parlare con la persona quando guardate quello che la persona ha fatto; cosa hai disegnato? Perché hai usato questi colori?". Recentemente con le donne nel carcere di Piacenza, che presenta una sezione femminile ospitante dalle 15 alle 20 detenute di alta sicurezza (quindi tutte appartenenti ad associazioni mafiose o simili) abbiamo fatto un progetto di un ritratto autobiografico con una mia ex alunna che è diventata una fotografa famosa, Serena Groppelli, insieme ad una collega. Le donne decidono come truccarsi e decide lei come farsi fotografare e poi, davanti alla fotografia, sceglie quella che le piace di più, facendo emergere il perché ha scelto questa e non quest’altra e, così, salta fuori tutto un vissuto. Perché ci sia un cambiamento la prima cosa da fare è raggiungere la consapevolezza. Quando uno ha commesso un reato ed è in carcere, ben difficilmente pensa al reato che ha commesso. Capita spesso che vengano da me a dirmi "Io sono innocente"; soprattutto chi non conosce la legislazione italiana (il 60% dei detenuti sono stranieri) crede che il garante abbia un potere illimitato. Però è difficile che ci sia una riflessione "cos’ho fatto", "perché", "c’è una vittima" cioè "c’è qualcuno che ha subito quello che io ho fatto"... allora è necessario tutto un lavoro su di sé, di autoconsapevolezza, di autoriflessione. C’è un brano bellissimo di un detenuto di Padova sulla rivista della redazione giornalistica del carcere, chiamata Ristretti Orizzonti, che racconta come, durante una delle riunioni della redazione con alcuni studenti in visita al carcere, una domanda di una professoressa abbia scatenato in lui una riflessione profonda su quali sono state le vittime dei suoi reati. Fino ad allora lui ha sempre pensato che le sue vittime fossero le banche e le assicurazioni, ed era molto contento di ciò, perché loro rubano soldi alla gente e lui li va a rubare a loro. Tale riflessione ha cominciato a fargli ricordare delle persone che sono state coinvolte nelle sue rapine e alle loro reazioni: ha cominciato a capire che le sue vere vittime non erano le banche e le assicurazioni, ma delle persone. Come è nato il suo interesse per il mondo del carcere? Nella seconda metà degli anni 60, quando c’era stato tutto lo sconvolgimento, era venuto fuori un discorso molto serio sulle istituzioni totali, cioè gli ospedali, le caserme, il carcere, in parte anche la scuola. Ad esempio per i manicomi, è intervenuta la legge Basaglia che ha rotto questa istituzione. Ci vorrebbe un Basaglia anche per il carcere. Però in seguito a queste sollecitazioni ci sono state delle esperienze significative, noi a Piacenza siamo stati un po’ degli antesignani in questo. Siccome io lavoravo con un gruppo che andava a incontrare i ragazzi di un carcere minorile a Pizzighettone, abbiamo pensato bene di aprire a Piacenza una comunità, quella che oggi si chiamerebbe casa famiglia, dove mia madre e io avevamo un gruppo di ragazzi. C’era con noi anche un agente che però veniva chiamato educatore. Il termine educazione è malvisto in carcere, tant’è vero che gli educatori si chiamano adesso funzionari del servizio giuridico-pedagogico, perché la parola educatore suona male. Quindi, erano chiamati educatori ma in realtà erano guardie. È stata una esperienza che poi è finita, poi ero diventato assistente volontario nel carcere di Piacenza. Quando si è trattato di nominare un garante, chi si occupava di problemi carcerari mi ha ritenuto la persona giusta viste le mie esperienze pregresse. Nel 2010 il sindaco Reggi, visto che non c’erano imminenti elezioni, ha nominato me come garante, ovvero l’unico a presentare domanda. I garanti, da una decina d’anni, sono nominati in alcuni comuni e regioni. Il garante comunale o provinciale ha alle spalle non una legge ma un provvedimento amministrativo: io sono nominato dal sindaco di Piacenza e decado col sindaco di Piacenza. Siccome è stato modificato lo Statuto comunale per inserire la figura del garante e adesso c’è, teoricamente il futuro sindaco dovrebbe nominarne un altro. Nonostante ciò non risulta essere una delle priorità. I garanti regionali hanno alle spalle una legge regionale. C’è poi un garante nazionale: sono stati presentati tanti disegni di legge per nominare un garante nazionale ma non andavano mai in porto. Ultimamente è stata approvata la legge ed è stato nominato anche il garante nazionale. In Emilia hanno il garante Piacenza, Parma, Bologna e Ferrara, forse Rimini anche. Come descriverebbe e valuterebbe l’esperienza di insegnamento presso l’Università Cattolica di Piacenza, anche alla luce del suo ruolo di preside e del suo costante interesse per i giovani e per l’insegnamento? Io ho fatto l’Istituto Magistrale, da cui, allora, si usciva maestri, poi mi sono laureato in Pedagogia. Ho cominciato ad insegnare nel 1963, ho insegnato per 5 anni a Gropparello, anni bellissimi, dovete pensare che con molti studenti di Gropparello ci troviamo ancora oggi a pranzo 2 o 3 volte l’anno. Era appena partita la scuola media prima unificata e poi unica, quindi tutti i paesi con 3mila abitanti dovevano avere la scuola media. Poi sono passato alle superiori, mi sono abilitato, e ho insegnato a lungo storia e filosofia nei licei. Ho insegnato al liceo scientifico di Fiorenzuola, al liceo scientifico di Piacenza, al liceo classico Gioia di Piacenza. Successivamente c’erano grossi problemi al liceo Respighi e il provveditore mi ha proposto di fare il Preside lì, dove sono rimasto per 3 anni come Preside incaricato. Intanto è uscito il concorso per Preside, che non usciva da anni, allora con alcuni piacentini abbiamo deciso di iscriverci. Nel mentre che veniva svolto il concorso, io mi ero stufato di fare il Preside e sono tornato ad insegnare per 1 anno. Poi ho vinto il concorso, ero stato nominato a Verbania, in seguito a Piacenza e sono arrivato al Gioia. Nel ‘98 sono andato in pensione, dopo 40 anni di servizio. Sempre nel 1998 è partita la Facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione e il professor Guasti mi ha chiesto di dare una mano. Ho cominciato a fare l’assistente con Mario Ferracuti, avevamo come allievo suo nipote, Roberto, vigile urbano morto in un incidente, che è stato il primo laureato della Facoltà. Ho cominciato ad avere l’incarico per l’insegnamento di Pedagogia Generale e ho smesso dopo il compimento dei 70 anni, terminato il mio incarico triennale. Esperienza è stata bellissima, perché ci sono i pregi e i difetti di una piccola facoltà: difetto è che sembra di essere in un Liceo; il pregio è che si conoscono tutti gli studenti. Voi dovete pensare che io sono arrivato qui in Università a fare il professore e ho trovato tutti gli studenti che avevo avuto al Gioia. Nel 2005 ho cominciato ad andare in Kenya perché uno studente della Facoltà, Gianluca Sebastiani, si era laureato con una tesi sui bambini di strada del Kenya. Allora mi ero interessato e lui mi ha proposto di andare con lui: da allora ho fatto 9 viaggi, anche con le studentesse che dovevano fare lo stage, all’interno del tirocinio. Invece di fare uno stage presso una struttura piacentina che potete visitare quando volete, andiamo a vedere come lavorano gli educatori con i bambini di strada, e sono state delle esperienze molto interessanti e molto dure, stavamo via 3 settimane. Cosa l’ha spinta ad entrare nel mondo dello spettacolo? Com’è stata l’esperienza da attore, anche in film che hanno avuto un’eco internazionale? Ho cominciato a 6 anni, non nel senso che salivo sulla seggiola e recitavo la poesia di Natale. Io ho passato i miei primi 24 anni di vita in Via Daveri, che allora era Via Pavone, che unisce Piazza Duomo a Via Roma. Andavo in Parrocchia in Duomo; nel salone del Duomo c’era un teatrino meraviglioso. Allora, nel 1945-47, tutte le Parrocchie avevano una compagnia teatrale, e la domenica andavano presso i teatrini delle altre Parrocchie. Io mi sono appassionato perché da ragazzino non avevo i soldi per entrare nel teatrino e allora mi mettevo fuori delle porte a vetri, non sentivo niente ma vedevo le luci del palcoscenico, gli attori che recitavano, e io avevo un grande entusiasmo, ero molto affascinato, e poi qualcuno provava compassione e a metà spettacolo qualcuno mi faceva entrare. Questo fino a che anche io sono andato su un palcoscenico. Poi ho avuto un periodo in cui ho interrotto durante l’Università. Un mio amico aveva fondato una compagnia teatrale, Dante Capra; il Gat, Gruppo Attività Teatrale, con cui abbiamo fatto cose importanti, come il Miguel Manara di Milosz e l’Annuncio a Maria di Claudel e tante altre cose. Nel 1978 mi avevano chiesto di fare una pubblicità per un negozio di elettrodomestici, e io facevo come la pantera rosa che passava davanti ad una finestra, vedeva una pentola e la rubava e poi scappava via. Come son diventato Preside è immediatamente comparso sulla copertina del giornale "Gromi che ruba le pentole" e quindi sono stato un po’ costretto a smettere. Successivamente ho ripreso e ho fatto molti corti, ho conosciuto gente. Quando c’è stato "Sangue del mio sangue" (il film di Bellocchio ndr), due miei ex alunni del Gioia, che erano dentro la macchina organizzatrice di Bellocchio, mi hanno detto di fare il provino, e ho così ottenuto la parte. Mi ha chiamato subito dopo per fare il direttore della Stampa in "Fai bei sogni". Il primo dei due film doveva intitolarsi "L’ultimo vampiro": c’è questo personaggio che vive al buio, esce solo di sera, in una stanza del convento, e ha il dominio su tutto il paese; a un certo punto, i maggiorenti del paese arrivano dal vampiro e il vicario generale gli dice che è ora di andarsene, e così muore. Io recito la parte del vicario generale che liquida il vampiro. Arrivato sul set, c’era Valerio Mastandrea, Fabrizio Gifuni, e allora ti chiedi "adesso cosa faccio?". Invece l’ambiente è molto accogliente, Mastandrea ad esempio è un ragazzo meraviglioso, di una semplicità e grande disponibilità. Io alla sera sono sceso per andare a cena al ristorante, non mi sarei mai sognato di andare al tavolo di Mastandrea. Stavo andando al mio tavolo, quando sento: "Alberto vieni qui dai, mangiamo insieme che sono solo". È stata una bella esperienza, dovete pensare che io ho girato per due giorni. Ma ci sono state scene ben più tribolate delle mie. Ricordo una scena in cui dovevano portare un cioccolatino e l’avranno girata 15 volte, a un certo punto vediamo il cioccolatino che si scioglie, tutti abbiam detto "Non c’è più il cioccolatino, andrà bene". Allora "Portate un cioccolatino nuovo!". Verona: incontro con l’Associazione Aquilia, per una riflessione sulla realtà del carcere opusdei.it, 9 giugno 2017 Una giornata di condivisione dedicata alla realtà del carcere è stata organizzata dall’associazione Aquilia di Verona. Numerosi i partecipanti all’incontro. Presentate alcune testimonianze di chi ha portato avanti progetti di utilità sociale per i detenuti. Un incontro sulla realtà del carcere si è svolto nella sede dell’associazione Aquilia di Verona. Tra i presenti, il presidente della sesta Circoscrizione, che ha dato il patrocinio all’iniziativa, un imam, la giornalista Marina Zerman, moderatrice della tavola rotonda. Il presidente dell’Associazione, Marisa Levi, ha spiegato che questa è la terza iniziativa sul tema della condivisione, dopo quelle degli scorsi anni con l’Emporio della Solidarietà e con la Casa per la Protezione della Giovane. "Ne sono derivate sempre ripercussioni di generosità, documentate non solo da raccolte di materiale, ma anche da decisioni ad impegnarsi nel volontariato da parte di alcuni partecipanti". In un’area dell’aula magna sono stati posti vestiti, prodotti per l’igiene personale e giocattoli per i detenuti e le loro famiglie, mentre le ragazze delle medie che frequentano il laboratorio di artigianato dell’Aquilia hanno preparato dei segnalibri per i detenuti. Emma Benedetti, del Centro di ascolto "Domenico", che si trova all’interno della Casa Circondariale di Montorio, ha spiegato come il carcere sia un luogo che non si conosce all’esterno e come sia stata importante la realizzazione, da quattro anni a questa parte, di un luogo per dare informazioni ai familiari sul regolamento della struttura, i tempi previsti per i colloqui, la tipologia e i quantitativi di materiale che possono entrare. Un servizio prezioso specie per i parenti di chi viene incarcerato per la prima volta. Significativa è stata anche la proiezione di una video-intervista al marchese Lamberto Frescobaldi, discendente di un’illustre famiglia fiorentina del 1100; egli ha iniziato nel 2012 un progetto di lavoro per i carcerati dell’Isola di Gorgona, in Toscana, mettendo a coltivazione di vigneto un ettaro di terreno, alla quale è seguita la realizzazione di una cantina, l’imbottigliamento del prodotto e la messa in commercio delle bottiglie. Il lavoro dei detenuti è regolarmente pagato ed il risultato morale e umano per la maturazione di queste persone è evidente. Interessante anche l’intervento di Paola Tacchella, che da 25 anni lavora a Montorio, inizialmente come insegnante per l’alfabetizzazione e per l’insegnamento della lingua italiana agli stranieri. Via via ha maturato il progetto "Microcosmo" per fare scrivere ai detenuti il loro vissuto: obiettivo che presuppone ore di rielaborazione verbale in gruppi di lavoro, ricerca del linguaggio adatto, confronto ed ascolto. Un modello di lavoro che viene apprezzato dai protagonisti, come ha raccontato nella sua testimonianza un ex detenuto, che è riuscito a parlare in maniera molto coinvolgente per una decina di minuti della sua esperienza in carcere, del percorso di presa di coscienza del suo passato e del suo reinserimento in famiglia. Una ragazza adolescente, figlia di un ex detenuto, ha esposto in maniera toccante la sua esperienza di quando aveva 8-10 anni e il papà era in carcere: le difficoltà con i compagni, l’assenza del padre e più tardi il suo impegno nell’aiutare il papà a conseguire la licenza media. A proposito di scuole, una delle relatrici ha detto che ci sono contatti fra varie scolaresche e il mondo carcerario e che all’interno della struttura ha luogo un corso di Istituto Alberghiero, grazie al quale alcuni detenuti riescono a raggiungere il titolo di studio. Non è mancata la testimonianza di un diacono permanente che presta servizio da 4 anni come aiutante del cappellano: prezioso il supporto spirituale che viene offerto agli attuali detenuti di 40 nazionalità; l’importanza dell’accoglienza, dell’ascolto, dell’accompagnamento spirituale e religioso. "Dalla tavola rotonda è emerso che il carcere si attiva sempre di più per diventare un luogo di "cura", di recupero del senso del tempo, di occasione per guardare all’esterno con speranza", spiegano gli organizzatori. Turi (Ba): convegno "Non per mania lamentatrice", il pensiero di Gramsci detenuto Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2017 Il 14 giugno 2017, alle ore 16,30, nell’ottantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci, uno degli intellettuali più importanti del 900, presso la casa di reclusione di Turi (BA), l’Ufficio regionale del Garante dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, organizza il Convegno "Non per mania lamentatrice". il pensiero di Gramsci detenuto. La sua eredità, il suo pensiero, fondamentale risorsa politica e culturale per tutti noi. Introduzione ai lavori di Piero Rossi (Garante regionale) e Maria Teresa Susca (Direttrice casa di reclusione Turi), coordinamento a cura di Giorgio Macciotta Presidente della Fondazione Casa Museo Antonio Gramsci Il programma prevede gli interventi di: Francesco Giasi, (direttore Fondazione Gramsci Onlus), Nicola Graziano,(magistrato), Carmelo Cantone,(provveditore regionale di Puglia e Basilicata), Franco Corleone (garante Della Toscana portavoce del coordinamento nazionale Garanti) Porteranno il loro saluto il Presidente del Consiglio regionale ed il sindaco di Turi. Prevista, inoltre, la partecipazione del Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. Le conclusioni saranno a cura di Mauro Palma - Garante nazionale dei detenuti. Oristano: con gli "Scrittori da Palco" letture musicate nel carcere di Massama unicaradio.it, 9 giugno 2017 Un appuntamento speciale quello di venerdì 9 giugno, per Scrittori da Palco, il cabaret letterario nato all’interno del festival Sulla Terra Leggeri. Il collettivo itinerante di scrittori e scriventi sarà protagonista di un reading all’interno del carcere di Massama, a Oristano. Raccogliendo l’invito dell’istituto tecnico Mossa, la squadra di Scrittori da Palco porterà in scena le sue letture musicate per gli studenti delle classi 3N, 3O, 4N, nell’ultimo giorno dell’anno scolastico. Un raro momento di confronto con la società civile, per i circa 40 detenuti che assisteranno al reading. Una delle poche iniziative culturali all’interno della casa circondariale. Un modo diverso per festeggiare l’ultimo giorno di scuola in un luogo particolare in cui fare scuola è ancora più importante. Lo spettacolo, che per ovvie ragioni non sarà aperto al pubblico, mantiene a Massama la sua consueta formula: un incontro fatto di racconti e musica, ballate e deliri narrativi, esperimenti di letteratura da palcoscenico in chiave semi-seria, ironica, irriverente, romantica, comica e nostalgica. Sul palco scrittori per professione o autori emergenti, appassionati di letteratura, giovani insegnanti, attrici, giornalisti, psicologi o disoccupati. Gli Scrittori da Palco a Massama saranno: Flavio Soriga, Nicola Muscas, Bachisio Bachis, Nicola Mameli e Emilia Agnesa. Con il live painting di Riccardo Atzeni e le musiche di Francesco Medda Arrogalla. Firenze: "Vivicittà" entra nel carcere, in 50 corrono a Solliccianino stamptoscana.it, 9 giugno 2017 Lo sport unisce, anche in carcere. Con questo spirito hanno partecipato a Vivicittà circa 50 tra detenuti, educatori e runner all’interno della casa circondariale Mario Gozzini di Firenze. La manifestazione, organizzata da Uisp Firenze e fortemente voluta dalla direttrice della casa circondariale Margherita Michelini, ha visto podismo e solidarietà andare a braccetto. È la settima volta che l’iniziativa di Uisp Firenze si svolge dietro le sbarre. A raccogliere l’appello di Uisp Firenze, tra le società sportive, il Gs Le Torri con la presidente Catia Ballotti che dopo la staffetta Firenze-Amatrice è venuta a correre con i detenuti a Solliccianino. I detenuti hanno compiuto tre giri attorno alle mura della casa circondariale, chi preferiva poteva anche solo camminare e compiere un giro. A fare il tifo gli operatori Uisp che portano avanti i progetti in carcere e gli agenti della polizia penitenziaria perché in fondo davvero l’importante è partecipare. A vincere Jamal, detenuto marocchino di religione musulmana che nonostante il gran caldo (si è corso alle 14) non ha mangiato né bevuto a fine gara per aspettare il tramonto. A lui una coppa e i complimenti della direttrice e del presidente di Uisp Firenze Marco Ceccantini. Vivicittà ha acceso così i riflettori sulla condizione della popolazione carceraria fiorentina. "Questa iniziativa - ha spiegato il presidente di Uisp Firenze Marco Ceccantini - si inserisce in un’ottica di inclusione e integrazione ma ha anche lo scopo di conoscere da vicino le problematiche della popolazione carceraria. Uisp Firenze sta portando avanti due progetti di sport in carcere: uno prevede corsi di volley e calcetto per far sì che davvero lo sport sia per tutti, l’altro corsi di formazione per giudici di gara di ciclismo basket volley e atletica in modo da offrire ai detenuti gli strumenti per inserirsi da un punto di vista lavorativo una volta espiata la pena". Terrorismo. Il rischio della radicalizzazione in carcere di Nadia Francalacci Panorama, 9 giugno 2017 Il caso del detenuto tunisino che aveva esultato per gli attentati di Londra. Il Ministero dell’interno ne ha disposto l’espulsione. Euforia, gioia e frasi di apprezzamento per la strage appena avvenuta. È stato l’ultimo attentato a Londra a far scattare l’espulsione dal nostro Paese di un detenuto tunisino. Dopo un trasferimento dal carcere di Viterbo a quello di Cassino, il Ministero dell’Interno ieri ha deciso allontanarlo dal nostro Paese e soprattutto da centinaia di altri detenuti italiani e nordafricani. Percorso di radicalizzazione in carcere - Radicalizzato durante il suo percorso carcerario, il tunisino trascorreva le sue giornate a pregare e quando si fermava, inneggiava al martirio e alla jihad. Aveva festeggiato le stragi avvenute nei Paesi del Nord Europa e in particolare in Francia e Gran Bretagna fino a turbare l’ordine della vita carceraria. Secondo quanto accertato dalla polizia, infatti, il tunisino si era radicalizzato in maniera estremista proprio nelle celle delle carceri laziali. Radicalizzazione in aumento - La radicalizzazione dei detenuti sta aumentando proporzionalmente all’aumento dei soggetti di nazionalità nordafricana - spiega a Panorama.it Angelo Urso, segretario generale della Uil-Pa - è un fenomeno preoccupante che gli agenti della polizia penitenziaria stanno monitorando costantemente ormai da anni". Il Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria, infatti, redige costantemente rapporti al Ministero sulle dinamiche interne alle strutture detentive italiane e sui soggetti considerati "a rischio". "Gli agenti svolgono un lavoro di osservazione dei soggetti radicalizzati cercando di ricostruirne i contatti in ambito carcerario ma anche all’esterno. Vengono monitorati colloqui, visite e anche la corrispondenza di questi soggetti - prosegue Urso - inoltre, vi sono agenti specializzati che sono chiamati anche ad individuare i detenuti più "deboli" ovvero quelli influenzabili che quindi potrebbero iniziare un percorso di radicalizzazione". "Non dobbiamo dimenticarci che la radicalizzazione può iniziare in carcere ma si struttura esternamente. Quando il detenuto radicalizzato finisce di scontare la sua pena, lascia il carcere e raggiunge i luoghi, come i paesi del Nord Africa, dove inizia la fase di addestramento". La sinergia tra forze di polizia - "Il monitoraggio interno alle carceri è un anello fondamentale per ricostruire un percorso di radicalizzazione di questi soggetti ma è altrettanto importante anche la sinergia tra la polizia penitenziaria e le altre forze di polizia e intelligence in quanto permette di continuare a seguire gli spostamenti dei personaggi a rischio non solo sul territorio italiano ma anche all’estero". Poi Urso conclude: "L’esempio del buon funzionamento di questa sinergia è proprio il caso dell’attentatore italo-marocchino, Yussef Zagba, dell’ultima strage di Londra con passaporto italiano". Centri migranti tra promiscuità e poche tutele di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2017 Primo rapporto del Garante dopo le visite nelle strutture. Le condizioni materiali e igieniche sono risultate nella maggior parte dei casi carenti e bisognose di interventi urgenti di risanamento, ristrutturazione e manutenzione. Pubblicato il primo rapporto tematico del Garante nazionale Mauro Palma sui Centri per gli immigrati. Sono stati riscontrati criticità al livello strutturale, categorie vulnerabili poco tutelate come i minori e donne in stato di gravidanza, troppa limitazione di acceso ai giornalisti e al mondo associativo, "limbo giuridico" degli Hotspot, la promiscuità nei Centri tra migranti irregolari e migranti provenienti da circuiti criminali, presenza non giustificata dei carabinieri all’interno del Cie di Ponte Galeria, vicino Roma. Sono questi alcuni degli aspetti critici emersi dalla visita del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale in tutti i centri per l’identificazione e l’espulsione dei migranti irregolari (ora Cpr) e negli Hotspot. Il rapporto è il frutto di oltre un anno di lavoro di monitoraggio realizzato dal Garante dall’inizio della sua attività (marzo 2016) a oggi sulla privazione della libertà dei migranti, ma anche su quelle situazioni in cui de facto sussistono forti limitazioni alla libertà di movimento dei migranti come negli Hotspot. Sono stati visitati tutti i Cie (Brindisi, Roma - Ponte Galeria, Caltanissetta e Torino) e tutti gli Hotspot (Trapani, Lampedusa, Pozzallo e Taranto). In quest’ultimi le condizioni materiali e igieniche delle strutture visitate sono risultate nella maggior parte dei casi carenti e bisognose di interventi urgenti di risanamento, ristrutturazione e manutenzione anche per quanto riguarda gli arredi, le suppellettili e le relative forniture. In diverse strutture, inoltre, c’è carenza di attività comuni e luoghi di culto. Ciò va contro il regolamento unico dei Cie che prevede l’organizzazione di attività ricreative, sociali e religiose in spazi dedicati e la possibilità di avvalersi della collaborazione di soggetti esterni per la realizzazione di attività integrative, di tipo ricreativo. Durante le visite è stata rilevata una generale carenza del flusso informativo verso i cittadini stranieri trattenuti, sia per quanto riguarda la quantità delle informazioni, sia per quanto concerne l’effettiva comprensione delle comunicazioni date. La predisposizione di moduli informativi cartacei nelle principali lingue quali l’inglese, il francese, lo spagnolo e l’arabo (oltre all’italiano) non è garanzia sufficiente circa l’effettiva possibilità per il cittadino straniero di comprendere il contesto nel quale è inserito, anche in considerazione del notevole aumento del numero delle nazionalità e delle lingue parlate nell’ambito del fenomeno migratorio. Inoltre, sui cittadini trattenuti nei Cie sono pendenti procedure per le quali è necessaria una mediazione legale la cui comprensione tecnica è oltremodo resa difficoltosa dalla componente linguistica. Alcuni cittadini stranieri con i quali il Garante Nazionale ha avuto modo di intrattenersi per brevi colloqui nel corso delle visite effettuate, sono apparsi completamente all’oscuro sulla propria condizione personale e giuridica e sono risultati bisognosi di informazioni elementari circa le prospettive e l’evoluzione del loro trattenimento presso il Cie. Per quanto riguarda gli Hotspot, il Garante rileva una incerta disciplina giuridica essendo regolati, nello specifico, soltanto da un documento, le "procedure operative standard" (Sop), pubblicato dal ministero dell’Interno, finalizzato a illustrare le modalità di gestione delle procedure applicabili in questi luoghi. L’immigrato può uscire solo dopo essere stato foto- segnalato concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti. In teoria le persone dovrebbero essere trattenute per un massimo di due giorni, ma il Garante ha riscontrato che ciò non avviene e rimangono rinchiuse per diversi giorni. Inoltre, gli Hotspot sono spesso utilizzati come strutture promiscue accogliendo cittadini stranieri già identificati presso altri centri o, addirittura, rintracciati sul territorio e destinatari di provvedimenti di espulsione. Nel rapporto si denuncia che tali prassi, sebbene legate all’indubbia pressione migratoria a cui è sottoposta l’Italia, rischiano di creare zone d’ombra nella tutela dei diritti. Migranti. Commissione Ue: all’Italia nuovo stanziamento da 58 milioni di Paolo Gallori La Repubblica, 9 giugno 2017 Fondi serviranno per accoglienza, assistenza sanitaria, legale e materiale dei migranti. Avramopoulos: "Si fa concreta la possibilità di una procedura d’infrazione per chi si sottrae ai ricollocamenti". "La Commissione europea riconosce all’Italia la grande sensibilità dimostrata nell’affrontare il flusso migratorio nel Mediterraneo. Soprattutto nei momenti di grande pressione, quando c’era chi in Europa la accusava ingiustamente di non essere in grado di difendere le frontiere esterne dell’Unione. L’Italia sa che non è sola, sa che la Commissione europea la sostiene e le è vicina nella costruzione di un’infrastruttura in grado di gestire il fenomeno". Con queste parole Dimitris Avramopoulos, commissario europeo per l’Immigrazione, ha voluto far precedere l’annuncio in arrivo nella giornata di giovedì: un nuovo finanziamento a favore di Roma per 58,21 milioni di euro, con l’invito a spenderli da subito in accoglienza, assistenza sanitaria, legale e materiale dei migranti in questa nuova estate di arrivi. Soldi che, si sottolinea da Bruxelles, vanno ad aggiungersi ai 146 milioni già stanziati e ai 592 del fondo Amif (Asilo migrazione e integrazione) prefissati per il periodo 2014-2020. Sostegno economico, ma anche diplomatico. Avramopoulos ha voluto sottolineare quanto la Commissione europea sia al fianco di Roma nella difficilissima partita libica. Sostenendo l’accordo sottoscritto da Gentiloni con il premier di Tripoli Al Serray per investire nella formazione e nell’equipaggiamento della guardia costiera libica e nella creazione di centri di permanenza con cui arginare le partenze dal Paese nordafricano. Un Paese, la Libia, instabile e diviso, perché Tobruk e il generale Haftar non riconoscono in Al Serraj l’autorità, per quanto sponsorizzato dall’Onu. "Un mese e mezzo fa - ha ricordato Avramopoulos - eravamo anche noi a Roma, all’incontro tra le parti. Devono parlarsi. Purtroppo non c’era l’Egitto, che è in contatto con Haftar e deve giocare un ruolo importante nella pacificazione. Ma noi andiamo avanti, con l’Italia. Che è strategicamente importantissima per la stabilizzazione, oltre a essere molto rispettata nell’area. Inoltre - ha proseguito il commissario - siamo in contatto con i governi di Paesi subsahariani come la Nigeria, il Gambia, il Ghana, il Mali, per avviare investimenti che portino a una migliore gestione anche della frontiera a sud della Libia, attraverso la quale muovono i flussi verso il Mediterraneo". Il manifesto interesse della Commissione per la via italiana all’esternalizzazione del problema migranti era già particolarmente vivo nel Consiglio europeo. Che invece non ha mai esibito la stessa attenzione per la riforma del Trattato di Dublino sui richiedenti asilo nell’Unione europea, che come è noto lascia un grande fardello sulle spalle del primo Paese Ue in cui il rifugiato mette piede, che ne è responsabile, deve registrarlo, valutare la legittimità della sua richiesta d’asilo. Tra questi, ancora una volta, l’Italia. Il distacco esibito sin qui dal Consiglio Ue sul tema della riforma di Dublino è fonte di incertezza e inquietudine al Parlamento europeo, dove in Commissione Libertà, Giustizia e Affari interni (Libe) prosegue il negoziato tra i relatori ombra rappresentano i diversi gruppi politici per arrivare alla definizione del testo finale da sottoporre al voto dell’Assemblea. Testo che si vorrebbe ambiziosa base da cui affrontare il negoziato con il Consiglio, quindi con i governi degli Stati membri. Talmente ambiziosa da far intravedere la possibilità di superare le già significative modifiche apportate alla proposta di riforma avanzata dalla Commissione europea dalla relatrice per il Parlamento Ue, la liberale svedese Cecilia Wikstrom, arrivando a immaginare la cancellazione del principio del primo Paese a favore di un meccanismo che estenda a tutti gli Stati membri il dovere della solidarietà e la responsabilità di farsi carico, dal punto di vista burocratico come da quello esistenziale, dei richiedenti asilo. È il punto chiave della controproposta racchiusa negli emendamenti presentati dall’italiana Elly Schlein, relatrice ombra per il gruppo S&D (socialisti e democratici), che nello specifico passaggio trova anche il sostegno di Alessandra Mussolini in rappresentanza del Ppe. Se Schlein dice di nutrire fondate speranze di far passare la sua linea fino al voto del Parlamento europeo facendone la sua base negoziale, regna invece grande incertezza sulla effettiva volontà del Consiglio Ue di arrivare davvero a cambiare un trattato di Dublino "legale, ma ormai morto", usando le parole di Avramopoulos. Il Consiglio Ue si riunirà il 22 e 23 giugno, preceduto a Bruxelles da una conferenza sulla gestione dei migranti con interventi di alto profilo e personalità politiche dai Paesi interessati. Il presidente dell’europarlamento Antonio Tajani considera i lavori della conferenza come un mandato conferitogli per richiamare il Consiglio Ue a mantenere gli impegni sulla revisione del diritto d’asilo, confidando anche nella prossima presidenza Ue affidata all’Estonia, annunciata come ben più "attenta" dell’uscente maltese. E a proposito di impegni disattesi, ancora il commissario Avramopoulos, facendo riferimento al fallimento dell’accordo sul ricollocamento dei 160mila richiedenti asilo tra gli Stati membri promosso dalla Commissione Ue a seguito della grande emergenza di due anni fa, ha voluto lanciare un chiaro messaggio al gruppo di Visegrad, gli Stati membri dell’Europa Orientale. "All’Italia avevamo chiesto gli hotspot, a loro di farsi carico della loro quota di rifugiati. Si sono rifiutati, volevano rinegoziare, ma la Commissione è stata ferma. Sono impegni che vanno rispettati, per solidarietà e responsabilità. E se fino a due mesi fa l’apertura di una procedura d’infrazione a loro carico era solo un avvertimento, ora è una possibilità concreta. Per me la gestione dei richiedenti asilo è più importante dell’economia. Perché si va al cuore dei valori europei". Unhcr: "Previsti 200 mila migranti entro l’anno. Per l’Italia via in salita" di Mario Pierro Il Manifesto, 9 giugno 2017 Carlotta Sami (Unhcr): "Necessario l’aiuto degli altri paesi membri dell’Unione Europea". Il 20 giugno è la giornata mondiale del rifugiato. "Entro fine anno ci aspettiamo un numero di arrivi complessivi di circa 200 mila persone. A oggi sono stati già accolti 180 mila. Se non funzionerà effettivamente un supporto da parte di altri Paesi europei, per l’Italia si prospetta una via in salita". Carlotta Sami, portavoce dell’agenzia Onu per i Rifugiati per il Sud Europa, ha ricordato che l’Italia è sotto pressione per il numero di arrivi, cresciuti in media negli ultimi 3 anni del 20% l’anno. La cooperazione europea sull’accoglienza è fondamentale. Sami sostiene la necessità di "intervenire anche nei paesi di origine". L’Unhcr sta gestendo un piano d’azione in Libia e Niger. "Stiamo facendo tutto il possibile - sostiene Sami. In Libia stiamo incrementando le nostre attività e speriamo di entrare con più personale internazionale". I centri di detenzione libici"devono essere aperti e vanno migliorate le condizioni interne". Ci sono circa "300 mila sfollati libici che vivono in condizioni difficilissime e 40 mila rifugiati di cui si parla pochissimo. Di questi "20 mila sono siriani". Bisogna "lavorare nei punti di sbarco e nel Sud della Libia con centri di assistenza", ma "la sicurezza sul terreno va migliorata". Ieri al museo Maxxi di Roma Sami ha presentato la giornata mondiale del rifugiato prevista il prossimo 20 giugno e si è soffermata sulle ragioni delle migrazioni. "La violenza e il terrorismo sono proprio i due aspetti da cui fuggono i rifugiati perché hanno paura e cercano sicurezza - ha detto - sarebbe davvero paradossale imputare proprio a loro l’accusa di alimentare il terrorismo". "L’approvazione in Parlamento, prima della fine della legislatura, della legge sulla cittadinanza in base allo "ius soli" è uno dei tasselli più importanti per favorire l’integrazione - ha aggiunto - Ogni giorno, nelle scuole dei nostri bambini, vediamo e verifichiamo che quelli che i nostri figli considerano italiani come loro a tutti gli effetti non possiedono ancora dei documenti che lo attestano da un punto di vista amministrativo, con tutti i diritti e le tutele che ne conseguono". L’agenzia Onu per i rifugiati ha lanciato la campagna #WithRefugees per "mettere insieme chi scappa e chi accoglie". Il 18 giugno allo Stadio Tre Fontane di Roma, Unhcr organizza un’amichevole tra una squadra di stelle del calcio e dello spettacolo e la Liberi Nantes, una squadra di richiedenti asilo e rifugiati. Dal 16 al 29 giugno è previsto il Refugee Food Festival con quattro tappe, organizzate insieme a Eataly. Dal 20 al 25 Il Maxxi ospiterà un’installazione "S.O.S. - Save Our Souls" di Achilleas Souras, un progetto per recuperare i giubbotti di salvataggio usati da rifugiati e migranti durante le traversate del Mediterraneo e trasformarli in igloo-rifugio. Con la rete Sprar (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati), Arci, Caritas e Centro Astalli Unhcr promuove anche una giornata di "porte aperte nei centri di accoglienza". Migranti. "Dublino non vale di fronte alle grandi emergenze" di Carlo Lania Il Manifesto, 9 giugno 2017 Il parere dell’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Per ora si tratta solo di un parere, per quanto importante, ma se in futuro dovesse trasformarsi in una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue le conseguenze che ne deriverebbero potrebbero stravolgere le politiche europee sull’immigrazione, adottate anche dopo che, nel 2015, centinaia di migliaia di migranti cominciarono ad arrivare in Europa. Secondo infatti Eleanor Sharpston, avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Ue, di fronte a circostanze "assolutamente eccezionali" - come furono appunto quelle che si presentarono due anni e mezzo fa con l’arrivo in Grecia attraverso l’Egeo di un numero enorme di uomini, donne e bambini - non si deve applicare il regolamento di Dublino evitando così che sia il Paese di primo ingresso a farsi carico dei migranti e consentendo invece loro il transito verso lo Stato dell’Unione nel quale poi presentano richiesta di asilo. Se la Corte dovesse sposare l’interpretazione data dalla Sharpston alle regole comunitarie, uno dei capisaldi della politica europea sull’asilo verrebbe letteralmente rivoluzionato e con lui anche l’intero sistema adottato finora da Bruxelles per governare la crisi dei migranti. Una notizia di fronte alla quale Christopher Hein del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati, preferisce per il momento far prevalere la prudenza: "Sarà difficile che la Corte segua questa strada - dice - perché il dibattito in Europa su come comportarsi di fronte alle grandi emergenze non si è mai concluso. Certo se fosse così cambierebbe davvero tutto, specie per l’Italia". Il caso nasce dai ricorsi presentati alla Corte di Lussemburgo da Austria e Slovenia e riguardanti le richieste di protezione internazionale avanzate ai due paesi da un cittadino siriano, A. S., e da due famiglie afghane. Tutte persone che hanno raggiunto rispettivamente Lubiana e Vienna dopo aver attraversato Siria, Turchia e il mar Egeo e, percorrendo la rotta balcanica, dopo aver attraversato la Croazia. Nel ricorso alla Corte, Austria e Slovenia affermano - sulla base di quanto stabilito dal regolamento di Dublino III, di non essere loro a doversi occupare delle richieste d’asilo presentate dai profughi, visto che questi avrebbero varcato illegalmente i confini esterni dell’Ue. Tesi contrastata dall’avvocato generale della Corte di Giustizia. Nel chiedere il respingimento dei ricorsi, Sharpston sottolinea infatti come le regole di Dublino III non siano state pensate per fronteggiare emergenze come quella avuta nel 2015, ma soprattutto come siano stati proprio gli Stati membri a un certo punto della crisi, ad autorizzare i migranti ad attraversare i propri territori consentendogli così di raggiungere il Nord Europa. "Le parole ‘attraversamento clandestino’ di cui al regolamento Dublino III - ha sostenuto Sharpston - non sono applicabili a situazioni in cui, a seguito di un afflusso massiccio di cittadini da Paesi terzi che chiedono protezione internazionale all’interno dell’Unione europea, gli Stati membri consentano ai cittadini di Paesi terzi di attraversare la frontiera esterna dell’Unione europea per presentare una domanda di protezione internazionale in un determinato Stato membro". Se i giudici dovessero condividere il ragionamento dell’avvocato generale, questo non significherebbe certo che dal giorno successivo alla sentenza per i migranti si riaprirebbero le frontiere interne all’Europa Anzi, il rischio è proprio di vedere sorgere nuove barriere in aggiunta a quelle già esistenti, a partire proprio dai confini che l’Italia condivide con Francia, Svizzera e Austria (al Brennero Vienna ha già tutto pronto, deve solo montare la recinzione). Le conseguenze però ci sarebbero, e sarebbero importanti. Gli Stati membri infatti non potrebbero più appellarsi al regolamento di Dublino per respingere verso l’Italia quei migranti entrati neii loro territorio in passato. Anche per questi casi, infatti, a far testo sarebbe la sentenza, impossibile da ignorare per i vari tribunali visto che le decisioni della Corte di Giustizia dell’Ue diventano automaticamente legge per tutti gli Stati membri. Il primo paese a trarne vantaggio sarebbe proprio l’Italia che nel solo 2016, secondo i dati del ministero degli Interni, ha riammesso 23.165 migranti da Austria, Francia e Svizzera. Una pratica che adesso potrebbe avere i giorni contati. Ricerca Polizia-Sapienza: "Cyberbulli sedotti dal fascino della trasgressione" di Alberto Custodero La Repubblica, 9 giugno 2017 Come spiegare nelle scuole i rischi della Rete? Professoressa Giannini: "Casi reali per spiegare il virtuale. Abbiamo capito che gli adolescenti sono sensibili emotivamente alla sofferenza subita dalle vittime e al dramma dei guai passati dagli autori delle violenze online". "L’adolescente è vittima del paradosso del giovane navigatore: sa che alcuni comportamenti sono vietati. Ma li compie lo stesso sedotto dal fascino della trasgressione. Per fargli capire che sbaglia, bisogna metterlo davanti al fatto compiuto di storie vere: la sofferenza forte procurata alla vittima e il danno che subisce l’autore del comportamento trasgressivo". Il reale per spiegare il virtuale. La professoressa di Psicologia alla Sapienza, Anna Maria Giannini, ha coordinato una ricerca - in collaborazione con la Polizia Postale - sul cyberbullismo. L’innovazione dello studio dal titolo a tema "Quanto condividi" consiste nel fatto che per la prima volta psicologi ed esperti della sicurezza hanno voluto indagare insieme sui meccanismi che spingono gli adolescenti a comportamenti a rischio sul Web. Il kit di strumenti per gli educatori. Alla fine della ricerca è stato elaborato un toolkit (kit di strumenti) che illustra fenomeni allarmanti per gli adulti, purtroppo frequenti nell’esperienza dei ragazzi, come l’adescamento in rete nelle sue forme più attuali, il cyberbullismo (così come declinato nella nuova Legge n. 71 del 29 maggio 2017), i disturbi alimentari condivisi in rete, l’autolesionismo e il gioco online come nuove forme di dipendenza psicologica virtuale, con una formula aperta alle integrazioni e alle novità emergenti. "Per i ragazzi web terra di nessuno". Dalla Ricerca emerge che il web nell’immaginario dei ragazzi sembra ancora assomigliare ad una terra di nessuno, dove in 6 casi su 10 condividono immagini; in 2 casi su 10 diffondono video; in 6 casi su 10 scambiano messaggi e post. Si tratta di azioni così semplici da non essere da loro percepite come reati, considerate reversibili, legali e in grado di generare solo piccoli dolori alle vittime. Doppia dimensione: cognitiva e emotiva. "Abbiamo finalmente capito - spiega Giannini - che gli adolescenti vivono, se così si può dire, una doppia dimensione: una cognitiva, l’altra emotiva. A livello razionale sanno perfettamente, ad esempio, che pubblicare la foto della fidanzata in atteggiamenti intimi su Facebook per ripicca o vendetta o per una stupida bravata è un comportamento da non fare. A livello emotivo, tuttavia, prevale la spinta della trasgressione che li porta a pubblicare quella foto". La (errata) percezione del reato online. Dalla ricerca emerge una forte tendenza dei ragazzi a colpevolizzare la vittima quando questa corrisponde a richieste ("in fondo ha mandato lei le foto, ha condiviso lei i video"), la ritengono responsabile in prima persona del danno che subisce quando, diffondendo immagini personali, accetta implicitamente il rischio che siano viralizzate in rete. La vendetta per uno smacco virtuale è ammessa e non c’è molta comprensione per la sofferenza di chi viene umiliato, diffamato, deriso in rete. Con chi parla la vittima. Un altro importante risultato delle ricerca è il fatto che quando un adolescente si trova a vivere nei panni della vittima una esperienza di cyberbullismo prima si rivolge agli amici, poi ai genitori e solo in ultimo agli insegnanti. Questo è un dato che dovrebbe fare riflettere la scuola. Ecco come il cyberbullismo colpisce i ragazzi Il risultato/1: parlare alla parte emotiva. "Avendo capito questo - spiega ancora la docente - abbiamo pensato di trovare un modo per comunicare a quella parte emotiva degli adolescenti. Come? Presentando casi reali di bullismo spiegando la forte sofferenza della vittima che grazie a quei comportamenti ha avuto la vita distrutta. E contemporaneamente i guai a cui è andato incontro il bullo, anche lui con la vita rovinata da denunce, processi, richieste di danni, e fedina penale macchiata. Il risultato/1: "Strumenti nuovi agli insegnanti". Sono stati definiti contenuti di un toolkit per la formazione Safe Web: osservazione e azione per la protezione degli studenti in rete insieme alla Polizia di Stato. Si tratta di uno strumento pratico pensato per insegnanti, adulti determinanti nella vita dei ragazzi e vicini ai linguaggi dei giovani e che riassume la pluriennale esperienza di contatto diretto della Polizia Postale e delle Comunicazioni con vittime e autori di reati online, con le loro famiglie, con educatori e operatori della tutela dei minori. Il ruolo (negativo) dei genitori. "Una grande responsabilità del degenerare dei comportamenti in rete degli adolescenti è dei loro genitori - spiega Anna Maria Giannini - sono loro che in primis devono educare i figli a comportamenti corretti. In particolare non devono avere coi loro figli comportamenti oppositivi rispetto ai messaggi educativi della scuola. Se in classe gli insegnanti spiegano che pubblicare le foto in certe situazioni è vietato, madre e padre non devono a casa avere un atteggiamento ambiguo, magari dando l’esempio contrario. È come quel genitore che dice al figlio che le sigarette fanno male. E poi gli fuma davanti". Ma perché questa ricerca? Era un passo obbligato, spiegano gli autori, dopo l’entrata in vigore della legge su cyberbullismo che, per dirla con le parole del capo della Polizia Franco Gabrielli, "punta correttamente sulla formazione, sull’educazione e sul recupero prima ancora che sulla sanzione". Inoltre, s’era capito che presentarsi alle scuole facendo leva sulla componente ‘cognitiva dei ragazzi era inutile. Spiegare ai ragazzi "la legge vieta la pubblicazione delle foto..." è del tutto inutile. Come rivolgersi agli adolescenti? S’è voluto in sostanza trovare un nuovo linguaggio per comunicare con il mondo degli adolescenti, responsabilizzandoli fino a raccontare loro come il cyberbullismo si traduca nel reale in sofferenze e danni per vittima e autore. Osservatorio cyberbullismo I social preferiti dagli adolescenti. L’attrazione tra giovani e nuove tecnologie è oramai inarrestabile: secondo i dati della ricerca Sapienza-Polizia Postale, 9 ragazzi su 10 usano Instagram per comunicare tra loro, 6 su 10 hanno e usano giornalmente un profilo Facebook. È per stare insieme in rete, per socializzare e soddisfare la curiosità tipica dell’età che 6 ragazzi su 10 usano i social network, in contatto globale, 24 ore su 24, per 9 ragazzi su 10 sempre soprattutto attraverso gli smartphone. I cinque casi educativi di cyberbullismo. Sono stati selezionati cinque casi di reati on-line compiuti da minori tra quelli più significativi arrivati all’attenzione del Cncpo, Polizia Postale, i cui esiti sono stati ricostruiti dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità resi disponibili dal Dipartimento della giustizia minorile, che riguardano azioni compiute da minori autori di reato. Erika, una ragazza di 16 anni, ha una storia con Daniele. Viene a sapere che Daniele è uscito una sera con un’altra ragazza e questo le scatena una forte reazione di gelosia. Per verificare la fedeltà di Daniele, Erika apre quindi un falso profilo su Facebook dal quale comincia ad inviare minacce, insulti e molestie al fidanzato e a molti coetanei della stessa comitiva di amici. Alessia, una ragazza di 14 anni, si fotografa nuda e per gioco invia la foto a tre suoi amici, Giuseppe, Mattia e Riccardo di 16, 17, 18 anni rispettivamente. I tre amici poi diffondono la foto, prima su WhatsApp e poi, insieme ad altre ritraenti altre ragazze, viene pubblicata anche su blog studentesco gestito da una coetanea. Marco ha 15 anni ed è il fratello di una compagna di classe di Lucia, una ragazza di 13 anni. Cerca di conoscerla e dopo poco inizia a pressarla chiedendole di inviargli foto nude o video a contenuto erotico. Lucia accetta di inviargli un video in cui compie atti di autoerotismo a patto che lui, dopo averlo visionato, lo cancelli. Dopo un primo invio, Marco ricomincia a pressare Lucia per averne altri. In seguito alle pressioni la ragazza blocca il contatto di Marco su tutti i profili social e lui, per ripicca, diffonde il video che però arriva fino agli Insegnanti della Scuola di Lucia. Simone e Vincenzo, due ragazzi di 16 anni, sono protagonisti di un video girato con i loro telefonini mentre consensualmente e contemporaneamente hanno rapporti sessuali con le loro fidanzatine di 15 e 16 anni, Valeria e Rebecca. Mentre Simone non ha fatto vedere i video a nessuno ma li ha conservati nel cellulare per 4 mesi, Vincenzo li invia ad un solo amico, il quale li ha ulteriormente condivisi su WhatsApp. Fabio ed Edoardo, di 16 anni entrambi, sono considerati responsabili della distruzione della reputazione di Jessica attraverso la diffusione di un video a contenuto sessuale tra Jessica ed Edoardo girato consensualmente. Francesco di 16 anni e Ludovica di 17, intervengono in difesa di Jessica, insultando Fabio ed Edoardo, creando fotomontaggi dove si fanno pesanti allusioni sessuali ai loro danni, minacciandoli di morte e intimidendoli su Facebook. Lituania. Condanna dalla Cedu: divieto del "parole" per ergastolani viola i loro diritti liberties.eu, 9 giugno 2017 La Corte Europea dei Diritti Umani (Corte Edu) ha stabilito che l’attuale divieto di commutare un ergastolo in Lituania viola i diritti dei condannati. La Corte ha stabilito che i detenuti non dovrebbero essere privati del tutto della speranza che, un giorno, potrebbero dimostrare di essere cambiati in meglio e accedere alla liberazione condizionale. Nel caso Matiošaitis and others v. Lithuania, 8 ergastolani hanno presentato ricorso contro la Lituania per violazione dell’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani e degradanti). Parole non consentito - I ricorrenti, che stanno scontando condanne al carcere per vari crimini gravi, volevano dimostrare che lo stato non ha offerto loro alcuna opportunità di essere liberati prima o poi, neanche qualora il loro comportamento migliorasse e non rappresentassero più una minaccia per la società. L’Ordinamento Penitenziario lituano non consente agli ergastolani di essere liberati attraverso il parole. L’unico modo attraverso cui questi detenuti possono sperare di veder commutata la loro condanna ai sensi della legge attuale è attraverso la grazia del presidente. Nel valutare l’applicazione della grazia presidenziale, la Corte Europea dei Diritti Umani ha riscontrato che, nonostante la procedura sia chiara e inequivocabile, non è necessario presentare motivazioni specifiche per respingere la richiesta di un detenuto. I condannati restano all’oscuro di come dovrebbero cambiare per essere graziati. Inoltre, sulle decisioni sulla grazia presidenziale non si può presentare appello in tribunale. La grazia è un’eccezione, non la regola - La Corte Edu ha tenuto conto anche del fatto che la grazia presidenziale di fatto non è mai stata riconosciuta agli ergastolani. Se consideriamo le statistiche, su 35 condannati che presentano richiesta di grazia, solo uno la ottiene alla fine. Per questo, il tribunale ha riconosciuto che quanto affermato dai ricorrenti (in particolare, che il caso è esclusivamente un’eccezione) fosse ragionevole. In base alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, il diritto dei condannati di veder commutata la propria sentenza si traduce nella effettiva revisione di tutte le informazioni per valutare se la loro detenzione perpetua è giustificata su basi penalmente rilevanti. Inoltre, i condannati devono sapere cosa devono fare e come devono cambiare per essere valutati per una liberazione condizionale. Diritto di sperare - Secondo la corte, i detenuti non dovrebbero essere privati del tutto della speranza che, un giorno, potranno essere valutati per il percorso fatto e potrà essere dimostrato che sono cambiati in meglio. Condannarli a spendere il resto della loro vita in isolamento, senza alcuna speranza di dimostrare di essere cambiati, determina una condizione degradante per la loro dignità umana. La Corte Edu inoltre ha sottolineato che lo stato al momento non ha in programma una riforma di legge in questo ambito. Alla luce di tali circostanze, la corte ha unanimemente stabilito che la Lituania ha violato l’articolo 3 della Convenzione. L’Istituto di Monitoraggio sui Diritti Umani ha seguito il procedimento come parte terza in sostegno ai ricorrenti. Secondo Karolis Liutkevicius, l’avvocato che rappresenta l’Istituto sul caso, il modo più rapido per applicare la sentenza della Corte Edu sarebbe semplicemente quello di abolire il divieto di parole per gli ergastolani. Perù. Fare piena luce sulla morte di un italiano nelle carceri peruviane aise.it, 9 giugno 2017 Porta (Pd) interroga Alfano. "Nelle scorse settimane, in un carcere peruviano, è deceduto un cittadino italiano, G. B. di 68 anni. Aveva già scontato i due terzi della pena alla quale era stato condannato e pagato, secondo la normativa locale, la cauzione in denaro per la parte restante della detenzione. Aveva anche ottenuto dalla magistratura competente l’ordinanza di scarcerazione, necessaria per la sua liberazione e per l’espulsione dal Paese, già concordata". Così Fabio Porta, deputato Pd eletto in Sud America e Presidente del Comitato per gli italiani nel mondo della Camera, annuncia oggi di aver presentato un’interrogazione al Ministro Alfano per chiarire le circostanze e le responsabilità della scomparsa del connazionale in un carcere di Lima. L’italiano, spiega Porta, "attraversava un cattivo stato di salute che lo aveva indotto a richiedere il ricovero in ospedale per avere cure tempestive ed adeguate. Egli aveva manifestato questa sua richiesta ad un funzionario di un Patronato, suo fiduciario, il quale a sua volta aveva provveduto ad avvertire tempestivamente il Consolato. I nostri funzionari consolari, in contatto con le autorità carcerarie, avrebbero da queste ricevuto l’assicurazione di un imminente ricovero del recluso. In realtà, a distanza di due giorni dalla comunicazione, il nostro connazionale è stato accompagnato semplicemente al centro di cura interno al carcere e dimesso dopo la somministrazione di una semplice iniezione". "Il nostro connazionale - sottolinea il parlamentare - aveva pagato interamente il suo debito con la giustizia, aveva ormai la legge dalla sua parte e le risorse economiche, custodite dal suo fiduciario, per l’acquisto del biglietto di ritorno in Italia dopo essere stato scarcerato, cosa alla quale aveva diritto. La sua morte, dunque, avvenuta in circostanze così discutibili, non è giustificabile e merita attenzione e chiarezza. Ci sono in ballo, come è evidente, il rispetto dei diritti umani, l’osservanza delle normative locali non solo in termini repressivi ma anche di riconoscimento delle prerogative individuali, la correttezza dei rapporti tra le nostre autorità diplomatico-consolari e quelle peruviane". Per questo, Porta ha chiesto ad Alfano "un’attenta ricostruzione dei fatti e una rigorosa verifica delle responsabilità che sono alla base di questo evento, anche per avanzare alle autorità peruviane competenti, tramite la nostra rappresentanza diplomatica e consolare, una richiesta di più approfondito accertamento delle ragioni che hanno determinato il ritardo negli adempimenti di espulsione del nostro connazionale". "Credo sia giusto pervenire ad un quadro più chiaro di quanto è accaduto e dare alla famiglia e alle organizzazioni italiane in loco, che hanno seguito il caso, almeno il conforto della verità per un accadimento che - conclude Porta - probabilmente si sarebbe potuto evitare con una maggiore accortezza e tempestività da parte di chi aveva la responsabilità di intervenire". La tortura è di nuovo una norma nelle carceri turche di Stefano Colombo thesubmarine.it, 9 giugno 2017 Dal fallito colpo di stato dell’estate scorsa, il governo ha prorogato per tre volte lo stato di emergenza nazionale, rimuovendo alcune forme di tutela per i detenuti e spianando la strada alla ripresa delle pratiche di tortura. La Turchia sta tornando ad avere seri problemi con la tortura. È quanto emerge da un report pubblicato ieri dallo Stockholm Center for Freedom, un’associazione no-profit fondata da giornalisti turchi fuggiti dal proprio paese dopo la stretta dell’ultimo anno del regime di Erdogan. Secondo il report, il governo turco ha responsabilità dirette nell’escalation di violenza fisica e psicologica a cui si è assistito nell’ultimo anno all’interno delle carceri del paese. Come è noto, infatti, il presidente Erdogan sta gradualmente accentuando la deriva conservatrice del proprio regime, indulgendo a inclinazioni teocratiche, imbavagliando i media e schiacciando le opposizioni. Ironicamente, era stato lo stesso Erdogan a porre un freno alle pratiche di tortura e violenza gratuita nelle carceri, un problema particolarmente grave tra gli anni Ottanta e Novanta. Appena arrivato al potere, nel 2002, insieme al suo governo si era impegnato in una politica di "tolleranza zero" nei confronti degli abusi delle forze di polizia - una politica che aveva funzionato. Le cose sono cambiate negli ultimi anni - soprattutto dopo la scorsa estate, quando alcune frange dell’esercito hanno tentato di rovesciare Erdogan con colpo di stato. Da luglio 2016 il governo ha prorogato per tre volte lo stato di emergenza nazionale, rimuovendo alcune forme di tutela per i detenuti e spianando la strada alla ripresa delle pratiche di tortura, secondo il report di SCF. Inoltre, il governo ha reintegrato alcuni ufficiali di polizia già noti per i loro metodi di interrogatorio violenti. Da allora, ci sono state almeno 75 morti sospette nelle carceri turche, che le autorità hanno attribuito a cause naturali o suicidi ma che, secondo SCF, potrebbero essere vittime di tortura. Nel caso di alcuni tra questi supposti suicidi, i medici legali che hanno firmato i referti non hanno nemmeno avuto la possibilità o l’occasione di visionare il corpo del defunto. Oltre a questi casi estremi, va ricordato che in questi mesi la repressione governativa ha portato a centomila fermi o arresti di persone accusate di collusione con Fethullah Gulen, il capro espiatorio preferito da Erdogan, al momento rifugiato negli Stati Uniti in America - il mese scorso il presidente turco si è recato negli States e, tra le altre cose, ha cercato di farlo estradare, suscitando disordini da far west. Secondo il report, queste torture hanno soprattutto lo scopo di uniformare le testimonianze degli arrestati alla versione complottista della realtà proposta dal regime di Erdogan - in altre parole: ad estorcere false confessioni. Un membro delle forze di polizia, che ha per ovvi motivi preferito rimanere anonimo, ha riferito a SCF numerosi dettagli operativi: chi effettua l’interrogatorio parte già con uno schema o uno scenario, prima ancora di cominciare a effettuarlo. Se il soggetto devia da questa cornice, l’interrogatore inizia a mettere in campo metodi di pressione o di tortura per riportare tutto nello scenario. Se il soggetto inizia a fare dichiarazioni migliori di quanto ci si aspettasse, lo guida in quella direzione. Se non è soddisfatto di quanto il soggetto ha dichiarato, può accadere che la tortura non diventi più un modo per estorcere informazioni, ma una punizione. Spesso chi effettua fisicamente le torture è sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una grande novità, rispetto al passato in cui le torture erano effettuate in genere da forze di polizia laiche e nazionaliste, è lo sfondo religioso che Erdogan è riuscito a imprimere anche a questa brutta piega della storia contemporanea turca. Secondo il report di SCF, infatti, molti dei torturatori sono convinti di aver di fronte nemici dell’Islam e di non avere colpa per le loro azioni, in quanto giustificate da dio - e dallo stato. Un imam molto vicino a Erdogan e tenuto in grande considerazione dall’establishment turco, Hayrettin Karamak, ha scritto sul quotidiano di stampo islamista Yeni Safak che "un danno a una minoranza è giustificabile negli interessi dell’Ummah", legittimando di fatto la mano pesante governativa. Le tecniche di tortura messe in atto comprendono: pestaggi, violenza sessuale, getti d’acqua gelida, essere costretti per ore in posizioni dolorose, water-boarding, esecuzioni simulate. Nella maggior parte dei casi le torture sono svolte in modo professionale, stando attenti a non lasciare segni permanenti sul corpo delle vittime. SCF ha raccolto un piccolo campionario di testimonianze di chi ha dovuto subire la violenza governativa, che val la pena riportare direttamente. "Sono stato torturato e sottomesso al dipartimento di polizia di Kirikkale… Ogni volta ero bendato e non potevo vedere l’ufficiale che mi torturava… Mi hanno portato in bagno e strappato via tutti i vestiti, mi hanno lasciato completamente nudo… Mi hanno stuprato con un manganello… Mi hanno strizzato i testicoli e minacciato di darmi delle scosse elettriche. Al momento sono scapolo, ma se una volta sposato non potrò avere figli - che dio li possa maledire" (Recep Celebi). "Vorrei che mi avessero ucciso…mi vergogno di esistere. Voglio andare a farmi vedere da un medico perché mi fanno ancora male i testicoli. Hanno inserito un manganello nel mio ano. Ero costantemente picchiato… Hanno minacciato di fare a mia moglie quello che hanno fatto a me e di dare i miei figli al dipartimento di protezione minori… Urlavano insulti rozzi e parole feroci". (Hasan Kobalay). Turchia. L’affaire Brunson, il pastore Usa ostaggio di Erdogan di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 giugno 2017 È accusato senza prove di "terrorismo" e di aver pronunciato dei sermoni a favore dei curdi. ed è diventato una pedina politica di scambio tra Washington e Ankara. È una storia di ordinaria violazione e straordinaria mobilitazione quella di Andrew Brunson. Il pastore protestante di nazionalità americana è detenuto da più di sette mesi in Turchia con l’accusa di "partecipazione a organizzazione terroristica armata". Questa storia dagli intricati risvolti comincia lo scorso 9 ottobre 2016, quando Andrew e la sua compagna Norine vengono convocati dalla polizia di Izmir e trattenuti con l’accusa di proselitismo "contro la sicurezza nazionale". I due, originari della Carolina del Nord, vivono da oltre 23 in Turchia dove Andrew esercita la funzione di pastore per una piccola comunità protestante nella Chiesa della Resurrezione. I due hanno vissuto serenamente nel paese straniero allevando tre figli, da tempo erano in attesa di un permesso di soggiorno permanente. Se Norine è stata rilasciata pochi giorni dopo l’arresto, Andrew è rinchiuso in un centro anti terrorismo dallo scorso 11 dicembre: un giudice ha ordinato la sua incarcerazione invece dell’espulsione. Tra lo sgomento di amici e familiari, non è emerso sulla vicenda alcun chiarimento e come spiega l’avvocato difensore della famiglia Brunson, Cece Heil dell’American Centre of Law and Justice, "siamo ancora alle congetture". Dalle scarne informazioni che abbiamo, diffuse principalmente dalle organizzazioni americane che si occupano del caso, sappiamo che Brunson è accusato dal governo turco di affiliazione con l’Organizzazione del Terrore Gülenista (FETÖ), il gruppo di seguaci di Fethullah Gulen. L’imam di 76 anni, accusato formalmente di aver architettato lo sventato colpo di Stato contro il Presidente Erdogan il 15 luglio 2016, si trova in esilio dal 1999 negli Stati Uniti, in Pennsylvania. Nessuna prova resa pubblicamente tuttavia dimostrerebbe il legame tra i due, e le accuse si baserebbero su una testimonianza anonima secondo la quale Brunson avrebbe partecipato a una riunione di seguaci di Gulen. Secondo un’ulteriore versione, si sarebbe espresso a favore di cooperazione tra cristiani e "il movimento", mentre il procuratore che si occupa del caso lo accusa di aver pronunciato "dei sermoni speciali di solidarietà con i curdi". La debolezza delle prove a carico induce a credere che la vicenda sia alimentata da ragioni di ordine politico- religioso nell’ambito dei delicati equilibri internazionali tra Turchia e Stati Uniti. Fatta eccezione per la sua nazionalità, la condizione di Brunson rientra perfettamente nel clima persecutorio alimentato dal presunto fallito golpe di luglio e, più precisamente, nell’insieme di arresti - più di 50mila - ordinati dal regime. La maggior parte degli osservatori internazionali tuttavia tende a confutare l’implicazione di Gulen nel colpo di Stato, e ad oggi il governo americano si rifiuta di cedere alle insistenti richieste di estradizione del leader islamico da parte delle autorità turche. Ripercorrendo le vicissitudini diplomatiche tra Turchia e Stati Uniti nell’ultimo anno, emergono evidenti le tensioni tra i due paesi succedute ai fatti dello scorso luglio e risulta plausibile una giustificazione di tipo politico alla stessa detenzione ingiustificata di Andrew Brunson: il pastore sarebbe diventata una pedina nelle relazioni tra Washington e Ankara. Come riportava il New York Times nel settembre 2016, a fronte delle teorie cospirazioniste che individuano un coinvolgimento americano nel colpo di Stato - accusa rigettata a suo tempo dall’ amministrazione Obama - il Primo Ministro turco Numan Kurtulmus ne esclude la possibilità sottolineando al contempo la necessità da parte del sistema giudiziario americano di affrettare il processo di estradizione di Fethullah Gulen. Gli uffici giudiziari turchi avrebbero inviato a questo fine 80 scatole di fascicoli alla loro controparte americana a supporto delle accuse contro Gulen: "Non è una questione di tempo, è una questione di intenzioni. Vorremmo riconoscere una chiara intenzione da parte degli alleati americani nel supportare la democrazia in Turchia" ha insistito il Primo Ministro. Intanto alcuni avvocati di Brunson considerano la possibilità di una persecuzione religiosa a danno del loro assistito. Se pure si volesse considerare il pastore come un bersaglio "religioso" in un paese a maggioranza musulmana tuttavia, la detenzione protratta riguarda necessariamente le relazioni tra Turchia e Stati Uniti: Brunson diventa l’ostaggio di Gulen nei termini in cui il potenziale rilascio dell’uno avanza con l’estradizione dell’altro. Buona parte degli aggiornamenti sul caso sono resi pubblicamente attraverso una pagina Facebook creata dalla moglie di Brunson, Norine, che si è rivelata una straordinaria risorsa di mobilitazione. Lo scorso dicembre la donna in- forma che il marito non si trova in una condizione di pericolo, ma resta viva la preoccupazione per il suo isolamento "a causa delle differenze culturali, linguistiche e religiose con i suoi compagni di cella esclusivamente musulmani". Gli appelli e le preghiere lanciate attraverso la piattaforma social sembravano approdati a un certo ottimismo in occasione di un incontro tra i membri della famiglia Brunson e i rappresentanti di Washington lo scorso 24 aprile, alla vigilia della visita di Erdogan negli Stati Uniti: "Che la luce e la verità, il diritto e la giustizia trionfino infine. Preghiamo il Signore per una liberazione nel mese di maggio", scriveva Norine. Malgrado le numerose "conversazioni amichevoli" tra Trump e Erdogan, il Presidente americano non sembrerebbe aver fatto pressioni per il rilascio di Andrew, sulla cui vicenda giudiziaria non si sono prodotti progressi concreti: le discussioni tra i due Presidenti ruotano evidentemente sulla questione curda e lo "sforzo di cooperazione" tra i due governi si riduce "a un impegno contro i gruppi che usano il terrorismo per giungere ai propri fini". Non molto prima della visita di Erdogan, alla fine di marzo 2017, il segretario di Stato Rex Tillerson si era recato in Turchia per incontrare dei rappresentanti del governo e la stessa Norine Brunson. Non è chiaro se Tillerson abbia discusso effettivamente del caso, ma la sua visita aveva favorito quantomeno l’incontro di Andrew con l’ambasciata americana, al quale era subito seguito un appello al Presidente Trump: "Chiedo al mio governo, all’amministrazione Trump, di battersi per me. Fate sapere al governo turco che non coopererete con loro su alcuna questione finché non mi avranno liberato. Non mi lasciate qui, in prigione".