Carcere, senza scelte torna l’emergenza di Alessio Scandurra Il Manifesto, 7 giugno 2017 Il 25 maggio è stato pubblicato "Torna il carcere", il XIII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Quest’anno il rapporto esce solo in formato digitale, consultabile su www.associazioneantigone.it, e corredato di immagini e grafici che speriamo lo rendano più accessibile. Il messaggio di fondo che il rapporto lancia è però chiaro: i numeri del carcere tornano a crescere. Gli ultimi anni si erano caratterizzatati per un calo significativo della popolazione detenuta, cosa in assoluta contro-tendenza rispetto alla storia meno recente. Dal 1970 ad oggi infatti la popolazione detenuta è sempre cresciuta, nonostante peraltro i numerosi provvedimenti di clemenza. Dopo ogni provvedimento i numeri in breve tempo tornavano più alti di prima, e probabilmente questa è la situazione in cui ci troveremo nuovamente a breve. Nel 2010, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale per il sovraffollamento penitenziario, la popolazione detenuta aveva raggiunto livelli senza precedenti nella storia repubblicana. Da allora è stata avviata una serie di interventi, su numerosi fronti, che ne hanno determinato un calo notevole. Si è così passati dai 68.000 detenuti del 2010 ai 52.000 del 2015. Ed ora questa stagione è giunta ad esaurimento e si riparte di slancio verso numeri ancora più alti? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe avere la palla di vetro, ma resta il fatto che negli ultimi 6 mesi la popolazione detenuta è passata dalle 54.912 presenze del 31 ottobre 2016 alle 56.436 presenze del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile. Anzitutto perché conferma una tendenza che avevamo già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questo ritmo viene consolidato ed appare addirittura in progressiva accelerazione. Nel semestre precedente, dal 30 aprile al 31 ottobre 2016, la crescita era stata infatti di 1.187 detenuti. Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000. Se il tasso di crescita continuasse ad accelerare, come ha fatto fino ad ora, per la fine del 2020 saremo ancora una volta di fronte a numeri senza precedenti. Con quali conseguenze? Le conseguenze, come già successo in passato, saranno drammatiche. Come mostrano molti capitoli del rapporto di Antigone di quest’anno, il calo della popolazione detenuta ha migliorato le condizioni di detenzione da molti punti di vista: quando si manda meno gente in galera, il carcere assomiglia di più a ciò che dovrebbe essere. Al contrario, quando ce ne si manda di più, tutto precipita: aumenta il sovraffollamento, si accentua la mancanza di risorse, aumenta la percentuale degli stranieri, degli esclusi, dei detenuti in custodia cautelare o per pene brevi. E in tutto questo non sorprende che sia aumentata anche la percentuale delle persone detenute per violazione della legge sulle droghe: alla fine del 2010, nel momento di massimo affollamento delle nostre carceri, il 40,2% dei detenuti era in carcere per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90. Questa percentuale era scesa al 32% alla fine del 2015 dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta, ma al 31 dicembre 2016 era già risalita al 34,2%. Tutti questi elementi di riflessione danno una indicazione concorde: quando i numeri del carcere crescono, la pena si allontana da ciò che dovrebbe essere secondo la Costituzione, non è più extrema ratio e non è più capace di produrre reinserimento sociale, e dunque sicurezza per i cittadini. E purtroppo i numeri ci dicono che questo è proprio quello che sta nuovamente accadendo. Non solo i boss muoiono in carcere. Decine di decessi ogni anno, suicidi esclusi di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2017 Morti in carcere per cause naturali. La storia penitenziaria italiana è zeppa di nomi eccellenti e di criminali, mafiosi o meno, che in libertà hanno commesso reati anche gravissimi. Ma anche di persone comuni che nei nostri penitenziari sono morte senza che per loro si attivasse addirittura la Cassazione come nel caso di Totò Riina. Si tratta di storie senza nomi che in molti casi incrociano il disagio sociale di chi fuori dal carcere non ha nessuno. Ad oggi, ad esempio, sono circa 15mila i detenuti che, pur dovendo scontare pene minime, restano ancora reclusi. Persone senza nome, ma anche criminali illustri. Nessuno, ad oggi, aveva avuto il via libera da parte della Cassazione. Il primo esempio è quello di Bernardo Provenzano. Eminenza grigia dei corleonesi, lo zu Binnu è morto all’età di 83 anni nel carcere milanese di Opera il 13 luglio 2016. Un altro vecchio boss, questa volta in quota camorra, è morto il 3 dicembre 2015. Anche questo decesso si è registrato a Opera. Si tratta di Luigi Vollaro detto il Califfo. La storia, si è detto, è lunga. E non c’è solo la mafia. A morire in carcere sono stati molti ex brigatisti. Tra loro certamente il caso più noto è quello di Germano Maccari, il quarto uomo del sequestro Moro, nonché uno dei carcerieri dell’ex presi- dente della Dc. Maccari è deceduto di morte naturale (infarto recita il referto medico) nel carcere romano di Rebibbia il 26 agosto del 2001. Altro infarto per Luigi Fallico, altro ex brigatista. Morto nel carcere di Viterbo il 23 maggio 2011. Prima della morte era sotto processo a Roma assieme ad altre persone ritenute eredi delle vecchie Brigate Rosse. Era stato arrestato nel 2009. Fu esponente della prima ora del Movimento comunista rivoluzionario Nucleo Tiburtino, nome di battaglia "il gatto" o "il corniciaio". Muore in galera anche l’ex di Prima linea Roberto Sandalo. Decesso registrato nel 2014. In quell’anno, Sandalo non si trova certo in carcere per la sua attività eversiva. Lui, arrestato nel 1980, inizierà subito a collaborare con l’autorità giudiziaria. Scarcerato, negli anni si avvicina alle idee della Lega Nord. Poi nel 2007 si rende responsabile di alcuni attentati anti-islamici, in particolare attentati dinamitardi contro moschee a Milano. Da qui l’ultimo arresto nel 2009. La condanna a 9 anni e il decesso per cause naturali nel 2014 nel carcere di Parma. E poi ci sono gli ultimi. Nei primi mesi di quest’anno sono state 44 le morti. Di queste ben 21 i suicidi. Diritto alla salute, il problema delle nostre carceri oltre Riina di Francesca Buonfiglioli lettera43.it, 7 giugno 2017 Cure negate, diagnosi errate, abbandono. Ogni anno muoiono anche per malattia dai 70 agli 80 detenuti. L’ultimo Rapporto di Antigone inquadra questa lacuna. Le storie di tre di loro, per i quali si chiede giustizia. La decisione della Cassazione di accogliere per la prima volta il ricorso dell’avvocato di Totò Riina, che ha chiesto il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare per ragioni di salute del capo di Cosa nostra, ha innescato una polemica aspra. C’è chi sostiene che u’ curtu, in regime di 41 bis, debba morire in carcere e chi si appella allo Stato di diritto così come sancito dalla Costituzione e dal nostro ordinamento che prevede una pena che sia rieducazione e non vendetta. Il carcere, in altre parole, non è un luogo in cui vige un regime di extraterritorialità rispetto alle garanzie fondamentali assicurate dallo Stato. Il diritto a morire dignitosamente e il diritto alla salute sono, o meglio dovrebbero, essere riconosciuti a ogni cittadino e ogni detenuto. Una tutela che troppo spesso resta solo sulla carta. L’odissea dell’ex boss Vincenzo Stranieri - Nel carcere di alta sicurezza di Parma, dove è stato recluso anche Bernardo Provenzano a cui nonostante fosse non in grado di intendere e volere venne rigettata l’istanza di sospensione della pena pochi giorni prima di morire in un ospedale milanese nel 2016, non si trova solo Riina. Dei 63 detenuti al regime del 41 bis, tre sono ultra 90enni. Uno di loro è affetto da Alzheimer. Mentre resta ancora al carcere duro, nel quale si trova ininterrottamente da 25 anni (è entrato a 23 anni) Vincenzo Stranieri, ex boss della Sacra Corona Unita che ha già scontato la sua pena ed è malato terminale. Per un Riina, poi, ci sono centinaia di detenuti fantasma che muoiono in carcere e a cui non sono riconosciuti i diritti fondamentali. Solo nel 2017 il dossier "Morire di carcere" del centro studi Ristretti Orizzonti ha registrato 44 morti di cui 21 suicidi (dati aggiornati al 4 giugno). Nel 2016 i decessi dietro le sbarre erano stati 115 di cui 45 i suicidi e l’anno precedente 123 (43 suicidi). Le cause, quando accertate, vanno dalla malattia all’overdose. Simona Filippi, difensore civico di Antigone alla quale ogni giorno arrivano decine di segnalazioni e richieste di aiuto, spiega a Lettera43.it: "Si tratta di un problema importante che non deve essere sottovalutato né strumentalizzato". Il rischio strumentalizzazione - La verità è che sul tema serve chiarezza "a partire dalla nomina dei periti dei tribunali e dalle reali garanzie presenti all’interno dei luoghi di detenzione", fa notare Filippi. "Gli stessi centri diagnostici terapeutici in molti casi versano in condizioni precarie o hanno il personale sotto organico". Altro tema spinoso è il confronto tra il medico di reparto e il tribunale di sorveglianza. Il professionista, il cui parere è fondamentale per stabilire l’incompatibilità del soggetto col regime carcerario, è spesso portato a non dare credito al detenuto, a pensare che stia esagerando per ottenere un beneficio. "È costante il timore di essere strumentalizzati", continua Filippi, "occorre una grande lucidità quando si è chiamati a decidere se si è di fronte a una situazione di salute problematica o a un’esagerazione del detenuto". "Spesso in questi anni", scrivono Filippi e Susanna Zecca nel XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, "abbiamo sentito i detenuti raccontarci di stare male e di non essere stati ascoltati o di non essere stati creduti. Come è evidente, le conseguenze di questo mancato ascolto (o, in altre parole, di questa mancata fiducia) possono essere gravi o addirittura irrimediabili". Come nel caso di Alfredo Liotta, morto per cachessia il 26 luglio 2012 nella Casa circondariale di Siracusa. Il mese precedente al decesso, Liotta aveva lamentato un grave malessere psicofisico, ma i medici hanno sempre valutato le sue condizioni simulatorie. Il tribunale di sorveglianza aveva così rigettato la richiesta di incompatibilità con le condizioni detentive. Cinque anni dopo, il caso Liotta è arrivato in tribunale: l’accusa nei confronti di nove medici è di omicidio colposo per non aver "posto in essere una adeguata gestione intramuraria dello stesso". Un decesso che si poteva evitare. I medici, si legge nel capo di imputazione, "omettevano di trattare Liotta in maniera consona, disponendo o facendo disporre un ricovero d’urgenza presso idonea struttura ospedaliera, di disporre o far disporre un Tso, di effettuare adeguate misure di controllo e di monitoraggio dei parametri vitali [...] nonostante il grave e progressivo decadimento fisico dello stesso". La morte, questa morte, si sarebbe dunque potuta evitare. Stefano Borriello, invece, è morto nel carcere di Pordenone il 7 agosto 2015 a 29 anni stroncato da una polmonite batterica. Anche in questo caso, ricordano Filippi e Zecca nel Rapporto, il medico di reparto nonostante evidenti sintomi di infezione non ha proceduto ad alcun accertamento limitandosi a somministrare una terapia non adeguata a base di Diclofenac e Tavor 2,5 mg. Quando le sue condizioni sono precipitate, il personale del 118 lo ha trovato in arresto cardiocircolatorio. La richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Pordenone è stata rigettata dal giudice. A., 39 anni, detenuto nella la Casa circondariale Nuovo complesso di Rebibbia, dopo essere stato colpito da un ictus è rimasto in stato vegetativo di minima coscienza. Nei giorni precedenti al ricovero, il detenuto aveva manifestato sintomi di allarme: difficoltà a deambulare, a parlare e vomito. Dopo l’allarme lanciato dai compagni di cella è stato accompagnato in infermeria dove gli sono state misurate febbre e glicemia. Tornato in cella, le condizioni si sono aggravate. La scena si è ripetuta alle 4.30 del mattino. E anche in questo caso l’infermiera si è limitata a misurare pressione e glicemia. Richiesta di archiviazione rigettata. Per tutta la giornata successiva il detenuto non riusciva a reggersi in piedi, né a mangiare e bere. Solo alle 21.30 è stato visitato da un medico, che non ha rilevato nulla. Nella giornata successiva il detenuto presentava parte della bocca storta, non parlava e bevve solo un bicchiere d’acqua. Due anni dopo la procura ha chiesto l’archiviazione, rigettata dal giudice il 12 gennaio 2017. Troppe scarcerazioni arrivate tardi. Storie di fantasmi, sconosciuti. E dimenticati. Come M. G., 44enne malato terminale di Aids scarcerato da Rebibbia nel 2005 quando ormai era in coma. Più di una volta gli era stato negata la scarcerazione. O, come Mohammed Gasmi, 43 anni, tunisino, morto nella sua cella nel carcere di Ivrea sempre nel 2005. Da tempo, ricorda Ristretti nel suo dossier, soffriva di disturbi da disfunzioni ghiandolari. L’unica speranza è che il dibattito su Riina possa almeno fare puntare i riflettori sul diritto alla salute in carcere. "Tema oggi sempre più urgente", conclude Filippi. "Questo caso scoperchia un mondo". Esecuzione penale esterna: "I grandi del volontariato non oscureranno i piccoli" di Marta Rizzo La Repubblica, 7 giugno 2017 Le polemiche delle organizzazioni di volontariato a proposito delle assicurazioni per i lavori di pubblica utilità per gli imputati messi alla prova. I chiarimenti della responsabile dell’Ufficio del Ministero di Giustizia preposto. L’Epe (Esecuzione Penale Esterna) diffonde una nota, sulle assicurazioni per gli imputati messi alla prova in lavori di pubblica utilità. Csvnet (Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato) e Cnvg (Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) avvertono la possibilità che l’Epe prediliga le associazioni di volontariato più strutturate come datrici di lavoro e segnalano le troppe incombenze che le piccole associazioni sono costrette a svolgere per le pratiche assicurative. Lucia Castellano, Dirigente Generale Uepe (l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna) nega ogni forma di preferenza e chiarisce la soluzione per velocizzare le tutele assicurative degli imputati messi alla prova. Il chiarimento. In merito alla recente circolare dell’Epe sulle assicurazioni lavorative per gli imputati messi alla prova in lavori di pubblica utilità non retribuiti, Lucia Castellano risponde di non voler screditare nessuna realtà e spiega le differenti forme di assicurazioni per lavori obbligatori e per mansioni facoltative da garantire agli imputati messi alla prova e la conseguente armonizzazione del lavoro di tutte le forze impegnate nella messa alla prova stessa. La "messa alla prova". Il nuovo assetto dell’esecuzione della pena fuori dal carcere, ha preso forma durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2015. L’Epe (scontata fuori dal tempo vuoto e dallo spazio coatto della prigione) coinvolge 45.456 persone. Di queste, 9.782 sono "messe alla prova". Si tratta di imputati per reati non superiori ai 4 anni, che svolgono lavori di pubblica utilità, non retribuiti, al posto della condanna. Se la prova va a buon fine, non si celebra il processo e il reato si estingue, facendo così risparmiare tempo e costi di processo e detenzione. La recidiva, per tutti gli imputati in esecuzione penale esterna (quindi anche semilibertà e domiciliari) è del 17%, mentre è del 70% quella dei condannati in carcere: ecco perché la gestione dell’Epe è primaria e delicata assieme. La nota Epe sulle assicurazioni lavorative. A fine maggio scorso, l’Epe ha emanato una circolare a firma del Dirigente Generale, Lucia Castellano, nella quale vengono chiarite le norme assicurative per gli imputati messi alla prova: devono essere stipulate con l’Inail (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro) per i lavori obbligatori e non retribuiti presso enti del privato sociale; possono farsi con assicurazioni private, invece, le tutele per attività facoltative, ugualmente non retribuite, ma sempre riparative, previste dalla legge e che coinvolgono essenzialmente il volontariato. Tra le altre cose, nella circolare si legge: "Questa Direzione sta contattando gli enti del privato sociale più rilevanti (Fai, Legambiente, Cei, ecc.) a livello nazionale per stipulare nuove convenzioni o integrare quelle già esistenti, per rafforzare la rete di disponibilità ad avvalersi di una più vasta gamma di lavori di pubblica utilità". I dubbi di Csvnet e Cnvg. Csvnet e Cnvg hanno letto, in queste parole, il rischio che l’Epe possa prediligere le realtà di volontariato più ampie, a scapito delle piccole associazioni che, dicono, hanno invece maggiori capacità di accoglienza e innovazione. Per altro, segnalano le difficoltà delle piccole associazioni di adempiere alle pratiche con l’Inail (la quale, riconoscono Csvnet e Cnvg, si è resa positivamente collaborativa nello svolgere le pratiche per i messi alla prova). All’origine dell’allarme, c’è un fatto avvenuto a Genova nel 2016, quando un’associazione di volontariato fu multata per la mancata assicurazione Inail di un imputato in messa alla prova. Il problema, segnalava il Centro Servizi di Volontariato (Csv) di Genova, è che le associazioni, per lo più piccole, senza dipendenti e senza un apparato amministrativo adeguato, nello stipulare l’assicurazione Inail, soccombono di fronte alle troppe responsabilità delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Il rischio, avvertiva il Csv, è di bloccare un sistema virtuoso grazie al quale si evita il carcere a imputati che possono invece lavorare, per il bene loro e della comunità. Csvnet e Cnvg: "Epe deve segnalare eventuali malintesi". Le due organizzazioni ammettono il positivo lavoro svolto dall’Epe. Fondamentale, tra gli altri provvedimenti Epe, l’aver ottenuto che tutti gli enti che impiegano imputati messi alla prova in lavori di pubblica utilità, siano esonerati dalla spesa assicurativa, grazie all’incremento di un fondo voluto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Csvnet e Cnvg, si dicono, pertanto, pronti a collaborare con l’Epe, ma vogliono fortemente continuare a monitorare e tutelare il mondo del volontariato. "Lavoro obbligatorio e attività facoltative: questa la vera differenza". "Sono stupita dall’interpretazione che il Csvnet ha dato della nota sulla questione dell’assicurazione Inail, inviata a tutti gli Uffici Epe a mia firma - commenta Lucia Castellano - La faccenda è semplice: la legge subordina la concessione della misura della "messa alla prova" alla prestazione, per almeno 10 giorni l’anno, di lavori di pubblica utilità. L’assicurazione con l’Inail è obbligatoria quando si tratti di lavori di pubblica utilità, non retribuito. Nel programma di trattamento per la concessione della misura sono poi inserite altre attività, non obbligatorie, di tipo riparativo, ugualmente funzionali al recupero e al reinserimento sociale dell’autore di reato. Nella nota, semplicemente, chiarisco questa differenza, chiedendo agli uffici di predisporre con attenzione i programmi per ciascun soggetto che richieda la misura, inserendo entrambe le attività, sia obbligatorie sia di volontariato". Separare le attività di volontariato dai lavori di pubblica utilità. "È appena il caso di ricordare - continua Castellano - l’obbligo di assicurarsi con l’Inail e che la stessa Inail vuole fare chiarezza sull’interpretazione della norma, per facilitare l’accesso all’istituto della messa alla prova (la nota Inail è inserita nella circolare di Lucia Castellano, il link è citato sopra). È del tutto evidente (e la mia nota lo chiarisce ulteriormente) che alcune associazioni non hanno la struttura per sostenere gli adempimenti richiesti dall’Inail. Il problema viene affrontato sia chiedendo, e ottenendo, dall’Inail di facilitare le procedure per l’assicurazione nelle sedi periferiche, sia chiedendo agli Uffici Epe di indirizzare verso le associazioni più piccole le attività di volontariato, lasciando agli enti pubblici e alle associazioni più strutturate i lavori di pubblica utilità e gli oneri derivanti dall’assicurazione con l’Inail". Valorizzare tutte le realtà di volontariato in egual modo. "Non si deve interpretare come una deminutio delle associazioni meno strutturate quella che è la doverosa interpretazione della normativa vigente: la nota intende, al contrario, valorizzare l’apporto di tutte e di ciascuna le realtà di volontariato all’attivazione della misura della messa alla prova. Stupisce, poi, come tale protesta (oltre a confondere l’interpretazione di una legge con l’indirizzo discrezionale dell’azione amministrativa verso una soluzione piuttosto che un’altra) si levi immediatamente dopo l’emanazione della nota interpretativa, senza lasciare nemmeno il tempo di verificare, insieme agli Uepe, l’efficacia delle linee di indirizzo date agli uffici dal centro. Infine, ricordo che non sono mancati incontri di chiarimento prima e dopo la diffusione della nota". Tortura: un ritardo di vent’anni, il testo della discordia è all’ultimo miglio di Giovanna Casadio La Repubblica, 7 giugno 2017 Il 29 giugno il provvedimento arriva alla Camera. Ma tra i partiti ci sono ancora divisioni. Tra chi promette di "alzare muri" per evitare l’approvazione e chi denuncia un testo "troppo soft". Luigi Manconi dice che forse c’è un nesso "tra la timidezza con cui lo Stato italiano ha chiesto all’Egitto verità per Giulio Regeni e la mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura". Noi siamo un paese - è il ragionamento del senatore dem, presidente della commissione per i diritti umani - che non ha "la forza giuridica e l’autorevolezza morale" per pretendere verità su un caso efferato di tortura. Parole dure del "padre" della legge che introdurrà in Italia il reato di tortura. Quando sarà approvata definitivamente dal Parlamento. E siamo ormai a un passo. Se ne parla da vent’anni. Negli ultimi quattro è stato un continuo stop and go. Nel maggio scorso ha avuto l’ok dal Senato tra mille polemiche, tanto che lo stesso Manconi non l’ha votata: "Testo stravolto". Da ieri la riforma è al traguardo: sarà in aula a Montecitorio il 29 giugno e la prossima settimana in commissione Giustizia si voteranno gli emendamenti. Però Donatella Ferranti, la presidente della commissione, non dà nulla per scontato. "Attenti, il meglio può essere nemico del bene", è stato il suo richiamo quando è cominciata la discussione parlamentare ieri. Lo ha detto al vendoliano Daniele Farina, tante esperienze tra gli antagonisti milanesi ai tempi del Leoncavallo, che boccia una versione della legge considerata soft verso i torturatori. Stesso giudizio delle associazioni, tra cui Amnesty e Antigone, per le quali la legge uscita dal Senato è "un compromesso al ribasso, un testo confuso e pasticciato scritto con la preoccupazione prevalente di restringere le aree della potenziale punibilità". Al contrario la destra non vuole la legge. Edmondo Cirielli è intervenuto ieri per Fratelli d’Italia e l’ha definita "inutile e dannosa ", richiamando altre fattispecie di reato a cui potere fare ricorso in caso di abusi, difendendo l’autonomia delle forze dell’ordine. La Lega alzerà le barricate, a sua volta. Nel paese dello scempio della Diaz, di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, introdurre il reato di tortura è "un passo di civiltà". Il Pd rivendica la strada intrapresa e giura che, se anche ci fossero elezioni anticipate, questa riforma andrà in porto. Mdp voterà a favore. I 5Stelle sono critici. Spiega il grillino Vittorio Ferraresi: "Il rischio è che la legge, così com’è formulata, favorisca l’impunità di chi tortura per la difficoltà ad accertare il reato". Restano insomma le contestazioni sulle modifiche che il Senato ha consegnato alla Camera: in primo luogo, il reato di tortura viene considerato comune e non un reato proprio, slegandolo quindi dall’operato dei pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio. È stato cancellato l’aggettivo "reiterate" (che sembrava assolvere il singolo atto di violenza), ma è stato subito sostituito con "più condotte". Inoltre i traumi psichici dovranno essere verificati e, ha osservato Manconi, "i processi di tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo, un trauma avvenuto tanto tempo prima?". La legge prevede per il reato di tortura una pena da 4 a 10 anni, aumentata da 5 a 12 se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale. È aumentata fino alla metà se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; se ne deriva la morte la pena è aumentata fino a 30 anni. Punita l’istigazione a commettere atti di tortura. Non sono ammessi poi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di migranti verso Stati in cui si corra il rischio di essere sottoposti a tortura. Giudici di pace, Camera in pressing sulle funzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2017 Bozza di parere sullo schema di decreto legislativo di riforma della magistratura onoraria. No alle nuove competenze in materia penale. Ridimensionamento di quelle civili. Affidamento al ministero della Giustizia del rafforzamento dell’utilizzo oltre le due udienze a settimana. Sono questi alcuni dei punti qualificanti del parere messo a punto dalla presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti al decreto legislativo di riforma della magistratura onoraria, le cui associazioni hanno proclamato un nuovo sciopero di un mese. Modifiche che, nella forma di condizioni, sono però state concordate con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri e con l’ufficio legislativo di via Arenula. Il testo sarà votato oggi e prevede 13 condizioni e 2 osservazioni. Tra le prime, più vincolanti, spicca la richiesta di escludere il trasferimento di competenza in materia di diritti reali e comunione e il rinvio al 2025 della competenza in materia di condominio. Per diritti reali e comunione il parere sottolinea come le cause in queste materie comportano spesso questioni di diritto complesse a prescindere dal valore: per esempio le controversie in materia di servitù e di usucapione, le azioni di rivendicazione, le negatorie. Sul fronte penale, si mette in evidenza come la riforma, presa nella sua totalità, è di tale portata che l’estensione dell’area delle competenze in materia delicate dovrebbe essere presa in considerazione solo quando tutto sarà a regime e le piante organiche determinate. Ancora ieri al Csm, con l’audizione dei procuratori sono echeggiate le critiche sui limiti di utilizzo con un battagliero Armando Spataro in prima fila: a non convincere il paletto di 2 giorni di udienza massimi per i vpo. Una misura che getterà nel caos l’amministrazione della giustizia penale e allungherà i tempi dei processi a giudizio non del solo Spataro ma di oltre 100 procuratori. Il parere, sia pure in maniera assai cauta, affida comunque al ministero della Giustizia la possibilità di aumentare, solo trascorsi i primi 4 anni dall’entrata in vigore della riforma, l’utilizzo dei magistrati onorari oggi in servizio. Potrebbe poi prendere corpo un incremento della parte fissa dell’indennità sino a collocarsi in una forchetta tra i 1.200 e i 1.500 euro. Tra le altre modifiche messe in cantiere si segnalano la contrarietà all’affidamento al solo magistrato onorario dell’onere contributivo e la richiesta di soppressione dell’obbligo di residenza nel comune compreso nel distretto in cui ha sede l’ufficio giudiziario. L’insofferenza per lo Stato di diritto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 giugno 2017 Forse avevo capito male. Avevo capito che le sentenze si eseguono, si rispettano, non si discutono. Me lo ripetevano tutti, ogni volta che facevo qualche obiezione: i miei colleghi giornalisti, tutta gente molto ligia e ossequiosa della legge, gli intellettuali, i magistrati. Un magistrato di Brescia, recentemente, me lo ha spiegato anche in modo un po’ rude, perché siccome io avevo criticato una sentenza emessa da alcune sue colleghe (per essere precisi quella sul caso Ruby, con la condanna a sette anni contro Berlusconi, che poi fu anche criticata e annullata da Corte d’Appello e Cassazione...) lui mi ha spiegato che non era mio diritto criticare e mi ha condannato a risarcire le due magistrate versando loro, più o meno per tutta la vita, un quinto del mio stipendio. Difficile che possa dimenticarmelo, no? Beh, adesso invece scopro che le sentenze che non vanno criticate sono solo quelle che spediscono la gente in prigione, e non quelle di segno opposto. Anzi, per la proprietà transitiva (o qualcosa del genere), se una sentenza al carcere non deve essere criticata, una sentenza al non-carcere non deve invece essere difesa. E così l’intera intellettualità italiana (tranne poche mosche bianche) e l’intera politica italiana (tranne Giacchetti, Maroni e altri due o tre) sono partiti baldanzosamente all’assalto della sentenza della prima sezione della corte di Cassazione, che avanza l’ipotesi degli arresti domiciliari per Totò Riina. La Corte in realtà non dispone né auspica la scarcerazione: si limita a prenderla in considerazione, espone i principi sulla base dei quali essa potrebbe essere necessaria, e invita il tribunale di sorveglianza di Bologna ad essere meno superficiale e ad accertare se le condizioni di carcerazione di Riina siano umane o no, perché se la malattia del detenuto le rende inumane, allora non c’è niente da fare: va tirato fuori della cella. Per rispettare quel maledettissimo articolo 27 della Costituzione, pensato da chissà quale disgraziato padre costituente, il quale proibisce trattamenti inumani del prigioniero. Lo abbiamo scritto ieri e oggi lo ripetiamo: di fronte al mondo del giornalismo, della politica e a una intellettualità del tutto proni al populismo giudiziario, e compatti e giubilanti dietro il portabandiera Marco Travaglio, risalta in modo davvero inaspettato la figura di alcuni magistrati. Innanzitutto quelli della prima sezione penale della Cassazione, che hanno emesso la sentenza, e poi quella di nuovi personaggi emergenti, come il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, il quale - infischiandosene del davighismo vincente - ha preso nettamente e coraggiosamente posizione a favore della legge e del diritto e contro il forcaiolismo. Dimostrando, forse, che la magistratura è un corpo molto più vivo, moderno, coraggioso e plurale del corpo della politica e del giornalismo. E questa, certamente, è una notizia positiva. Si ha quasi la sensazione che qualcosa di nuovo e di importante si stia muovendo sotto la cappa opprimente dell’ideologia nazionale del giustizialismo. Forse anche sulla spinta di una avvocatura che ha tirato su il capo, che ha iniziato a combattere, a smuovere coscienze, a porre problemi, a seminare dubbi. Perché, secondo voi, si è scatenata la canea contro la sentenza della Cassazione? Per odio verso Riina e gli orrori che ha commesso? No, non credo. Riina è un signore di quasi novant’anni, che non fa più paura a nessuno. È un simbolo, solo un simbolo. La furia che si è sollevata non è tanto contro Riina ma contro la sentenza. E cioè esattamente contro l’idea che il diritto sia diritto e non un mezzo per punire, per offrire messaggi morali, o, meglio ancora, per vendicare. Molti hanno addirittura messo in relazione la sentenza della Cassazione con le imminenti celebrazioni per il venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino. E cosa c’entrano le due cose? Forse si pensa che la Cassazione, nelle sue sentenze, debba tener conto del sentimento popolare del momento? O che le sentenze, in alcune occasioni, abbiano un significato celebrativo? Temo di sì. Si pensa che invece una sentenza che afferma il diritto - in modo limpido, moderno, nobilissimo - come quella della cassazione, possa in qualche modo suonare ad offesa verso un uomo che per affermare il diritto ha speso tutta la sua vita fino a restarne ucciso con le bombe. Questa è la contraddizione suprema. Ed è anche un po’, forzando il ragionamento, una offesa a Borsellino e Falcone. La verità è che il ragionamento in queste circostanze è quasi inutile. La sentenza tocca delle corde sensibilissime. E probabilmente avrà delle conseguenze molto grandi sulla giurisprudenza, superiori di gran lunga alla conclusione del caso Riina. È una sentenza che in modo frontale e con grande piglio affronta il problema della violazione continua dell’articolo 27 della Costituzione. Quello che vieta la crudeltà in carcere. E mette in discussione la condizione carceraria. Forse è questa la cosa che fa più paura. I soliti quattro gatti contro il 41bis e l’ergastolo ostativo di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 7 giugno 2017 Il clima di rabbioso "dagli all’untore" contro tutto e tutti. Facebook e Twitter sono pieni delle immagini di falcone e borsellino e di esortazioni a rispettarne la memoria lasciando morire in carcere totò riina. Se vivessimo in un paese normale e in anni normali, saremmo in tanti a chiederci con preoccupazione se in Italia esista ancora la pena di morte, alla faccia della Costituzione che l’ha abolita nuovamente nel 1948, dopo che era stata ripristinata dal fascismo. Invece siamo i soliti quattro gatti, come direbbe Rossana Rossanda. Quattro gatti che non si scandalizzano, anzi plaudono con reverente stupore alla sentenza della prima corte di Cassazione su Totò Riina, il quale "ha diritto a una morte dignitosa". Magari anche fuori dal carcere. Ne ha diritto in quanto persona, e non "nonostante" sia lui. Come ne avrebbero diritto i due novantenni ancora stazionati nel carcere di Parma, come ne avrebbe avuto diritto Bernardo Provenzano, morto in ceppi mentre era già ridotto allo stato vegetativo e come Vittorio Mangano che non fu curato e condannato a morte perché si rifiutava di calunniare Dell’Utri e Berlusconi. E insieme a loro tutti i cittadini italiani. In quanto persone e senza distinzione tra colpevoli e innocenti. La verità è che in Italia la pena di morte esiste. Esiste nelle teste ed esiste nei fatti. Il caso di Totò Riina funge oggi da calamita. È bastato un accenno all’articolo 27 della Costituzione e a quel concetto di pena che non dovrebbe mai travalicare la pura perdita della libertà, per far uscire allo scoperto le viscere del mondo intero. Si va dai commenti falsamente pacati del genere Mentana (certo i diritti sono diritti, ma pensiamo anche alle vittime) al sarcasmo viscido della vignetta di Giannelli (Riina che ringrazia "bacio le mani", quasi fossero mafiosi anche i magistrati) fino al grido di guerra di Matteo Salvini che impegna la Lega a "dare battaglia" contro la scarcerazione. Gli opinion leader si fanno condottieri di un esercito in cui le tricoteuses sono già tantissime e schierate. La contro- rivoluzione culturale è già avvenuta, in un clima di rabbioso "dagli all’untore" contro tutto e tutti, mai visto nella storia repubblicana. Facebook e Twitter oggi sono pieni delle immagini di Falcone e Borsellino e di esortazioni, proprio a 25 anni dalle loro tragiche uccisioni, a rispettarne la memoria lasciando morire in carcere Totò Riina anche se, a detta dei medici, ormai quella larva d’uomo non sia più in grado di nuocere a nessuno. Ma siamo così sicuri del fatto che a tutti questi vocianti importi davvero qualcosa dei due magistrati uccisi dalla mafia? O non siamo invece in presenza di una sorta di rivendicazione di massa, quasi un grido di disperazione: noi non abbiamo nulla, ma che almeno quello lì muoia come un cane in manette… Se oltre all’esame delle coscienze passiamo anche all’aspetto materiale, abbiamo la conferma del fatto che qualche forma di pena di morte in Italia esiste, esattamente da venticinque anni, proprio in seguito alle stragi di mafia. Lo Stato si è difeso nel modo peggiore, cioè abrogando una serie di diritti. Un esempio è l’introduzione dell’art. 41bis nell’Ordinamento penitenziario, finalizzato a impedire contatti tra boss mafiosi in carcere e i loro complici all’esterno. Avrebbe forse dovuto essere sufficiente l’introduzione di vetro e citofoni per i colloqui con la famiglia. Invece il provvedimento è diventato "carcere duro", con una serie di restrizioni ma anche di piccole e grandi angherie che lo rendono simile alla tortura. E che dire dell’" ergastolo ostativo", un altro provvedimento con il sapore dell’incostituzionalità introdotto nel 1992, che vieta al condannato di determinati reati di fruire dell’applicazione di qualunque norma di alleggerimento della pena e condanna alla morte sicura in carcere? È o no anche questa una forma di pena di morte? Mauro Palma, Garante dei detenuti: "uno Stato è forte se tutela anche i diritti di Riina" di Errico Novi Il Dubbio, 7 giugno 2017 Mauro Palma, Presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti: "persino una decisione su un mafioso del genere va presa sulla persona e il suo stato attuale, non sul suo passato. Ecco cosa ha sancito, con coraggio, la Cassazione". La temibilissima Cassazione è il virus che infetterà lo Stato di un morbo devastante, capace di condurci alla resa davanti alla mafia? "Lo Stato in grado di sconfiggere la criminalità è proprio lo Stato che è in grado di riconoscere e assicurare i diritti della persona. Anche di un criminale come Riina". Mario Palma presiede l’Autorità Garante dei diritti dei detenuti. E, con lo stesso coraggio dei giudici che hanno chiesto di rivedere la sentenza sul boss di Cosa nostra, dichiara di essere "anche il garante di un criminale come Riina, anzi: è innanzitutto rispetto a chi non suscita alcuna empatia che si deve esercitare la funzione di garante". Partiamo dal diritto alla morte dignitosa: è un principio costituzionale, non c’è una legge ordinaria che lo tuteli. Sì, molto semplicemente esiste un’oggettiva asimmetria tra l’individuo libero e il recluso di fronte a un evento infausto, come si dice a proposito di un attacco cardiaco fatale. Chi è libero può contare su reti di supporto parentale, anche affettivo, diverse da quelle accessibili all’interno di un carcere. Lì non c’è la stessa condizione che può essere alleviante anche nel caso di eventi infausti. Il che ci conduce immediatamente all’aspetto della sentenza a mio giudizio più significativo. Qual è? Vede, non è che la Cassazione dia un’indicazione netta, non prescrive di sospendere la pena, dice piuttosto al Tribunale che nell’assumere la propria decisione ha sbagliato a tenere conto solo del passato, del reato, e non anche della condizione oggettiva presente che si è venuta a determinare. Cioè i giudici di sorveglianza avevano deciso solo sul Riina criminale e non sulla persona malata. Esatto. E questo approccio rende di fatto inutilizzabili tutte le argomentazioni che il Tribunale aveva richiamato nella propria sentenza. Nella pronuncia della Cassazione è questo il punto più interessante. Anche Riina va giudicato per quello che è oggi: un vecchio allettato. Il che non vuol dire che la nuova sentenza del Tribunale dovrà per forza concedere la sospensione della pena. Potrebbe stabilire che le condizioni di salute non sono tanto gravi e che Riina è ancora in grado di esercitare un ruolo in Cosa nostra. Ma appunto la Cassazione dice ‘ non puoi decidere solo in base al fatto che Riina è stato il criminale che è stato’. Molto pare dipenda dalla possibilità di attrezzare la cella con un letto che consenta a Riina di essere sollevato. Non è detto che sia l’aspetto decisivo, perché non mi risulta che Riina in questo momento sia materialmente in cella. Devo fare un’ultima verifica, ma si può dire con un alto margine di probabilità che sia tenuto nella parte sanitarizzata del carcere di Parma. Nella sentenza della Suprema corte d’altra parte si fa opportuno riferimento al fatto che una malattia grave non è affrontabile in un normale situazione carceraria. C’è chi come il senatore Lumia dice: se si scarcera Riina si dà un segnale di resa alla mafia. È così? Si può rispondere con Beccaria: un individuo non può mai essere un mezzo, deve restare il fine. Se le decisioni su un determinato soggetto vengono assunte in funzione del messaggio che ne può derivare, allora quella persona è ridotta appunto a mezzo, e questo non è mai lecito. Dopodiché io credo che uno Stato forte, in grado di sconfiggere la mafia, è proprio lo Stato in grado di riconoscere i diritti della persona e di assicurarli. Io non so quali siano esattamente le condizioni di Riina, ma so che vanno valutate come le condizioni di salute di una persona e non in funzione di un messaggio da dare alla collettività. Anche un boss come Riina va trattato innanzitutto come persona? A me sembra che a un certo punto sia stata sospesa la pena a Priebke. Bisognerebbe ricordarlo. E l’Autorità che lei presiede è garante anche del detenuto Riina? Certo. Altrimenti è come se un grande chirurgo accettasse di curare solo chi sta bene. E si lamentasse magari se gliene portano uno davvero malato. Anzi, noi siamo garanti in particolare proprio di coloro rispetto ai quali il sentimento di empatia è pari a zero. Proprio perché è così, noi siamo garanti dei suoi diritti. Questa è una cosa molto pannelliana. Eh, io non la prendo per una considerazione negativa. Ci mancherebbe. I familiari delle vittime hanno criticato molto la sentenza. Sono valutazioni da rispettare assolutamente. E alcuni leader di partito ne hanno già fatto una campagna politica. E queste posizioni invece non vanno considerate. In questo senso riconoscerà che i giudici della Cassazione sono stati bravi proprio nel non riferirsi a un tipo di legittimazione basata sul consenso anziché sul diritto. Cosa intende dire? L’esercizio della giustizia avviene sulla base del principio di legittimazione legale, cioè della norma che consente una determinata decisione. Finché è effettivamente così, sto tranquillo. Se ci si basasse sul principio di legittimazione consensuale, allora tremerei. I giudici della Cassazione possono essere considerati coraggiosi per questo? Esatto. Non si sono discostati dal principio di legittimazione legale. Di Matteo dice che si va verso benefici ai mafiosi: la delega sul carcere li prevede davvero? No, non è così. E anzi, proprio nell’ultimo passaggio parlamentare in cui quella parte della riforma penale è stata modificata, l’estensione dei benefici è stata specificata dall’espressione "fatti salvi i casi di cui all’articolo 4bis". Il che significa tenere fuori tutti detenuti in Alta sicurezza per fatti di mafia. Di Matteo conosce mille volte meglio di me le questioni di criminalità, è una persona seria e va ascoltato. Ma rispetto ai meccanismi che disciplinano sul piano legale la detenzione, credo che chi come noi ha seguito i lavori degli Stati generali conosca la materia un po’ meglio di lui. Sarebbe così scandaloso consentire ai mafiosi di comunicare via Skype con i propri congiunti? Premesso che non è un punto all’ordine del giorno perché, in fatto di tecnologie, negli istituti siamo ancora al paleolitico, invito a riflettere su una cosa. Adesso ci sono limitazioni enormi nel recapitare libri ai detenuti al 41bis per il timore che in qualche pagina si nasconda un messaggio al mafioso. Visto che ci sono detenuti al 41bis che vogliono studiare, perché non pensare a dei dispositivi digitali chiusi su cui la stessa amministrazione carica i libri? Sarebbe molto più sicuro. E l’esempio serve a dirci che in generale la tecnologia garantisce molto meglio la sicurezza. Ecco perché Skype, se ben controllato, non sarebbe scandaloso. La mafia ha grandi strumenti, ma proprio per questo le nostre strategie di risposta devono essere sofisticate, e non limitarsi a un tipo di contrasto buono solo per essere propagandato all’esterno. L’ex Presidente dell’Antimafia Violante: "Riina resta un boss, gli basta uno sguardo" di Daria Gorodisky Corriere della Sera, 7 giugno 2017 "La Cassazione non ha deciso la sua scarcerazione, ha voluto fissare un principio di diritto. Ma nel dibattito che ne è nato vedo la polemica ideologica tra giustizialisti e garantisti". Luciano Violante, fra i tanti incarichi politici è stato anche presidente della commissione Antimafia dal 1992 al 1994: che cosa pensa oggi del pronunciamento della Cassazione che sembra aprire un varco per far uscire Totò Riina dal carcere? "La Corte di cassazione non ha deciso la sua scarcerazione. Ha soltanto fissato un principio di diritto e, viste le gravi condizioni di salute di Riina, ha chiesto al Tribunale competente di motivare meglio il suo rifiuto di assegnarlo agli arresti domiciliari. Servirà dunque un supplemento di motivazioni prima sulla pericolosità del detenuto e poi, eventualmente superato questo scoglio, sull’adeguatezza delle condizioni per curare la sua patologia". In fatto di pericolosità, il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, martedì ha dichiarato al Corriere:"Abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa nostra". "Non ho le informazioni che ha il dottor Roberti, ma personalmente credo che a Riina basti uno sguardo per indicare ai suoi che cosa fare". Si fa riferimento, anche per criminali come Riina, al diritto a una "morte dignitosa". Che cosa significa esattamente? "Significa senza offesa alla dignità della persona, e con la garanzia della dovuta assistenza". Stefano Vaccari, componente pd della commissione Antimafia, ha affermato di avere compiuto indagini anche nel carcere di Parma, dove è detenuto Riina, e di aver rilevato "condizioni che non pregiudicano una morte dignitosa". "I giudici di Bologna sono stati chiamati a decidere anche se la struttura è adeguata o meno. O se esista un’altra struttura adeguata. Forse Parma lo è, ma io non lo so". Molti detenuti muoiono negli istituti di pena. Fra i malati molto più gravi di Riina, eppure deceduti in stato di detenzione, è stato già citato il capo mafioso Bernardo Provenzano. "Il tema non è se si può o non si può morire in carcere: dal momento che esiste l’ergastolo, è ovvio che questo possa accadere. Poi la legge prevede che, in particolari condizioni di malattia, la pena in carcere possa essere sospesa o trasformata in arresti domiciliari. Ma, prima di qualunque altro elemento, per me va sempre valutata la pericolosità del detenuto". C’è una sollevazione contro la possibilità che un uomo condannato a più ergastoli e che, fra i crimini e le stragi commessi ha sciolto un bambino nell’acido, possa lasciare il carcere. "In questa vicenda vedo un po’ la sgradevole ripresa di una polemica ideologica tra giustizialisti e garantisti". Che cosa intende con "ideologica"? Si parla di un pluriomicida capo di Cosa nostra: e, a parte tanti politici, protestano contro un’ipotetica sua scarcerazione dal fratello del giudice Borsellino, alla sorella di Falcone, ai Dalla Chiesa, ai principali sindacati di polizia e di polizia penitenziaria… "È chiaro che le vittime e i loro familiari meritano un rispetto particolare. Ma la Repubblica agisce sulla base dei principi costituzionali, e non combatte la mafia come la mafia combatte la Repubblica, con spirito di vendetta". Se Riina dovesse passare dal regime di massima sicurezza, previsto dal 41 bis, agli arresti domiciliari, per la mafia non sarebbe una grande vittoria? "I giudici devono prima stabilire se è ancora pericoloso o no. Per quanto mi riguarda, ritengo che sia ancora in grado di emettere ordini. Però non commento l’operato del Tribunale prima ancora che emetta il suo giudizio". Nel 1993 lei è stato bersaglio delle minacce di Riina. Che ricordi ha di quei momenti? "Nel 1993 e anche dopo. Ma non ho mai parlato di queste cose. Né lo farò adesso". È ancora il capo di Cosa Nostra, ecco cosa si rischia a liberarlo di Attilio Bolzoni La Repubblica, 7 giugno 2017 È il sogno che ha sempre avuto: uscire dal carcere, tornare nella sua Corleone. Dal giorno della cattura, avvenuta in misteriose circostanze il 15 gennaio del 1993, Totò Riina non ha pensato ad altro. Un’ossessione: riacquistare in qualunque modo la libertà perduta quando era all’apice della sua potenza. Anche lui, come ogni mafioso, ha sempre coltivato la speranza che - prima o poi - lo Stato gli potesse fare uno sconto, un piccolo regalo in virtù dei tanti segreti che porterà fino nella tomba. Una grazia. È arrivato quel momento magico per quello che - ancora oggi - è formalmente il capo dei capi di Cosa Nostra? Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: al vertice della Cupola, malato o non malato, c’è sempre lui. C’è sempre il contadino di vicolo Scorsone che omicidio dopo omicidio e massacro dopo massacro ha conquistato la Sicilia e ricattato l’Italia. C’è sempre uno che si fa ascoltare anche quando sta zitto. Quanto sarà aiutato da questa sentenza della Cassazione è ancora difficile dirlo, anche se ragionevolmente il boss siciliano più famoso del mondo secondo noi - e con tutto il rispetto per i convincimenti dei giudici della Suprema Corte - passerà i suoi ultimi anni sempre dietro le sbarre e sempre isolato in un braccio speciale. Più che una svolta nella vicenda carceraria dello "zio Totò", questo pronunciamento della prima sezione penale è un segnale devastante che viene lanciato a meno di due settimane dalle pompose celebrazioni del 23 maggio in onore di Giovanni Falcone e a poco più di un mese dal venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino. I giudici del Tribunale di Sorveglianza di Bologna dovranno decidere sul destino di Riina il prossimo 7 luglio, proprio alla vigilia della strage di via Mariano D’Amelio. Ma ve lo immaginate, Totò Riina libero mentre si ricorda il giudice Borsellino saltato in aria per mano sua? C’è qualcosa di veramente indecifrabile nell’amministrazione della giustizia del nostro Paese, quando la questione è la mafia e quando di mezzo ci sono i mafiosi. Come si può rimettere in libertà l’uomo che ha dichiarato guerra allo Stato per un quarto di secolo e ha abbattuto tutti gli uomini dello Stato che si sono opposti ai suoi voleri e ai suoi piani? Per quello che ha rappresentato e ancora rappresenta, Totò Riina a piede libero è come liberare tutta la mafia, un perdono collettivo. Il messaggio che viene dalla Cassazione va decisamente oltre i ricorsi della difesa o i cavilli o i tortuosi percorsi che attraversano i codici. Rimettere fuori uno come Riina è una coltellata alle spalle ai familiari delle centinaia, migliaia di vittime che il corleonese ha reso tali. "Spegnilo", diceva ai suoi. E a turno, i suoi "canazzi da catena" andavano e uccidevano. Fermo il principio che anche lui deve avere garantita ogni cura e al meglio sino all’ultimo respiro - come qualunque cittadino italiano libero o detenuto - sembra davvero una provocazione scarcerare il più sanguinario dei mafiosi per il suo "decadimento fisico" e per assicurargli "il diritto a morire dignitosamente". Anche perché con il cervello lui c’è sempre. Un po’ affaticato ma sempre lucido. Sempre in agguato. Per provare a ragionare su questa sentenza e non cadere nella trappola delle suggestioni ci sono due considerazioni da fare. La prima. Se davvero Riina tornasse in libertà perché non più pericoloso o in grado di ordire trame e ordinare delitti, come giustificheremmo per esempio quell’imponente apparato di protezione intorno al pubblico ministero palermitano Nino Di Matteo, che da più di un anno vive prigioniero proprio per le minacce di morte del boss di Corleone, che va in giro con una scorta che non hanno nemmeno i presidenti della Repubblica? Totò Riina libero per (presunta) incapacità di nuocere e Nino Di Matteo ostaggio di cosa, di uno che non gli può torcere un capello? Qualcosa non quadra. La seconda considerazione. Lo stato di salute di Riina - che disteso su una barella non si perde un’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia - non è paragonabile a quello di Bernardo Provenzano, che negli ultimi mesi era alimentato con un sondino. Eppure anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, al tempo, ha dato ragione a chi - pure in quelle condizioni - ha tenuto l’altro mafioso corleonese al 41 bis fino al giorno della sua morte. Perché Provenzano, ormai ridotto a un vegetale, doveva stare rinchiuso e Riina - meno malandato - può tornare libero? Curatelo, curatelo bene. Ma dentro. Non è vero che Riina è moribondo: le cartelle cliniche della discordia di Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2017 Scontro su pericolosità e stato di salute. Nella sua seconda istanza di differimento della pena, presentata un mese fa, l’avvocato Luca Cianferoni giura che nell’ultimo anno "la salute di Totò Riina si è aggravata: non è più in grado di deambulare e non articola le parole". Di questo ulteriore deterioramento, il penalista non vuole dire di più "perché non sarebbe corretto", ma annuncia che oggi con tutta probabilità il capo di Cosa Nostra non sarà in grado di presenziare al processo d’appello per la strage sul Rapido 904 (16 morti il 23 dicembre 1984), e poi, come prova delle recenti sofferenze, cita l’assenza dell’11 maggio nel processo per la Trattativa Stato-mafia: "Per un affaticamento cardiaco, Riina non fu ritenuto in condizioni di essere tradotto: l’udienza venne rinviata". In realtà a Palermo fanno notare che il super-boss corleonese ha sempre presenziato a tutte le udienze del processo Stato-mafia, e che l’unica diserzione, quella di maggio, riguardò un malessere temporaneo: tanto è vero che l’udienza si tenne regolarmente alla sua presenza il giorno successivo. "Riina è sempre stato vigile - dicono in Procura - al punto da aver dato la disponibilità a farsi interrogare in aula, anche se poi ha deciso di non parlare". Ma allora chi ha ragione? Quali sono le reali condizioni di salute di Totò ‘u curtu, 86 anni e 33 condanne sulle spalle? È quanto dovrà stabilire il 7 luglio il Tribunale di sorveglianza di Bologna, presieduto dalla giudice Maria Antonietta Fiorillo, chiamato in causa per la seconda volta dalla nuova istanza di Cianferoni che punta agli arresti domiciliari per lo stragista di Cosa nostra. A quella udienza, che non è l’udienza di rinvio stabilita dalla Cassazione (questa non è ancora fissata, anche se è probabile che i due procedimenti saranno unificati), sarà presente il procuratore generale di Bologna Ignazio De Francisci, ex membro del pool antimafia di Palermo, che dovrà provare sia la compatibilità del quadro clinico di Riina con la detenzione, sia l’attualità del pericolo rappresentato dal boss che il procuratore nazionale Franco Roberti ha descritto come il capo di Cosa Nostra. "Abbiamo elementi per dimostrarlo - ha detto Roberti - vorrei ricordare che il pm Nino Di Matteo vive blindato proprio per le minacce di Riina. Se non è pericolo attuale questo". La Dna ha già offerto la piena disponibilità per integrare la motivazione del Tribunale di sorveglianza bolognese, che il 20 maggio 2016 aveva rigettato la prima istanza di Cianferoni, nei punti poi giudicati "carenti" dalla Cassazione: l’obiettivo è provare l’odierna pericolosità di Riina nonostante il decadimento fisico. Che, indubbiamente, c’è. Anche se, sfogliando le carte, si capisce come Cassazione e Tribunale di Bologna lo valutino in modo totalmente diverso. La Cassazione, nella sentenza depositata due giorni fa, descrive il super-boss come "un soggetto affetto da sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica", con plurime patologie: la "duplice neoplasia renale", la "situazione neurologica altamente compromessa" e la "grave cardiopatia". Una situazione complessiva che spinge gli ermellini ad affermare il diritto del detenuto "di morire dignitosamente": ed è per questo che "il rigetto del differimento della pena da parte dei giudici bolognesi deve essere espressamente motivato". La Suprema Corte, infine, evidenzia le "deficienze del carcere di Parma, relative alla necessità del condannato di avere un letto rialzabile che, per le sue misure, non si riuscirebbe a far entrare in cella". Sulle malattie di Riina, invece, il Tribunale di sorveglianza era stato lapidario, sostenendo che si tratta di "patologie trattabili anche in ambiente carcerario". La duplice neoplasia al rene destro, infatti, "è rimasta invariata", e sui problemi neurologici il boss aveva ottenuto "un buon recupero del cammino", anche se poi era risultato "non più autonomo nel passaggio carrozzina-letto". Un quadro clinico stabile, insomma, sia pure con episodi critici, "ai quali si è sempre provveduto con i ricoveri all’ospedale del carcere di Parma". Ma soprattutto un decadimento che non ha impedito al padrino di riportare nel 2013 l’ennesima condanna per minacce alla polizia penitenziaria, e che gli ha permesso "di non fare mai registrare concreti segnali di dissociazione dalla sua condotta criminale". Battaglia sul caso Riina, si spaccano i partiti e i Pm di Rocco Vazzana Il Dubbio, 7 giugno 2017 La sentenza della Corte di Cassazione su Totò Riina - che apre alla possibilità di un differimento della pena o della concessione degli arresti domiciliari per garantire il "diritto a morire dignitosamente" anche al vecchio boss corleonese - continua a dividere magistrati, politici e opinione pubblica. Da un lato il coro di indignati che vorrebbe vedere la belva finire i suoi giorni in carcere, dall’altro singole voci che difendono lo stato di diritto senza eccezioni. Tra questi ultimi c’è Eugenio Albamonte, capo dell’Anm, il sindacato dei magistrati, che sulla sentenza della Suprema Corte dice: "È la prova che lo Stato è più forte della mafia. Rende quasi orgogliosi di una giustizia che riesce a ragionare in termini di diritti nei confronti di chi ha negato diritti agli altri". Ma la vera sorpresa arriva dal mondo politico. Tra le voci dissonanti, spunta infatti quella del governatore lombardo Roberto Maroni che, scontrandosi con Salvini, si schiera così: "L’ultimo atto della vita deve essere garantito in modo dignitoso a chiunque, anche al peggiore dei criminali, altrimenti tanto vale reintrodurre la pena di morte". La sentenza della Cassazione su Totò Riina è "la prova che lo Stato è più forte della mafia". A pronunciare queste parole non è un militante di un’associazione per i diritti umani, ma Eugenio Albamonte, capo dell’Anm, il sindacato dei magistrati. La decisione della Suprema Corte - che apre alla possibilità di un differimento della pena o della concessione degli arresti domiciliari per garantire il "diritto a morire dignitosamente" anche al vecchio boss corleonese - continua a far discutere. Da un lato il coro di indignati che vorrebbe vedere la belva finire i suoi giorni in carcere, dall’altro singole voci che difendono lo stato di diritto senza eccezioni. "Il fatto che la Cassazione riesca a porre un tema umanitario rispetto a un soggetto che ha dimostrato con la sua condotta criminale il massimo della disumanità rende quasi orgogliosi di una giustizia che riesce a ragionare in termini di diritti nei confronti di chi ha negato diritti agli altri", è il ragionamento di Albamonte. "Il principio del rispetto di umanità nel trattamento dei detenuti riposa anche su trattati internazionali a cui l’Italia ha aderito". Perché ciò che la Cassazione chiede di chiarire al Tribunale del riesame è se l’ottantasettenne Riina possa ancora essere considerato il capo dei capi di Cosa nostra. Se così non fosse, infatti, non sarebbe giustificabile negare la sospensione della pena a una persona gravemente malata. Senza mai calpestare il dolore dei familiari delle vittime, la vendetta non può appartenere ai criteri di valutazione di uno Stato. "Il nostro sistema si fonda sul fatto che anche se hai negato i diritti a tutti gli altri attraverso condotte criminali non per questo ti devono essere negati i diritti e per questo devi essere trattato secondo giustizia", ricorda il capo dell’Anm. "Se sarà confermata l’estrema pericolosità attuale Totò Riina dovrà giustamente rimanere in carcere, ma non sarà per la negazione di un diritto umanitario ma per il riconoscimento di una situazione di estremo pericolo. Tra i magistrati, l’opinione di Albamonte rimane pressoché isolata. Dopo Nicola Gratteri, tocca infatti al Procuratone nazionale antimafia Franco Roberti intervenire pubblicamente per chiedere di lasciare Totò "u Curtu" in carcere, in regime di 41 bis. "Abbiamo elementi per ribadire che Totò Riina è il capo di Cosa nostra", dice il super procuratore al Corriere della Sera. "Vorrei ricordare che il pubblico ministero Nino Di Matteo vive blindato proprio a causa delle minacce che Totò Riina ha lanciato dal carcere. Se non è un pericolo attuale questo, mi chiedo che altro dovrebbe esserci. Posso comunque assicurare che su questo punto saremo in grado di fornire motivazioni più stringenti proprio come ci viene chiesto". In attesa di leggere le motivazioni di cui parla il capo della Direzione nazionale antimafia, la vicenda Riina divide anche la politica: la maggioranza urla allo scandalo, chi può si defila, qualcuno rema controcorrente. Tra questi ultimi, un insolito Roberto Maroni seppellisce la retorica leghista della ghigliottina e spiazza il suo partito. "Non sono d’accordo con chi dice che deve morire in carcere perché Riina è Riina. Riina lo conosciamo bene, è il boss dei boss, però c’è un livello di umanità che deve prevalere quando uno sta per morire", dice il governatore lombardo sconfessando la linea salviniana. "Sono d’accordo con quello che ha detto la Corte di Cassazione perché l’ultimo atto della vita deve essere garantito in modo dignitoso a chiunque, anche al peggiore dei criminali, altrimenti tanto vale reintrodurre la pena di morte". Le parole utilizzate da Maroni però non trovano spazio nel vocabolario del Carroccio. Ci pensa Matteo Salvini a rimettere in ordine le cose: "C’è qualcuno che dice che Riina è malato e merita le cure. Ma vi rendete conto? Ma vaffanculo, deve marcire in galera, non deve vedere da vivo la luce del sole", dice senza giri di parole il segretario federale, che poi aggiunge: "Chi ha ammazzato donne e bambini non deve rivedere vivo la luce del sole, non rompetemi i coglioni con i diritti umani, la sensibilità, la pietà". Maroni afferra il concetto e su Facebook pubblica una parziale rettifica. Anche se con toni meno coloriti, anche gran parte del Pd vorrebbe lasciare "u Curtu" in galera fino alla fine. Uniche voci fuori dal coro: Roberto Giachetti e Luciano Violante. Per l’ex candidato sindaco di Roma "il punto è semplice: lo Stato democratico punisce, non si vendica. La forza di uno Stato democratico sta nel difendere regole e principi democratici a maggior ragione nei confronti di chi quei principi li ha messi sotto i piedi macchiandosi di reati atroci e odiosi", spiega il deputato renziano. E per l’ex presidente della Camera "non occorre confondere i principi che ispirano il 41 bis con l’eventuale scarcerazione del boss, leggendovi quasi un segnale di allentamento", dice Violante al Mattino. "Il punto vero è che la Repubblica non può rispondere alla mafia utilizzandone le stesse spietate logiche di vendetta". Sul 41bis, in merito al caso Riina, una importante pronuncia della Cassazione da Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 7 giugno 2017 Nel dibattito sul 41bis un’importante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione. Si eviterà un altro caso Provenzano? Solo per ricordare tra gli altri il più recente e più noto. Torniamo ad occuparci dell’art 41 bis dell’ordinamento Penitenziario. Questa volta non per denunciare le prassi che costringono i detenuti ad un regime ben lontano da quello che prevede la norma e le ragioni investigative di esse, ma finalmente per una piccola fiammella che illumina il buio che circonda questo tipo di detenzione. Buio che non consente, tra l’altro, all’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane di visitare gli istituti dove sono reclusi tali detenuti e che vieta a questi ultimi di rispondere al questionario loro inviato sulle modalità di detenzione. I Giudici della I Sezione Penale della Cassazione hanno accolto il ricorso della difesa di Totò Riina ed hanno annullato con rinvio la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che aveva negato la concessione di benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui il detenuto versa da tempo. Il 13 luglio 2016 era morto Bernardo Provenzano, detenuto anch’egli al 41 bis, ma che non aveva trovato nel suo percorso giudiziario un’attenzione simile. Tre mesi prima l’Unione Camere Penali aveva denunciato il provvedimento contro natura e contra legem, adottato dal Ministro della Giustizia su proposta della Direzione Nazionale Antimafia, con il quale era stato prorogato al predetto il regime al 41 bis. Provenzano, come accertato in sede giudiziaria, era da tempo sofferente per patologie plurime ed invalidanti, che comportavano un grave decadimento cognitivo e motorio, anche per i postumi di molteplici interventi chirurgici. Era in stato quasi vegetativo. Nonostante "l’uomo" non potesse più definirsi "persona", egli fu considerato individuo dall’elevata pericolosità. La sua morte, nelle condizioni in cui lo Stato ha voluto avvenisse, rappresentò solo ed esclusivamente la sconfitta del diritto in un Paese che, pur di dimostrarsi "forte", era ricorso ad ingiustificati ed ingiustificabili provvedimenti che assumevano esclusivamente il valore della vendetta. L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, plaude, pertanto, al provvedimento della Suprema Corte di Cassazione che chiede al Tribunale di Sorveglianza di Bologna di rivalutare la pericolosità di una persona con un passato criminale di grande spessore, ma oggi piegata nel corpo e nella mente per il tempo trascorso e per le malattie che l’hanno devastata, incapace quindi di avere collegamenti con qualsiasi organizzazione delinquenziale. Decisione corretta perché pone al centro della questione giuridica la persona e i suoi diritti inalienabili che non sono disponibili e non possono essere mai calpestati, neanche dal mal celato obiettivo punitivo del regime detentivo speciale contemplato dall’art. 41 bis. Decisione coraggiosa perché applica i principi di diritto ad onta di un’idea giustizialista diffusa. Il Procuratore Nicola Gratteri, durante un incontro con gli studenti all’Università ha duramente criticato la decisione della Suprema Corte affermando che Riina deve restare in carcere in quanto non deve fare sport, né partecipare alle olimpiadi, deve morire in carcere come avvenuto per altri capi mafia. La sua scarcerazione rappresenterebbe una disparità di trattamento nei confronti dei suoi simili, mandati a casa da morti. Parole che dovrebbero far rabbrividire e che invece hanno trovato facile consenso. Decisione, quella della Suprema Corte, saggia e costituzionalmente orientata, che ci auguriamo possa rappresentare la svolta tanto attesa di una Giurisprudenza conforme alle regole basilari del nostro diritto, prima tra tutte il rispetto della dignità della persona, chiunque essa sia. Detenuto muore isolato: "omicidio colposo" se il medico non lo ha adeguatamente visitato di Emanuele Nicosia quotidianogiuridico.it, 7 giugno 2017 Cassazione penale, sezione IV, sentenza 23 maggio 2017, n. 25576. Secondo recente pronuncia della Cassazione (sentenza 23 maggio 2017, n. 25576), il "costante controllo sanitario" previsto dalla legge per il detenuto posto in isolamento deve essere inteso nel senso che tale controllo non può limitarsi ad un colloquio anamnestico e di verifica delle condizioni psicologiche, ma deve comprendere anche un esame obiettivo generale. La violazione di tale regola cautelare può comportare, in caso di morte del detenuto a seguito di grave patologia fisica, la responsabilità del medico penitenziario per omicidio colposo. Misure cautelari: alle sezioni unite i dubbi sui termini per l’ordinanza di annullamento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 6 giugno 2017 n. 27828. Saranno le Sezioni unite a stabilire se, nel giudizio di rinvio dopo l’annullamento dell’ordinanza che applica una misura cautelare personale coercitiva, al tribunale del riesame sia consentito prendersi 45 giorni per depositare il "responso", nel caso in cui la motivazione sia particolarmente complessa. I giudici della prima sezione penale della Cassazione (ordinanza interlocutoria 27828) chiedono "aiuto" alle Sezioni unite per sapere quale strada prendere tra le due opposte indicate dalla giurisprudenza di legittimità sul rispetto dei termini. Il caso che ha indotto a chiedere lumi riguardava una persona ristretta in carcere perché fortemente indiziata di rapina e omicidio. La Cassazione aveva accolto il ricorso dell’indagata perché al suo difensore non era stato concesso prima dell’udienza di discussione il temine di tre giorni. L’ordinanza, annullata con rinvio dalla Suprema corte, era stata confermata dal Tribunale che si era "preso" per motivare la decisione 45 giorni. Una "proroga" rispetto ai 30 giorni canonici giustificata dalla complessità della vicenda esaminata e dal gravoso carico di lavoro della sezione chiamata a esprimersi su provvedimenti relativi alla libertà personale. Lo slittamento era legittimo anche alla luce di un principio affermato dalla Cassazione (sentenza 18572/2016). Secondo la sentenza citata dal Tribunale, anche nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento di un’ordinanza che conferma la misura, il tribunale può avere a disposizione per il deposito, nel caso di motivazione particolarmente "impegnativa" per numero di arrestati o per la gravità delle imputazioni. un termine superiore ai 30 giorni, indicati dall’articolo 311, comma 5-bis del Codice di procedura penale, ma non superiore ai 45 (articolo 309, comma 10 del codice di rito). Il comma 5-bis dell’articolo 311 del codice di rito, introdotto dall’articolo 13 della legge 47/2015 avrebbe infatti, equiparato la disciplina del procedimento a seguito di rinvio a quella ordinaria. Al contrario prima della riforma si riteneva che nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento dell’ordinanza, non fosse possibile applicare il termine dei 45 giorni come previsto dall’articolo 309. La riforma avrebbe annullato queste differenze, rendendo possibile una parità di trattamento. Il legislatore avrebbe inteso equiparare il procedimento del riesame anche in seguito a rinvio. Una finalità pregiudicata dall’impossibilità di applicare il termine lungo. In effetti, secondo il Tribunale, non ci sono motivi per fare distinzioni. L’annullamento con rinvio non comporta un giudizio chiuso, essendo possibile la valutazione di nuovi elementi di fatto, circostanza che esclude la presunzione di una motivazione più "facile". La ricorrente aveva contestato la lettura del Tribunale e chiesto di dichiarare la perdita e di efficacia dell’ordinanza. E la difesa aveva citato una giurisprudenza contraria a quella invocata dal Tribunale. Con la sentenza 20248/2016 la Cassazione ha, infatti, affermato che il mancato rispetto del termine di 30 giorni, in un caso come quello esaminato, rende inefficace il provvedimento. Il Tribunale potrebbe, infatti, utilizzare i 45 giorni solo per le ordinanze che dispongono la misura cautelare. La mafia si eredita: lo Stato salvi i figli dei boss di Simona Musco Il Dubbio, 7 giugno 2017 "La ‘ndrangheta si eredita". La sentenza di Patrizia Surace, giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, è senza appello: non è possibile non crescere come mafiosi se si vive in una famiglia mafiosa. Un concetto che ha espresso senza dubbi, ieri, nella sala consiliare del Comune di Siderno (Rc), dove magistrati ed associazioni hanno discusso del progetto "Liberi di scegliere", promosso dal presidente del Tribunale per i minorenni Roberto Di Bella, con lo scopo di spezzare la "trasmissione della cultura criminale". Un progetto che ha già portato all’allontanamento di circa 40 ragazzi dalle famiglie, molto spesso su richiesta delle madri. "Noi vorremmo che il tribunale fosse soltanto l’ultima spiaggia possibile, ma di fatto non è così - ha aggiunto Surace, perché la pressione criminale impedisce alle agenzie educative di primaria importanza un intervento forte per questi ragazzi e dunque tocca intervenire". Le vere vittime della ‘ndrangheta, ha chiarito il giudice, sono i ragazzi, "cooptati e inibiti nelle loro prospettive future". Sono le madri a chiedere di evitare quel bivio che porta da un lato al carcere e dall’altro alla morte. "Il tribunale vuole offrire la terza possibilità, ma da soli non ce la possiamo fare", ha aggiunto. E qui entra in gioca Libera, che supporta l’iniziativa nella sua fase esecutiva. "Non si agisce contro le famiglie - ha concluso, il nostro compito è tutelare i ragazzi offrendo loro importanti e concrete opportunità di vita". Un progetto sul quale anche il giudizio del procuratore antimafia reggino Federico Cafiero de Raho è chiaro: in una terra dove ancora timidamente si parla di ‘ ndrangheta, i figli dei mafiosi sono destinati a sostituire i padri. Così appare necessario, per il procuratore, far sì che lo Stato diventi famiglia per quei bambini. De Raho cita il caso di Maria Rita Lo Giudice, morta suicida, ipotizza la Procura, perché non riusciva a sopportare più il peso del suo nome. "Cos’è mancata? si è chiesto - L’inclusione". Non tutti nelle istituzioni sono d’accordo però con questa iniziativa. De Raho non fa nomi, alludendo ad un personaggio "di altissimo livello istituzionale" che non trova naturale l’idea di togliere i figli a queste famiglie. E non lo comprende, al punto di confutarlo davanti al pubblico. "Com’è possibile che un uomo di questa cultura non capisca che se resta in quella famiglia quel ragazzo sarà il successore di suo padre, di quel vertice di ‘ndrangheta?". Nessuna alternativa, dunque, la biologia e l’ambiente vincono su tutto. Torino: detenuto di 47 anni muore nel Centro clinico del carcere Lorusso Cotugno di Riccardo Arena (Radio Carcere) Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2017 Lunedì 13 febbraio, Luigi Dilonardo, di 47 anni, muore nel Centro clinico del carcere Lorusso Cotugno di Torino. Da quanto si è appreso pare che l’uomo fosse gravemente malato tanto che da pochi giorni era stato trasferito dal carcere di Verbania al carcere di Torino per essere poi ricoverato nel reparto detentivo dell’ Ospedale le Molinette. Ma purtroppo, essendo arrivato nel carcere di Torino di venerdì ha dovuto attendere 2 giorni prima di essere ricoverato. Un’attesa che è stata fatale per Luigi. Va anche precisato che la notizia di questo decesso ci è arrivata grazie a una lettera che ci è stata spedita da un gruppo di persone detenute proprio nel carcere di Torino, i quali specificano anche che Luigi erano 2 giorni che diceva ai medici di avere forti dolori al petto ma pare che poco o nulla gli sia stato fatto. Roma: "Un volontariato in direzione ostinata e contraria", assemblea nazionale Cnvg agensir.it, 7 giugno 2017 Sarà "Un volontariato in direzione ostinata e contraria" il tema della X Assemblea nazionale della Conferenza nazionale volontariato giustizia (Cnvg), che venerdì 9 giugno a Roma, presso la Sala Teatro di Rebibbia, riunirà istituzioni, esperti e protagonisti della realtà del carcere e delle misure di comunità. La mattinata, con inizio previsto alle 10, "sarà l’occasione - si legge in una nota - per fare il punto sullo stato delle carceri italiane, ma anche per conoscere i protagonisti dei progetti che coinvolgono le persone detenute o che hanno problemi con la giustizia, scoprire le dinamiche più pervasive dell’essere volontari in carcere e sul territorio seguendo le misure di Comunità e ascoltare le testimonianze dirette delle famiglie di autori e vittime di reato". Nel corso dell’assemblea verrà anche firmato un protocollo tra la Cnvg e il dipartimento della Giustizia minorile e di comunità. "Per fare volontariato con i soggetti di cui ci occupiamo noi - spiega - bisogna davvero essere ostinati e andare costantemente in direzione contraria a quella della stragrande maggioranza della società". Verranno presentate diverse iniziative con i detenuti come il laboratorio teatrale permanente nel carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino, la squadra romana di "Atletico Diritti", fatta di persone immigrate, detenute, ex detenute, le realtà delle redazioni dei giornali del carcere, le esperienze maturate in ambito minorile o quelle di inserimento lavorativo attivate nel carcere di Bollate. Oltre agli interventi di docenti universitari, "arricchiranno la giornata - conclude la nota - le parole dei familiari di autori e vittime di reato, che daranno testimonianza diretta delle storie che hanno vissuto". Agrigento: finisce in carcere a 80 anni, deve scontare 20 giorni di pena di Fabio Giuffrida leonardo.it, 7 giugno 2017 Un uomo di 80 anni, originario di Porto Empedocle, è stato arrestato dalla polizia in esecuzione di un provvedimento dell’Ufficio Esecuzioni penali della Procura di Agrigento. La sua "colpa"? Aver realizzato una costruzione abusiva a Maddalusa, nell’Agrigentino. Adesso, infatti, l’uomo dovrà scontare 20 giorni di reclusione. Finisce in carcere per una costruzione abusiva - Il provvedimento - che prevede il carcere per 20 giorni ad Agrigento - segue di fatto l’ordinanza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Palermo che, rigettando l’istanza di messa in prova dell’anziano, ha dato torto all’80enne. L’uomo, adesso, è stato portato al carcere Petrusa dove dovrebbe rimanere per 20 giorni. Savona: carcere chiuso, "epidemia" di depressione tra gli agenti di custodia di Alberto Parodi Il Secolo XIX, 7 giugno 2017 Tredici sono andati in pensione dopo essere stati riformati per motivi di salute e congedati. Stato depressivo-ansioso. Hanno appeso il loro basco azzurro al chiodo. Altri due li seguiranno a breve. Su un totale di una quarantina. Sono agenti della polizia penitenziaria che erano in servizio al carcere Sant’Agostino di Savona. Vuoto e chiuso da maggio dell’anno scorso dopo il decreto ministeriale di soppressione risalente a fine 2015. Gli agenti riformati e pensionati prima della chiusura stavano bene, erano regolarmente in servizio. Si sono "ammalati" dopo la chiusura del carcere in cui lavoravano. Il necessario trasferimento in altri istituti di pena-come successo per gli altri colleghi- lontano da casa (carceri di Marassi a Genova, Imperia) e dalle loro famiglie li ha fatti ammalare e andare in pensione. "Altri ne seguiranno" fa sapere il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria con il maggior numero di iscritti tra i baschi azzurri che ha seguito i "riformati". È una delle conseguenze del caso-carcere di Savona. Chiuso di fatto, vuoto, anche dal punto di vista formale e istituzionale, ma in realtà solo "fantasma" e tracciato su carte e atti interni. Nelle scartoffie del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) continua ad esistere. Infatti tutto quello che riguarda statistiche, archivi, vita "professionale" di dipendenti, addetti e detenuti è confluito nell’ufficio "stralcio" ricavato all’interno della cittadella della scuola di formazione del corpo di polizia penitenziaria a Cairo Montenotte. Un ufficio che ha seguito le operazioni di dismissione, svuotamento e trasloco di quanto c’era all’interno del Sant’Agostino. Un’operazione che ha tenuto impegnati gli agenti sino a qualche mese fa. Adesso le chiavi del Sant’Agostino sono in possesso dell’ex direttrice Paola Penco (direttrice del carcere di Chiavari) che una volta alla settimana raggiunge con l’autista e l’auto di servizio Cairo per firmare atti come responsabile dell’ufficio stralcio. Qui sono stati dislocati alcuni addetti che erano in servizio a Savona. Chiavi che quando sarà il momento dovrà restituire. Visto che l’ex carcere, un bene di proprietà del Dap, passerà alle dirette dipendenze dello Stato, quindi al Demanio. L’ipotesi di destinarci i detenuti semi-liberi che devono dormire in carcere la notte non verrebbe ritenuta realizzabile dagli addetti ai lavori. Il segretario nazionale Donato Capece, e regionale del Sappe, Michele Lorenzo, sollevano oltre al caso dello spreco pubblico -"per un immobile di proprietà dello Stato, abbandonato a se stesso, senza futuro" - anche quello della vigilanza e della sicurezza: "Non ci risulta alcuna forma di presidio o vigilanza della struttura di Savona, a rischio clochard e bivacchi. Anche la missione a Cairo dell’ex direttore Penco da Chiavari rappresenta uno spreco di risorse". Agli uffici della direzione invece risulterebbe una forma di vigilanza in piazza Monticello. Intanto il parlamentare Franco Vazio (Pd) ricorda: "Lo stanziamento di circa 20 milioni di euro per costruire il nuovo carcere in Valbormida c’è". Bologna: Comunità Papa Giovanni XXIII "accoglieremo le mamme carcerate" Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2017 20 anni fa Don Oreste Benzi inaugurava la casa per adulti San Giovanni Battista. Ivan (nomi di fantasia) ad 1 anno e mezzo aveva già passato 3 mesi della sua vita nel carcere della Dozza; oggi ne ha 2 compiuti ed è finalmente un bimbo libero. La mamma Letizia, 45 anni di etnia rom, figlia di contadini rumeni, era stata arrestata per un episodio di minacce, ed era dovuta entrare in galera insieme al figlio. La donna ha potuto scontare gli ultimi mesi di pena fuori prigione: è stata accolta nella casa San Giovanni Battista di Castel Maggiore (Bo), vivendo come in famiglia insieme al figlio, piuttosto che dietro alle sbarre. Giovanna Boccardo, figura materna della casa di accoglienza per adulti, lo racconta "Il bimbo da noi stava bene, ma era evidente il trauma subito in carcere. Voleva sempre stare fuori, all’aria aperta, nel parco. Grazie al clima molto familiare la nostra casa si è sempre rivelata funzionale rispetto ai bisogni delle mamme, ecco perché abbiamo aperto le porte all’accoglienza di donne che sono detenute con i propri figli". Venerdì 9 giugno alle 17.30 la casa San Giovanni di Via Sammarina 40 a Sabbiuno di Castel Maggiore (BO) celebrerà i 20 anni dalla sua fondazione. Era stata voluta da Don Oreste Benzi nel 1997 per accogliere i malati terminali di aids inviati dall’Ausl di Bologna. Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, sarà presente e spiega: "È una grande ingiustizia che i figli siano costretti a pagare per i reati commessi dai propri genitori. Come Comunità da sempre chiediamo che sia sempre possibile, soprattutto nei casi di fragilità familiare, attivare dei percorsi alternativi al carcere che permettano di abbassare la recidiva e recuperare realmente la dignità delle persone che hanno sbagliato. Noi ci rendiamo fin da subito disponibili per l’accoglienza delle mamme detenute con i loro bimbi". Oggi la casa ospita 12 persone, fra cui adulti con ripetute ricadute nelle dipendenze, impegnati in percorsi di reinserimento lavorativo. Poi ci sono giovani alle prese con gravi disturbi psicologici; donne vittime della tratta ai fini della prostituzione. Negli anni qui hanno trovato una possibilità di ricominciare circa 800 persone, fortemente emarginate dalla società. Alberto Zucchero è educatore insieme a Giovanna: "Il modello della multi-utenza complementare ideato da Don Oreste Benzi permette a tutti di portare un proprio piccolo contributo nella vita di casa senza renderla un ghetto, cosa che non sarebbe possibile se avessimo un’unica categoria di disagio. Fondamentale è anche la presenza del gruppo di giovani volontari, che ad esempio durante l’accoglienza di Ivan ha portato a momenti di animazione e di confronto". Durante la celebrazione per il ventennale racconteranno la sfide dell’accoglienza degli adulti: Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità di Don Benzi; Lauretta Gianessi, responsabile del Sert (Servizio per le Tossicodipendenze) di San Giorgio di Piano, Emanuela Zanacchini, responsabile del Centro di Salute Mentale, entrambi dell’Ausl di Bologna; Giorgio Magnani, psichiatra del Centro di Salute Mentale di Carpi, Ausl di Modena. Sarà presente l’Arcivescovo di Bologna Mons. Matteo Maria Zuppi. Con l’accoglienza delle mamme che sono detenute con i propri figli il modello di Don Oreste si allarga alla nuova marginalità. Ad appena un chilometro di distanza la Capanna di Betlemme ha accolto negli anni circa 2000 persone di 30 nazionalità differenti. La vicina Comunità Terapeutica dal 91 ha attivato circa 1000 progetti di recupero per giovani affetti da dipendenze. Oggi è ospitata anche la roulotte di una famiglia rom. Grazie al finanziamento dell’Arcidiocesi di Bologna inizieranno a breve a Sabbiuno i lavori per la realizzazione di un Polo culturale, sociale e della condivisione, con sala riunioni, palestra ed un ulteriore spazio per l’accoglienza. Alle 19 l’aperi-cena multietnica gratuita sarà aperta a tutti e seguirà un concerto. Ufficio stampa: Irene Ciambezi, 348.4766863. Marco Tassinari, 328.1187801. Firenze: la Santa Sede scrive alla direzione del carcere "possibile una visita del Papa" Redattore Sociale, 7 giugno 2017 Una lettera, quella inviata dalla Casa Pontificia, arrivata in risposta alla missiva firmata dai del carcere e dal cappellano Don Vincenzo Russo, che insieme al direttore Carlo Berdini chiedevano al Pontefice di visitare Sollicciano. La Santa Sede scrive alla direzione di Sollicciano e apre per una visita di Papa Francesco nel carcere fiorentino. Una lettera, quella inviata dal prefetto della Casa Pontificia Georg Gänswein, arrivata in risposta alla lettera firmata dagli oltre 500 detenuti del carcere e dal cappellano Don Vincenzo Russo, che insieme al direttore Carlo Berdini chiedevano al Pontefice di visitare Sollicciano nel giorno del suo viaggio a Barbiana, in programma per il prossimo 20 giugno. Impossibile coniugare entrambe le cose, spiegano dalla Santa Sede, a causa della brevità del soggiorno di Bergoglio. "Pur comprendendo i sentimenti di filiale devozione al Santo Padre e le serie motivazioni che hanno suggerito la sua proposta - scrive il prefetto della Casa Pontificia - in questa occasione non è proprio possibile accoglier quanto da lei richiesto". E poi l’apertura per un’eventuale futura visita: "Ma posso assicurarle che il suo desiderio di incontro sarà conservato con la dovuta considerazione per una prossima data". Felice di questa notizia il cappellano Don Vincenzo Russo, che per sensibilizzare una visita del Papa e in solidarietà con i reclusi, aveva fatto un digiuno di preghiera lungo dieci giorni. Messina: "Il teatro per sognare", i detenuti diventano attori di Marika Micalizzi normanno.com, 7 giugno 2017 Giorgio Strehler diceva: "si può cambiare il mondo anche facendo del Teatro, meglio, o bene, insieme a tutto il resto, alla storia, alla politica, al lavoro. Allora queste cose, insieme possono cambiare gli uomini, possono cambiare il mondo". L’associazione D’ aRteventi, presieduta da Daniela Ursino, ha fatto tesoro dell’affermazione del grande regista teatrale. Nasce da questa ispirazione e con il sostegno della Caritas diocesana, il progetto "Il teatro per sognare", diretto dall’attore e regista Flavio Albanese e i cui protagonisti saranno i detenuti del Carcere di Gazzi. Da oggi al 14 giugno all’interno della Casa Circondariale Flavio Albanese svilupperà con un gruppo carcerati di alta sicurezza, un percorso basato sulla consapevolezza del corpo e della respirazione, elementi fondamentali per un attore, e sulla scrittura. Diversi i testi di riferimento: Pinocchio, Platone, Sartre, Dostoevskj, Shakespeare, Pirandello. Attraverso il sogno si affronteranno inoltre temi come libertà, felicità, realtà, finzione, con l’obiettivo, attraverso lo strumento della scrittura, di creare un racconto, con pensieri, riflessioni, sensazioni che possano fare sognare, portando tutti in uno spazio senza confini dove le esperienze e il bagaglio di vita di ognuno dei detenuti potrà essere espressione, rappresentazione e voce dell’anima. Un racconto quindi, per sognare e volare con la fantasia oltre i confini e le sbarre del carcere, tirando fuori quelle sensazioni e stati d’animo spesso difficili da esternare. I risultati del percorso verranno illustrati dagli stessi partecipanti al laboratorio, nel Carcere di Gazzi. Ad ottobre, in una seconda fase de "Il teatro per sognare", l’attore Flavio Albanese, svolgerà con i detenuti un lavoro di perfezionamento, fino ad arrivare ad un evento unico, che sarà messo in scena al Teatro Vittorio Emanuele. In questo step verranno coinvolti anche gli studenti dell’Istituto Minutoli, allo scopo di creare un momento di aggregazione, riflessione, approfondimento e riscatto. Vigevano: "Gli eroi vanno al supermercato", sei detenuti della sezione maschile in scena inforete.it, 7 giugno 2017 Scritto e diretto da Alessia Gennari, e interpretato da sei detenuti della sezione maschile della Casa di Reclusione di Vigevano, lo spettacolo "Gli eroi vanno al supermercato" esce dalle mura del carcere, per essere ospitato presso l’Auditorium San Dionigi di Vigevano dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dove andrà in scena venerdì 9 giugno, alle ore 20.45. Nato nel contesto del laboratorio teatrale "Tecniche da inserimento", che la regista tiene presso la sezione maschile del carcere di Vigevano e promosso dall’associazione ForMattArt, lo spettacolo si costruisce attraverso un susseguirsi di racconti di individui che hanno riflettuto sul tema dell’eroismo, condotti attraverso un linguaggio scarno che usa il corpo e gli oggetti per creare equivalenze sceniche. "Quando ho proposto ai detenuti di lavorare sul tema degli eroi - dichiara la regista - mi hanno risposto: "cosa ne sappiamo noi degli eroi? Ma guarda dove siamo, in carcere gli eroi non ci sono". Siamo partiti da questa difficoltà, da questo presupposto di ineffabilità, di incapacità di trovare parole e argomenti, per poi scavare nelle vite di questi uomini, vite "eccezionali", ma anche per certi aspetti simili a tutte le altre, fatte di sentimenti familiari, di amore, di viaggi in cerca di un futuro migliore, di passioni quotidiane. Improvvisamente abbiamo capito insieme che gli eroi stanno ovunque, anche in carcere; e anche, perché no, al supermercato". Lo spettacolo si è costruito interamente attraverso la libera scrittura e le improvvisazioni sceniche dei partecipanti al laboratorio. Si è trattato di un lavoro progressivo, che ha portato i partecipanti al laboratorio a diventare essi stessi in prima istanza autori del proprio lavoro. "Nel montaggio delle scene molto spesso mi confronto con gli attori, chiedendo il loro punto di vista e apporto creativo. Quando si tratta di improvvisare ricreando la "normalità", la loro potenza scenica e creativa è molto ricca. Spesso però chiedo invece un atto di fiducia, e li spingo a fare cose che di primo acchito non appartengono al loro quotidiano, come il canto e come la danza, un lavoro più simbolico condotto attraverso il corpo. È un continuo lavoro di trasformazione. E quando c’è la necessità, cessano i dubbi, cessano i pudori, e arriva la verità, accompagnata al desiderio di comunicarla a più persone possibili". Il teatro si impone ancora una volta, quindi, come un luogo di libertà e verità, entro un contesto, quello carcerario, di forte deprivazione. "Attraverso il teatro - continua la regista - si possono scardinare abitudini mentali e fisiche, condizionamenti e schemi. Si aprono le porte che normalmente, dentro un carcere, troviamo chiuse. E grazie al teatro, anche in questo caso, è possibile un dialogo tra chi sta dentro e chi sta fuori, un dialogo che si fa su basi comuni, ossia sugli elementi di umanità che stanno in ciascuno di noi". "Gli eroi vanno al supermercato" è un altro importante tassello nella costruzione di quell’importante ponte tra la realtà esterna e il carcere - dichiara il direttore Davide Pisapia -. La rappresentazione all’esterno di una attività intramoenia può essere uno strumento utilissimo per sensibilizzare il territorio in merito all’inclusione sociale, contribuendo così a creare una sempre maggiore sinergia con il territorio, oltre al fatto che questa esperienza potrà sicuramente riverberarsi positivamente sui percorsi trattamentali dei singoli interessati. Ci si auspica che questo tipo di eventi possano continuare a trovare realizzazione in futuro, proprio al fine di mantenere vivo, mai sopito, il dialogo tra il pianeta carcere e la città". Lo spettacolo è libero fino a esaurimento posti, non è necessaria la prenotazione. Brescia: "Circostanze", i detenuti di Verziano sul palco del Teatro Sociale teatro.it, 7 giugno 2017 Ha debuttato ieri al Teatro Sociale di Brescia "Circostanze", il progetto che unisce carcerati e liberi cittadini in un percorso teatrale di danza. "Circostanze" è una "raccolta di memorie, visioni, speranze, narrazioni e stati d’animo condivisi lungo un anno intenso di assidua frequentazione". Così viene presentato il progetto che ha portato allo spettacolo omonimo, che debutterà al Teatro Sociale di Brescia il prossimo 6 giugno alle 20.30. Un ulteriore esempio di come il teatro sociale e di comunità abbia un peso sempre maggiore nelle dinamiche sociali contemporanee, soprattutto nell’abbattimento di muri di indifferenza o pregiudizio, da vedere in scena in una città sempre più multiculturale. Il progetto è elaborato a partire da attività già sperimentate dalla Compagnia Lyria alla Casa di Reclusione Verziano a Brescia. L’iniziativa prevede la realizzazione di un’ampia e articolata azione di sensibilizzazione sul tema dell’integrazione tra realtà carceraria e società civile, utilizzando come strumento principale lo stimolo culturale attraverso modalità inclusive, per costruire relazioni tra dentro e fuori il carcere attraverso l’esperienza personale e diretta. Realizzato in collaborazione con la Casa di Reclusione Verziano Brescia e CTB Centro Teatrale Bresciano, questa sesta edizione del Progetto Verziano incontra si è sviluppata da novembre 2016 a giugno 2017 con un laboratorio e spettacoli finali. Le attività hanno coinvolto 69 persone: trentuno liberi cittadini e trentotto tra detenuti e detenute. I laboratori e la danza - Non solo teatro e testimonianze di vita, ma anche danza contemporanea alla base del progetto e dello spettacolo finale. Insieme alla danzatrice (e direttrice artistica della Compagnia Lyria) Giulia Gussago e agli insegnanti ospiti i partecipanti hanno seguito classi di tecnica contemporanea, contact improvisation e teatro danza. La seconda parte del progetto è stata invece dedicata alla raccolta del materiale creativo e al lavoro per la versione finale dello spettacolo, con incontri e giornate di prova intensive a Verziano, ma anche in location esterne raggiunte autonomamente da alcuni detenuti in permesso. Un progetto che già lo scorso anno ha riunito oltre duecento spettatori all’interno del carcere e che crea una relazione con la città, che riunisce danzatori non professionisti ma dalle storie vere e intense. Foggia: oggi partita di calcio solidale, giovani avvocati in campo contro i detenuti Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2017 Mercoledì 7 giugno partita nel carcere di Foggia. Luigi Talienti: "Iniziative come questa, che portano in campo i valori dello sport, realizzano i principi dell’art 27 della Costituzione". Nuovo appuntamento con il torneo "Sportiva…mente", organizzato all’interno del carcere di Foggia dall’avvocato, docente e volontario Luigi Talienti. Mercoledì 7 giugno scenderanno in campo una squadra dei detenuti e una rappresentanza della sezione foggiana dell’AIGA, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati, che ha fornito un contributo per la premiazione finale del torneo. "Si tratta di un appuntamento importante, preludio dell’incontro con l’Ordine Forense. Come sempre - spiega Talienti - l’iniziativa è stata resa possibile grazie alla collaborazione sinergica tra Direzione, Area Educativa e Polizia Penitenziaria e con il supporto dell’Associazione degli arbitri. È uno dei tasselli che noi volontari cerchiamo di inserire nel puzzle della riabilitazione delle persone recluse. L’articolo 27 della nostra Costituzione definisce i principi che regolano le pene comminate a un cittadino quando infrange la legge. Ebbene, Il terzo comma stabilisce il principio della finalità rieducativa della pena, che non è una vendetta. L’obiettivo è quello di fornire al condannato gli strumenti necessari per reinserirsi nella società, rispettando le regole fondamentali della convivenza civile. Perché ciò accada è necessario che la pena rispetti la dignità dei detenuti. Iniziative come questa, che portano in campo i valori dello sport, vanno proprio in tale direzione". Per maggiori informazioni: Luigi Talienti, e-mail: luigitalienti@libero.it La sicurezza è una priorità, ma non sacrifichiamo i diritti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 giugno 2017 Abbassare la soglia di punibilità può essere rischioso: una scelta da valutare con raziocinio e prudenza. La storia di Youssef Zagbha, il terrorista italo-marocchino ucciso dopo l’attentato di London Bridge, è un altro pezzo del complicato miscuglio di pericoli e allarmi, trame violente e misure di prevenzione, nel quale siamo costretti a vivere in questo scorcio di secolo. Emblema di una situazione complessa, figlia di fenomeni secolari, dove non esistono difese certe da una minaccia latente e continua, che può concretizzarsi in ogni momento, in ogni luogo. Ci si adopera per ridurre i rischi, si possono segnalare e attenzionare sempre più e sempre meglio le situazioni di presunto pericolo (comprese quelle dove si rivela solo apparente, e dunque inesistente), tuttavia non è possibile prevedere né anticipare ogni mossa di ipotetici attentatori in grado di mimetizzarsi ovunque. E che, come nel caso di Zaghba, possono muoversi godendo dei diritti dei cittadini italiani, o di altri Paesi europei. Se non avesse avuto un passaporto della Repubblica, dopo il fermo e l’indagine a suo carico risoltasi in un nulla di fatto il terrorista di Londra quasi certamente sarebbe stato valutato per l’espulsione dal territorio nazionale, ma questo non gli avrebbe impedito di fare ciò che ha fatto. È anche probabile che la spinta all’azione si sia determinata proprio in Gran Bretagna, trovando terreno fertile in una personalità che l’ultima volta che è passata dall’Italia aveva già mostrato segni di debolezza e predisposizione a certi discorsi; ma niente di più. E contro questo genere di potenziali terroristi, gli strumenti di difesa sono sempre e comunque relativi. L’Italia, come s’è detto e scritto più volte, sta facendo molto. I dispositivi messi in campo dal ministro dell’Interno e dal capo della polizia, con la collaborazione degli apparati di sicurezza a tutti i livelli, si sono finora rilevati efficaci. Il fatto che gli attentatori che nell’ultimo anno hanno colpito in Francia, in Germania e in Inghilterra siano transitati dalla penisola e in questo percorso siano incappati in controlli e conseguenti segnalazioni a tutte le autorità competenti dimostra che il sistema è in grado di intercettare ciò che è intercettabile; elemento importante, necessario ma non sufficiente a garantire dagli attacchi terroristici, dentro e fuori le nostre frontiere. Sono state introdotte norme (sempre dopo gli assalti di matrice jihadista, le ultime nel 2015) che quasi arrivano a sfiorare il processo alle intenzioni per eventuali reclute dell’islamismo, trasformando in reato comportamenti a volte così generici e indeterminati da non reggere al vaglio dei tribunali. Il codice penale, tipico strumento di repressione per fatti illeciti già avvenuti, è diventato un mezzo di prevenzione per impedire che quei fatti avvengano; quando non trovano sbocco in un processo o in una condanna, le indagini di polizia giudiziaria vengono sfruttate per altri provvedimenti, come gli allontanamenti ordinati dai prefetti o dal ministro. Siamo ai confini del consentito, che finora non sono stati varcati ma oltre i quali è difficile andare. Qualcuno sta immaginando di vietare la consultazione di propaganda radicale islamica diffusa per via telematica (che costituisce l’indizio più ricorrente e concreto, com’era avvenuto per Zaghba), considerandola alla stregua del materiale pedopornografico, in modo da abbassare ulteriormente la soglia della punibilità. Ma sono scelte da valutare con grande prudenza e raziocinio, perché anche in una stagione così difficile il giusto innalzamento delle misure di sicurezza non deve comunque oltrepassare la linea del rispetto dei diritti. L’esperienza degli anni di piombo e dell’emergenza terroristico-mafiosa, che l’Italia ha vissuto più di ogni altro Paese occidentale, ci ha insegnato che è possibile proseguire su questa strada impervia. Abbiamo maggiore predisposizione di altri a immaginare strumenti e tecniche di prevenzione, ma anche maggiore consapevolezza che certi limiti non si possono superare; ancor più quando ai pericoli reali si aggiungono quelli della psicosi e dell’allarmismo continuo. Di quella esperienza siamo chiamati a fare tesoro, ancora una volta. I reati economici e l’allarme sociale di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 7 giugno 2017 Nonostante la convinzione diffusa che i reati dei colletti bianchi non destino allarme sociale, bisogna osservare che invece l’allarme sociale è scoppiato per la crisi economica, durata così a lungo, da noi, anche perché gli investitori stranieri preferiscono mettere i loro soldi in Paesi severi non solo con gli scippatori. "La gente, quella che ha paura, che vive nell’insicurezza, non ce l’ha coi reati dei colletti bianchi, con la corruzione, l’evasione. Ce l’ha con le violenze del branco, gli stupri, gli scippi, i furti in casa". Giovanni Toti ha spiegato così, giorni fa, all’inviato del "Fatto" Ferruccio Sansa il senso di una risposta indecente data a un elettore. Aveva chiesto costui: "Bravo presidente. Ma quando rimpatriamo quelle bestie straniere!?!". E il governatore: "Appena andiamo al governo. Purtroppo la Regione non può far nulla in questo campo. Dipende tutto dal ministero degli Interni a Roma". Ma come: manco una censura sulla violenza delle parole del sostenitore che richiamano una celeberrima frase ("sterminate quelle bestie") tratta da "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad? Zero: "Per me bestia è chi commette reati. Ci sono anche bestie italiane, ma quelle mica possiamo mandarle a casa. Dobbiamo tenercele". Al che Sansa l’aveva infilzato: visto che anche Berlusconi è stato condannato in Cassazione… Di qui la risposta citata: i reati dei colletti bianchi non creano allarme sociale. Una tesi eguale identica, anche se le parole erano diverse, a quella teorizzata nel luglio del 2000 da Franco Frattini, allora presidente del comitato di controllo sui servizi, consigliere del Cavaliere sulla sicurezza e futuro ministro: "I reati di Tangentopoli non creano certo allarme sociale. Nessuno grida per strada "Oddio, c’è il falso in bilancio!" ma tutti si disperano per l’aggressione dell’ennesimo scippatore". Quale sia stato il risultato della scelta di considerare i reati economici dei colletti bianchi marachelle meno gravi di quelli di piccola criminalità, con la scelta successiva di alleggerire le posizioni dei colletti bianchi, è noto. Lo ricordano alcune tabelle dell’Alto Commissariato per la lotta alla Corruzione. Dal 1996, anno clou dei processi per tangentopoli al 2006, le condanne per peculato calarono da 608 l’anno a 210, per abuso d’ufficio da 1305 a 45, per concussione da 555 a 53, per corruzione da 1159 a 186. Questi sono i fatti. Il guaio è che l’allarme sociale è scoppiato per la crisi economica, durata così a lungo, da noi, anche perché gli investitori stranieri preferiscono mettere i loro soldi, come spiegava un dossier Confindustria del 2012, in Paesi severi non solo con gli scippatori. Dove nel caso incappino in un socio truffatore hanno la certezza che il processo si svolgerà in tempi ragionevoli e il truffatore, in presenza di prove certe, sarà condannato. Droghe. In Ue aumentano i morti per overdose e dilagano nuove sostanze Redattore Sociale, 7 giugno 2017 Rapporto dell’Osservatorio di Lisbona. Nel 2015 i morti per overdose sono principalmente maschi (78%), età media 38 anni. Nel 79% dei casi la causa è l’eroina. Nel 2016, 66 nuove sostanze psicoattive sono state rilevate per la prima volta tramite il Sistema di allerta precoce dell’Ue. Se ne parla poco, ma in Europa si continua a morire di droga. I casi di overdose sono in aumento: nel 2015 i decessi registrati sono stati 8.441, il 6% in più rispetto all’anno precedente. Non solo. Ogni anno ci sono nuove sostanze psicoattive in commercio e si stanno diffondendo oppioidi sintetici (che imitano gli effetti di eroina e morfina) "estremamente potenti". È questo il quadro che emerge dal Rapporto 2017 dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, presentato oggi a Bruxelles. "L’impatto della droga continua a rappresentare una sfida significativa per le società europee - afferma Dimitris Avramopoulos, commissario europeo per migrazione, affari interni e cittadinanza -. Oltre 93 milioni di europei hanno provato una droga illecita nella loro vita e i decessi per overdose sono in crescita per il terzo anno di seguito. Mi preoccupa soprattutto che i giovani siano esposti a molte nuove droghe pericolose. Tra il 2009 e il 2016, in Europa sono già stati individuati 25 oppioidi estremamente potenti: per produrre molte migliaia di dosi bastano piccole quantità di queste sostanze, che costituiscono così una crescente minaccia per la salute". Il Rapporto tiene in considerazione i dati dei Paesi dell’Unione europea, della Norvegia e della Turchia. I morti per overdose sono principalmente maschi (78%), età media 38 anni. Il 79% è morto per eroina. "Come negli anni precedenti, Regno Unito (31 %) e Germania (15 %) coprono insieme circa la metà del totale europeo - si legge nel rapporto. Tra il 2007 e il 2015 il numero di decessi per overdose è aumentato tra i consumatori più vecchi ma è diminuito tra i giovani. Tale numero rispecchia l’invecchiamento dei consumatori di oppiacei in Europa, i quali sono esposti al più elevato rischio di decesso per overdose. Tuttavia, il 10 % dei casi di overdose ha un’età inferiore ai 25 anni e di recente si è registrato un lieve incremento nel numero di decessi per overdose segnalati tra i giovani con meno di 25 anni in alcuni paesi quali Svezia e Turchia". Le nuove sostanze psicoattive "rimangono una sfida considerevole per la sanità pubblica in Europa". Non sottoposte ai controlli antidroga internazionali, comprendono un vasto assortimento di sostanze sintetiche, fra cui cannabinoidi, catinoni, oppioidi e benzodiazepine. "Nel 2016, 66 nuove sostanze psicoattive sono state rilevate per la prima volta tramite il Sistema di allerta precoce dell’Ue (Ews), al ritmo di più di una a settimana". Complessivamente ora sono monitorate 620 nuove sostanze psicoattive (rispetto alle circa 350 del 2013). "Stiamo constatando una maggiore clandestinizzazione delle vendite di queste sostanze - afferma il direttore dell’Osservatorio, Alexis Goosdeel, con transazioni realizzate online o sul mercato delle sostanze illecite e abbiamo assistito alla recente comparsa di alcune sostanze estremamente potenti, associate a decessi e gravi intossicazioni". Nel 2015, quasi 80mila sequestri di nuove sostanze psicoattive sono stati segnalati attraverso l’Ews. La terza grande sfida per le istituzioni dei Paesi europei è rappresentata dai nuovi oppioidi sintetici. "Pur rappresentando una piccola quota di mercato -si legge nel Rapporto-, sempre più fonti riferiscono della comparsa di queste sostanze e dei danni che causano, fra cui intossicazioni non letali e morti. Venticinque nuovi oppioidi sintetici sono stati rilevati in Europa tra il 2009 e il 2016 (18 di questi erano fentanili). Grazie al fatto che bastano piccole quantità di sostanza per produrre molte migliaia di dosi da strada, i nuovi oppioidi sintetici sono facili da nascondere e trasportare e rappresentano una sfida per le agenzie di controllo antidroga, oltre ad essere un prodotto potenzialmente attraente per la criminalità organizzata. Sono disponibili in varie forme - principalmente polveri, compresse e capsule - ma alcuni sono ora disponibili sotto forma di liquidi e vengono venduti come spray nasali". Droghe. L’Italia è seconda in Europa per consumo di cannabis tra i giovani La Repubblica, 7 giugno 2017 Tra i 15 e i 34 anni ne fa uso uno su cinque: di più solo i francesi. Il rapporto dell’Agenzia europea delle droghe: siamo quarti per uso di oppioidi e ottavi per la cocaina. Nel continente, crescono i morti per overdose. Ma rispetto ai coetanei americani, gli studenti europei prediligono alcol e tabacco. Secondi in Europa per consumo di cannabis tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, mentre cala il tasso di mortalità indotta dalla droga. L’Osservatorio europeo delle droghe ha pubblicato i dati relativi alle tossicodipendenze nel suo consueto rapporto annuale, relativo al 2015. E per l’Italia, preoccupano i piazzamenti nelle classifiche per l’uso di cannabis, oppioidi ad alto rischio e cocaina. Decisamente sotto la media europea il dato sulla mortalità per overdose, che nel continente cresce per il terzo anno di fila. Quasi 90 milioni di cittadini infine dichiarano di aver provato almeno una volta la cannabis. Ma nel confronto con i coetanei americani, gli studenti italiani di 15 e 16 anni prediligono alcol e tabacco. L’Italia. Il 19% dei ragazzi italiani, dunque quasi uno su cinque, ha fatto uso di cannabis nel corso degli ultimi dodici mesi: una percentuale inferiore solo a quella della Francia, che ha registrato il 22,1% di consumo nello stesso intervallo di età. ll 31,9% della popolazione adulta in Italia e il 27% degli studenti tra i 15 e i 16 anni dichiarano di aver provato almeno una volta nella loro vita la cannabis e i suoi derivati. Gli oppioidi ad alto rischio vengono consumati dal 5,2% degli italiani: un dato che proietta l’Italia al quarto posto in Europa. Per quanto concerne il consumo di cocaina, i tre quarti delle richieste di trattamento per tale dipendenza in Europa arrivano da Spagna, Italia e Regno Unito. Il nostro Paese, con una percentuale dell’1,8%, occupa l’ottavo gradino di questa classifica. I dati sull’Italia, fermi al 2014, indicano che il 7,6% della popolazione adulta ha fatto uso almeno una volta di cocaina, il 3,1% di ecstasy e il 2,8% di anfetamine. Nel 2015 in Italia il tasso di mortalità indotta dalla droga tra gli adulti di età compresa tra i 15-64 anni è di 7,8 morti per milione. Un dato nettamente inferiore alla media europea di 20,3 morti per milione. I dati europei. Con 8.441 decessi, invece, nel 2015 il numero di morti per overdose di droga in Europa è aumentato per il terzo anno di fila. I decessi si legano soprattutto a eroina e altri oppioidi, in aumento del 6% rispetto ai 7.950 decessi stimati nel 2014. Secondo lo stesso rapporto, sono circa 87,7 milioni gli adulti europei che almeno una volta nella loro vita hanno provato la cannabis e i suoi derivati. Allo stesso tempo, un europeo su cento consuma cannabis quotidianamente o quasi. Sulla base di due inchieste condotte nelle scuole, tra gli studenti di 15 e 16 anni, l’Osservatorio è riuscito a paragonare le abitudini di consumo di cannabis e altre sostanze tra i giovani europei e americani: emerge che i giovani studenti europei consumano più alcol e tabacco dei loro coetanei americani, che invece preferiscono far uso di cannabis. I dati mostrano una diminuzione del tabagismo e, in misura minore, del consumo di alcol. Il consumo di cannabis, per contro, appare stabile. "In Europa i livelli misurati di consumo di cannabis sono inferiori a quelli osservati negli Usa e l’uso di cannabis è segnalato meno frequentemente rispetto al tabagismo", si legge nel rapporto. Tra gli studenti americani "il consumo di cannabis supera il tabagismo" che è molto debole. Inoltre, gli studenti europei sono più numerosi a dichiarare di consumare alcol rispetto ai loro coetanei americani. La questione cannabis legale. L’Osservatorio appare scettico sull’ipotesi di legalizzare l’uso di cannabis, come avvenuto in altri Paesi, in particolare nel continente americano. "Bisogna attendere che siano disponibili valutazioni fondate prima di poter giudicare i relativi costi e benefici dei differenti approcci in materia di cannabis", si legge nel rapporto. Secondo l’Osservatorio, l’esistenza di un mercato regolamentato della cannabis in alcuni paesi extra-Ue sta "stimolando l’innovazione e lo sviluppo di prodotti" come vaporizzatori, liquidi per sigarette elettroniche e prodotti commestibili che "potrebbero modificare i modelli di consumo in Europa". Arrestato il presidente di Amnesty International Turchia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 giugno 2017 Taner Kiliç, presidente di Amnesty International Turchia, è stato arrestato la mattina di martedì 6 giugno, insieme ad altri 22 avvocati, nella città di Smirne. L’accusa, per tutti, è di aver avuto legami col movimento guidato da Fethullah Gülen, sospettato di aver ideato il fallito colpo di stato del luglio 2016. "Il fatto che la purga successiva al tentato colpo di stato abbia raggiunto persino il presidente di Amnesty International dimostra fino a che punto il governo turco sia arrivato. La storia di Taner Kiliç parla chiaro: è quella di un uomo che ha sempre difeso quelle libertà che le autorità di Ankara stanno cercando di annullare", ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. L’arresto è avvenuto nella sua abitazione alle 6.30 del mattino, poco prima che si recasse al lavoro. Sia l’abitazione che lo studio sono stati perquisiti. Attualmente si trova in una stazione di polizia del quartiere di Yesilyurt. "In assenza di ogni credibile e ammissibile prova del loro coinvolgimento in reati riconosciuti dal diritto internazionale, chiediamo alle autorità turche di rilasciare immediatamente Taner Kiliç e gli altri 22 avvocati e di annullare ogni accusa nei loro confronti", ha aggiunto Shetty. Kiliç ha fatto parte del direttivo di Amnesty International Turchia per vari periodi di tempo a partire dal 2002 ed è stato eletto presidente nel 2014. Nel corso di decenni di attività in favore dei diritti umani nell’ambito delle organizzazioni turche per i diritti umani, si è sempre fatto riconoscere per l’incessante impegno in favore dei diritti umani. Al momento, l’arresto di Taner Kiliç non pare collegato all’azione di Amnesty International o avere per obiettivo l’associazione. Il mandato d’arresto fa riferimento a un’indagine su presunti membri della cosiddetta "Organizzazione terroristica di Fethullah Gülen" ma non è neanche chiaro se Taner Kiliç sia sospettato di avere tali legami. Arrestato in Tailandia per droga, Mattarella gli concede la grazia totale La Repubblica, 7 giugno 2017 La motivazione: "La pena già scontata è superiore a quella inflitta in Italia per fatti analoghi". Nicola Giuseppe Scomparin era stato fermato nel 2006 con 32 grammi di eroina e 9 di marijuana e condannato a oltre 20 anni di reclusione. Nel 2012 era stato estradato in Italia. Era stato arrestato nel 2006 in Tailandia per detenzione di sostanze stupefacenti. Condannato a oltre venti anni di reclusione, sarebbe stato liberato soltanto nel maggio del 2025. Ma oggi ha ricevuto la grazia totale da parte del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, poiché la pena già scontata è "notevolmente superiore a quella normalmente inflitta in Italia per fatti analoghi". Si conclude così dopo otto anni e dieci mesi la detenzione di Nicola Giuseppe Scomparin, originario di Ivrea, che quel 21 settembre del 2006 venne fermato nel Paese asiatico con addosso circa 32 grammi di eroina e 9 di marijuana. Per sei anni Scomparin è stato detenuto in Tailandia, prima di essere estradato in Italia nel settembre 2012. Il capo dello Stato ha dunque firmato il decreto con cui - ai sensi di quanto previsto dall’art. 87 comma 11 della Costituzione - ha graziato Scomparin, fermato in Tailandia quando aveva 36 anni. "L’interessato è stato condannato - si legge nella nota del Quirinale - a seguito del riconoscimento da parte della competente corte di appello italiana della sentenza emessa dalla Autorità giudiziaria della Tailandia, ad espiare anni venti e mesi due di reclusione, per il reato, commesso in Tailandia, di detenzione di sostanze stupefacenti". "La decisione - continua il comunicato - tiene conto dell’avviso favorevole espresso dal ministro della Giustizia a conclusione della prevista istruttoria. Nella valutazione della domanda di grazia, il Capo dello Stato ha considerato i pareri favorevoli formulati dalle competenti autorità giudiziarie. Essi si sono basati sulla circostanza che la pena detentiva già scontata dallo Scomparin è notevolmente superiore a quella normalmente inflitta in Italia per fatti analoghi". Sul provvedimento ha pesato inoltre la buona condotta tenuta dal condannato durante gli anni di detenzione. La domanda di grazia era stata presentata lo scorso anno dal legale di Scomparin, Andrea Lazzari. L’avvocato si è detto "contento" della decisione di Mattarella riguardo al suo assistito: "In Tailandia ha rischiato la pena di morte a causa di un reato per il quale, in Italia, non sarebbe nemmeno finito in carcere". Lazzari ha inoltre specificato che la droga in possesso di Scomparin era per uso personale. "È stata una disavventura difficile da accettare", ha concluso.