I volontari a Rebibbia pensando a De André. Domani la decima assemblea della Cnvg di Valentina Stella Il Dubbio, 8 giugno 2017 "Volontariato in direzione ostinata e contraria" è il titolo della X Assemblea Nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cnvg) che si svolgerà domani nella Sala Teatro del carcere romano di Rebibbia. Un titolo ispirato da una frase di una canzone di De Andrè. "Non potevamo trovare un titolo più azzeccato, perché quello che pensiamo dovrebbe essere il carcere, compreso l’accettare che le persone cambiano, non è per niente scontato", Così commenta al Dubbio Ornella Favero, presidente della Cnvg. "Negli ultimi tempi sembrava che si stesse creando un’apertura verso il carcere, invece oggi stiamo assistendo a un vero e proprio ritorno al passato, nella società esterna ma anche all’interno delle stesse carceri", aggiunge Favero, che però dice di intravedere una nota positiva tra le nuove generazioni. "Con il progetto "A scuola di libertà" sperimentiamo un confronto quotidiano con gli studenti dice la presidente della Cnvg che ci fa ben sperare, perché sembra stia crescendo una generazione più aperta al dialogo, anche su un tema così complesso come può essere quello della pena, e soprattutto più disposta a cambiare idea se informata correttamente". L’assemblea, fanno sapere gli organizzatori, sarà l’occasione per fare il punto sullo stato delle carceri italiane, ma anche per conoscere i protagonisti dei progetti che coinvolgono le persone detenute o che hanno problemi con la giustizia, per scoprire le dinamiche più pervasive dell’essere volontari in carcere, per ascoltare le testimonianze dirette delle famiglie di autori e vittime di reato. Si esploreranno i meccanismi della devianza e della criminalità, ma anche della rieducazione e del cambiamento, grazie a Ivo Lizzola, professore di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e della devianza dell’Università degli studi di Bergamo, e Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia all’Università Bicocca. Si capirà cosa vuol dire sperimentarsi a teatro con Claudio Montagna, che dirige un laboratorio teatrale permanente nel carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino, e si conoscerà l’entusiasmo della squadra di "Atletico Diritti", fatta di persone immigrate, detenute, ex detenute e studenti con base a Roma. Nel corso dell’Assemblea verrà anche firmato un importante protocollo tra la Cnvg e il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità. A presiedere i lavori, insieme alla Favero, la direttrice del Nuovo Complesso di Rebibbia Rosella Santoro. Sono stati inviati il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e Mauro Palma, Garante nazionale persone private della libertà personale. Cosa si chiede a noi volontari, di tirare i remi in barca e mettersi a riposo? di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2017 Cara Ornella, cara Redazione, vi scrivo soprattutto per indignazione, perché non capisco il senso. Due persone della redazione di Ristretti Orizzonti hanno infranto le regole del carcere; sono stati "pizzicati" come scrive il collega del Gazzettino con hashish e telefonino. Pagheranno, stanno già pagando; uno è stato trasferito nella Casa di Reclusione di Parma che - come tu ben sai - non è certo un paradiso e l’altro non so. Hanno interrotto il loro percorso insieme a voi, hanno buttato a mare l’ennesima occasione, sono sprofondati nuovamente in quel carcere duro da cui volevano emanciparsi. Possiamo dire che, ad oggi, sono caduti. Non sono i primi e non saranno gli ultimi. Lo sappiamo molto bene, noi che lavoriamo accanto agli esseri umani, in un ambito così complesso e, per certi versi, imprevedibile. Ma questo cosa significa? Che bisogna rinunciare a lavorare, a costruire, a tentare di riparare quello che i contesti di provenienza, i casi della vita e le scelte sciagurate hanno corrotto, guastato, indebolito? Questo si chiede a Ristretti Orizzonti? Di lasciar stare, di fermarsi di non osare più? Questo si chiede a noi volontari? Di tirare i remi in barca e mettersi a riposo? Per quale motivo? Perché alcune persone non ce la fanno, perché ricadono ancora una volta, quando proprio non ce l’aspettiamo. Quando, forse, non se l’aspettano nemmeno loro. Ma se così fosse, se a ogni insuccesso si dovesse battere in ritirata, mezzo mondo si dovrebbe fermare; i cittadini dovrebbero fuggire da una politica scorretta, i professori dovrebbero bloccarsi di fronte a genitori irresponsabili e a studenti recalcitranti e noi tutti dovremmo diffidare l’istituzione penitenziaria che non riesce ad abbassare la recidiva sotto il 70%. Credo che l’atteggiamento giusto di fronte agli insuccessi sia proprio quello che tu stessa hai sempre adottato; la scelta, cioè, di non occultare, di portare alla luce, di analizzare senza remore o paraocchi. E poi di ripartire. Con coraggio e determinazione. Con senso critico ed esercizio di onestà. Nessuno di noi ha mai pensato di avere il patentino di guaritore, nessuno ha millantato resurrezioni miracolose. Ci impegniamo per il tempo che possiamo, con serietà, competenza e consapevolezza, molto spesso - se non sempre - a titolo gratuito per offrire strade alternative e pensieri nuovi a chi è sprofondato. Consapevoli dei nostri limiti e dei limiti delle persone che incontriamo. Tutto qui. La scelta del disimpegno, della sfiducia mi sembra il frutto di un pensiero debole. Con stima. *Direttore di "Sosta Forzata" a Piacenza e collaboratore di "Ristretti Orizzonti" a Parma La sospensione condizionale della pena non è impunità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2017 È un istituto giuridico per reati commessi per la prima volta e con condanne entro i due anni. È il caso di Serif Seferovic, sospettato della morte delle tre sorelle rom a Roma, in libertà, perché incensurato, dopo una condanna a due anni per uno scippo. "Resta impunito chi compie rapine e furti per la prima volta". Ci risiamo. Ancora una volta un articolo di Repubblica mette sotto accusa il sistema giudiziario sulla presunta inapplicabilità della "certezza della pena". Sotto la lente è la vicenda del bosniaco, Serif Seferovic, fermato nei giorni scorsi perché sospettato di aver bruciato il camper all’interno del parcheggio del centro commerciale romano Primavera, a Centocelle, provocando la morte di due bimbe e una ventenne rom. Perché viene citato lui? Lo scorso febbraio era stato condannato a due anni per lo scippo (erano in tre) della studentessa cinese Yao Zhang, conclusasi in tragedia: morì travolta da un treno regionale diretto alla stazione Termini mentre inseguiva i suoi rapitori. Qual è la gravità della vicenda secondo l’autore dell’articolo? Il ragazzo bosniaco ha fatto pochi giorni di carcere, perché, essendo un incensurato, era stato liberato con la condizionale. Parliamo di lassismo, buonismo, impunità? No, la sospensione condizionale della pena è un istituto giuridico di grande importanza soprattutto nei confronti di coloro che per la prima volta affrontano in qualità di imputati le aule di giustizia per reati non eccessivamente gravi, e rappresenta una grande opportunità per la limitazione degli effetti negativi del processo penale. Parliamo, in sintesi, di un beneficio con il quale il giudice nel pronunciare una condanna non superiore ai due anni di reclusione (2 anni e sei mesi per chi non ha compiuto 21 anni), sospende l’esecuzione della pena principale per un determinato periodo, a condizione che il condannato non commetta reati nei cinque anni successivi (tre anni per le contravvenzioni). In questo caso, il reato si estingue e cessa l’esecuzione delle pene accessorie. Quindi se egli si macchia di un altro reato, a determinate condizioni, sconterà sia la vecchia pena sospesa sia quella inflitta per il secondo fatto illecito. Lo scopo è duplice e ha una funzione ben precisa: si preservano persone che non hanno una carriera criminale alle spalle, dall’ambiente traumatizzante del carcere soprattutto quando il reo si potrebbe ravvedere e astenere da futuri crimini. In realtà non ha nulla a che vedere con l’impunità: c’è una sospensione (che può essere revocata in qualsiasi momento) e ciò vuol dire che all’incensurato viene concessa - per reati non gravi - una seconda possibilità. Non è il fallimento di un intero sistema - come scrive Repubblica - ma uno strumento giuridico dal carattere disincentivante (alla commissione di ulteriori reati) che, durante la sua pendenza, costituisce quasi una sorta di monito, di avvertimento, per il condannato. In generale, la sospensione della pena è una misura coerente con quella gamma di benefici previsti dall’ordinamento penitenziario che tendono a ridimensionare una cultura carcero-centrica. Invece, di nuovo, l’articolo di Repubblica parla di contrasto tra misure alternative e la certezza della pena. In realtà, come già scritto su Il Dubbio - e ribadito dall’ultima relazione annuale di Antigone - le misure alternative sono appunto un’alternativa al carcere, una diversa maniera di scontare una determinata pena che funziona più del carcere. Si legge, infatti, nel rapporto di Antigone che in uno studio effettuato nel 2007 dal direttore dell’osservatorio delle misure alternative del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, emerse che la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere era del 68,45%, mentre nel caso di coloro che scontano una pena alternativa la percentuale scendeva al 19%. Ciò vuol dire che solo una piccola parte dei detenuti che scontano una pena alternativa, torna nuovamente a delinquere. Sicuramente, prendere casi di cronaca che riguardano quella piccola percentuale, non aiuta a comprendere l’effetto reale di queste misure. Si crea, insomma, una percezione del tutto errata. Giustizia. Rita Bernardini: "la separazione delle carriere è una legge sacrosanta" di Danilo Loria trettoweb.com, 8 giugno 2017 "Riteniamo che questa sia una proposta di legge sacrosanta. Come partito radicale abbiamo iniziato da tantissimi anni a fare questa campagna e abbiamo raccolto le firme per un referendum che è stato votato nel 2000 e che non vincemmo solo perché’ all’epoca Berlusconi invitò tutti ad andare al mare perché’ disse che le avrebbe fatte lui quelle riforme". Lo ha detto Rita Bernardini, coordinatrice alla presidenza del Partito Radicale, a Taranto per promuovere la raccolta firme sulla separazione delle carriere dei magistrati e per sostenere la candidatura a sindaco di Massimo Brandimarte, ex presidente del Tribunale di sorveglianza. "In Italia - ha aggiunto Bernardini - non rispettiamo l’art. 111 della Costituzione che dice espressamente che il giudice deve essere terzo tra accusa e difesa. Quindi è la nostra battaglia storica come partito radicale. Siamo veramente contenti che l’Unione delle Camere penali l’abbia ripresa come iniziativa di legge popolare e la siamo sostenendo. Io e Sergio D’Elia domani saremo in Calabria per una carovana della giustizia per raccogliere queste firme anche lì. Ci sono province della Puglia - ha concluso Bernardini - che stanno andando fortissimo, come Brindisi, dove sono state raccolte piu’ di 1500 firme". Manconi (Pd): "sul caso Riina tanto conformismo bigotto" di Carmine Gazzanni La Notizia, 8 giugno 2017 Il vero problema è il carcere duro, che è illegale. La morte dignitosa? Un diritto fondamentale. Il caso scoppiato dopo la sentenza della Cassazione su Totò Riina ha inevitabilmente creato polemiche sull’eventuale scarcerazione del Capo dei Capi, nonostante in realtà i magistrati "abbiano semplicemente sottolineato che vanno meglio motivate le motivazioni del tribunale di sorveglianza di Bologna, perché sono state ritenute in alcuni punti "carenti" e "contraddittorie". La vicenda d’attualità, però, ha riaperto uno degli argomenti più dibattuti del panorama carcerario, quello relativo al 41-bis, erroneamente definito "carcere duro", perché, come ci dice il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare per la tutela e promozione dei diritti umani, "il 41-bis ha uno scopo e uno scopo solo. Ed è quello previsto dalla legge, ovvero esclusivamente interrompere le relazioni tra detenuto e associazione criminale esterna. Questo è il motivo per cui non si può definire il 41-bis carcere duro". Eppure è un errore frequente quello di identificare il 41-bis col carcere duro… Le spiego: se noi mettessimo un detenuto nelle condizioni più munifiche, dotato di ogni confort e assistenza, ma totalmente isolato dall’esterno, ecco quella sarebbe una perfetta applicazione del 41-bis. Oggi in Italia non è evidentemente così. Questa è la ragione per cui avete realizzato un dossier in cui si illustrano tutta una serie di violazioni nel 41-bis e si elencano ben 15 raccomandazioni. Noi diciamo: i criteri di condizioni, limiti, impedimenti del detenuto sono funzionali a garantire il totale isolamento tra il detenuto stesso e associazione criminale esterna, oppure rispondono ad altre finalità? E abbiamo elencato tutta una serie di provvedimenti che non sembrano rispondere a un bisogno di sicurezza ma rispondere a una esigenza di maggiore afflizione, cosa non prevista dalla legge. E dal momento che non è prevista, è illegale. Dopo la pubblicazione del rapporto ci sono state novità? Era previsto esattamente oggi l’audizione di Santi Consolo (direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ndr) in Commissione, ma è stata rinviata per via delle prossimi elezioni amministrative. Consolo verrà a confrontarsi col nostro rapporto: è stato lui il primo a segnalarmi la sua disponibilità in merito anche alle raccomandazioni. Insomma, se ci fosse un "vero" 41-bis, il problema non si porrebbe su Riina: resterebbe in carcere ma con tutta l’assistenza del caso. Eventualmente sì. Che idea si è fatto della sentenza su Riina? Il diritto ad una morte dignitosa a mio avviso rientra tra i diritti fondamentali della persona. Ecco perché, se i giudici dovessero valutare che per rispettare questo diritto fondamentale è meglio che Riina esca dal carcere, a mio avviso è giusto che esca dal carcere. Tutto il resto è conformismo bacchettone e bigotto. Tutto il resto, per meglio dire, è servilismo verso gli umori più avvelenati dell’opinione pubblica; è spirito gregario, ecco. Caso Riina. Non può uscire di cella perché è il capo della mafia di Rosanna Scopelliti* Il Dubbio, 8 giugno 2017 Su Riina la questione è molto semplice: se la Cassazione ha chiesto di motivare meglio una sentenza, che il Tribunale motivi meglio. Non credo avrà difficoltà a dimostrare che una persona che solo poco tempo fa minacciava dal carcere Don Ciotti è ancora un pericolo pubblico. Punto. Non ci dovrebbe essere nient’altro da dire. Se intervengo è perché mi sembra che la discussione stia prendendo una china sbagliata. Da una parte chi si appella alla cultura giuridica di Beccaria e dall’altra chi ricorda l’elenco delle vittime di Riina che non hanno potuto avere "una morte dignitosa". A mio avviso entrambi gli approcci rischiano di portarci fuori strada. Mi spiego. La dignità, in particolare la dignità nel momento della malattia e della morte, è qualcosa che lo Stato deve garantire a ogni essere umano: questo non è in discussione. E bene ha fatto il Procuratore Antimafia e Antiterrorismo Roberti a ribadire che essa deve essere garantita a tutti coloro che sono ristretti in carcere, nonché a ricordare a scanso di equivoci che è quotidianamente garantita anche al detenuto Riina. Se il Signor Riina Salvatore è malato e i medici dicono che ha bisogno di cure particolari che le abbia. In carcere o in un ospedale appositamente attrezzato per ospitare detenuti così pericolosi. È stato fatto per Provenzano, per Liggio e tanti altri: sono morti in carcere assistiti da personale medico, mica abbandonati in una cella tra atroci sofferenze e nell’indifferenza generale... Quello che in pochi hanno sottolineato (tra questi voglio ricordare il Procuratore Gratteri, che è stato come sempre chiaro e didascalico) è che il detenuto Riina Salvatore non è un detenuto come gli altri. E non (solo) perché si è macchiato dei più atroci ed efferati delitti, non per un male inteso senso di rivalsa o di vendetta. Non mi interessa quando e come muore Riina: gli auguro solo di trovare la forza per chiedere perdono a Dio per la sua vita ignobile e per la sofferenza che ha dato a molte famiglie. E non potete immaginare quanto costi a me - cresciuta senza un padre per decisione di quell’essere spregevole - scrivere queste parole. Non facciamo gli ipocriti, ci dice Gratteri. Non facciamo gli ipocriti: Riina non è un detenuto come gli altri. Comprendo chi ha fatto propria una cultura garantista e ci richiama al rispetto della dignità umana. Sottoscrivo che lo Stato non deve mai mettersi al livello dell’anti-Stato e quindi custodire quella pietas che la "montagna di merda" che è la Mafia non ha e non può avere. Ma Riina Salvatore non è un detenuto come gli altri, è un Capo. Mai si è pentito, mai ha collaborato. Rimandare Riina a Corleone non sarebbe un gesto di pietà, ma un suicidio. Un suicidio dello Stato. Il 41bis serve a isolare i Capi da chi è pronto ad ammazzare per loro: come possiamo garantire a Don Ciotti e a chi come lui combatte ogni giorno la mafia che non sarà dato ordine di ucciderlo? E infine la cosa più importante. Riina che entra a Corleone - anche se "solo" per morire - sarebbe di per sé un gesto evocativo e simbolico senza precedenti; dalla sub- cultura mafiosa sarebbe letto come un simbolo di un potere immutato e immutabile: a me è riuscito quello che non è riuscito a Liggio e Provenzano. Anche loro erano malati, ma per me lo Stato ha fatto un’eccezione. Io sono il Capo dei Capi e lo Stato lo conferma lasciandomi andare. Avete presente quanto danno ha fatto il baciamano di San Luca alla battaglia quotidiana per diffondere una cultura della legalità tra i giovani delle zone controllate dalle mafie? Quale segnale di controllo del territorio abbia rappresentato? Immaginate quanto danno potrebbe fare Totò ‘u curtu che torna a casa a morire "circondato dall’affetto dei suoi cari". La Cassazione ha chiesto al Tribunale di precisare meglio perché Riina deve restare in carcere? E allora lo si scriva con parole semplici: non può uscire di prigione perché è un capo della mafia. E i capi della mafia muoiono in carcere, è questa la fine che devono fare. Sarà curato e morirà dignitosamente. In carcere. Lo Stato non deve abdicare al suo ruolo, si dice. Giusto. E tra i suoi ruoli c’è anche quello di fare giustizia e avere rispetto per chi è morto per difenderlo da gente come Riina Salvatore. *Parlamentare di Ap Caso Riina. Farlo uscire, una lezione di rara civiltà di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 giugno 2017 Capisco benissimo tutte le argomentazioni contenute nell’articolo di Rosanna Scopelliti che pubblichiamo qui sopra. È un articolo argomentato, pacato, serio, nel quale non si legge odio ma serena richiesta di giustizia. L’onorevole Scopelliti ha tutte le ragioni anche personali per avanzare questa richiesta. Era una ragazzina che andava alle elementari, e stava godendosi le vacanze, il 9 agosto del 1991. Come tante altre bambine della sua età. Quando due uomini della ‘ ndrangheta, a bordo di una motocicletta, spararono coi fucili contro la macchina che suo padre stava guidando per tornare a casa dal mare, in un paesino vicino a Reggio Calabria. Fu ucciso sul colpo. Era un magistrato di grande livello, aveva fatto una carriera straordinaria, grandi processi, anche grandi successi, e sosteneva l’accusa, in Cassazione, al maxiprocesso contro la mafia. Sembra che furono proprio gli uomini di Riina a commissariare ai calabresi l’omicidio. Proprio ieri Totò Riina ha partecipato come imputato a una udienza dell’ennesimo processo per la strage sul treno di natale. Un delitto, pauroso, del 1984. Sedici morti. Per il quale il Pubblico ministero Antonino Scopelliti, appunto, il papà di Rosanna, chiese e ottenne l’ergastolo in primo grado. Tutte storie di mafia e di giudici che s’intrecciano e che hanno un punto fermo: la posizione criminale e assassina di Totò Riina, successore di Luciano Liggio alla guida di Cosa Nostra, capo indiscusso dei corleonesi e per anni capo dei capi della piovra. Da 24 anni in carcere, al carcere duro, al quarantuno bis. Rosaria Scopelliti non chiede vendette. Chiede soltanto che sconti uno dei 18 ergastoli ai quali è stato condannato. Si può dargli torto? Si, con grande affetto e rispetto, e sentendo anche l’emozione che c’è dentro il suo ragionamento, si può. Per farlo bisogna astrarsi dal nome di Riina e ragionare sulla sentenza della cassazione. Cosa dice? In sostanza mette in discussione l’ergastolo. Sostiene che vivere la parte terminale della propria vita in carcere, in condizioni fisiche e sanitarie compromesse e di grande sofferenza, è incompatibile con i diritti dell’uomo e con lo spirito e la lettera (articolo 27) della Costituzione. Non sostiene che per l’imputato in questione (appunto: tralascio il nome) ci sia necessariamente un pericolo di vita. Non è questo il problema che solleva, e quindi non è sensato rispondere "si curi in carcere". Sostiene che se le condizioni di salute sono incompatibili con una vita dignitosa - e chiede al tribunale di sorveglianza di accertare se è così - il detenuto ha diritto a scontare la pena ai domiciliari. Ma, giustamente, l’on. Scopelliti, pone una seconda questione. Che è questa: Riina è Riina, e cioè un detenuto del tutto speciale non per la sua spietatezza e basta, ma perché è il capo della mafia, può tornare a dirigerla, e comunque la sua scarcerazione avrebbe un valore simbolico e sarebbe un segnale di resa dello Stato. Sul primo punto (è ancora il capo della mafia?) credo che non spetti a noi decidere. Spetta alla magistratura che si occupa del caso. La Cassazione ha chiesto al tribunale di sorveglianza di accertarlo e spiegarlo. Personalmente ho forti dubbi - ma non pretendo che nessun oli condivida - sul fatto che Riina sia ancora in grado di dirigere la mafia. Sul secondo punto mi permetto di dissentire. Io credo che uno stato che dimostri di saper rispettare i proprio più sacri principi di civiltà - cristiana e illuminista - proprio con il più feroce dei suoi nemici, consegna alla mafia, e al popolo, un messaggio di grandiosa forza, di fermezza, e non di debolezza. Io non credo, onorevole Scopelliti, che sia possibile battere la mafia, e schiantare la cultura di sottomissione alla quale lei si riferisce, se si accetta di battersi sul terreno che loro decidono. Riina è un simbolo? No: è un simbolo per loro, non per noi. Per noi - noi stato, noi civiltà, noi Diritto - è un cittadino colpevole e basta. Lo stato è in grado di trattarlo dall’alto della sua autorevolezza, della sua umanità e anche della sua magnanimità. Piscitello (Dap): Totò Riina non è in carcere, ma ricoverato in clinica già da 20 mesi blitzquotidiano.it, 8 giugno 2017 Totò Riina già non è in carcere, è curato in clinica da 20 mesi. Manca quindi un pezzo fondamentale al dibattito sulla scarcerazione per motivi umanitari di Totò Riina, la cosiddetta "morte dignitosa" evocata dalla Corte di Cassazione: il boss di Cosa Nostra, l’ex capo dei capi, non è detenuto in cella ma già da quasi due anni, proprio per le sue cattive condizioni di salute, è curato in clinica. Quindi di che, di cosa in concreto si sta parlando? In concreto di nulla. "Riina dal novembre del 2015 non è più detenuto in un reparto carcerario, in una struttura penitenziaria propriamente detta. Proprio a cagione delle sue condizioni di salute Riina è ristretto in un’area protetta dell’ospedale di Parma", ha spiegato Roberto Piscitello, Direttore Generale della direzione detenuti e trattamento del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Conferma lo stesso avvocato del boss Luca Cianferoni: "Riina è sottoposto al 41 bis ma non è in carcere. Non ci può stare in carcere perché il carcere non può tenere un detenuto come Riina. Riina sta terminando i suoi giorni ed è curato dai medici. Mi viene da dire che sono certo che una struttura più adeguata gli allungherebbe di un po’ la vita". La polemica era nata proprio per la sentenza della Cassazione che chiedeva al tribunale di Bologna di verificare nuovamente le condizioni di Riina in vista di un eventuale trattamento più adeguato. La Cassazione - come pure qualcuno ha finto di capire - non ha mai autorizzato né ordinato la scarcerazione del boss o la fine del regime del 41 bis. Si è limitata a ribadire un principio giuridico valido per tutti, anche per il più incallito dei criminali. Totò Riina è ricoverato all’ospedale di Parma, ma in condizioni simili a quelle del carcere ilpost.it, 8 giugno 2017 Da un anno e mezzo sconta il 41bis all’ospedale di Parma per i suoi problemi di salute. Da lunedì in Italia si parla molto della sentenza della Corte di Cassazione sulla detenzione di Salvatore "Totò" Riina, capo dell’organizzazione mafiosa "Cosa nostra" tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, condannato a diversi ergastoli per omicidi e stragi, compresa quella in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, nel 1992. Riina, che fu arrestato nel 1993 dopo una lunga latitanza, ha 86 anni ed è molto malato: ha gravi problemi cardiaci, renali e soffre di parkinsonismo vascolare. Attualmente Riina è ospitato presso la clinica universitaria di Parma, la città nel cui carcere sta scontando la pena: la sentenza della Cassazione si riferisce a una decisione del 2016 del tribunale di sorveglianza di Bologna, che decide sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate dai condannati. Il tribunale aveva negato il differimento della pena per Riina (cioè la sua sospensione o la sua trasformazione in arresti domiciliari) richiesto dal suo avvocato per gravi problemi di salute. Il tribunale di sorveglianza aveva quindi stabilito la compatibilità delle condizioni di salute di Riina con il regime carcerario a cui è sottoposto: la Cassazione ha però annullato la sentenza di Bologna, perché le sue motivazioni sono "carenti" e "contraddittorie" in alcuni punti. La Cassazione ha quindi deciso semplicemente che deve essere emessa una nuova sentenza, con motivazioni diverse. Riina, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha cambiato diverse volte carcere: prima era all’Asinara, in Sardegna, poi è stato ad Ascoli Piceno e dal 2013 è a Parma. È sottoposto - come la maggior parte dei boss mafiosi - al 41 bis, il regime di carcere duro inserito nell’ordinamento penitenziario italiano nel 1975, e che dagli anni Novanta è stato applicato soprattutto ai condannati per mafia (ma che può anche essere deciso per reati di terrorismo). In tutto, le persone che stanno scontando la propria pena con il regime di carcere duro in Italia sono oltre 700. La principale caratteristica del 41 bis è l’isolamento, che può essere di livelli diversi: nei casi più gravi, prevede che il condannato non interagisca con gli altri detenuti durante le cosiddette "ore d’aria", e che abbia un numero molto limitato di telefonate e di incontri con i familiari e gli avvocati, uno o due al mese. La cella di chi è condannato al 41 bis è singola, costantemente sorvegliata e i contatti con gli agenti penitenziari sono ridotti al minimo. È proibito tenere moltissimi tipi di oggetti personali, che devono essere approvati con procedure lente e macchinose. Il 41 bis non può essere assegnato senza limiti temporali ai detenuti, ma deve essere periodicamente rinnovato: questo perché è una misura legata alla pericolosità del detenuto, e non alla gravità dei suoi crimini. I rischi legati alle sue interazioni con le altre persone devono quindi essere valutati regolarmente, per verificare se sia necessario il carcere duro. Molte organizzazioni che si occupano dei diritti dei carcerati si oppongono al 41 bis, o almeno ad alcune sue applicazioni, sostenendo che violi i diritti umani. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata invocata in diverse occasioni, perché si esprimesse su questo tipo di pena. Per ora ha sempre stabilito la legalità del 41 bis, nonostante abbia dato precise raccomandazioni riguardo alla sua applicazione. Il 41 bis di Riina fu in parte "ammorbidito" nel 2001, quando era ad Ascoli Piceno, e gli fu permesso di vedere alcuni detenuti selezionati durante il giorno. Dal novembre del 2015, Riina non si trova più nel carcere di Parma, ma è stato trasferito all’ospedale Maggiore per i suoi problemi di salute, dopo che a lungo varie sentenze avevano stabilito che dovesse rimanere in prigione. Come ha raccontato Salvo Palazzolo su Repubblica, nella sua stanza sono ammesse in tutto una ventina di persone, tra il personale medico e gli agenti di polizia. Le sue condizioni di salute lo costringono a stare costantemente sdraiato, e a ogni pasto viene aiutato a sedersi sul letto dagli infermieri. Riina, racconta Palazzolo, vuole assistere a tutte le udienze del processo sulla presunta "trattativa Stato-mafia": le vede da una stanza speciale nel carcere di Parma, dove viene scortato ogni volta in ambulanza. La stanza di Riina è piccola, di cinque metri per cinque, abbastanza nascosta e con una finestra, Riina non può tenere niente: ha fatto richiesta per un calendario, ma non l’ha ottenuto; una richiesta per una radio è invece stata approvata, ma dopo un anno Riina non l’ha ancora ricevuta. Ha anche chiesto di poter vedere la televisione durante i pasti, ricevendo risposta negativa, e non può leggere i giornali. Nel 2015 i giornali italiani dedicarono molta attenzione a una sua lamentela sul fatto che il giorno di Natale non gli era stato servito il panettone, raccontando l’episodio con toni molto coinvolti e manifestando un’indignazione evidentemente poco proporzionata al fatto in sé. L’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, commentando la sentenza della Cassazione, ha detto: "Riina è lucidissimo, ma la situazione è ormai gravissima, finalmente è stata presa in considerazione dalla Cassazione con una sentenza che definirei storica, perché apre un varco per l’intero sistema" Boccassini: "Riina resti in cella. Non è vendetta, solo giustizia" di Piero Colaprico La Repubblica, 8 giugno 2017 La pm antimafia difende la scelta del tribunale di sorveglianza "L’apertura di Albamonte? Non è la linea di chi lotta contro i clan". Anche Ilda Boccassini si schiera contro la possibilità che il capo dei capi di Cosa Nostra, responsabile di stragi e di centinaia di omicidi tra cosche, possa tornare a casa per ragioni umanitarie. Magistrato impegnato da decenni nell’antimafia che porta in carcere, e con condanne definitive, i criminali di peso, Boccassini affida a Repubblica il suo pensiero: "Il provvedimento dei giudici di sorveglianza di Bologna è stato un atto di giustizia e non di vendetta nei confronti del pluriergastolano Salvatore Riina. Ho percepito, al contrario, come inappropriate e per nulla condivisibili le dichiarazioni del presidente dell’Associazione magistrati. Mi auguro che, in questo caso, le sue parole non rappresentino il pensiero della maggioranza dei colleghi. Soprattutto - mi pare doveroso sottolinearlo - di quanti, in silenzio e rifuggendo la luce dei riflettori, ogni giorno si adoperano nel contrasto al crimine organizzato, e in generale per garantire ai cittadini una giustizia giusta". Boccassini non nomina mai la Cassazione, ma difende la linea del tribunale di sorveglianza di Bologna, competente sul carcere di Parma. Qui Riina è attualmente detenuto, dopo la cattura nel 1993 e una lunga permanenza nel carcere milanese di Opera, dov’era stato intercettato mentre si vantava con un altro detenuto del suo potere mafioso. Per i giudici bolognesi, spiega un’ordinanza del maggio 2016, le sue condizioni di salute, "pur gravi", sono curabili in carcere, non sono stati mai superati i "limiti" del rispetto dell’umanità ed è la "notevole pericolosità" a imporre la "detenzione inframuraria". Ma nei giorni scorsi la prima sezione penale della Cassazione ha bollato quell’ordinanza come "carente e contraddittoria". Ha ricordato "l’esistenza di un diritto a morire dignitosamente " e rimandato gli atti nel capoluogo emiliano, dove si deciderà il 7 luglio. Per Eugenio Albamonte, presidente dell’Anm, la Cassazione con i suoi distinguo "dimostra che lo Stato è più forte della mafia"; di più, "una giustizia che ragiona in termini di diritti nei confronti di una persona che li ha negati dovrebbe renderci orgogliosi". Ma proprio queste parole, dette da Albamonte a Repubblica tv, non sono piaciute a Ilda Boccassini. A lei, procuratore aggiunto a Milano, guardano molti di quei magistrati e detective che "si adoperano per garantire ai cittadini una giustizia giusta". E tra loro non sono pochi quelli che, come ha spiegato ieri "Omar", uno dei carabinieri che catturarono nel 1993 il capo dei capi, si aspettano la certezza della pena. Va ricordato che sia Bernardo Provenzano, sia Luciano Liggio, boss paragonabili a Riina, nonostante fossero in condizioni di salute peggiori (ieri è comparso in teleconferenza al processo d’appello per la strage del Rapido 904, che risale al 1984, mostrandosi in barella) sono morti senza poter tornare a casa. Caso Riina. Cappellani d’Italia: "ogni detenuto ha il diritto di morire dignitosamente" farodiroma.it, 8 giugno 2017 "Non dico se è bene o meno curare un detenuto a casa, non è il mio compito, ma è importante che ci sia l’accesso dei familiari più intimi affinché gli ultimi momenti della vita non si trasformino in disperazione con il rischio di vivere un suicidio mentale". Lo ha detto l’ispettore dei cappellani d’Italia, don Raffaele Grimaldi, in un’intervista a InBlu Radio, il network delle radio cattoliche italiane, commentando la sentenza della Cassazione su Toto Riina e il diritto a morire dignitosamente. "Ogni detenuto - ha aggiunto don Grimaldi - ha il diritto di morire dignitosamente. E questa vale per tutti i detenuti come ci ricorda la Costituzione. Comprendo la reazione di molti cittadini, il dolore e la rabbia delle vittime che hanno subìto violenza alla notizia della scarcerazione di un boss come Riina. Ma la soluzione per curare un detenuto anziano con patologie gravi è cercare strutture adatte con una buona assistenza medica". Caso Riina. Giulio Petrilli: sentenza è un segnale forte e incisivo di lotta alla mafia abruzzoweb.it, 8 giugno 2017 "La Corte di Cassazione, con una sentenza che definirei coraggiosa, ha sancito che anche chi si è macchiato di gravi crimini e in carcere nel regime a 41 bis debba morire con dignità". Lo afferma l’aquilano Giulio Petrilli, del comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti, in merito alle polemiche conseguenti la richiesta di far morire fuori dal carcere, "Totò u curtu", il capo dei capi di Cosa Nostra, arrestato nel 1993 e sottoposto a regime di 41 bis, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Petrilli fu arrestato il 23 dicembre del 1980, con l’accusa di partecipazione a banda armata per un presunto coinvolgimento nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Detenuto per 5 anni e 8 mesi fu poi assolto dalla Corte d’Appello. Un proscioglimento divenuto definitivo in Cassazione nel 1989. Da allora si batte per ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. Fino ad oggi tutte le sue istanze non hanno trovato riscontro. "Salvatore Riina, come Bernardo Provenzano - spiega Petrilli - sta morendo in carcere, le diagnosi mediche sono chiare e non lasciano scampo, allora i giudici della prima sezione della corte di cassazione, hanno rimandato nuovamente il giudizio al tribunale di sorveglianza di Bologna, che aveva rifiutato il differimento dell’esecuzione della pena al vecchio e malato boss mafioso". "La corte di cassazione ha stabilito il principio che tutte le persone debbano morire con dignità! Tante le polemiche e le contrarietà a questa decisione, ma allora i levatori di scudi su questa decisione, abbiano il coraggio di dire, che sono favorevoli alla pena di morte. Secondo me invece questa sentenza è un segnale forte e incisivo di lotta alla mafia". "Il segnale che lo Stato ha un’altra cultura! La mafia si batte anche così!", conclude Petrilli. Torino: 47enne muore d’infarto in cella. I compagni accusano: "non l’hanno ricoverato" di Jacopo Ricca La Repubblica, 8 giugno 2017 Nel carcere di Torino era arrivato proprio per essere curato meglio, ma nella casa circondariale Lorusso e Cutugno è morto dopo appena due giorni. Luigi Di Lonardo, 47 anni, il 13 febbraio ha avuto un infarto mentre era ospitato nella sezione aggregata al centro clinico delle Vallette. Lì era arrivato un paio di giorni prima, trasferito dal carcere di Verbania che non aveva le strutture idonee per ospitare un paziente cardiopatico nelle sue condizioni. I compagni di cella però sostengono che l’uomo avrebbe dovuto essere trasferito nel reparto detentivo delle Molinette e che fin dal suo arrivo a Torino aveva lamentato dolori al petto: "Era arrivato qui per andare in ospedale, ma ha dovuto attendere due giorni prima di essere ricoverato", attaccano in una lettera inviata a Radio Carcere, la trasmissione su Radio Radicale che dà voce ai detenuti di tutta Italia. Del caso si è interessato il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che già a febbraio ha acquisito tutta la documentazione di Di Lonardo, sia la procura della Repubblica, cui sono stati trasmessi gli atti che riguardano la vicenda. L’uomo era tornato in carcere a Verbania a fine dicembre, nonostante il suo quadro clinico piuttosto grave, perché per due volte non aveva rispettato gli arresti domiciliari cui era stato mandato proprio per la sua cardiopatia: "Il trasferimento a Torino era motivato perché nel nostro centro clinico interno potesse avere le cure necessarie e non per essere portato alle Molinette", precisa da parte sua il direttore della casa circondariale, Domenico Minervini, che ha mostrato le carte di questo caso anche alla garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo. La vicenda, passata sotto silenzio per quattro mesi, non è però sfuggita ai compagni di reparto: "Erano due giorni che Luigi aveva forti dolori - scrivono nella lettera - Loro gli rispondevano di non preoccuparsi perché era un dolore intercostale. È così che si muore nelle carceri". Accuse che vengono respinte al mittente dalla direzione del carcere. Gli esiti dell’indagine del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria non sono ancora stati resi noti. Sul caso interviene anche il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano: "Ringrazio gli amici di Radio Radicale che ci hanno fatto scoprire questo caso, chiederò di acquisire tutta la documentazione relativa alla detenzione di quest’uomo per capire se qualcosa non è andato - dice. Ovviamente nel rispetto delle attività di indagine del ministero e della procura di Torino. Devo sottolineare che ancora una volta le statistiche ufficiali sui morti in carcere ci arrivano dalla rete del volontariato e dal mondo dei detenuti". Se durante la detenzione, ma soprattutto nei due giorni di presenza alle Vallette, sia stato fatto tutto correttamente è una questione che potrebbe coinvolgere anche la direzione regionale della sanità, competente per l’assistenza sanitaria nelle carceri piemontesi: "Chiederò anche all’amministrazione di chiarirci cosa possa essere successo in quei giorni - conclude Mellano. La sanità ha un ruolo decisivo per avere un carcere diverso e questo caso lo dimostra". Lecce: detenuto 59enne trovato morto in cella, indagati tre medici in servizio nel carcere di Francesco Oliva Corriere Salentino, 8 giugno 2017 Svolta nell’inchiesta sulla morte di un detenuto nel carcere di Lecce. Tre medici in servizio a Borgo "San Nicola" sono stati iscritti nel registro degli indagati per il decesso del 59enne Donato Cartelli, originario di Uggiano La Chiesa. I nomi dei professionisti compaiono nella richiesta di una perizia medica, mediante la forma dell’incidente probatorio, avanzata dal sostituto procuratore Francesca Miglietta. Il decesso del detenuto risale al 19 febbraio scorso quando l’uomo venne ritrovato ormai privo di vita all’interno della propria cella. A causare la morte, un arresto cardiaco. La tragedia colse di sorpresa i familiari della vittima che, assistiti dall’avvocato Andrea Conte, presentarono una denuncia sul tavolo del magistrato inquirente. Per i parenti, il decesso del 59enne si rivelò un fulmine a ciel sereno. Cartelli, a loro dire, non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E ai familiari non aveva comunicato nessun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, il detenuto avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta nel corso delle detenzione. L’unico malanno segnalato risaliva ad un mese prima dal decesso ed era legato ai fastidi per un’influenza stagionale. Il detenuto venne sottoposto ad un trattamento farmacologico consistito in quattro iniezioni. Sulle circostanze del decesso, invece, le informazioni fornite ai parenti sarebbero risultate del tutto frammentarie e lacunose. Da qui la decisione di presentare una denuncia con cui i familiari di Cartelli hanno chiesto di fare piena luce sulle cause della morte "e fugare così qualsivoglia sospetto sui fatti e sulle circostanze che, purtroppo, quando accadono all’interno delle mura carcerarie tendono ad avere contorni poco precisi". Il magistrato inquirente ha deciso di approfondire il caso. L’accertamento medico legale dovrà valutare l’eventuale nesso "tra eventuali condotte colpose, negligenti e imperite dei sanitari intervenuti nella vicenda e il verificarsi dell’evento letale". Inoltre la perizia servirà ad accertare se la diagnosi dei sanitari intervenuti nella vicenda nonché le cure prescritte al detenuto siano state appropriate e corrette. I medici - la cui iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo è un atto dovuto in vista dei primi accertamenti - sono assistiti di fiducia dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri; d’ufficio da Flavio Santoro e Maurizio Memmo. Milano: nel carcere di Bollate, tra i detenuti più anziani di Maurizio Torchio Il Reportage. , 8 giugno 2017 Chiedo a un agente dov’è l’area trattamentale. Lui mi risponde, gentile: "dopo il secondo orologio a destra". Nel carcere di Bollate - periferia nord ovest di Milano, 300 metri in linea d’aria dall’Expo - gli orologi sono decine e sono tutti fermi. Come dopo un’esplosione o un terremoto. Quando sono venuto qui nel 2009 erano già fermi. Misurano lo spazio, non il tempo: scandiscono i corridoi. E dire che Bollate è un carcere modello, dove quasi tutti quelli che - per legge - avrebbero diritto a lavorare o a studiare lavorano o studiano. Nemmeno qui, in una delle prigioni con il tempo meno sprecato d’Italia, si sente il bisogno di far funzionare gli orologi. Eppure il tempo è l’essenza del sistema penale. Negli Stati Uniti "doing time" e "making time" sono sinonimi gergali di "farsi la galera". In carcere, in fin dei conti, non si prepara un reinserimento: si fa tempo, si pagano anni. Questo è il patto fra il carcere e la società: voi mi date i soldi - tanti - per funzionare, io produco tempo. Vi garantisco criminali che all’uscita saranno più vecchi, biologicamente meno adatti a delinquere; lenti a scappare, poco precisi a mirare, con ormoni usurati, più concilianti. Forse la cosa non riuscirà al primo tentativo - è improbabile riesca, visti i tassi di recidiva di chi fa solo tempo - ma a forza di fare ci sarà un momento in cui noi - carcere - vi restituiremo persone talmente stanche da non essere più pericolose. Oppure, se non vi fidate, possiamo tenercele per sempre. Gli anziani in carcere dunque non sono una curiosità o un errore: sono il nocciolo della questione. I bambini innocenti chiusi insieme alle loro mamme suscitano indignazione; gli anziani colpevoli, però, sono più significativi. Alcune contraddizioni dell’esecuzione penale risaltano meglio sul corpo degli anziani. Di fronte agli ultra settantenni, ultra ottantenni persino, è più immediato - quasi inevitabile - chiedersi: è questa la soluzione più intelligente che abbiamo? La più economica, la più legittima, la più efficace? Dal 2006 - anno dell’indulto cosiddetto "svuota carceri" - le uniche fasce di età di detenuti italiani ad essere costantemente cresciute sono i sessantenni e gli ultra settantenni. Negli ultimi dieci anni i diciotto ventenni sono diminuiti del 27% mentre gli ultra settantenni sono aumentati del 146%. È evidente che non bastano Totò Riina (87 anni, detenuto a Parma), Marcello Dell’Utri (76 anni, detenuto a Rebibbia) o Bernardo Provenzano (morto a luglio 2016, 83 anni, nel reparto ospedaliero di San Vittore, Milano) a spiegare il fenomeno. Torniamo agli Stati Uniti, faro mondiale dell’incarcerazione di massa: dal 2007 al 2010 il numero di detenuti over 65 è aumentato 94 volte più velocemente del resto della popolazione carceraria. L’onda lunga delle politiche di tolleranza zero sta facendo invecchiare i baby boomers in prigione. Guardando le fotografie di chi esce all’aria con treppiede e ossigeno, o di chi resta ammanettato alla sua barella, è difficile non chiedersi: cosa sta succedendo? la società si sta proteggendo o vendicando? O sta semplicemente guardando da un’altra parte? Tutti gli anziani che incontro a Bollate hanno qualche patologia, spesso ne hanno molte insieme. È proprio questa complessità - mi spiega uno dei medici di turno - a renderli diversi dal detenuto tradizionale: diagnosticare e trattare patologie multiple è più difficile - e più caro. Una normale febbre può generare confusione, in un anziano, e la confusione una caduta con frattura del femore. I problemi non si sommano, si moltiplicano. In realtà anche i detenuti più giovani intrecciano patologie su più piani: biologico, mentale e sociale ingarbugliati insieme. Forse una maggior familiarità con i problemi geriatrici sensibilizzerà i medici penitenziari anche verso altre forme di complessità. Forse. Intanto gli agenti ci scherzano su: "Se mio nonno si ammalasse gli consiglierei di commettere un piccolo reato e venire qui: le liste di attesa sono molto più brevi." Paradossalmente, questo è anche l’argomento che alcuni tribunali usano per respingere le istanze di incompatibilità col carcere. Quando i medici - il primario della V divisione di Medicina protetta del San Paolo di Milano, non un perito di parte - certificano che Bernardo Provenzano "raramente pronuncia parole di senso compiuto o compie atti elementari se stimolato" o ancora, qualche mese dopo, che "è totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana… Alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale" il tribunale di sorveglianza di Milano risponde che "non sussistono i presupposti per il differimento dell’esecuzione della pena" perché i trattamenti "attualmente praticati gli stanno garantendo, rispetto ad altre soluzioni ipotizzabili, una maggior probabilità di sopravvivenza". Ovvero, il carcere è il miglior posto per curarsi. Uno dei detenuti che incontro, settantasei anni, pur riconoscendo il privilegio di stare a Bollate la pensa diversamente. Ha chiesto molte volte aiuto ma il suo tumore al rene gli è stato diagnosticato - sostiene - con imperdonabile ritardo: "Adesso prima di farmi rimettere a posto i denti aspetto che mi dicano quanto ho ancora da vivere. Se è troppo poco preferisco risparmiare e lasciare qualcosa ai miei figli". Un settantanovenne con l’artrite mi dice: "Ai colloqui preferisco stare in piedi. In cella i più giovani mi aiutano a tagliare le unghie dei piedi, da solo non riesco." Questo aiuto intergenerazionale in alcune realtà degli Stati Uniti - sempre loro - è stato istituzionalizzato: assistere gli anziani è diventato un lavoro per i giovani. Spesso sono giovani con una condanna a vita che non prevede la possibilità di parole, ovvero di liberazione condizionale o anticipata. Non usciranno mai, e lo sanno. Curano quello che diventeranno fra cinquant’anni. Puliscono, sollevano, imboccano il loro futuro. I compagni, naturalmente, oltre che un aiuto possono diventare un aggravio di pena. Vale per tutte le età, ma per gli anziani di più: "A Bollate ho la cella singola, per me è importantissimo. Sono entrato nel 1978. Ormai non mi sento più parte del carcere, non ho voglia di fare vita di carcere, parlare di carcere… Non mi ci riconosco, preferisco starmene per i fatti miei, chiacchierare o giocare ogni tanto con qualcun altro come me. A Busto Arsizio eravamo in tre in cella e mi facevano stare sul letto più alto: non c’era rispetto." Incontro un uomo filiforme e storto al quale è stato riconosciuto il diritto alla sedia a rotelle per gli spostamenti lunghi - andare ai colloqui o ai processi - e alle stampelle per quelli brevi. Dopo, un agente mi mostra la porta del gabbiotto delle guardie, scheggiata, bucata in più punti: "Non riesce a camminare" dice, riferendosi all’uomo - settantaquattro anni - col quale ho appena parlato "quasi non riesce a stare in piedi, però guarda che cosa ha fatto la settimana scorsa alla mia porta. Sembra incredibile. Anch’io non ci crederei se non me l’avessero detto i colleghi e non l’avessi visto dalle telecamere. Quando si arrabbia diventa terribile". E un altro agente, strizzandomi l’occhio "Mario Merola. Capisce cosa intendo?". Intende che i detenuti hanno il tempo e le doti - affinate dalla carriera criminale e da quella carceraria - per inscenare melodrammi anche dove non ci sono. Non devo fidarmi. Anche durante l’intervista con me, dopotutto, l’uomo racconta con orgoglio delle volte che ha minacciato di spaccare le stampelle in testa a questo o a quell’altro. Io certo mi terrei ben lontano dalle sue stampelle. Ma davvero quattro ordini di cancelli e più di quattrocento agenti di polizia penitenziaria - tanti ne sono assegnati a Bollate - sono l’unico modo che la società ha per proteggersi da questo vecchio amareggiato e furibondo? Questo vecchio cattivo e sgradevole, ammettiamolo pure. Nessuno vuol condonargli niente. Ancora una volta: il carcere dovrebbe essere uno dei modi di esecuzione della pena - il più inusuale, l’extrema ratio - e questo per chiunque, indipendentemente dall’età; ma per gli anziani di più. Il tempo degli anziani dovrebbe essere considerato, per ragioni speculari a quello dei giovani, più prezioso della norma. Risorsa scarsa. La Cassazione ha più volte ribadito che : "È immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il sistema carcerario del soggetto che abbia compiuto 70 anni". E in effetti la legge 5 dicembre 2005, n. 251 - cosiddetta "salva Previti" - prevede per gli ultrasettantenni la possibilità di accedere agli arresti domiciliari indipendentemente dalle condizioni di salute. L’elenco dei casi ai quali non si applica, però, è talmente lungo da renderla inutile. "Da quando sono qui" mi conferma Roberto Bezzi, capo degli educatori di Bollate "non ricordo di averla mai vista usare". Il punto è che i carcerati ultrasettantenni raramente sono colletti bianchi; di norma sono delinquenti abituali, assassini, stupratori, sequestratori, trafficanti di droga, mafiosi. Ci vuole coraggio politico per dire: solo la perdurante e dimostrata pericolosità sociale può giustificare il carcere, non ci importa che cos’hanno fatto, come stanno di salute, quanta parte di condanna hanno o non hanno già scontato. Devono uscire. Ancora più coraggio e forza per reggere l’urto di quando, inevitabilmente, uno di loro commetterà nuovi reati. Il coraggio di dire che la società è stata comunque difesa meglio così, correndo quel rischio. Incontro un ergastolano di settantasette anni rinchiuso da più di trentacinque. Non ha diritto a corsie preferenziali e non riesce ad accedere a quelle ordinarie. Ha avuto un ictus. "Vorrei poter uscire in permesso. Ho paura di tornare nel mondo quando non sarò più in grado di orientarmi, di badare a me stesso". I permessi glieli hanno tolti perché - dice - tornando da un pranzo ha avuto un malore, è caduto in un fosso e lo si è creduto ubriaco. Ora, è probabile che ubriaco lo fosse davvero, ed è possibile che la cosa si sia ripetuta più volte. Sono permessi premio, dopotutto, mi spiegano gli addetti ai lavori, è normale che non si voglia premiare un comportamento del genere. Eppure il dubbio di una mancanza di proporzionalità resta. Da una parte c’è il bisogno di un uomo di ri-familiarizzare - malamente - col mondo alla fine di una vita trascorsa per metà in carcere. Dall’altra quello di sanzionare - a fini educativi? - un comportamento che per noi di fuori non ha conseguenze; non di limitazione della libertà, perlomeno. E a proposito di libertà, l’ultima speranza del mio interlocutore si chiama libertà condizionale. "Non me la vogliono dare perché non riconosco uno dei miei delitti". Dei due omicidi per i quali è stato condannato, più di trent’anni fa, ne ammette solo uno. "L’altro non l’ho fatto io!". Il mancato riconoscimento del reato non è l’unico elemento per valutare il ravvedimento, ma è un elemento, a dispetto degli ovvi rischi di opportunismo. Il ravvedimento… che per legge dovrebbe essere concreto, esteriore, osservabile - il comportamento tenuto durante gli anni di detenzione, ad esempio - finisce col caricarsi di tonalità introspettive, quasi religiose. Ravvedimento. Non c’è purificazione, non c’è restaurazione di armonia se il male non viene espulso attraverso la magia della parola. O, più prosaicamente, attraverso la compravendita di informazioni con lo Stato. E questo ci porta a sfiorare l’ultimo dei motivi per cui ci sono degli anziani in carcere: l’ergastolo ostativo. I condannati per alcuni gravi reati - perlopiù legati all’associazione di tipo mafioso - possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento - incluse le misure alternative al carcere - solo se collaborano con la giustizia. Premiare chi vende informazioni è brutto - già Beccaria parlava della "debolezza della legge, che implora l’aiuto di chi l’offende" - ma punire chi non può o non vuole farlo è peggio. Forse è incostituzionale. Per un condannato all’ergastolo non poter accedere ai benefici significa che il fine pena è davvero mai. Non c’è un dopo. Che ne è della funzione rieducativa delle pene (art. 27 della Costituzione) se si butta via la chiave? Gli ergastolani ostativi sono più di mille. Il settantasettenne che ho incontrato io non è ostativo, ma anche lui fatica a intravedere un dopo. Ha una pallina da tennis gialla in mano che porta sempre con sé. La stringe e la rilascia, la stringe e la rilascia, è il suo esercizio contro l’artrite. È il movimento della macchina del tempo quando tutti gli orologi sono fermi. Terminiamo il colloquio perché ha appuntamento col medico. Trento: Consiglio provinciale, la legge sul Garante dei detenuti passerà di Donatello Baldo ildolomiti.it, 8 giugno 2017 Il Consiglio provinciale al voto su un testo che da otto anni aspetta di essere approvato. I tempi di discussione in Aula sono contingentati. Sul tavolo gli emendamenti della Lega Nord, irriducibili ma superabili. E quelli di Rodolfo Borga che però da 600 si sono ridotti a poche unità dopo un accordo con il proponente Civico. Alcune modifiche accettate dal proponente e un odg che chiede alla Giunta di chiedere al Governo l’autonomia sulle carceri regionali. Oggi per la politica trentina è una giornata importante: finalmente una legge che riguarda i diritti delle persone è entrata in Aula e uscirà votata dalla maggioranza dei consiglieri. Senza ostruzionismi invalicabili, senza polemiche ideologiche e strumentali, senza i drammi in cui sono incorse le altre due leggi che trattavano il tema dei diritti, quella contro l’omofobia e quella sulla doppia preferenza di genere. Si tratta della legge sul Garante dei detenuti che da anni aspettava di essere approvata. Da otto anni, da quando per primo il consigliere Mattia Civico ha iniziato il lungo percorso che l’ha portato fin qui con la legge pronta per essere discussa e approvata. Otto anni che separano il Trentino dal resto dell’Italia, da quando a livello nazionale è stato istituito la figura del Garante dei detenuti, vedendo via via le altre Regioni adeguarsi istituendo i propri mentre il Trentino fermo al palo da un’opposizione che non ne ha mai voluto sapere di estendere garanzie anche alle persone recluse. Persone. Persone che seppur colpevoli hanno diritti inalienabili. Persone che spesso non sono nemmeno condannate ma in attesa di giudizio. Persone che per la Costituzione dovrebbero avere un trattamento carcerario finalizzato alla rieducazione, con l’obiettivo di ridurre la recidiva, il ritorno in cella. Con l’obiettivo di tornare nel consorzio degli uomini-liberi pronti a ricominciare. La legge su Garante passerà. I tempi di discussione in Aula sono contingentati, i tempi non possono essere sforati. Qualsiasi ostruzionismo sarebbe disinnescato. Passerà dopo un lavoro certosino non tanto di mediazione - secondo Mattia Civico - ma di convincimento. Sul tavolo gli emendamenti della Lega Nord, irriducibili ma superabili. E quelli di Rodolfo Borga che però da 600 si sono ridotti a poche unità dopo un accordo con il proponente Civico. Tra questi la riduzione dell’indennità del Garante che sarà l’equivalente di un terzo dell’indennità lorda spettante ai consiglieri provinciali, la sua elezione attraverso una maggioranza qualificata dei 2/3 del Consiglio provinciale, il divieto di rieleggibilità e il coordinamento dell’Ufficio del Garante nelle mani del Difensore Civico che può avocare a sé l’eventuale fascicolo di un caso. "Il garante dei diritti dei detenuti - recita un articolo del testo che sarà approvato - opera per contribuire a garantire (...) i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. Il garante svolge la sua attività, in particolare, a favore delle persone presenti negli istituti penitenziari e di quelle soggette a misure alternative di detenzione o a persone sottoposte a trattamenti sanitari obbligatori o inserite in residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems)". Un emendamento di Borga andrà ad abrogare il riferimento ai trattamenti sanitari obbligatori, mantenendo l’azione del Garante solo per le situazione di restrizione della libertà personale autorizzate dall’Autorità giudiziaria. Il Tso è invece un trattamento, che seppur limitativo della libertà personale, è disposto dall’autorità sanitaria. Una discrepanza rispetto alla legge nazionale che invece lo prevede. Una concessione finalizzata al raggiungimento di un’intesa sulla possibilità di portare a casa l’intera legge. Un neo che un po’ stona ma che nei fatti non riuscirà a scalfire la conquista che, seppur in ritardo, porta la nostra Provincia al livello della civiltà del diritto e delle garanzie di tutti i cittadini, compresi quelli che vivono ristretti. Tra gli ordini del giorno sarà approvato anche quello presentato dalla consigliera Manuela Bottamedi e firmato da altri della minoranza ma anche dallo stesso proponente Mattia Civico. Si tratta della richiesta alla Giunta provinciale di attivarsi presso la Commissione dei 12 per istituire un Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Trentino Alto-Adige. Nella sostanza significa questo, chiedere allo Stato di poter avere autonomia nel campo dell’amministrazione della giustizia relativamente all’esecuzione della pena e della rieducazione di chi ha commesso dei reati e si trova ristretto all’interno di un istituto della Regione. Si tratterebbe di avere voce in capitolo, in ossequio alla nostra specialità, anche sula condizione degli istituti di pena, e dei loro ospiti, del nostro territorio. Per essere ancora più autonomi e responsabili, per rispondere in prima persona a quella frase di Fëdor Dostoevskij che afferma questo: "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni". Nola (Na): monta la polemica sul nuovo carcere, potrà contenere fino a 2.400 detenuti di Marco Sigillo 081news.it, 8 giugno 2017 In Italia sarebbe il primo esperimento di carcere "aperto", ma varie associazioni a tutela dei diritti dei detenuti sollevano dubbi sulla solidità del progetto. Lo scorso febbraio vi avevamo parlato della pubblicazione del bando che aveva ad oggetto la costruzione di una nuova struttura penitenziaria nei pressi di Nola. Anche ora che la procedura è stata completata, tuttavia, non manca qualche polemica sulla realizzazione della struttura. L’associazione Michelucci, che si occupa di urbanistica, si è unita alla voce dell’associazione Antigone, da sempre impegnata alla tutela dei diritti dei detenuti. Nonostante questa struttura fosse stata annunciata come portatrice di elementi innovativi nel piano nazionale di costruzione delle carceri, stando alle tante denunce risulterebbe infatti che in realtà l’opera è a dir poco arcaica. Secondo gli architetti della fondazione Michelucci la struttura risulterà completamente scollegata dal tessuto urbano, senza possibilità di attività di interazione a favore dei detenuti. Inoltre il bando presentava forti vincoli, che hanno finito per svilire ogni possibile creatività e funzionalità nella progettazione. La capienza potrà variare dai 1.200 posti iniziali fino a 2.400. Ciò aumenterebbe drasticamente la densità penitenziaria nella provincia di Napoli. Prepariamoci dunque a ricevere altri richiami internazionali sulla condizione dei nostri carcerati. Torino: firmata convenzione tra Università e Prap per la rieducazione dei detenuti unitonews.it, 8 giugno 2017 Firmata la Convenzione Scientifica e di Formazione tra Università di Torino e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta. L’Articolo 27 della Costituzione, nel suo comma secondo, attribuisce alla pena una funzione rieducativa, ripudiando ogni trattamento contrario al senso di umanità. L’Università di Torino, con la firma di una convenzione di collaborazione tra il Dipartimento di Psicologia e il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta, si propone di mettere in atto il principio costituzionale. L’accordo prevede uno scambio reciproco tra istituzioni di ricerca psico-criminologica e giuridica ed enti che operano in ambito penitenziario, ed offre l’opportunità di rieducare e reinserire nel tessuto sociale chi è autore di reato, grazie all’attuazione di interventi mirati e personalizzati, in un’ottica non solo di accoglienza ma anche di prevenzione e di riduzione della ricaduta criminale. "Gli obiettivi della convenzione - Dichiara la Prof.ssa Georgia Zara, Presidente del corso di laurea Psicologia criminologica e forense- sono due: scientifico e formativo. Solo costruendo un percorso articolato e condiviso nell’ambito della ricerca e della formazione è possibile conoscere e intervenire sulla realtà degli autori di reato e del carcere, contribuendo così ad attuare le norme in tema di prevenzione, di trattamento extra murario e valutazione del rischio di recidiva, previste anche a livello europeo." La convenzione, siglata nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Criminologica e Forense, è stata firmata dal Dr. Luigi Pagano - Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Piemonte e Valle d’Aosta, dalla Prof.ssa Elisa Mongiano, Vice Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, e dal Prof. Alessandro Zennaro, Direttore del Dipartimento di Psicologia, anche per creare spazi condivisi di competenza professionale nei quali integrare l’attività didattica universitaria con laboratori specialistici, e consolidare la formazione di quegli operatori, i futuri psicologi criminologici e forensi, il cui ruolo sarà centrale per l’attuazione della sfida normativa e costituzionale del prossimo futuro. Torino: la farmacia entra in carcere, per la prima volta in Italia quotidianopiemontese.it, 8 giugno 2017 L’entrata della farmacia e dei farmaci da banco e di fascia C nella casa circondariale Lorusso e Cutugno delle Vallette, è una novità importante per la salute di chi è ristretto ed una innovazione culturale importante nel campo della salute in carcere. Succede da oggi e per la prima volta in Italia (un altro non piccolo primato torinese) e testimonia del lavoro che la Garante per i diritti dei detenuti del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, sta svolgendo in costante collaborazione con il direttore del carcere, Domenico Minervini. Ma la filiera istituzionale riunita in mattinata in conferenza stampa (in via Galliari 10 presso la sede di Farma Onlus) in occasione della stipula di questa innovativa convenzione, comprende anche la Asl torinese, Farma Onlus, rappresentata dal suo presidente, Luciano Platter con Ufficio Pio San Paolo, che si fanno carico dei costi del progetto e l’Ordine dei farmacisti. Da non tralasciare la farmacia delle Vallette che due volte alla settimana andrà nel carcere a consegnare i farmaci richiesti e a prendere le nuove ordinazioni. "Non si capisce - dice Gallo - perché per aprire una farmacia basta che un paese abbia 700 abitanti, ed una comunità come il carcere di Torino formata da 1400 persone non debba avere alcun servizio". Mentre i farmaci di fascia A e i farmaci salvavita, sono sempre stati garantiti alle persone ristrette o detenute, spiega in rappresentanza dell’Asl torinese il dottor Roberto Testi, i farmaci in fascia C prima di oggi erano concessi attraverso un farraginoso percorso fatto di domande presentate dai detenuti, vagliate dai sanitari e dalla direzione del carcere ed eventualmente soddisfatte in tempi non proprio rapidi, subordinate anche dalla possibilità di mandare un agente di polizia penitenziaria fuori dal carcere a comprare il farmaco. Quanto ai farmaci da banco ne esisteva una ristretta gamma e detenuti e detenute a quella dovevano attenersi. Ora tutto sarà più veloce: si potranno ordinare farmaci da banco ed ottenerli rapidamente, Per i farmaci in fascia C la ricetta dei sanitari del carcere sarà consegnata direttamente al farmacista che provvederà a consegnare il farmaco rapidamente. Lo scopo dichiarato da Gallo è di arrivare progressivamente ad una organizzazione che permetta ai detenuti di incontrare direttamente il farmacista in carcere, anche se, spiega Minervini, non è cosa semplice, considerando la tendenza di molti detenuti a strumentalizzare i temi della salute. Intanto, spiega Bruno Mellano, garante regionale per i diritti dei detenuti, è stata distribuita proprio oggi una "Guida ai diritti dei detenuti", con un’ampia sezione dedicata alla salute, mentre si lavora in un tavolo inter-istituzionale ad una delibera regionale che affronterà il tema della sanità nelle strutture detentive. Mario Giaccone, Consigliere della Regione Piemonte, ha chiuso gli interventi, sottolineando la capacità del territorio di mettere in sinergia competenze e risorse e ha evidenziato l’importante funzione sociale del farmacista. Torino: parte il "Social impact bond", finanzierà il reinserimento dei detenuti di Giuliana Ferraino Corriere della Sera, 8 giugno 2017 Un’obbligazione per aiutare il reinserimento dei detenuti. Si chiama "Social impact bond" e, sebbene già usato all’estero, rappresenta una novità assoluta per l’Italia. La Fondazione Crt, insieme con Human Foundation, ha fatto uno studio di fattibilità, che sarà presentato lunedì a Torino alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, per applicare il nuovo bond al finanziamento dei programmi delle cooperative in carcere. In pratica si chiederà ai privati di investire in programmi di welfare, garantendo un ritorno da misurare in base al tasso di recidività: meno i detenuti commetteranno nuovi reati, tornando in carcere, più il programma avrà avuto successo e perciò il rendimento del bond aumenterà. L’istituto penitenziario Lorusso e Cutugno di Torino sarà il primo a sperimentarlo. Lecce: una stanza di colori per accogliere i figli dei detenuti trnews.it, 8 giugno 2017 Inaugurata la nuova Sala polivalente della Casa circondariale di Borgo San Nicola. Da oggi in avanti verrà utilizzata come spazio destinato all’incontro tra i papà detenuti e i figli minori. Nell’ambito delle attività di Alternanza scuola-lavoro, infatti, gli alunni della 3F guidati dal docente Enzo De Giorgi hanno progettato e realizzato il restyling di una sala all’interno del carcere leccese che fino a poco tempo fa era aula scolastica e che ora diverrà il luogo nel quale anche i detenuti potranno esercitare il ruolo di padri in un ambiente non grigio e triste ma colorato e vivace. Otto grandi pannelli decorati attraverso la tecnica dell’idropittura su tavola fanno bella mostra di sé riproducendo per 20 metri di perimetro della sala, immagini e colori che richiamano il senso della libertà, della natura, della bellezza in senso lato. Un dono del Liceo Artistico di Lecce all’Istituto di pena salentino. "L’iniziativa merita il plauso e l’ammirazione non solo perché - ha detto il Prefetto Claudio Palomba- rappresenta l’ulteriore segnale di un’apertura verso l’esterno ma perché si manifesta come prezioso momento di crescita per i ragazzi che da questa esperienza potranno attingere valori essenziali per la costruzione del proprio avvenire". Partner del progetto di Alternanza scuola-lavoro è stato anche il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Lecce con il quale il Liceo Artistico ha sottoscritto una convenzione. "Ho visto questi ragazzi - ha detto la dirigente scolastica del Liceo Artistico "Ciardo-Pellegrino", Tiziana Paola Rucco: lavorare sodo con impegno e tanta motivazione. È compito della scuola formare i cittadini e la cultura del lavoro aiuta molto specie se lo scopo è nobile come questo". Trani: esponenti dei Radicali in visita al carcere, proiettato il docu-film "Liberi dentro" traniviva.it, 8 giugno 2017 Intensa e partecipata la visita della delegazione del Partito Radicale Nonviolento alla Casa circondariale di Trani. Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Maria Rosaria lo Muzio hanno incontrato la comunità penitenziaria e con tutti loro hanno guardato il docu-film di Ambrogio Crespi "Spes contra Spem - Liberi dentro", opera girata nel carcere di Opera nel 2015, che si dipana attraverso il racconto, fatto a più voci, del carcere vissuto dal di dentro. Prendono la parola, sollecitati dalle domande di Sergio D’Elia alcuni detenuti condannati all’ergastolo ostativo, quelli del fine pena mai, Santi Consolo, lo stesso direttore del carcere, agenti della Polizia penitenziaria, tutte persone che con ruoli e destini diversi compongono il mondo chiuso della comunità carceraria. L’incontro promosso dal Partito Radicale nell’ambito di un vasto giro che sta coinvolgendo tante carceri italiane, ma anche tante piazze, rappresenta una ulteriore proposta di conoscenza dell’universo detentivo, che da decenni rappresenta un ambito fondamentale delle lotte del Partito per l’affermazione dello Stato di diritto e della Giustizia giusta. La tappa odierna, resa possibile dalla disponibilità della Direttrice, la dott.ssa Piarullo e del Comandante Paccione e dall’impegno degli agenti della Polizia penitenziaria ha visto dopo la proiezione lo sviluppo di un interessante dibattito al quale hanno preso parte tutti i soggetti presenti. In particolare i detenuti hanno partecipato con calore ed entusiasmo alla conversazione, sollecitati dal racconto di Sergio D’Elia della sua oramai lontana, ma certo non dimenticata, esperienza in quello stesso carcere e non mancando di far sentire il proprio affetto a Rita Bernardini, impegnata nell’ennesimo sciopero della fame per cercare di ottenere in questo ultimo pezzetto di legislatura almeno l’approvazione della Riforma dell’ordinamento penitenziario. Palermo: con lo spettacolo "EnigmA23" in scena i detenuti del carcere Pagliarelli inchiestasicilia.com, 8 giugno 2017 Nell’Istituto Penitenziario Pagliarelli va in scena "EnigmA23", il nuovo spettacolo di Daniela Mangiacavallo. I detenuti del carcere Pagliarelli di Palermo che per un intero anno di formazione teatrale saranno, sabato 10 giugno nel teatro Pagliarelli, attori protagonisti di storie e azioni che diventano scena su un palco allestito come luogo del sogno, in cui tante anime aspettano, confuse vagano senza una meta, cercano di trovare un diverso cammino. "I piedi sono piedi mica testa o mani per esempio. I piedi non ne raccontano di storie. Tu ci guardi i piedi a uno e capisci. I piedi soffrono di verità. Aprendo un giornale "Rompicapi per un mese", con le vignette, i paradossi, "Forse non tutti sanno che", i cruciverba, gli anagrammi, "Scopri il personaggio sconosciuto", i quiz di ogni tipo, i giochi a premi gli indovinelli coi più sciocchi trabocchetti, "I casi dell’ispettore tizio" e le altre sciarade di tutte le qualità e misure trovate a un certo punto il rebus…. Così inizia lo spettacolo, con un invito a pensare a riflettere su quale strano enigma sia l’uomo! Occorre risolvere un rebus, lavorare d’ingegno, scomporre ogni singolo quadretto del rebus per trovarci un senso compiuto, una ragione a quell’enigma che si chiama vita. "Il progetto Evasioni - spiega la regista Daniela Mangiacavallo - è stato molto intenso ed emozionante. Giorno dopo giorno il nostro tentativo è stato quello di permettere ai ragazzi di poter evadere attraverso il gioco teatrale, di andare oltre se stessi, di superare se stessi. Sfidando le proprie capacità, il proprio "saper fare" e di poter sciogliere quei limiti mentali e sociali che noi stessi, a volte, alziamo come muri. Molti di loro all’inizio di questo percorso teatrale, davanti a un testo da studiare o a un personaggio da interpretare rispondevano "non ci riuscirò mai" o "non sarò in grado di farlo". Adesso, dopo un lavoro teatrale così elaborato, sono pronti e carichi di energia per affrontare il pubblico. Il teatro in carcere è una possibilità, una grande opportunità per vedere il mondo con altri occhi. EnigmA23 è il frutto di un lavoro sull’onirico, sul cammino dell’uomo rispetto alle proprie scelte e ai propri sogni". Nel luogo del sogno tanti personaggi si alternano. Due cuochi si apprestano a preparare una vita più buona e più bella, due vecchietti in un traffico assordante non riescono mai ad attraversare la strada e tra una scena e l’altra la nostra coscienza genuina si incontra e si scontra con la cattiveria e la prepotenza dei molti. Allo spettacolo seguirà una video installazione fotografica di Francesca Lucisano. A breve anche un video documentario realizzato dal regista Paolo Brancati racconterà lo straordinario lavoro dall’inizio ad oggi. Il progetto Evasioni Teatro Legalità e Cultura è realizzato grazie ai finanziamenti della Regione Sicilia, Assessorato della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, nell’ambito del Programma A.P.Q. "Giovani Protagonisti di sé e del Territorio (CreAzioni Giovani), linea di intervento n.3 Giovani e Legalità". E grazie al sostegno della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo. Roma: la Sottosegretaria Maria Elena Boschi visita le detenute trans di Rebibbia affaritaliani.it, 8 giugno 2017 L’incontro nel penitenziario romano in occasione di un evento contro la violenza di genere. Scuole ed istituzioni unite per l’evento contro la violenza di genere, promosso dall’associazione "Se non ora quando-libere" e il Liceo artistico Enzo Rossi di Roma. Oltre alla Sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, presenti anche il Segretario Generale alla Presidenza del Consiglio, Paolo Aquilanti, la direttrice del Dipartimento Pari Opportunità, Giovanna Boda, e la neo Garante per i diritti dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni. Protagoniste della giornata 16 donne trans, quasi tutte straniere, recluse in un braccio di una struttura che, nel complesso, accoglie migliaia di uomini. Una situazione che comporta restrizioni all’accesso a tutti servizi e gli spazi del carcere, sia per garantire la loro incolumità sia per evitare il più possibile contatti con gli altri reclusi. Per l’occasione sono state riportate diverse; dal lavoro - fondamentale sia per il percorso rieducativo sia per garantire un minimo di reddito - alla possibilità di una formazione superiore e professionale, al miglioramento dei tempi e degli spazi di socializzazione, sport, attività e vita quotidiana. Un altro problema molto sentito è certamente un accesso più agevole alle terapie ormonali, che molte di loro devono seguire con costanza. La Sottosegretaria Boschi ha ascoltato e parlato con tutte in modo molto franco e diretto, intrattenendosi per circa un’ora: "Ci impegniamo per un trattamento equo e da subito su alcune delle priorità che stanno emergendo. In primo luogo il lavoro, la qualità degli spazi e l’accesso alla formazione. Speriamo anche che da questo incontro e dalle iniziative che metteremo in campo possano nascere delle buone pratiche da estendere a livello nazionale". Radio Carcere: "caso Riina", cosa dice la sentenza della Cassazione Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2017 Il "caso Riina": cosa dice la sentenza della Cassazione sulla eventuale incompatibilità con il regime carcerario? Intervengono Eugenio Albamonte, Presidente dell’ Associazione Nazionale Magistrati e Riccardo De Vito Presidente di Md-Magistratura Democratica. Link http://www.radioradicale.it/scheda/511118/radio-carcere-il-caso-riina-cosa-dice-la-sentenza-della-cassazione-sulla-eventuale Svolta tra i magistrati: sì alle leggi speciali per fermare la jihad di Luca Fazzo Il Giornale, 8 giugno 2017 Fuori dall’Italia subito chi delinque, senza aspettare la sentenza definitiva: sarebbe una rivoluzione, rispetto alla palude dell’eterna accoglienza anche a violenti e criminali. E a rendere solida la proposta è il fatto che venga dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati, finora propensa più al garantismo che al rigore. A lanciarla è Antonio Sangermano, vicepresidente dell’Anm, nonché procuratore della Repubblica per i minorenni a Firenze, con una intervista al Mattino che segna una svolta, perché indica in concreto, oltre all’espulsione immediata, anche altre misure eccezionali in grado di fermare l’avanzata islamica. Oggi, dice Sangermano, la magistratura è disarmata. Erano finora voci isolate tra le toghe: come quella di Giovanni Tartaglia Polcini, pm beneventano in prestito al Ministero degli Esteri, che già un anno fa invocava "un nuovo diritto che tenga conto della specialità della minaccia". Ma ora è un esponente di punta della magistratura a sposare la necessità di mettere mano alle normative, sia stringendo i cordoni dell’accoglienza che inasprendo i metodi della repressione: perché, spiega Sangermano, "lo schema tradizionale che coniuga i principi democratici a quelli della libera circolazione non è più adeguato a contrastare il terrorismo perché lascia spesso la magistratura priva di armi efficaci per prevenire gli intenti criminosi". A dover essere messo in discussione è, secondo il vicepresidente dell’Anm, anche la libertà di movimento all’interno del nucleo centrale dell’Europa, garantita dal trattato di Schengen: "Occorre andare oltre il mantra rituale secondo cui Schengen non si tocca". E l’arma principale deve essere quella delle espulsioni preventive per ragioni di sicurezza nazionale. Quando il ministro degli Interni Marco Minniti ha indicato questa strada è stato accusato di avere un approccio brutale ala questione, ma Sangermano ne sposa in pieno la linea e si spinge anche più in là: "É uno strumento che va rafforzato e ampliato. Non si può più attendere che una sentenza passi in giudicato per espellere un soggetto radicalizzato. Occorre un intervento legislativo che consenta di espellere chi delinque senza attendere il terzo grado di giudizio. Non possiamo più consentire che pregiudicati privi di cittadinanza possano soggiornare impunemente sul nostro territorio. Per chi commette reati che rivelano pericolosità sociale nessun salvacondotto". E, di fronte all’obiezione che alcuni sospettati di simpatie jihadiste hanno in realtà passaporto italiano, Sangermano propone di mettere mano anche alle norme sulla cittadinanza: "É tempo di sottrarre l’iter della cittadinanza a meccanismi automatici. Diritti e doveri devono essere fissati in uno statuto dell’immigrato che ancori l’accoglienza nel nostro paese al rispetto delle leggi. Chi intende diventare italiano dev’essere sottoposto a verifiche severe e progressive che dimostrino come l’aspirante cittadino accetti e condivida i valori democratici. Non possiamo più permetterci il rischio che l’Italia sia vista come il paese di Bengodi". Parole forti, rese necessarie secondo il procuratore Sangermano da una situazione drammatica: se non si interviene, dice, "l’immigrazione metterà a rischio la tenuta democratica del paese". Sangermano è il vicepresidente dell’Anm. Ma quanti saranno i suoi colleghi a pensarla come lui? Il ministro Minniti: "protezione civile e vigili urbani per gestire la sicurezza in piazza" di Lodovico Poletto La Stampa, 8 giugno 2017 Il ministro degli Interni Minniti: "I colpevoli li troveranno i giudici. Per governare il panico integrare la polizia con strutture locali". "Studiare nuovi metodi di prevenzione e gestione del panico" per evitare il ripetersi di nuovi drammi collettivi come quello avvenuto sabato sera a Piazza San Carlo. È con questo intento che il ministro degli Interni, Marco Minniti, sta elaborando una nuova dottrina di sicurezza per "proteggere i cittadini dalla paura". La formula con cui farlo è "far coincidere la safety e la security", ovvero "l’incolumità dei cittadini e la sicurezza in modo". A spiegarlo è lo stesso Minniti durante la visita a Torino alle vittime più gravi di quel sabato di follia, incontrando anche i soccorritori e tracciando una strada per "evitare fatti analoghi". L’intento è battere una "psicosi che genera ansie e che mette a rischio l’incolumità dei cittadini e crea un problema di sicurezza". In quanto alla fine tutto ha una radice. "Perché - spiega ancora il ministro - c’è un collegamento emotivo diretto tra l’attentato di Manchester e il panico di Torino. Là c’è stato l’attacco, qui s’è innescata la paura: l’effetto che i terroristi volevano creare lo abbiamo avuto noi". Come riuscire ad evitare tutto questo, è una questione che "richiede un cambio di visione complessiva del problema". E che passa attraverso quella che lui chiama "gestione integrata della piazza" da parte di "forze dell’ordine assieme a Protezione civile, Vigili del fuoco e vigili urbani". Ovvero, le strutture civili integrate con le forze di sicurezza. E questo è un cambio di passo, epocale, rispetto a ciò che è stato fatto fino ad oggi, almeno in occasione dei grandi eventi. Ecco, anche su questo punto il ministro dell’Interno è estremamente chiaro: "Il modello di sicurezza che noi oggi applichiamo prevede l’integrazione fra le forze di sicurezza e l’esercito. Cosa che è stata fatta, e con successo, anche in occasione delle celebrazioni dei sessant’anni dei Trattati di Roma e per il G7 di Taormina. E questa è la security. Ma sul fronte della "safety" è fondamentale pensare, ed agire, in modo differente". Lavorare insieme è una strada. Ma non è tutto perché poi si dovrà tradurre la teoria in un sistema pratico e che funzioni, davvero. Dal Cnr di Roma arriva uno studio che spiega come poche persone possono indirizzare una folla. E che si potrebbe adoperare in caso di fughe di massa. A Torino, invece, sabato notte la folla è fuggita in modo disordinato. Ci sono state "tre ondate di panico". Con la folla che correva in ogni direzione, travolgendo e provocando feriti, anche molto gravi. E questi ultimi lontano dalla piazza stessa, nelle strade adiacenti al luogo della proiezione. Tre ondate. È il panico che alimenta se stesso, che entra negli altri. Che si moltiplica perché tutti corrono ovunque. Per evitare che ciò avvenga servono tecniche innovative. Come "indicare le vie di fuga prima dell’evento, ad esempio utilizzando una star oppure un calciatore che sale sul palco e spiega al pubblico dove andare in caso di necessità è una ipotesi sulla quale lavorare", spiega ancora Minniti: "Bisogna saper governare gli animi anche in caso di emergenza. E anche questo è uno dei compiti di uno Stato che intende garantire la sicurezza e l’incolumità ai suoi cittadini". Già, lo Stato. Minniti lo dice subito: "Sono qui a Torino perché l’Italia vuole essere vicina ai feriti e ai soccorritori. Ho incontrato sia gli uni che gli altri e mi sono reso conto del lavoro straordinario che il sistema sanitario di Torino ha svolto quella notte. Certo qualcosa non ha funzionato. Bisogna ricostruire nel dettaglio affinché non si ripeta più, né a Torino né in altre parti del Paese". Non riuscirci sarebbe un danno decisamente rilevante per l’Italia. E su questo il responsabile del Viminale non ha dubbi: "Se non comprendiamo cosa è accaduto è l’Italia stessa che rischia di fermarsi. Ricostruire la verità storica di quella notte porterà invece a migliorare la sicurezza di tutti gli italiani". Ecco siamo di nuovo lì, ai concetti di sicurezza e incolumità. Minniti è molto chiaro quando dice: "Non è il momento di dire di chi è la colpa di ciò che è accaduto: c’è un’inchiesta della magistratura in corso, ci sono state delle carenze sulle quali bisogna fare luce. Ma l’obiettivo finale è ricostruire la verità storica dei fatti che porterà a migliorare la sicurezza degli italiani stessi". Psicosi, ansie che mettono a rischio l’incolumità e la sicurezza e nuove strategie. La strada è tracciata. E va a completare quella nota che il Capo della polizia Franco Gabrielli ha diramato a tutte le questure del Paese subito dopo Manchester. Zagrebelsky: "fine vita, codice penale non in sintonia con la società" di Marika Damaggio Corriere dell’Alto Adige, 8 giugno 2017 Al rientro dalla Svizzera, dopo aver guidato l’ultimo viaggio di Fabio Antoniani (dj Fabo), Marco Cappato si era autoaccusato di aiuto al suicidio. Il 6 luglio, il leader dei Radicali dovrà presentarsi davanti al gip di Milano che, anziché accogliere d’emblée la richiesta di archiviazione della Procura, ha deciso di ascoltare le parti. Un caso singolo, tuttavia emblematico di una giurisprudenza che rincorre le trasformazioni etiche del nostro tempo. "La norma del codice penale non corrisponde più allo stato della sensibilità sociale in materia e alla necessità di rispettare l’autodeterminazione delle persone", riflette Vladimiro Zagrebelsky. Giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo dal 2001 al 2010, oggi direttore del Laboratorio dei diritti fondamentali (Ldf) di Torino, il magistrato questa mattina, alle 11, arriverà a Trento. Ospite della facoltà di Giurisprudenza parlerà di "giudici e bio-diritto". Un tema che negli ultimi giorni ha scosso il dibattito pubblico dopo la pronuncia della Cassazione che apre all’ipotesi del differimento della pena per il capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Nel mezzo delle opinioni emotive, Zagrebelsky invita alla cautela: "La Cassazione ha solo disposto che il giudice competente riesamini il merito di una richiesta di Riina". Professore, in Italia ancora attendiamo l’approvazione di una norma sul testamento biologico. A che punto siamo rispetto al resto d’Europa? "Dalla Convenzione europea dei diritti umani, la Corte europea ha tratto il principio della tutela della autodeterminazione della persona, come elemento costitutivo della sua dignità. In particolare per quanto riguarda il tema del fine-vita la giurisprudenza europea indica che si tratta di un aspetto della vita privata della persona, di cui l’articolo 8 della Convenzione impone il rispetto. Soprattutto per quanto riguarda i casi in cui la persona gravemente sofferente richiede l’aiuto di altri per porre termine alla sua vita, in diverse sentenze la Corte ha però riconosciuto che modalità e limiti posso essere determinati diversamente dai singoli Stati. Necessaria è la ragionevolezza dei limiti rispetto al diritto di ciascuno di regolare, consentire o negare i trattamenti sanitari anche quando si tratta della fine della propria vita". Il dibattito pubblico qualche mese fa si è riacceso in seguito alla decisione di Fabiano Antoniani (dj Fabo) di ricorrere al suicidio assistito in Svizzera. "La Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione del procedimento contro Marco Cappato oggetto di indagine per il delitto di aiuto al suicidio. L’argomentazione della Procura è estremamente complessa. Essa distingue la condotta, punita dal codice penale, di chi agevola in qualsiasi modo l’esecuzione del suicidio da quella di chi aiuta altri a esercitare il proprio diritto alla dignità. Distinzione che certo merita attenzione e che è pertinente nel caso specifico e in quelli simili. Tuttavia, rispetto alla legge penale per come è attualmente in vigore, si tratta di costruzione difficile. Bene ha fatto il giudice a fissare un’udienza in cui sentirà le ragioni delle parti, anche se nel caso concreto si troverà ad ascoltare soltanto le ragioni favorevoli alla archiviazione. Certo è che la norma del codice penale non corrisponde più allo stato della sensibilità sociale in materia, alla necessità di rispettare l’autodeterminazione delle persone, all’irrazionalità dell’ammettere il suicidio, ma punire chi accetta di assistere chi chiede aiuto per porre fine alla sua vita. La Corte costituzionale, se non intervenisse il legislatore, potrebbe correggere una norma che mi pare ormai divenuta inaccettabile". La Cassazione ha aperto all’ipotesi del differimento della pena Totò Riina. Il "diritto a morire dignitosamente" va assicurato a ogni detenuto, hanno spiegato i magistrati. Condivide la pronuncia? "La Cassazione ha solo disposto che il giudice competente riesamini il merito di una richiesta di Riina e, se dovesse nuovamente respingerla, motivi in modo più completo la permanenza della pericolosità di Riina e la compatibilità del suo stato di salute e dell’età con la detenzione in carcere e con le cure che possono essergli assicurate. Il passaggio della motivazione della Cassazione, che richiama un diritto di morire con dignità, non può significare che una morte in carcere sarebbe per ciò solo indegna. E forse la formula usata dalla Cassazione è infelice perché richiama il diverso tema e il dibattito in corso sulle modalità di fine vita e sulla autonomia che va assicurata a tutte le persone. Per il resto l’affermazione è in sé ovvia, anche se non utile a decidere il ricorso di Riina". Migranti. Ius Soli, una legge per cancellare l’odio e l’insicurezza di Mario Giro* La Repubblica, 8 giugno 2017 Possiamo accettare che sfumi l’approvazione della legge sulla cittadinanza ai minori di origine straniera? Eppure dalla sua votazione alla Camera il tempo c’era e, anche se ora sembra ce ne sia meno, se c’è la volontà politica la legge potrebbe essere ancora approvata. Il provvedimento, che introduce il principio dello ius soli temperato e dello ius culturae per i ragazzi che arrivano in Italia prima dei 12 anni, non è una concessione ma un punto di svolta antropologico per il nostro Paese. Chi è nato in Italia da un genitore immigrato, ma regolare, con un progetto di vita in Italia, diventa italiano dalla nascita. E lo stesso accadrebbe per chi è arrivato da bambino in Italia, piccolissimo o adolescente, ma studia in Italia. È la cultura italiana e lo stile di vita italiano che crea gli italiani. È il contrario dell’invasione. L’immigrato di seconda generazione sente già di avere tutti i sogni, le possibilità e i diritti dei suoi coetanei ma non è così, e resta sospeso tra due mondi. Questo spesso genera disagi burocratici ma soprattutto sofferenze e conflitti esistenziali. A chi si oppone alla legge vorrei dire che la mancata integrazione crea insicurezza. Aggiungo: ogni discorso che divide la società tagliandola a pezzi ci mette tutti a repentaglio. Non è "buonismo", è una preoccupazione per la tenuta del tessuto sociale. Il "cattivismo" rende l’Italia più insicura perché crea muri di odio e risentimento. L’integrazione è garanzia di coesione del Paese. Lo "Ius soli temperato" sarebbe il primo e più grande provvedimento (a costo zero) di integrazione. Auspico che, prima di sciogliere le righe, la maggioranza si prenda questa essenziale responsabilità. *Vice ministro agli Affari Esteri "Un archivio digitale delle competenze, così aiuteremo i profughi a trovare lavoro" di Marco Sodano La Stampa, 8 giugno 2017 La Commissaria Ue Thyssen: l’inclusione è l’unico antidoto alle derive estremiste. Lavoro, politiche sociali, inclusione. Il dossier della commissaria Marianne Thyssen, al tavolo della Commissione Europea guidata da Jean-Claude Juncker, tocca tutti i temi più scottanti per l’Europa. Thyssen rappresenta le istituzioni di fronte alle paure più profonde di 500 milioni di cittadini europei. Signora Thyssen, partiamo dalla paura più grande: lavoro e inclusione possono aiutarci a battere la jihad in Europa? I killer occasionali di solito sono nati in Europa. Forse se non si fossero sentiti esclusi non sarebbero arrivati a scelte così tragiche. "Non c’è dubbio che sia così. Bisogna riformare il sistema di istruzione per preparare le nuove generazioni alle competenze del futuro: 70 milioni di cittadini europei che non hanno la formazione di base per affrontare la rivoluzione digitale". Cosa fa l’Europa in concreto? "Abbiamo autorizzato gli Stati a spendere le risorse dei fondi strutturali, anche spingendo i nuovi cittadini europei a mettersi a lavorare in proprio. Abbiamo costruito un sistema di piccolo credito". L’impressione è che questo tipo di soluzione vada bene nel periodo medio-lungo. Nell’immediato? "Ogni paese europeo che accoglie un profugo ha il dovere di dargli l’accesso al mercato del lavoro entro nove mesi, cancellando qualunque ostacolo burocratico. Abbiamo proposto di scendere a sei mesi, qualche Paese fa già meglio di sua iniziativa". Basterà? "L’anno prossimo debutterà un enorme archivio digitale delle competenze. Anche quelle spicciole, professioni come panettiere ed idraulico. Gli stranieri potranno raccontare chi sono: lingua, esperienze di lavoro, comprese quelle informali, capacità. L’obiettivo è capire chi abbiamo davanti. Vogliamo includere tutti, capire chi ha competenze preziose e necessarie. Aiuteremo anche chi non ha competenze specifiche, o chi non ne ha affatto, a costruirne di nuove". Un incrocio tra un curriculum e un esame di ammissione al mercato del lavoro. "Un esame che ha l’obiettivo di trovare un ruolo per tutti, non di bocciare qualcuno. E un curriculum che i profughi potranno portarsi dietro: il loro ritratto professionale, caricato su una chiavetta e utilizzabile in tutti i paesi europei". L’inclusione mancata è anche all’origine del sentimento antieuropeo. La preoccupa la crescita del populismo? "L’innovazione cambia il lavoro, la struttura demografica cambia le culture, la crisi economica è alle spalle ma i suoi effetti sono tutt’ora ben visibili. E tutto succede così rapidamente. La paura è comprensibile. Io cerco di combattere il disagio che la provoca". In Italia s’è calcolato che ci sono tre milioni di posti di lavoro persi perché mancano le competenze necessarie. Rimediare è più complicato. "Bisogna migliorare il sistema della formazione, e non solo quello scolastico, proprio perché l’innovazione è così rapida. Le competenze acquisite all’uscita dell’Università non possono essere altrettanto buone dieci anni dopo. Nel mondo del digitale neppure cinque anni dopo". Questo basta a chi ha paura di perdere il lavoro e di non trovarne uno nuovo? "Per questo servono invece sostegni sociali più robusti: ma sono possibili solo se non si cristallizzano. Un conto è aiutare chi resta disoccupato sei mesi, un conto farlo per anni. La formazione può aiutarci a costruire una generazione di lavoratori capaci di cambiare in fretta mansioni, azienda, settore nel quale lavorano". Anche l’industria 4.0, il nuovo verbo della crescita, sembra aumentare le diseguaglianze. I grandi giocatori sono sempre meno e hanno sempre più potere. Inevitabilmente, lo strato sociale più basso soffre di più. "In realtà chi sta soffrendo di più è chi aveva competenze generiche, che nel vecchio mondo del lavoro andavano benissimo. Questo è un momento di passaggio ed è chiaro che è un dovere dell’Europa dare una risposta anche a chi si trova in questa situazione". Ancora i rifugiati: l’Italia si sente abbandonata dall’Europa di fronte alle ondate di profughi in arrivo dal Mediterraneo. Cosa dice lei agli italiani? "Spesso la sfiducia nelle istituzioni europee è lo specchio di poca fiducia in quelle nazionali. Juncker ha detto che Italia e Grecia hanno salvato l’onore dell’Europa con i profughi. Condivido. Sono anche convinta che l’Europa debba fare di più, comunicarlo meglio ed essere più generosa". Bolivia. S’indagherà sui crimini della dittatura di Valeria Fraschetti La Repubblica, 8 giugno 2017 Assassini, sparizioni, torture, detenzioni arbitrarie e violenze sessuali. Il ministro della Giustizia e della Trasparenza, Hector Arce, ha annunciato che verranno nominati i cinque commissari che dovranno far luce sui crimini commessi durante le dittature di Hugo Banzer (1971-1978) e Luis Garcia Meza (1980-1981) La Bolivia ha vissuto 18 anni di dittature militari, ma ce ne sono voluti 35 di democrazia perché il governo annunciasse finalmente la creazione di una Commissione per la verità sugli abusi commessi fra il novembre del 1964 e l’ottobre del 1982. Dopo la promulgazione, nel dicembre scorso, della legge che crea la Commissione, la scorsa settimana il ministro della Giustizia e della Trasparenza, Hector Arce, ha infatti annunciato che nei prossimi giorni verranno nominati i cinque commissari che dovranno far luce su assassini, sparizioni forzate, torture, detenzioni arbitrarie e violenze sessuali commessi durante l’era dittatoriale boliviana. Finora poche risorse, poca giustizia. Un annuncio importante perché in Bolivia sinora sono stati fatti solo timidi tentativi di ricostruire la verità e garantire giustizia, come nel caso dei processi contro il generale Luis Garcia Meza e i suoi complici. In realtà, già nel 1984 il presidente Zuazo aveva ordinato la creazione di una Commissione Nazionale di Inchiesta sulle Sparizioni Forzate, ma la mancanza di risorse non aveva permesso notevoli risultati. Per le stesse ragioni anche la legge del 2004 sul "Risarcimento eccezionale alle vittime della violenza politica dei governi incostituzionali" non aveva prodotto quanto sperato, come segnalato da Amnesty International. Il timore che la storia si ripeta. Ora l’Asociación de Familiares de Detenidos, Desaparecidos y Mártires por la Liberación Nacional (Asofamd) spera che la Commissione sulla Verità aiuterà a portare a giudizio i responsabili delle torture e dei crimini commessi durante le dittature di Hugo Banzer (1971-1978) e Luis Garcia Meza (1980-1981). "Il tempo passa e urge la necessità di chiarire i fatti, perché se non si rivela ciò che successe il Paese e il popolo non vedrà recuperata la sua Storia e potrebbe accadere nuovamente quel che accadde durante le dittature", ha dichiarato la presidente Nila Heredia, spiegando che "il caso boliviano è molto grave perché non c’è stato processo a Hugo Banzer né a nessuno dei dittatori per delitti di lesa umanità". Il processo Condor. In America Latina erano gli anni del "Plan Condor", la strategia dei governi militari della regione e della Cia di coordinare la loro feroce repressione contro guerriglie comuniste e movimenti socialisti, ma anche sindacalisti, studenti, operai e intellettuali in odore di sinistra. Capitolo buio della storia sudamericana arrivato anche nei tribunali italiani. Su denuncia dei familiari di alcuni desaparecidos italiani, infatti, nel 1999 venne iniziata una complessa inchiesta durata oltre dieci anni. Dopo due anni di udienze con decine di testimoni ascoltati, a gennaio scorso la Corte d’Assise di Roma ha emesso la sentenza di primo grado del cosiddetto "processo Condor": otto ergastoli, 19 assoluzioni, 6 non luogo a procedere. Con l’accusa di omicidio plurimo aggravato e sequestro di persona. La sentenza italiana. Anche se non è definitiva, la sentenza è vista come un importantissimo traguardo. Non solo perché si tratta di un verdetto contro imputati "eccellenti": vertici militari boliviani (l’ex dittatore Luis Garcia Meza e il suo ministro dell’interno Luis Arce Gomez, che stanno già scontando 30 anni di carcere nel loro Paese senza possibilità di indulto), peruviani, uruguaiani e cileni che a vario titolo sono stati accusati di aver mandato a morte una ventina di cittadini di origine italiana. Soprattutto, si tratta della prima sentenza che in Europa certifica in via giudiziale l’esistenza di uno sforzo coordinato delle dittature militari dei vari paesi latini. Il Piano Condor, appunto. La missione degli avvocati. Per questo, non è forse un caso che l’annuncio del governo di Evo Morales sulla creazione della Commissione per la Verità sia arrivata subito dopo una visita in Bolivia degli avvocati delle vittime del processo italiano, Mario Antonio Angelelli e Arturo Salerni, e del presidente del Comitato dei Familiari dei Desaparecidos 24 Marzo, Jorge Ithurburu, che a La Paz hanno incontrato il presidente boliviano Evo Morales, i presidenti del Senato e della Camera e le associazioni delle vittime boliviane. "L’obiettivo del nostro viaggio in Bolivia - ha detto Ithurburu - era spiegare ai familiari e ai testimoni la sentenza e il risultato del nostro lavoro". Lavoro iniziato quasi vent’anni fa e ancora non concluso. La Procura ha presentato appello contro le assoluzioni degli imputati che all’epoca della dittatura in Uruguay appartenevano ai quadri intermedi della gerarchia militare. La sentenza di primo grado infatti tocca solo la cupola delle dittature, in quanto responsabili del disegno del Plan Condor, ma nessuno degli esecutori materiali dei crimini. "Proprio per raccogliere elementi di prova in vista del processo di appello - ha spiegato al telefono l’avvocato Salerni - nel nostro viaggio abbiamo fatto tappa anche in Argentina e Uruguay". Le minacce ai testimoni. Appena poche settimane fa, proprio a Montevideo, il procuratore generale della repubblica aveva ha ricevuto un messaggio in cui si minacciavano di morte 13 persone, compresi dei testimoni del processo. Fra questi anche una ricercatrice italiana, che per l’università di Oxford stava portando avanti una ricerca sull’Operazione Condor. La Commissione Interamericana sui Diritti Umani ha emesso una dichiarazione in cui chiede al governo uruguaiano di adottare misure urgenti che garantiscano la sicurezza delle persone minacciate. Ma intanto la ragazza ha lasciato l’Uruguay per la sua incolumità e l’Uruguay è stato attraversato da un brivido, pensando che il Condor può avere ancora inquietanti colpi di coda. Messico. Sparatoria nel carcere di Tamaulipas, almeno 7 morti Askanews, 8 giugno 2017 Almeno 7 persone sono morte e altre 15 sono rimaste ferite ieri in una serie di sparatorie fra detenuti e polizia nel carcere di Ciudad Victoria, nello stato messicano di Tamaulipas, nel nordest del paese, sulla frontiera con il Texas. Il bilancio di vittime, ancora provvisorio, è stato fornito dalle autorità dello stato. Un portavoce ha raccontato alla stampa che tutto è iniziato martedì notte, quando agenti della polizia sono entrati nel carcere "per ristabilire l’ordine". "Sapevamo che c’era tensione fra diversi gruppi di detenuti e che avevano fatto entrare oggetti sospetti", ha detto il portavoce Luis Alberto Rodriguez, spiegando il motivo dell’operazione. Negli scontri sono morti tre poliziotti e quattro detenuti, mentre 6 poliziotti e 7 detenuti sono rimasti feriti. La situazione è tornata sotto controllo solo intorno al mezzogiorno di mercoledì. Nel marzo scorso, tre detenuti nel carcere di Ciudad Victoria sono morti durante scontri che hanno accompagnato una evasione di massa dalla prigione, che secondo la stampa locale è controllata da Los Zetas, una narco-banda nota per la sua crudeltà.