Prescrizione, in arrivo la censura Ocse. Orlando: per evitarla subito sì alla riforma di Liana Milella La Repubblica, 6 giugno 2017 A metà giugno la valutazione degli esperti di Parigi. Il governo insiste per la fiducia, M5S, alfaniani e Mdp si oppongono. C’è una carta a sorpresa che il Guardasigilli Andrea Orlando ha giocato in questi giorni per "spingere" il suo processo penale. E per questo ne ha scritto sia al premier Gentiloni che alla presidente della Camera Boldrini. Si tratta di una coincidenza che potrebbe giocare a favore del disegno di legge che riforma prescrizione, intercettazioni, ma anche pene per reati strategici come furti, rapine, voto di scambio, e le nuove regole per le carceri. L’atout di Orlando è questo: il 15 giugno gli esperti di diritto dell’Ocse - l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - esprimeranno una nuova valutazione sull’Italia e sulle sue regole per la prescrizione. Potrebbe arrivare un ennesimo giudizio negativo per un Paese dove una prescrizione troppo "stretta" fa saltare molti processi per corruzione. Ma l’Italia, questa volta, potrebbe anche salvarsi se - scrive Orlando - riuscisse ad approvare in tempo il ddl sul processo penale, un solo articolo con 95 commi nella versione votata con la fiducia al Senato il 16 marzo scorso, in cui la prescrizione guadagna 3 anni in più tra Appello e Cassazione e si raddoppia per i reati di corruzione. Orlando è in buona compagnia nell’insistere perché, dopo tre anni, quei 95 commi diventino legge, visto che anche sul Colle il presidente Sergio Mattarella riservatamente ha fatto opera di moral suasion facendo capire che la legislatura non si può chiudere rinunciando a quel voto. Una posizione simile a quella del presidente del Senato Piero Grasso che, dalle pagine di Repubblica, domenica ha lanciato la proposta di un "patto di fine legislatura", ipotesi che vede nettamente contrario il vice presidente della Camera Luigi Di Maio, il quale propone "di andare al voto" e aggiunge che "tanto le leggi importanti per il Paese le faremo noi". Sicuramente M5S non farà quella sul processo penale perché, come dice il capogruppo alla Camera di M5S Vittorio Ferraresi, "noi voteremo contro, soprattutto se il governo mette la fiducia, un passo sconsiderato su un tema delicato e un provvedimento complesso". Già, proprio così. Tutto ruota intorno alla fiducia, e alla fatidica data del 13 giugno, martedì pomeriggio, quando il processo penale figura nel calendario dell’aula di Montecitorio. Il capogruppo del Pd Ettore Rosato, con Repubblica Tv, è netto: "Posso dare per certo che sarà approvato, come pure la tortura". Donatella Ferranti, anche lei Pd, presidente della commissione Giustizia nonché relatore del ddl, è scaramantica: "È molto importante che il provvedimento sia stato messo in calendario adesso. Non ci dimentichiamo che due giorni dopo, il 15, l’Italia viene giudicata dall’Ocse proprio sul prescrizione e processo penale, sarebbe davvero brutto mancare quest’occasione ". Ferranti dipana la linea Orlando, ma la partita sul ddl non si può ancora dare per vinta. Tutto dipende dalla fiducia e anche dal voto, compatto o meno, della maggioranza. Ap, il gruppo di Alfano, voterà sì o no? Il ministro della Famiglia Enrico Costa più volte ha criticato la soluzione data alla prescrizione e ha sfidato Orlando sui tempi della delega per le intercettazioni, tre mesi dopo il voto, e adesso dice: "Il Guardasigilli rispetterà quei tempi?". Ma ora la prossima partita elettorale e la fine della legislatura potrebbero cambiare lo scenario anche per la giustizia e per un provvedimento che, per i suoi contenuti, ha sempre scatenato molte contrapposizioni. In queste settimane il ministro per i Rapporti con il Parlamento, la Pd Anna Finocchiaro, ha più volte insistito per la fiducia. Ne ha parlato a Palazzo Chigi e fuori. Spiegando che la dinamica parlamentare e quei 600 emendamenti che incombono - anche se poi quelli effettivamente discussi saranno un centinaio per via dei tempi contingentati - con molti voti segreti su punti controversi, potrebbero far saltare il ddl e rimandarlo al Senato. Del resto sia M5S che Mdp annunciano un’opposizione dura. Dice il grillino Vittorio Ferraresi: "Su molti punti, prescrizione, intercettazioni, ordinamento penitenziario, noi esprimeremo la nostra contrarietà, anche se i tempi contingentati ci assegnano solo 27 emendamenti, una cosa ridicola rispetto a 95 commi". Niet anche da Arcangelo Sannicandro di Mdp: "Se mettono la fiducia voteremo no. Se invece si discute nel merito saremo a favore di alcune novità, come la giustizia riparativa, ma contro gli aumenti spropositati di pena e le scelte su prescrizione e intercettazioni ". È quasi certo, quindi, che la fiducia sarà messa subito. Voterà a favore il governo, contro le opposizioni, Lega e Forza Italia comprese. Se il testo passa il Pd potrà dire, come fa il capogruppo in commissione Walter Verini, che "si tratta di una legge di sistema che farà funzionare meglio la giustizia e le carceri, aiuterà a combattere la corruzione e sulle intercettazioni terrà insieme la libertà di informazione, che è sacra, e il diritto alla privacy". Ma metà Parlamento la pensa all’opposto. Tortura. Il 26 la legge torna alla Camera: si spera di cambiarla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2017 Data simbolica: è la Giornata internazionale proclamata dalle Nazioni Unite nel 1997. Il testo licenziato dal Senato è stato molto criticato da Luigi Manconi e in una nota da Antigone e Amnesty International Italia: "non risponde agli impegni assunti 28 anni fa dall’Italina". Il decreto legge sull’introduzione del reato di tortura approvato il mese scorso dal Senato verrà esaminato dalla Camera dei deputati il 26 giugno. La decisione è arrivata dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio che ha scelto una data simbolica, perché il 26 giugno di ogni anno si svolge la giornata internazionale contro la tortura, proclamata dalle Nazioni Unite nel 1997. Secondo l’Onu, la tortura cerca di annientare la personalità della vittima e nega la dignità intrinseca dell’essere umano. Le Nazioni Unite hanno condannato la tortura fin dall’inizio come uno degli atti più vili perpetrati dagli uomini nei confronti di altri esseri umani. La tortura, infatti, è considerata un crimine di diritto internazionale, il che significa che è vincolante per tutti i membri della comunità internazionale. Secondo tutti gli strumenti pertinenti, è assolutamente vietata e non può essere giustificato in nessun caso. Per questo, il 12 dicembre del 1997, Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione 52/ 149, con la quale l’assemblea generale ha proclamato il 26 giugno di ogni anno come giornata internazionale in supporto delle vittime che subiscono torture. "Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti", recita l’articolo 5 della dichiarazione universale dei diritti umani. La convenzione dell’Onu contro la tortura è stata ratificata da 157 paesi, ciononostante alcuni hanno tradito l’impegno a porre fine a questa pratica che comporta la perdita definitiva dell’umanità. Tra questi c’è l’Italia, unico paese dell’Unione europea che ancora non ha una legge. Eppure nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York con l’impegno di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito. Il divieto di tortura è contemplato non solo da numerose convenzioni generali sui diritti umani, ma anche da specifici trattati ai quali l’Italia ha aderito, come la convenzione dell’Onu contro la tortura del 27 giugno 1987 e la convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987. La convenzione dell’Onu identifica nell’articolo 1 - la tortura come "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali al fine di segnatamente ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito". Eppure, secondo associazioni come Antigone e lo stesso senatore Luigi Manconi, estensore della prima bozza di legge, il testo che la Camera discuterà in quella data si allontana molto dall’articolo 1 della convenzione delle Nazioni Unite. "Questa legge qualora venisse confermata - rilevano in una nota congiunta Antigone e Amnesty International - sarebbe difficilmente applicabile: il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo". Amnesty International Italia e Antigone, dunque, "con rammarico" prendono atto "del fatto che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti 28 anni fa con la ratifica della convenzione". Forse c’è ancora speranza che alla Camera la legge subisca modifiche che vadano nella direzione espressa dai contenuti dell’articolo 1 del trattato Onu. Le pene, il pane e l’élite. La proposta M5S: "togliere la pensione ai condannati" di Mattia Feltri La Stampa, 6 giugno 2017 L’ultima idea della "democrazia dal basso" è di togliere la pensione ai condannati per mafia, terrorismo, traffico di stupefacenti e altri reati di rilievo. La proposta, depositata da un iscritto su Rousseau, la piattaforma internet dei cinque stelle, è fra le più apprezzate, e non c’è motivo di stupore. È il classico progetto armato delle migliori intenzioni e scaturito dal fuoco del pathos. Infatti non è sorprendente che Rousseau sfoderi trovate di questo calibro, e nell’applauso generale di chi sa come raddrizzare il mondo. Più sorprendente è che a dirimere le discussioni non ci sia uno del ramo, non per forza un luminare, che risparmierebbe ai convenuti l’imbarazzo di misurarsi con Cesare Beccaria, che nel 1764 scrisse Dei delitti e delle pene codificando la funzione rieducativa del carcere. E cioè, quando uno ha scontato la condanna, esce perché lo si ritiene recuperato alla vita sociale, coi doveri e i diritti che comporta, compresa la pensione. Se invece gliela si leva, saremmo al paradosso di negargli vitto e alloggio, garantiti in prigione. Lo si specifica perché tutti i contributi sono buoni, ma le competenze continuano a essere decisive: per chi ha bisogno di pane, l’élite è il fornaio. Altrimenti si fa la fine di David Cameron che, nella campagna elettorale inglese del 2010, promise di portare in Parlamento le due proposte più votate dai suoi fan. Vinsero il ripristino della pena di morte e l’espulsione di tutti gli immigrati. Non arrivò in Parlamento né l’una né l’altra. Il Csm: cambiare la norma sulle informative di reato. A rischio ruolo del Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Consiglio superiore della magistratura, proposta di delibera della VI Commissione. Il Governo deve rivedere l’obbligo per la polizia giudiziaria di trasmettere alla propria scala gerarchica le notizie sull’inoltro delle informative di reato per il rischio di possibili interferenze nelle indagini condotte dai pm. A lanciare l’allarme sugli effetti di una norma che "impatta fortemente" sul segreto investigativo ed è in contrasto anche con il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, è la Sesta Commissione del Csm, che chiede al ministro Orlando di farsi promotore della modifica della norma. La delibera sarà discussa dal plenum in agenda per domani e rappresenta una presa di posizione forte da parte del Consiglio nei confronti di una norma assai discussa, oggetto di forti perplessità nelle Procure. Tanto da indurre, per esempio, uno dei capi procuratori più attenti, Armando Spataro, a emanare, a febbraio, direttive specifiche per sterilizzare, almeno a Torino, gli effetti della disposizione. La misura, inserita nel decreto legislativo 177 del 2016 prevede, in buona sostanza, che ogni rappresentante delle Forze dell’ordine (poliziotto, carabiniere o finanziare) deve trasmettere al proprio superiore gerarchico le notizie relative alle informative di reato all’autorità giudiziaria "indipendentemente dagli obblighi prescritti dal Codice di procedura penale". Con buona pace del segreto investigativo, hanno da subito eccepito in molti. E ora dal Csm arriva una richiesta di modifica chiara. Che si basa su una serie di elementi che vanno da quelli più formali, mancata corrispondenza tra legge delega e decreto delegato, ad altri invece più sostanziali. Su questi la VI Commissione è netta: "non sfugge la disarmonia della norma introdotta con uno dei cardini del sistema processuale penale italiano, il segreto investigativo, nonché con principi costituzionali contenuti negli articoli 112 e 109 Costituzione". Infatti, sottolinea la proposta di delibera, la comunicazione in via gerarchica delle informazioni, prevista dalla legge senza alcun filtro o controllo del pubblico ministero, rivolte fra l’altro anche a soggetti che non rivestono la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e che, per la loro posizione di vertice, vedono particolarmente stretto il rapporto di dipendenza dal Governo, appare non essere in linea con le prerogative riconosciute al pm nell’esercizio dell’attività d’indagine, visto che le stesse sono portate a conoscenza di soggetti esterni al perimetro dell’indagine stessa. Senza tenere conto poi del fatto che l’obbligo del segreto investigativo è, nella lettura del Csm, strumentale all’attuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Tenuto conto poi della possibilità assai concreta di una applicazione disomogenea arriva anche una proposta di modifica. Che prevede la sostituzione "della locuzione "indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del Codice di procedura penale", con la locuzione "salvi (o compatibilmente con) gli obblighi prescritti dalle norme del Codice di procedura penale". La Cassazione: "Vecchio e malato, Riina non può stare in carcere" di Susanna Marietti Il Manifesto, 6 giugno 2017 Rispetto dei diritti umani. Ogni cittadino italiano deve oggi sentirsi più forte nel sapere di appartenere a uno Stato che non ha paura di difendere la dignità anche del più criminale dei criminali. La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che lo scorso anno aveva negato a Totò Riina il differimento della pena - o in subordine la detenzione domiciliare - per motivi di salute, spingendolo a tornare a esaminare nuovamente la richiesta. Riina, che ha compiuto l’ottantaseiesimo anno di età, è affetto da più di una grave patologia. I giudici di Sorveglianza avevano valutato che il monitoraggio costante da parte dei medici operanti in carcere, unito alla possibilità per l’uomo di venire ricoverato in una struttura esterna al momento del bisogno, fossero sufficienti a garantire una compatibilità tra le condizioni di salute di Riina e la sua detenzione. Oggi la Cassazione afferma che ciò costituisce solo una parte della storia. Totò Riina, come qualunque essere umano, possiede un corpo, che deve essere salvaguardato nel proprio diritto fondamentale alla salute e alle cure. La valutazione del Tribunale è magari adeguata rispetto alla mera tutela biologica di questo corpo fisico. Ma, ancora come ogni essere umano, Totò Riina - questo sta dicendo la Corte suprema - possiede anche una dignità. E, come a chiunque altro, deve essergli garantito il diritto a morire in una maniera che di tale dignità sia rispettosa. L’innegabile spessore criminale avuto dal capo di Cosa Nostra, scrive ancora la Cassazione, non è tuttavia provato per quanto concerne l’attualità della sua situazione. Visto lo stato di salute e l’età avanzata di Riina, è quanto meno da dimostrare che egli abbia ancora un’influenza e una possibilità di comando nell’organizzazione di appartenenza. Ma, se pure il Tribunale fosse in grado di fornire una tale dimostrazione, resta comunque quel principio universale che la Cassazione decide oggi di affermare in relazione a una delle figure criminali più pesanti dell’intera storia italiana del dopoguerra e del nostro immaginario collettivo: chiunque ha diritto a vedere rispettata la propria dignità, nella morte quanto nella vita. La pena carceraria scontata da Riina nelle sue attuali condizioni di salute, si legge ancora nella sentenza della Cassazione, rischia di andare oltre la "legittima esecuzione di una pena". Ogni cittadino italiano deve oggi sentirsi più forte nel sapere di appartenere a uno Stato che non ha paura di difendere la dignità anche del più criminale dei criminali. Ciò deve valere per Riina, e deve anche valere per tutti quei detenuti ignoti che a volte sono lasciati morire in galera in stato di abbandono terapeutico. "Scarcerate Riina". "È malato, è incompatibile col carcere" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 6 giugno 2017 Clamorosa sentenza della cassazione. "Totò Riina ha diritto a una morte dignitosa". La Corte di Cassazione chiede gli arresti domiciliari per il boss dei boss. Secondo gli ermellini le sue condizioni di salute non sono compatibili col carcere. E tenerlo in cella diventa una pena crudele e perciò incostituzionale. La sentenza ha suscitato un vespaio. Salvini e Gasparri: "Fine pena mai, per Riina e per quelli come lui!". Più istituzionale, ma ugualmente contraria alla scarcerazione, la presidente dell’Antimafia Bindi, secondo la quale il carcere di Parma, dove Riina è detenuto, ha un "centro clinico di eccellenza". Più diplomatico don Ciotti che riconosce "il diritto del singolo che va salvaguardato". Persino a Totò Riina bisogna riconoscere il diritto a una morte dignitosa. Anche fuori dalla condizione di detenuto, se necessario. La Cassazione ha il coraggio di sfidare l’idea della pena come vendetta. E di riportala dunque nel preciso perimetro della Costituzione e della Convenzione dei Diritti dell’uomo. Il principio è affermato in una sentenza pronunciata lo scorso 22 marzo e depositata ieri con cui la prima sezione penale della Suprema corte annulla con rinvio quanto stabilito il 20 maggio dello scorso anno dal Tribunale di sorveglianza di Bologna. In quest’ultima decisione si era sancito come il capo di Cosa nostra, con due tumori ai reni, una "sindrome parkinsoniana cronica" e il rischio di un infarto fatale, potesse comunque restare nel carcere di Parma. E invece i magistrati di sorveglianza dovranno rivedere la loro decisione. Lo stesso senso di umanità che non era riuscito a imporsi per Bernardo Provenzano sembra ora farsi strada con il "capo dei capi". Una svolta che scuote la stessa politica, da cui arrivano diversi commenti negativi. "Soddisfazione" dichiara invece uno dei difensori del boss mafioso, Luca Cianferoni. È lui ad annunciare che la nuova udienza davanti ai giudici bolognesi è fissata per il 7 luglio. Nel merito la Cassazione ritiene che si debba riconsiderare la richiesta avanzata dai difensori di Riina e respinta dal Tribunale: differimento della pena o detenzione domiciliare. Un passaggio chiave nella pronuncia della prima sezione è nel fatto che nella cella del boss non sarebbe possibile far entrare un "particolare letto rialzabile". Erano stati gli stessi giudici a scriverlo nelle motivazioni con cui avevano rigettato l’istanza. Secondo la Cassazione, si sarebbe dovuto quanto meno rinviare la decisione "all’esito di un accertamento volto a verificare, in concreto, se e quanto la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto molto anziano e gravemente malato, non dotato di autonomia di movimento, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento di quel livello di dignità dell’esistenza che anche in carcere deve essere assicurato". E ancora: il Tribunale aveva definito "circostanza neutra" la possibilità di un infarto fatale; la Suprema corte riconosce invece testualmente l’esistenza di "un diritto di morire dignitosamente". La sentenza è stata estesa dalla consigliera Assunta Cocomello, presidente Mariastefania Di Tomassi. Che debba scatenare una forte polemica è inevitabile. Intervengono anche parti direttamente chiamate in causa dalla decisione presa sul boss mafioso. È il caso di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione familiari delle vittime di via dei Georgofili, secondo la quale "dignità, umanità, invocate dalla Cassazione per il macellaio, possono essere esercitate tranquillamente all’infermeria del carcere o in un ospedale attrezzato per il 41 bis". Secondo Chelli di fronte alla pronuncia si resta "basiti". Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto, ucciso da Riina, dichiara: "Penso che mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli". Il figlio di Poi La Torre, Franco, nota che la scarcerazione del boss sarebbe "un’ulteriore ferita" per le vittime. È scosso anche il mondo dell’Antimafia, a partire da don Luigi Ciotti che dice: "C’è una persona malata a cui lo Stato deve assicurare un adeguato trattamento terapeutico, ma c’è anche una vicenda di violenza, stragi e sangue e ha causato tante vittime dolore". E il presidente di Libera si dice certo che, sui domiciliari "il Tribunale di Bologna valuterà con saggezza". C’è poi la politica, che non manca di schierarsi. Il deputato dem Michele Anzaldi dubita della "documentazione clinica" e chiede di inviare gli ispettori per verificarla. Beppe Lumia chiede di evitare "segni di debolezza". Matteo Salvini annuncia che "la Lega è pronta a dare battaglia". Ad avere il coraggio di approvare la sentenza è il Partito radicale: la pronuncia, si legge in una nota, è "un raro esempio di indipendenza del giudizio da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico". Sulla stessa linea l’Unione Camere penali: "Se non c’è pericolosità non si può trattare diversamente un essere umano, altrimenti la pena si trasforma in vendetta". Che è la vera questione in gioco. Sentenza su Riina. La Cassazione sfida la retorica del populismo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 6 giugno 2017 È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista - e a quella retorica giustizialista - che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato - perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso - equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale. Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale - e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano - e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo "etico". Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semi-perdonabili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione ( generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola "errata", ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione. Sentenza su Riina. Il populismo giudiziario stavolta ha perso di Sergio D’Elia* Il Dubbio, 6 giugno 2017 Vince il diritto, contro la "terribilità". La sentenza della corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico che non dovrebbero mai albergare in un’aula di giustizia, anche di rango inferiore a quella della Cassazione. Principi e norme come "umanità della pena", "diritto a morire dignitosamente", "attualità della pericolosità sociale", sono raramente rispettati da un giudice quando si tratta di persona che per il suo passato criminale ha rappresentato l’emblema della mostruosità che non può mai svanire, che va alimentato per tutta la vita. In tempi di populismo giudiziario e, ancor più, penale non è accettabile che tali simboli del male assoluto si sciolgano come neve al sole. Totò Riina non può essere un pupazzo di neve con la coppola e la lupara di plastica in un giardino d’inverno che dura solo fino a primavera. Deve rimanere un monumento granitico e indistruttibile in servizio permanente effettivo, insieme a tutti gli altri armamentari speciali ed emergenziali della lotta alla mafia, dal 41bis al "fine pena mai", dell’ergastolo ostativo da cui si può uscire in un solo modo: da collaboratori di giustizia o, come si dice, coi piedi davanti. La forza di uno Stato non risiede nella sua "terribilità", come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a sé stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire e lo stato di diritto, la legge suprema che vieta trattamenti disumani e degradanti, a morire è anche la nostra Costituzione, il senso stesso della pena, che non può essere quello della vendetta nei confronti del più malvagio dei nemici dello Stato. *Segretario di "Nessuno tocchi Caino" Sentenza su Riina. Il Paese davanti all’incertezza della pena di Carlo Nordio Il Messaggero, 6 giugno 2017 Per chi è digiuno di giuridichese, diciamo subito che la Cassazione non ha disposto la liberazione di Totò Riina, né un mutamento del suo stato di detenzione. Ha semplicemente imposto al tribunale di sorveglianza di rivedere la precedente decisione (che aveva respinto l’istanza di scarcerazione) alla luce di un principio nuovo: quello di poter morire con dignità. E qui sta appunto l’originalità della pronuncia. Il differimento dell’esecuzione della pena per ragioni di salute significa questo: che il condannato, quando non può essere curato in carcere, può, e talvolta deve, essere mandato a casa, o in ospedale, al fine di ricevere quei soccorsi che la detenzione gli impedirebbe di avere. La legge cerca così di conciliare alcuni principi costituzionali: la certezza della pena, l’uguaglianza davanti alla legge, il divieto di trattamenti disumani e il diritto alla salute. Lo fa fissando due presupposti: che la malattia sia particolarmente grave, e che l’impossibilità di curarla in carcere si converta in un’afflizione aggiuntiva. È allora evidente che nel caso di Riina si pongono problemi ulteriori. Qui infatti, a quanto si capisce, non si tratta più di assicurare al detenuto una terapia che il carcere non sarebbe in grado di garantire; e nemmeno di evitare un aggravamento di una patologia peraltro definita irreversibile. Si tratta dell’affermazione del diritto a morire con dignità. Un diritto così sacro e incontroverso che, istintivamente, saremmo tentati di dire che finalmente la giustizia si coniuga con la razionalità, se non proprio con la misericordia. Mentre invece la questione si complica, per almeno tre ragioni. La prima è che le strutture carcerarie odierne contengono, al loro interno, sezioni ospedaliere dove le cure palliative - che di per sé stesse non necessitano di un’alta tecnologia - possono essere somministrate con un’ efficacia uguale, e talvolta anche maggiore, di quelle di molti ospedali. E che quindi, se non si profila la necessità di un trattamento terapeutico più complesso, lo scopo di una morte dignitosa e indolore è raggiungibile anche senza liberare un pluri-ergastolano. La seconda è che, sempre a quanto si legge, la situazione di Riina è gravemente compromessa anche dal punto di vista neurologico. Questo significa che la collocazione nell’ambiente familiare sarebbe di poco momento, visto che non sarebbe nemmeno percepita nella sua valenza consolatoria. In ogni caso, e questo sarebbe un principio sacrosanto, si potrebbe e si dovrebbe garantire la presenza dei propri cari, nell’imminenza del trapasso, anche all’interno di un penitenziario, o nella struttura sanitaria che vi è annessa. La terza è che, sino ad ora, il differimento della pena è sempre stato correlato a una patologia grave o gravissima, ma non terminale e manifestamente irreversibile. La scarcerazione provvisoria ha un senso se tende a evitare un peggioramento delle condizioni del detenuto che aggiunga dolore a dolore, e magari ne anticipi il decesso. Ma nel momento in cui si parla di diritto alla morte dignitosa, l’intera impalcatura cade. E di fatto si elimina l’ergastolo, perché, per definizione, l’ergastolano è destinato a veder l’avvicinarsi della fine tra le sbarre; se in quel momento ha diritto di uscirne, per morire con dignità, la pena perpetua non ha più senso. Questa soluzione è profondamente umana, e forse anche auspicabile. Ma è una scelta che va definita dal legislatore. Concludo. Il nostro Paese non ha mai brillato per chiarezza e coerenza quando ha trattato questi problemi di alta levatura etica e giuridica. Mantiene l’ergastolo, perché teme una rivolta popolare, soprattutto in questi tempi di esasperazione terroristica in cui si invoca, al contrario, la pena di morte. E in caso di necessità è ricorso agli espedienti più infantili e grotteschi, come quando liberò Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine, simulandone la fuga nella valigia della moglie, per ottenere in cambio un prestito dalla Germania Federale. Ora, sappiamo bene quanto siano odiate e odiose le figure dei mafiosi; e al tempo stesso quanto sia radicato, oltre che imposto normativamente, il principio dell’umanità della pena. Sappiamo anche che vi sono provvedimenti chiari e distinti, come la Grazia, che talvolta possono risolvere situazioni contraddittore e dolorose. Quello che chiediamo è che la politica, anche qui, si assuma le sue responsabilità. Magari rivedendo in radice un codice penale che, malgrado le pasticciate ed episodiche riforme, reca pur sempre la firma di Mussolini. Sentenza su Riina. I diritti dei detenuti e la sicurezza dei cittadini di Giovanni Verde Il Mattino, 6 giugno 2017 Totò Riina è un mostro e come tale va trattato. Questa potrebbe essere la reazione naturale di chi legge che la Corte di cassazione ha aperto alla possibilità che sia mutato il suo trattamento penitenziario, dal carcere alla detenzione domiciliare. Il nostro istinto primordiale ci induce ad applicare una sorta di legge del contrappasso: a una persona di tanta disumanità non possono essere concessi benefici basati sul rispetto dei valori umani. Il diritto, tuttavia, non deve lasciarsi condizionare dall’istinto o dalla passione. L’umanità del diritto, che spesso vediamo smarrita in nome di un giustizialismo primordiale, si esprime anche e soprattutto in una razionalità non fredda e distaccata, ma aperta al nostro cuore. "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona", si legge nell’art. 1 della l. n. 354 del 1975 (sull’ordinamento penitenziario), che riecheggia l’art. 2 Cost. Ed esso "è attuato - è scritto alla fine della disposizione - secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". La Corte di cassazione ha fatto applicazione di questi principi, che sono quelli della nostra civiltà e per i quali, nello scontro con altre (si fa per dire) civiltà, stiamo pagando prezzi enormi e dolorosi. Non esito a ritenere che in quelle diverse civiltà, che oggi combattono la nostra, un problema del genere non avrebbe ragione di porsi (e, quasi sicuramente, una persona come Totò Riina già da tempo avrebbe cessato di appartenere a questo mondo). La nostra civiltà è altra; è inevitabilmente più debole, ma, vivaddio, è quella alla quale dobbiamo essere orgogliosi di appartenere. La Corte di cassazione poteva risparmiarsi un eccesso di enfasi retorica. Con la concessione del beneficio della detenzione domiciliare nulla ha a che vedere "il diritto a morire dignitosamente (che) va assicurato a ogni detenuto". La dignità della morte non ha nulla da spartire con il carcere. Si può morire dignitosamente in carcere e vergognosamente fuori. La dignità è nel modo in cui si affronta la morte. No, non è questo il punto. Si tratta di stabilire se le condizioni di salute e l’età del condannato, secondo una valutazione che va fatta in relazione al singolo, siano conformi all’umanità. Riina ha il cancro (è affetto da duplice neoplasia renale), non riesce a stare seduto, è esposto "in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili", ha ottantasei anni. E la Corte ha invitato il giudice della sorveglianza (infatti, alla Corte, in quanto giudice della legittimità, non competono valutazioni di merito, ma può soltanto sindacare la corretta applicazione della legge e la congruità delle ragioni addotte) a riesaminare il caso, ponendo in rapporto l’esigenza dell’umanità del trattamento con le specifiche condizioni del soggetto. La Corte, in questo modo, si è resa portavoce della nostra idea di civiltà. Accettiamo con favore il suo insegnamento, abbandonando le reazioni istintive. Ciò va detto in linea di principio. Ma non è tutto. A questo punto sarebbe necessario addentrarsi in un campo che esula dalle mie competenze. Il diritto è complesso e spesso deve mediare tra esigenze contrastanti. Infatti, tutto ciò che ho detto non tiene conto delle esigenze di sicurezza, che non vanno trascurate e che sono anch’esse a base della nostra convivenza. Non a caso, se continuiamo a sfogliare la legge sull’ordinamento penitenziario non possiamo non cogliere una preoccupazione. Di fronte a delinquenti efferati, soprattutto se sono stati a capo di organizzazioni criminali potenti, c’è la preoccupazione di mai dissolti legami e collegamenti. La sicurezza, in questa prospettiva, fa aggio sull’umanità ed il carcere si impone, nonostante che il trattamento sia molto afflittivo, se c’è pericolo che il differente trattamento favorisca la ripresa di quei tenebrosi rapporti, che hanno condotto a crimini efferati. Di ciò nel provvedimento della Corte non si parla. Da incompetente quale sono in questa materia azzardo che, in ogni caso, il procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale debbano valutare o debbano avere valutato (come si legge nell’art. 4bis della legge) se sussistano ancora oggi collegamenti con la criminalità organizzata. Se questi collegamenti ci fossero ancora, il beneficio non potrebbe essere concesso. Sentenza su Riina. L’Unione delle Camere Penali: "la pena non può essere vendetta" La Sicilia, 6 giugno 2017 "È una decisione importante e corretta e attesa da tempo: rimarca come anche i detenuti, compresi quelli che hanno commesso gravi reati, hanno diritto a una morte dignitosa". Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, non nasconde la sua soddisfazione per una sentenza, quella della Cassazione su Totò Riina, che "traccia in maniera chiara i limiti della pena: se non c’è pericolosità non si può trattare diversamente un essere umano, altrimenti la pena si trasforma in vendetta". Si tratta di un cambio di rotta significativo rispetto a "decisioni di segno opposto che sono distoniche riguardo a quello che la Costituzione vuole per la pena e la dignità dell’uomo". "A volte le valutazioni dei giudici su persone che si sono macchiate di gravi reati sono state fatte sulla base della suggestione e dell’emotività, pensando alla reazione negativa dell’opinione pubblica - osserva il leader dei penalisti - Ma se un detenuto è malato terminale di tumore, ha l’Alzheimer o altre malattie che lo rendono invalido, come si fa a presumere la sua pericolosità? Una persona non può essere pericolosa a prescindere, se sta per morire". Da questo punto di vista la pronuncia della Cassazione è per i giudici di merito "un invito a tener conto delle norme esistenti e dei nostri principi costituzionali". E segna un punto di non ritorno: "Adesso le valutazioni dei vari tribunali dovranno tener conto di queste indicazioni". Favorevole anche è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. "In attesa di leggere le motivazioni della pronuncia della Cassazione, quella su Riina è una sentenza molto importante poiché pone il tema della dignità umana e di come essa vada preservata anche per chi ha compiuto i reati più gravi e, di conseguenza, come la pena carceraria non possa e non debba mai trasformarsi in una sofferenza atroce e irreversibile". "Ancora oggi - prosegue Gonnella - ci sono detenuti che da circa 25 anni sono continuativamente sottoposti al regime duro di vita penitenziaria disciplinato dall’art 41 bis 2° comma dell’ordinamento penitenziario. Alcuni di loro versano in condizioni di salute gravissime tali da non poter costituire mai un pericolo all’esterno". "Dal punto di vista del principio espresso dai giudici della Cassazione non possiamo che essere totalmente d’accordo. Se non fosse così vorrebbe dire che per noi la pena è pura vendetta. Rispetto invece alle preoccupazioni di tipo criminale - sottolinea ancora Gonnella - qualora mai un detenuto come Riina avesse l’opportunità di essere curato fuori dal carcere sarà comunque cura degli organi investigativi e delle forze dell’ordine fare in modo che ciò possa avvenire senza che questo costituisca un rischio relativamente alla commissione di nuovi reati". "Uno stato forte e democratico - conclude il presidente di Antigone - non fa mai morire nessuno in carcere deliberatamente". "C’è una persona malata, al quale lo Stato deve riservare un adeguato trattamento terapeutico a prescindere dai crimini commessi e dalla presenza o meno - che in questo caso non c’è stata - di una presa di coscienza, di un percorso di ravvedimento e di conversione. Ma c’è anche una vicenda di violenza, di stragi e di sangue che ha causato tante vittime e il dolore insanabile dei loro famigliari", sottolinea don Luigi Ciotti. Secondo il sacerdote, dunque, "c’è un diritto del singolo, che va salvaguardato. Ma c’è anche una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni". Sentenza su Riina. Violante: "garanzia ribadita, ma non è un via libera" di Francesco Lo Dico Il Mattino, 6 giugno 2017 "No ad allarmismi, i giudici hanno solo ricordato che va assicurata la dignità. Esiste un diritto di morire dignitosamente che deve essere assicurato al detenuto", anche se il suo nome è quello sinistro di Totò Riina. È questo il fulcro della decisione con la quale la Cassazione ha invitato il Tribunale di sorveglianza di Bologna a riconsiderare la scarcerazione del capo stragista dei corleonesi, che da qualche tempo verserebbe in cattive condizioni di salute. "Ma la Suprema Corte non ha autorizzato la scarcerazione - commenta Luciano Violante, già presidente della Camera e della Commissione parlamentare antimafia - I giudici si sono limitati ad affermare il principio di diritto per il quale occorre garantire a tutti una morte dignitosa. Il tribunale di sorveglianza dovrà verificare i dati di fatto e accertare se Riina è ancora pericoloso e se non lo fosse se le sue condizioni di salute sono davvero così disastrose". In buona sostanza, la Cassazione rimprovera al tribunale di Bologna di non aver preso in considerazione se le cattive condizioni fisiche di Riina possano oggi aver scongiurato la sua pericolosità sociale. Dunque se il boss non è più in grado di nuocere va scarcerato? "La Cassazione non ha autorizzato la scarcerazione. Ha semplicemente affermato che in condizioni di salute particolari è prevalente il diritto a una morte dignitosa, che solo può soccombere di fronte alla pericolosità criminale del detenuto. Il tribunale di Bologna è stato invitato a verificare se lo stato di salute di Riina è tale da precludere al boss la facoltà di dare indirizzi criminali a Cosa Nostra. Se così fosse, come per tutti, vale il diritto a concludere i propri giorni in maniera dignitosa". È soltanto di pochi giorni fa la notizia che Riina, intercettato, contava di attentare alla vita di Don Ciotti. L’Antimafia lo reputa ancora il capo della Cupola. "Di fronte alla storia di quello che è stato un feroce assassino, interrogativi e allarmi sono del tutto legittimi. Ma non occorre confondere i principi che ispirano il 41bis con l’eventuale scarcerazione del boss, leggendovi quasi un segnale di allentamento. Il punto vero è che la Repubblica non può rispondere alla mafia utilizzandone le stesse spietate logiche di vendetta. La dignità della morte, a condizione che non sia più in grado di nuocere e che versi in condizioni di salute irreparabili, va garantita anche al criminale della peggior risma". Nicola Gratteri si è mostrato fortemente contrariato davanti all’ipotesi che Riina possa lasciare il carcere. Ai boss come lui, ha detto, basta un’occhiata per impartire ordini. Un rischio concreto? "Il procuratore pone un interrogativo serio che dovrà sciogliere il Tribunale di Bologna. Il grado di pericolosità di Riina sarà appurato dalla valutazione dei suoi comportamenti negli ultimi tempi. Qualora non fosse giudicato pericoloso, occorrerà stabilire se il detenuto può essere sottoposto alle cure che gli sono necessarie in carcere, o se invece il suo stato di decadimento fisico e l’avanzamento della sua malattia siano tali da portarlo alla morte e da scongiurare qualsiasi rischio di comunicazione con la sua organizzazione criminale". Soltanto pochi giorni fa, il pm antimafia Nino Di Matteo si era detto preoccupato che in presenza di eventuali benefici penitenziari concessi anche ai mafiosi, l’eventuale collaborazione di boss pentiti riceverebbe una controspinta che potrebbe ostacolare il lavoro dei magistrati. L’uscita dal carcere di Riina potrebbe produrre un segnale di questo tipo? "Si tratta di considerazioni giustificate che vanno tenute in debito conto. Di fronte all’ipotesi di una scarcerazione capace di accompagnare il detenuto verso una fine dignitosa, le perplessità sono legittime. Ma è proprio nell’ambito di scelte così difficili che la giustizia è chiamata a dare una risposta equilibrata sulla base di criteri oggettivi". Ha utilizzato un termine rivelatore: ?oggettivo?. Crede che la decisione della Cassazione abbia scatenato l’ennesima disputa tra fronte garantista e fronte giustizialista? "Il dibattito è giustificato; ma sarebbe bene sottrarlo alla contrapposizione puramente ideologica. Sfide di questo genere non fanno un buon servizio ai valori della Repubblica". E nemmeno al giudice che dovrà assumersi l’onere di una decisione in punta di diritto. "In una società pluralista le pressioni sono all’ordine del giorno. Ma il giudice deve individuare nel diritto la propria unica stella polare". Sentenza su Riina. Per Provenzano nessuna pietà, torturato fino all’ultimo dallo Stato di Luca Rocca Il Tempo, 6 giugno 2017 Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio del 2016 da detenuto al 41bis. Le battaglie per portarlo fuori dal carcere duro combattute dal suo storico legale, Rosalba Di Gregorio, non hanno vinto le resistenze di uno Stato che, inseguendo il "vento della vendetta", più e più volte ha rigettato le richieste di trasferimento ad altra struttura ospedaliera, lasciando che Zu Binnu crepasse dietro le sbarre. Da anni, prima di morire, il super boss era ormai disteso su un letto, praticamente senza vita, guardato a vista nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo nel carcere milanese di Opera. Addosso solo il camice del nosocomio. Poco prima di esalare l’ultimo respiro, pesava 45 chili. Non poteva muoversi, non capiva chi c’era intorno a lui, non comunicava, non poteva nutrirsi da solo. Lo facevano i medici, attraverso un sondino naso-gastrico che, inizialmente, andava dal naso allo stomaco, ma quando anche quest’ultimo organo ha ceduto, arrivava direttamente all’intestino. Queste erano le condizioni di Provenzano al momento della morte, dopo anni di decisioni contraddittorie dei giudici e ragioni di pericolosità addotte facendo finta di ignorare che lo stato di salute del boss gli avrebbe impedito persino di proferir parola. Per anni i Radicali di Marco Pannella indirizzarono le loro battaglie a favore dell’umana pietà verso il sanguinario boss. L’ex segretario Rita Bernardini diede avvio a uno sciopero della fame per ottenere lo stesso scopo, ma senza successo. La voglia di vendetta fu più forte del senso di umanità. C’è stato un momento, fra l’altro, in cui persino le procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo, di fronte a un vecchio "Padrino" ormai incapace di intendere e volere, dissero "sì" alla revoca del 41bis. Inutilmente. Poco dopo, infatti, i magistrati di Sorveglianza, ma anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, opposero il loro inspiegabile diniego; che loro, però, spiegarono ugualmente adducendo la pericolosità e la capacità di Provenzano di mantenere i rapporti coi suoi sodali ancora liberi. Quarantotto ore prima di perire, dall’ospedale dov’era detenuto i medici avvertirono: "Il paziente sta morendo". Eppure, anche in quel caso i giudici di Sorveglianza di Milano, ancora una volta, si opposero al differimento della pena. La ragione, in quel caso, apparve più umana. Provenzano, spiegarono i magistrati, lontano dal 41bis avrebbe potuto subire "rappresaglie" per via dei suoi "trascorsi criminali". D’altronde, di fronte a quelle condizioni di salute, prima ancora anche lo stesso Tribunale di Sorveglianza e pure la Cassazione avevano detto "no" alla concessione dei domiciliari. Ecco perché, un anno dopo, nella loro pronuncia i giudici scrissero che non era possibile "intervenire in via d’urgenza e provvisoria" con un provvedimento "in netto contrasto" con quello precedente. E l’umanità violata? "Nessuna condizione di contrasto con il senso di umanità si realizza con la permanenza" di Provenzano in quel reparto, dissero i giudici. Nel dicembre del 2013 il figlio di Provenzano, Angelo, inviò una lettera al nostro giornale per chiedere "pietà" per il padre: "Papà non capisce più nulla - scrisse - non è più in grado di provvedere a sé stesso autonomamente, il suo stato di demenza gli impedisce di riconoscere i suoi familiari". Eppure l’ottusità dello Stato, incapace di capire che, di fronte alla malattia, anche di un boss, non si rischia mai di eccedere in umanità, vinse sulla pietà. Sentenza su Riina. Le famiglie delle vittime: "loro non hanno avuto morti dignitose" La Repubblica, 6 giugno 2017 Reazioni indignate per la decisione di scarcerare il boss dei boss. Da Rita Dalla Chiesa a Sonia Alfano, dal figlio di Pio La Torre ai parenti delle vittime dell’attentato di via dei Georgofili. Pesanti dubbi dalle forze impegnate nell’antimafia. Bindi: "Massimo delle cure ma in carcere". Anche don Ciotti chiede di pensare alle vittime. Antigone: "Sentenza giusta". "Mio padre non ha avuto una morte dignitosa". È secca e adirata la reazione a caldo di Rita Dalla Chiesa alla notizia della possibile scarcerazione di Totò Riina. E come lei Sonia Alfano, ora parlamentare di Mdp, e Franco La Torre. Nomi e figure simbolo del tributo di vite pagato alla mafia in Sicilia. E da brividi è anche l’elenco dei nomi delle vittime di via dei Georgofili, ripetuto nel comunicato dalle famiglie delle persone rimaste uccise nello scoppio della bomba mafiosa a Firenze nella stagione delle stragi dei primi anni 90. È destinata a dividere opinioni e coscienze la sorprendente apertura della Corte di Cassazione all’arrestato-simbolo della lotta alla mafia, ormai 86enne e gravemente malato. Il futuro del "Capo dei capi" è in bilico tra la volontà di rispettare il diritto di ogni essere umano "a morire dignitosamente" e la necessità di non infangare il ricordo delle tante vittime della furia omicida di Cosa Nostra. Ma altrettanto dure sono le reazioni politiche, ed anche del mondo dell’impegno civile. Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia: "Totò Riina è detenuto nel carcere di Parma, dove vengono assicurate cure mediche in un centro clinico di eccellenza. È giusto assicurare la dignità della morte anche a Riina, ma per farlo non è necessario trasferirlo altrove, men che meno agli arresti domiciliari". Anche Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia e senatore Pd, ha espresso perplessità sul tema: "Bisogna evitare di dare messaggi sbagliati. È chiaro a tutti che il diritto alle cure mediche non può essere negato a nessuno, ma da qui a tirar fuori un profilo quasi pietoso del boss ce ne passa. Riina è un carnefice spietato e ancora pericoloso. È necessario non dare segni di debolezza che potremmo pagare amaramente". Sonia Alfano, parlamentare di Mdp e figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso nel 1993, sottolinea come tanti altri detenuti sono morti nelle carceri italiane senza ricevere l’attenzione della Cassazione, eppure "di sicuro non avevano sulle spalle un numero infinito di efferati e tragici delitti compiuti ed ordinati" come quelli del boss corleonese. "Grazie a stragisti del calibro di Riina tante famiglie come la mia continuano a piangere i loro cari". Per l’Associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, "dignità, umanità, invocate dalla Corte di Cassazione per il macellaio di via dei Georgofili possono essere esercitate tranquillamente all’infermeria del carcere o in un ospedale attrezzato per il 41 bis. Si può morire dignitosamente ovunque nelle mani di uno Stato, tranne in via dei Georgofili come è avvenuto il 27 maggio 1993 per Dario, Nadia, Caterina, Angela, Fabrizio e quanti ancora oggi spesso non possono condurre la vita che gli resta dignitosamente". Dura anche da Rita Dalla Chiesa: "Mio padre una morte dignitosa non l’ha avuta, l’hanno ammazzato lasciando lui, la moglie e Domenico Russo in macchina senza neanche un lenzuolo per coprirli. Sto insegnando a mio nipote ad avere fiducia nella giustizia e nella legalità, lo porto sempre in mezzo ai carabinieri. Per quanto riguarda invece la fiducia nella giustizia, forse sto sbagliando tutto". Per Franco La Torre, figlio di Pio La Torre (ucciso il 30 aprile 1982), la scarcerazione di Riina sarebbe "un’ulteriore ferita" per le vittime. "Quando qualche anno fa Provenzano era incapace di intendere e di volere sono stato fra quelli che erano favorevoli a restituirlo ai suoi cari e lo sarei anche oggi se le condizioni di Riina fossero le stesse. Ma non mi pare che sia così", ha concluso facendo riferimento alle intercettazioni di due anni fa, dal carcere, in cui Riina parlava del piano di uccidere il pubblico ministero Nino Di Matteo. Don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera contro tutte le mafie, ha sottolineato la coesistenza di "un diritto del singolo, che va salvaguardato, ma anche di una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni". Per il Movimento 5 Stelle "sembra di assistere ad una nuova trattativa che lascia angosciati e preoccupati. Il carcere è il luogo in cui deve rimanere ristretto uno dei più sanguinari boss di sempre". D’accordo anche il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Forza Italia) e Matteo Salvini, che ha spiegato che "la Lega è pronta a dare battaglia, in ogni sede. Fine pena mai, per Riina e per quelli come lui". "Non possiamo che essere totalmente d’accordo con la Cassazione. Se non fosse così vorrebbe dire che per noi la pena è pura vendetta". La voce fuori dal coro è quella di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. "Qualora mai un detenuto come Riina avesse l’opportunità di essere curato fuori dal carcere, sarà comunque cura delle forze dell’ordine fare in modo che ciò possa avvenire senza rischi: uno Stato forte e democratico non fa mai morire nessuno in carcere deliberatamente". Riina non è un detenuto normale: è il capo di Cosa nostra. Per questo va lasciato in carcere di Lirio Abbate L’Espresso, 6 giugno 2017 Provenzano e gli altri boss mafiosi sono morti dietro le sbarre nonostante i problemi di salute. Perché oggi la giustizia con la decisione della Cassazione vuole mostrare un volto diverso? Occorre dire subito una cosa: Totò Riina non è un detenuto normale. E quindi come tale deve essere trattato. Ma soprattutto bisogna sottolineare che questo vecchio corleonese è ancora il capo di Cosa nostra. Perché non ha mai abdicato. Ora però mi chiedo, perché la decisione dei giudici della Cassazione che ha aperto al differimento della pena, quindi alla scarcerazione per gravi motivi di salute, è diversa da quella che poco tempo fa ha riguardato Bernardo Provenzano, anche lui ammalato, che però è rimasto detenuto nonostante le gravi patologie riscontrate dai medici? E Provenzano è morto da detenuto. Come mai quindi per Riina si vuole mostrare un volto della giustizia che per altri boss mafiosi non è stato mai visto? Ogni volta che si torna a parlare di questo capo dei capi mi viene in mente una foto scattata nell’estate del 1979 in cui ritrae una famiglia al mare. A guardarli così, in questa foto ingiallita, appare una famiglia come le altre. Una famiglia che si prende cura dei figli e gioca con loro in acqua. Ma questa foto ci fa calare in una Sicilia d’epoca dove si possono contestualizzare uomini e fatti e anche sensazioni di una società che in gran parte non sapeva o non voleva riconoscere i mafiosi. Ma ci conviveva. Molti lo hanno fatto per convenienza e altri invece per paura. Perché in questa foto il protagonista è Totò Riina e con lui il cognato, Leoluca Bagarella, assassino di professione, sanguinario per passione. Entrambi in questo periodo erano latitanti. Dunque, due pericolosi ricercati che stavano tranquillamente in spiaggia. Fra un omicidio e l’altro. Una strage o l’uccisione di bambini e donne. Eccoli i due sanguinari che hanno messo a ferro e fuoco la Sicilia negli ultimi quarant’anni, a trascorrere una giornata al mare come se nulla fosse accaduto. Come se quell’estate di terrore del 1979 che avevano scatenato lasciando sull’asfalto decine di cadaveri non li riguardasse. Sta in questa immagine il vero volto della mafia. Quella di ieri, e pure quella di oggi. Mimetizzata prima e invisibile adesso agli occhi della gente. Di chi non vuole vedere e preferisce convivere con il male. In tanti all’epoca sostenevano che la mafia non esisteva. In questa foto Totuccio e Luchino giocano con i piccoli Riina, sono sorridenti, ma nessuno può vedere che poche ore prima le mani dei due padrini si sono macchiate del sangue di un servitore dello Stato, un grande poliziotto che stava con il fiato sul collo dei corleonesi. Era Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo, che si era messo sulle tracce del latitante Bagarella. Il cognato di Riina per impedirgli di proseguire le sue indagini la mattina del 21 luglio 1979 lo colse di sorpresa in un bar e gli sparò alle spalle. Occorre ricordare anche questo quando si parla di Riina. Perché quando il padrino venne arrestato il 15 gennaio 1993 dopo 24 anni di latitanza, e il suo volto apparve in televisione, sorprese tutti: nessuno immaginava che un personaggio così goffo, "curtu" (piccolo), dagli occhi spiritati, potesse essere il padrino feroce dipinto dalle cronache giudiziarie. Ma la storia di Riina è sangue e violenza. Lui è un teorico della violenza totale e dell’inganno sistematico, all’interno di un progetto lucidissimo quanto folle, eccidio dopo eccidio. Per questo Riina non è un detenuto normale, e per questo va trattato come altri boss detenuti sono stati trattati alla fine della loro esistenza, senza mai lasciare il carcere. Sonia Alfano: "Riina muoia in carcere" di Angelo Scuderi Il Gazzettino di Sicilia, 6 giugno 2017 Le dure parole di Sonia Alfano contro la Cassazione: "È meglio che lo Stato taccia. L’ergastolo prevede che si muoia da detenuti e non dimentichiamo di chi si tratta. E poi perché riservargli un destino diverso da Provenzano? Non posso perdonare chi ha ucciso mio padre. Se lo Stato si esprime così non ci prenda in giro con le commemorazioni di Falcone e Borsellino". "Se queste sono le parole dello Stato è meglio che taccia". Sonia Alfano non usa mezze misure per contestare il pronunciamento della Corte di Cassazione volto ad assicurare una morte dignitosa a Totò Riina, l’86enne Capo dei capi, malato in maniera grave. "È inaccettabile che un organo dello Stato si esprima in questo modo. C’è una sentenza definitiva che parla di carcere a vita e che presuppone che si muoia in carcere. Ci si deve assicurare che il detenuto Riina abbia le cure più opportune ma all’interno del regime carcerario. La Cassazione dimentica che molti detenuti muoiono in carcere, non credo si possa entrare nel merito su chi è il detenuto. Nel caso specifico si tratta di uno stragista, capo riconosciuto di Cosa Nostra, uno che non si è fatto scrupolo di far morire in maniera poco dignitosa i nostri cari. E del resto perché riservargli un destino diverso da Bernardo Provenzano che morì da detenuto?" Sonia Alfano non ha mai perdonato i killer che nel 1993 uccisero suo padre, Beppe, cronista di Barcellona in prima linea contro la criminalità organizzata. "Perdonare non si può, è una ferita che non si rimargina e che proprio lo Stato, con questi comportamenti, contribuisce a riaprire volta per volta. Io avrei voluto che mio padre vedesse crescere i miei figli, li vedesse laureati, lo avrei voluto accanto nei momenti più gioiosi della mia vita e nelle difficoltà. Lo hanno ucciso delle bestie ma provo più dolore quando sento che lo Stato che dovrebbe proteggerci si preoccupa del dolore dei carnefici. Allora che non ci si prenda in giro con il 23 maggio e il 19 luglio e con tutte le commemorazioni per Falcone e Borsellino. Noi che abbiamo perso per mano mafiosa i nostri cari preferiamo il silenzio". Si può comprendere l’amarezza di Sonia Alfano, la sua freddezza, la mancanza di pietas. La mafia le ha segnato l’esistenza portandole via con spietata violenza il padre. Secondo Sonia le bestie, come ancora oggi chiama gli assassini, non meritano compassione, almeno non quella dello Stato. E quì, con tutto il dovuto rispetto per il suo dolore e per quello di tutti quelli a cui la mafia ha rubato un pezzo di cuore, le strade della comprensione divergono. È legittimo il suo non perdono come più che giustificabile l’atteggiamento dello Stato che in questo caso più che perdonare mostra il rispetto per l’umana condizione. Perché lo Stato è diverso dalla mafia. E questa consapevolezza, Sonia, diventa anche la sua vittoria. La Cassazione apre ai domiciliari per Riina ma è polemica di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Corte di cassazione, sentenza 5 giugno 2017, n. 27766. La Corte di Cassazione apre un spiraglio ai domiciliari per Totò Riina, che spetterà ora al Tribunale di sorveglianza spalancare o chiudere. È il senso della sentenza 27.766 relativa all’udienza del 22 marzo con la quale la Suprema Corte ha stabilito che Totò Riina, boss di Cosa nostra detenuto dal 1993, alla pari di ogni altro detenuto, ha diritto a "a morire dignitosamente". Il Tribunale di sorveglianza competente territorialmente, ha deciso la Cassazione, sarà dunque chiamato a rivalutare la compatibilità o la sussistenza dei presupposti per il differimento della pena (ai domiciliari o in altro luogo di degenza al fine di garantire le cure o consentire una morte dignitosa). La richiesta di revoca del 41bis era stata respinta nel 2016 dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso "di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico". Il Tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l’infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. "Fermo restando lo spessore criminale", continuano i giudici, "va verificato se Totò Riina possa ancora considerarsi pericoloso vista l’età avanzata e le gravi condizioni di salute". La Cassazione sottolinea che il giudice deve verificare e motivare "se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità" da andare oltre la "legittima esecuzione di una pena". Il collegio ha ritenuto che non emerga dalla decisione del giudice il modo in cui si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena "il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa", che non riesce a stare seduto ed è esposto "in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili". Si ripropone dunque il quesito che riguardò il boss Bernardo Provenzano, deceduto il 13 luglio 2016. Il 9 giugno 2015 la suprema Corte di cassazione aveva bocciato il ricorso di "zu Binnu" - nell’ultimo periodo affetto, oltre che da tumore alla prostata, da decadimento cognitivo grave - perché il carcere duro è "fondamentalmente incentrato sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto". Se avesse lasciato il reparto ospedaliero del San Paolo di Milano per raggiungere un reparto comune, sarebbe stato a "rischio sopravvivenza", per la "promiscuità" e le cure che li venivano invece praticate. L’11 luglio 2016, due giorni prima della morte, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto una nuova istanza di differimento pena per Provenzano con la quale si chiedeva la scarcerazione o la revoca del carcere duro. I "trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale" avrebbero potuto esporlo "qualora non adeguatamente protetto" e "trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica" ad "eventuali rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso" di cui è stato "capo fino al suo arresto". Inevitabili le reazioni. Don Ciotti sospende il giudizio, i Radicali sono favorevoli a una soluzione "umanitaria", Rita Dalla Chiesa ricorda che il padre morto per mano di Cosa nostra una morte dignitosa non l’ha avuta mentre il leader della Lega nord Matteo Salvini dichiara di essere senza parole e invoca il fine pena mai per Riina. La presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi mette infine in guardia sui rischi della detenzione domiciliare. Stranieri: arresto per spaccio, illegittima la revoca del permesso di soggiorno di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Tar Lazio - Sezione di Latina - Sentenza 23 maggio 2017 n. 324. È illegittima la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo per lo straniero arrestato in flagranza per spaccio di sostanze stupefacenti. Il semplice arresto infatti non è un elemento di valutazione ai fini di una prognosi di pericolosità sociale che può seguire unicamente ad una condanna, anche non definitiva. Lo ha stabilito il Tar Lazio, Sezione di Latina con la sentenza n. 324 del 23 maggio 2017, accogliendo il ricorso di un cittadino di origine albanese. Il Prefetto di Frosinone invece aveva respinto il ricorso gerarchico contro il provvedimento del Questore di revoca della carta di soggiorno "sostanzialmente" basato sul fatto che il ricorrente "è stato arrestato in flagranza di reato per violazione delle norme sugli stupefacenti, e sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere; che non ha partecipato al procedimento amministrativo; che risulta di mediocre condotta morale e civile; che non è stata rilevata una particolare situazione familiare". Nel motivare il provvedimento il Questore ha richiamato la nozione di "pericolosità sociale" (ex articolo 1 legge n. 1423/1956 come sostituito dall’articolo 2 della legge n. 327/1988). Il ricorrente, per parte sua, ha lamentato di aver sempre lavorato nel corso del suo soggiorno in Italia, iniziato oltre 10 anni prima, di avere acquistato una casa, di avere una famiglia. E che trattandosi di un provvedimento di revoca, l’amministrazione doveva valutare se egli "costituiva una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato" con una motivazione che facesse riferimento "alla durata della permanenza nello Stato, all’inserimento sociale, familiare e lavorativo, escludendo ogni automatismo in relazione a condanne penali". Al contrario, il Ministero, costituitosi in giudizio, ha sostenuto l’infondatezza del ricorso in quanto il reato relativo alla violazione di norme sugli stupefacenti "è previsto come ostativo al rilascio del permesso di soggiorno, ed il permesso di soggiorno può essere revocato se lo straniero non possiede i requisiti per l’ingresso; la valutazione di pericolosità sociale è ampiamente discrezionale". Il Collegio ha accolto il ricorso evidenziando, per prima cosa, come l’articolo 9 comma 4 del Dlgs n. 286/98, che disciplina il permesso di soggiorno di lungo periodo, preveda, tra gli elementi di valutazione della pericolosità sociale dello straniero, eventuali condanne, anche non definitive, per reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.p.) nonché, limitatamente ai delitti non colposi, l’arresto facoltativo sempre in flagranza (art. 381 c.p.p.). Ma, prosegue la sentenza, "nel caso in esame né la questura né la prefettura fanno riferimento a sentenze di condanna (anche non definitive) in quanto il fatto riportato nei provvedimenti è costituito dall’arresto in flagranza di reato". Inoltre, come dedotto dal ricorrente, "la norma esclude ogni automatismo derivante da eventuali condanne penali, essendo necessaria una valutazione complessiva di più elementi". Non solo, l’Autorità "deve prendere in considerazione anche la durata del soggiorno nel territorio nazionale, nonché l’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero". Sotto questo profilo, invece, prosegue la sentenza, "si leggono solo frasi stereotipe" mentre dagli atti risulta che il ricorrente ha lavorato in Italia per un periodo di circa dieci anni, dimostrando un adeguato inserimento lavorativo, ha acquistato un appartamento nel 2010, ed ha prodotto uno stato di famiglia dal quale risulta coniugato e con una figlia minore "dimostrando la sussistenza di presupposti familiari tali, soprattutto per l’assistenza alla figlia minore, da far propendere per una valutazione positiva circa la permanenza sul territorio nazionale". "Particolare tenuità" anche per i reati punibili con ammenda di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Corte di cassazione - Sentenza 27752/2017. La non punibilità per la particolare tenuità del fatto si applica anche ai reati che prevedono ipotesi attenuate punibili solo con l’ammenda. La Cassazione (sentenza 27752), accoglie il ricorso contro la decisione del Tribunale di negare l’applicazione dell’articolo 131-bis, introdotto dal Dlgs 28/2015, sulla particolare tenuità del fatto, in favore dell’imputato, colpevole di aver portato un coltello in un luogo pubblico, senza alcuna "giustificazione" plausibile. Un contravvenzione (articolo 4 della legge 110/1975) che era stata punita con un’ammenda di 667 euro. L’imputato chiedeva invece di essere prosciolto in base all’articolo 131-bis del codice penale per la particolare tenuità del fatto. La Cassazione, pur confermando la responsabilità per il fatto contestato, accoglie il ricorso per quanto riguarda la non punibilità. Un trattamento di favore escluso dal tribunale perché "in presenza di una positiva e codificata previsione normativa di espressa punibilità delle ipotesi di lieve entità". Secondo il giudice di prima istanza l’applicazione della riforma del 2015 finirebbe per annullare del tutto il raggio d’azione dell’articolo 4 della legge 110/75 risolvendosi, di fatto, in una inammissibile abrogazione della norma. Per la Suprema corte il Tribunale ha commesso un errore di diritto. I giudici ricordano che, ai fini della configurazione della causa di non punibilità, è necessario "guardare" al caso concreto, tenendo conto, in base all’ articolo 133 primo comma del Codice penale, di una serie di fattori:?dalle modalità di condotta, all’entità del danno, oltre che allo spirito della norma, secondo la quale la disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Una lettura dalla quale si deduce che le ipotesi attenuate sono incluse nell’ambito di applicazione del Dlgs del 2015. Detto questo i giudici applicano d’ufficio l’articolo 131-bis, ricordando che la Cassazione può dichiarare la non punibilità per particolare tenuità del fatto, anche se non è stata accolta nel corso del giudizio di merito, quando i presupposti per la sua applicazione sono immediatamente rilevabili dagli atti e non è necessario fare ulteriori accertamenti sul fatto. Se invece servono altre indagini di merito o valutazioni di fatto ricorre, eventualmente un vizio di motivazione, che può essere rilevato, solo se è stato oggetto di una tempestiva e ammissibile doglianza. Guida senza patente, la depenalizzazione non opera se c’è la recidiva specifica di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Corte di cassazione - Sentenza 26254/2017. Il reato di guida senza patente rientra tra i reati depenalizzati dal Dlgs 8/2016 dal 6 febbraio 2016, ma continua ad avere rilevanza penale in caso di recidiva nel corso di un biennio. Tale recidiva va intesa come l’aver specificamente commesso un reato della stessa specie (non importa se prima o dopo il Dlgs) e non un altro reato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 26254/2017, depositata il 25 maggio, sulla vicenda di un minorenne che, nel marzo 2016, era stato condannato per questo reato (articolo 116, comma 15 del Codice della strada) perché il giudice aveva ritenuto che la recidiva contestata - costituita da un condanna per furto nei due anni prima - aveva impedito di riconoscere l’ipotesi di guida senza patente depenalizzata, cioè solo quella in cui non ricorre la recidiva nel biennio. La difesa sosteneva che la depenalizzazione doveva comunque scattare, grazie al giudizio di comparazione delle circostanze del reato operato dal giudice nel caso concreto: la recidiva era stata infatti bilanciata con l’attenuante della minore età. La Cassazione riconosce che si è in un’ipotesi depenalizzata, ma per motivi diversi. Lo fa con un articolato ragionamento. Prima di tutto chiarisce uno snodo importante del Dlgs. La depenalizzazione riguarda tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria, anche se nelle fattispecie aggravate sono puniti anche (o solo) con pena detentiva; tuttavia, l’articolo 1, comma 2, del Dlgs spiega che "le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato", come tali non soggette al giudizio di bilanciamento delle circostanze. Bilanciamento che può invece operare - solo ai fini della mitigazione del trattamento sanzionatorio, non anche della esclusione della punibilità - per i fatti precedenti al 6 febbraio 2016, purché a tale data non sia maturato il giudicato penale: ciò in deroga parziale al principio di irretroattività della depenalizzazione, di cui all’articolo 1 della legge 689/1981. Il secondo aspetto è quello relativo alla definizione del concetto di recidiva biennale, che - ai sensi dell’articolo 1, comma 2 citato - costituisce uno sbarramento alla depenalizzazione. La Cassazione ha chiaramente spiegato che, in base a una lettura testuale dell’articolo 5 del Dlgs 8/2016, il concetto di recidiva ostativa si riferisce alla "reiterazione dell’illecito depenalizzato". Dunque un reato della medesima specie e non un qualunque reato. Attenzione: per i fatti commessi dopo il 6 febbraio 2016, la recidiva "risulta integrata non più solo quando ricorra il precedente giudiziario specifico ma anche solo quando risulti una precedente violazione amministrativa definitivamente accertata". In altre parole, una sanzione amministrativa irrogata per il primo episodio di guida senza patente può configurare una recidiva che fa scattare la sanzione penale per il secondo. Principio di specialità nel reato di "ragion fattasi". Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2017 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Violenza privata ex articolo 610 c.p. - Principio di specialità. Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si differenzia da quello di violenza privata ex articolo 610 c.p. (ugualmente comprensivo dell’elemento della violenza o della minaccia alla persona) non nella materialità del fatto che può essere identica in entrambe le fattispecie, bensì nell’elemento intenzionale. Infatti, nel reato di "ragion fattasi" l’agente deve essere animato dal fine di esercitare un proprio diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, pur non essendo richiesto che tale pretesa sia realmente fondata, essendone sufficiente che la ragionevole opinione. Di contro, il reato di violenza privata, che tutela la libertà morale, è titolo generico e sussidiario rispetto la primo in esame, che invece è ricompreso tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia: infatti, esso si risolve nell’use della violenza fisica o morale per costringere qualcuno ad un determinato comportamento e, atteso il suo carattere generico e sussidiario, resta escluso in base al principio di specialità, allorché la violenza sia stata usata per uno dei fini particolari previsti per la "ragion fattasi". • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 12 maggio 2017 n. 23391. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Tutela arbitraria delle proprie ragioni - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ragion fattasi) - In genere - Natura - Reato proprio esclusivo o di mano propria - Soggetto attivo - Titolarità del preteso diritto - Necessità - Conseguenze in caso di concorso di persone nel reato - Indicazione. Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto. Ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione, o anche morale), mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’articolo 629 c.p. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 novembre 2016 n. 46288. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Tutela arbitraria delle proprie ragioni - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ragion fattasi) - In genere - Pretesa arbitrariamente azionata - Ragionevole convinzione della sua legittimità - Necessità - Coincidenza con l’oggetto della tutela concretamente prevista dalla legge - Necessità. In tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ai fini della configurabilità del reato, occorre che l’autore agisca nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale, anche se detto diritto non sia realmente esistente; tale pretesa, inoltre, deve corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non mirare ad ottenere un qualsiasi "quid pluris", atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 3 novembre 2016 n. 46288. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Tutela arbitraria delle proprie ragioni - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni (ragion fattasi) - In genere - Elemento oggettivo (materiale) - Estremi - Violenza sulla cosa - Proprietà della cosa da parte del soggetto attivo - Irrilevanza - Ragioni - Fattispecie. Ai fini della configurazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (articolo 392 c.p.), non è rilevante che la cosa su cui è operata la violenza sia di proprietà del soggetto attivo del reato se la contestazione fra soggetto attivo e passivo abbia per oggetto proprio il diritto di quest’ultimo al mantenimento del bene, su cui è operata la "violenza", nello stato in cui si trovava. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di condanna dell’imputato che, al fine di esercitare il preteso diritto di proprietà esclusiva su un fondo, aveva impedito l’accesso alla strada poderale, posta sullo stesso terreno, utilizzata dalla persona offesa per raggiungere il proprio fondo). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 5 febbraio 2016, n. 4879. Violenza privata - Reati contro la persona - Violenza privata - Ragion fattasi - Circostanze del reato - Caratteri e natura della fattispecie - Configurabilità del reato p. e p. dall’articolo 393 c.p. È imputabile per il reato p. e p. dall’articolo 610 c.p. il prevenuto che impedendo alla p.o. di uscire dal proprio garage fino a quando non gli avesse risarcito il danno causato dalla rottura dello specchietto retrovisore della propria automobile, si faceva giustizia da sé, pur potendo ricorrere al giudice. Nel caso specifico, però, la vicenda non può certamente essere sussunta sotto il disposto di cui all’articolo 610 c.p. sia per il carattere sussidiario della norma, sia perché la differenza tra la violenza privata ed il delitto di ragion fattasi, di cui all’articolo 392 c.p., pur nell’identità accidentale delle condotte, risiede nell’elemento intenzionale, ossia nella finalizzazione della condotta ad affermare un proprio preteso diritto, caratterizzante il secondo. Tuttavia la condotta dell’imputato non può neppure essere sussunta sotto il disposto di cui all’articolo 392 c.p. difettando, in tal caso, l’elemento della violenza alle cose, che caratterizza "l’ubi consistam" della figura di reato contestata originariamente. Il fatto ascritto nello specifico, invece, deve ricondursi sotto il disposto dell’articolo 393 c.p. e rubricato quale esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza alle persone, non potendo definirsi in alcun altro modo la condotta di chi privi l’offeso della libertà di determinazione e di azione. • Corte d’Appello di Campobasso, sentenza 5 aprile 2013 n. 186. Parma: al "41bis" sono reclusi anche tre novantenni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2017 Francesco Barbaro ha disturbi cognitivi e deficit della memoria. Proprio nel carcere di massima sicurezza di Parma dove è detenuto Toto Riina, ci sono altri casi di detenuti al 41bis affetti di gravi patologie dovuti soprattutto alla loro età avanzata. Almeno tre di loro hanno raggiunto il 90esimo anno di età. Il caso più eclatante riguarda Francesco Barbaro - 90 anni compiuti il mese scorso - che, come si legge nella cartella clinica, soffre di disturbi cognitivi, deficit della memoria e altre patologie legate all’età. Una situazione che dal momento all’altro potrebbe ulteriormente peggiorare, tant’è vero che gli stessi operatori sanitari del penitenziario hanno espresso parere favorevole per un trasferimento presso una struttura più adeguata. Questa notizia - pubblicata nei giorni scorsi da Il Dubbio - è emersa grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, giunta al tredicesimo giorno dello sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario, per non vanificare il lavoro degli stati generali sull’esecuzione penale: non solo per porre rimedio all’impennata di sovraffollamento, ma anche per umanizzare l’intero sistema penitenziario comprensivo dello stesso 41bis. Secondo gli ultimi dati, del 24.01.2017, ci sono 729 detenuti al 41bis. Nel carcere di Parma vi sono recluse 65 persone al regime di carcerazione dura. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Il 41 bis ha come finalità l’evitare eventuali rapporti all’esterno con la criminalità organizzata, ma come si evince dalla relazione della commissione del Senato, guidata dal senatore Luigi Manconi, esistono regole restrittive che non avrebbero nessun legame con questa esigenza. Ad esempio c’è un isolamento di 22 ore al giorno, è vietato di attaccare fotografie al muro, c’è una limitazione dei capi di biancheria, l’uso del computer per chi studia è consentito a patto che quell’ora venga sottratta dall’ora d’aria. Sempre nel carcere di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ci aveva segnalato che ai detenuti reclusi al 41 bis viene puntata la telecamera direttamente sul water. Una privacy completamente annientata. Gorizia: il Dap "la sezione detentiva per omosessuali va chiusa" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2017 Dopo la segnalazione del Garante dei detenuti verrà definitivamente chiusa la sezione protetta per i detenuti omosessuali del carcere di Gorizia. Continua la proficua collaborazione tra Mauro Palma, il garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. A ogni rapporto redatto dall’ufficio del Garante nazionale relativo alle visite delle carceri, puntualmente arriva la risposta da parte del Dap per chiarire o dare soluzioni alle criticità riscontrate. Questa volta tocca alla questione spinosa della casa circondariale di Gorizia. Avevamo già riportato il dettagliato rapporto che denunciava la presenza di tre detenuti omosessuali in un preparto riservato a loro e dove vivevano, di fatto, in completo isolamento. Il capo del Dap aveva risposto che la situazione era cambiata e che comunque, al riguardo di uno dei tre detenuti, era stato sensibilizzato il competente direttore generale a provvedere, verificando la possibilità di avvicinare il detenuto a Torino, città dichiarata di sua residenza. Ora Santi Consolo ha inviato una direttiva al direttore del carcere di Gorizia e al provveditorato regionale per chiedere di chiudere definitivamente la sezione apposita per i detenuti omosessuali e trasformarla in "circondariale ordinaria". Ha spiegato che "il limitato numero dei detenuti presenti - mediamente superiore a tre persone - a fronte di una capienza di 17 posti detentivi, e la situazione di emarginazione dei pochi presenti rispetto alla restante popolazione detenuta, non possono giustificare il mantenimento di tale circuito". La vicenda paradossale della sezione protetta è nota. All’inizio del 2016 era stato istituito un reparto riservato a tre detenuti omosessuali con lo scopo di "proteggerli" dal clima omofobo che regna nel carcere. L’intento apparentemente appariva nobile, ma il risultato ottenuto era stato quello di isolarli forzatamente, non lasciandogli lo spazio ad alcuna attività. La visita al penitenziario di Gorizia che aveva effettuato Mauro Palma consisteva nell’esaminare l’evoluzione della particolare sezione per detenuti protetti omosessuali. Nel rapporto il Garante nazionale aveva evidenziato alcuni importanti criticità: l’anti-economicità del progetto, in considerazione del numero delle persone che vi sono state ristrette nel corso di più di dieci mesi trascorsi dall’apertura, dell’eccessiva ampiezza degli spazi in un contesto in cui tutte le altre sezioni soffrono della ristrettezza dei locali; l’inaccettabile situazione di isolamento di fatto verificatasi per i detenuti ristretti in tale sezione, per i quali la richiesta di protezione si è convertita in mera offerta di isolamento, in chiaro contrasto con obbligazioni internazionali relative all’isolamento sulla base di connotazioni soggettive e, in particolare, del proprio orientamento sessuale; l’inesistenza dell’offerta trattamentale per i detenuti ristretti in questa sezione e la complessiva centralità di una visione chiusa dell’esecuzione penale, peggiore di quanto offerto ad altri. Ora la vicenda ha avuto un lieto fine grazie alla sinergia tra il Garante nazionale e il Dap. Roma: la Sindaca Raggi nomina la nuova Garante dei detenuti per il Comune Il Messaggero, 6 giugno 2017 Gabriella Stramaccioni è la nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale. "La sua storia e notorietà, il suo grande impegno sociale, il suo lavoro negli istituti di prevenzione e pena, le sue competenze nel campo dei diritti umani e la sua visione hanno convinto l’amministrazione capitolina a sceglierla per il delicato ruolo di Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale di Roma. Le auguro buon lavoro", commenta la sindaca di Roma Virginia Raggi che ha firmato l’ordinanza per la sua nomina. Stramaccioni, romana classe 1961, sin da giovane organizza eventi sportivi, parte dalla periferia a Villa Gordiani con la Corsa della Donna. Appena maggiorenne è nominata presidente provinciale della Federazione di atletica, è la prima donna nella storia a ricoprire il ruolo. Nel frattempo veste la maglia azzurra all’Universiade di Zagabria. Inizia a ripensare la corsa come strumento di lotta sociale. Si batte per la parità del montepremi donne-uomini, lancia la Best Woman, la gara femminile di corsa. Diventa tra il 2003 e il 2004 coordinatrice di un centro per rifugiati politici a Roma, nel 2005 lavora alla vicepresidenza della Provincia di Roma e presso l’assessorato al lavoro del Comune di Roma. È dal 2007 al 2012 consigliera presso l’Agenzia del Terzo Settore, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stata in questi anni consigliera della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e della Tavola della pace. Nel 1994 partecipa, con l’incarico di rappresentante della Uisp alle riunioni che porteranno nel ‘95 alla costituzione di Libera, l’associazione presieduta da don Luigi Ciotti, di cui diventa vice presidente e coordinatrice nazionale dal 1998 fino a gennaio 2013. Trento: "Garante dei detenuti, lo si nomini entro la legislatura" di Tristano Scarpetta Corriere del Trentino, 6 giugno 2017 Civico accoglie la richiesta di una maggioranza qualificata. Disegno di legge verso l’approvazione. Dopo otto anni di attesa, Mattia Civico preferisce non dare per istituita la legge sul garante dei detenuti. Salvo sorprese dell’ultimo minuto, però, al più tardi dopodomani il testo dovrebbe ricevere il via libera dell’aula, che oggi torna a riunirsi. Se così sarà, a breve si potrà procedere alla nomina. "Il mio auspicio - commenta il consigliere - è che si proceda alla scelta in questa legislatura. I cittadini trentini e i detenuti hanno già atteso molto". Otto anni per l’esattezza. Tanto è passato da quando la proposta venne avanzata. Eppure, l’ostilità del centrodestra e la moderata determinazione del centrosinistra hanno fatto sì che una legislatura consegnasse all’altra l’onere dell’approvazione. Così, per altro, è stato per la legge di contrasto all’omofobia e per la modifica, in senso di equilibrio di genere, della legge elettorale dei Comuni. Così sarà, sempre in materia di genere, per la legge elettorale provinciale. Insomma, se sulle questioni di carattere più amministrativo l’opposizione contesta sì la maggioranza, ma senza ergere ad ogni occasione le barricate, sul campo dei diritti civili la distinzione tra centrosinistra e centrodestra pare ancora forte. Anche in questa occasione, c’è stato un tentativo di ricorrere all’ostruzionismo. Maurizio Fugatti (Lega) ha cercato, senza trovarle, le necessarie firme dei capigruppo. Il no determinante è stato quello di Rodolfo Borga (Civica Trentina), che così lo ha spiegato: "Ritengo inutile la figura del garante dei detenuti, ma siccome esiste già a livello nazionale, è meglio che a nominarlo in Trentino sia il consiglio, in modo che al consiglio debba rispondere". Una politica di riduzione del danno, insomma. Borga ha però chiesto che la maggioranza necessaria per la nomina sia qualificata. Civico non si oppone. "Trattandosi di una figura di garanzia, mi pare ragionevole che la maggioranza richiesta sia ampia". Io consigliere evita accuratamente polemiche sugli anni persi e sulle controverse vicende relative al trattamento dei detenuti nel carcere di Spini di Gardolo. "Ora - dice - l’importante è arrivare all’approvazione del testo. Dopo di che, la norma già prevede la possibilità di nominare il garante prima della scadenza della legislatura". Con la nuova nomina del difensore civico (il mandato è legato alla legislatura), sul cui ufficio si incardina la nuova figura, si procederà a rinominare anche il garante dei detenuti. Il garante dei minori, anch’esso istituito con questa legge, non richiede la stessa urgenza essendo le funzioni già esercitate dal difensore civico. Reggio Calabria: chiusa la sezione di "Osservazione psichiatrica" del carcere di Agostino Siviglia (Garante comunale dei detenuti) citynow.it, 6 giugno 2017 È con grande soddisfazione che si comunica che, a seguito dell’intervento e delle conseguenti segnalazioni effettuate da questo Garante agli organi apicali dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia, in ordine alla necessaria chiusura per l’adeguamento strutturale della sezione di "osservazione psichiatrica" del carcere di via S. Pietro, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, Dr.ssa Cinzia Calandrino, ha comunicato formalmente, con apposita nota del 29 maggio u.s., che "l’iter amministrativo finalizzato alla successiva attività di ripristino della sezione in oggetto specificata è quasi terminato". Nella stessa nota si legge, per vero, che la Direzione dell’Istituto penitenziario di Reggio Calabria, dr.ssa Maria Carmela Longo, ha specificato che "l’esecuzione degli interventi strutturali dovrà avvenire con la chiusura dell’intero reparto". Di conseguenza, il Provveditore regionale ha disposto che non vi saranno più ulteriori assegnazioni di detenuti presso la detta sezione di "osservazione psichiatrica". I lavori di ristrutturazione, la cui tempistica è stata stimata in tre mesi, adegueranno, pertanto, la sezione di "osservazione psichiatrica" reggina alla normativa vigente in materia. Si tratta, dunque, di una battaglia di legalità, dignità e umanità che restituisce senso al comune impegno delle istituzioni della giustizia, penitenziarie e territoriali. La collaborazione inter-istituzionale innesca sempre processi positivi di cambiamento, quando non si riduce a mera prassi di circostanza e diviene, virtuosamente, servizio al bene comune. In tal senso, un sincero ringraziamento va al Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, prof. Mauro Palma, che in occasione della sua presenza in Città nei giorni scorsi per partecipare ad un importante seminario di studi organizzato dal Garante dei Reggio Calabria, avv. Agostino Siviglia, non ha voluto mancare di visitare, insieme allo stesso Garante reggino, la sezione in questione e, conseguentemente, intervenire presso il competente Ministero al fine di coadiuvare l’azione correttamente segnalata dall’avv. Siviglia. Va dato atto del tempestivo intervento con cui il Provveditore regionale, dr.ssa Cinzia Calandrino, ha accolto le istanze rappresentate dai due Garanti, in uno con la sensibilità in tal senso già espressa da diverso tempo dalla Direzione dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria. Per vero, va evidenziato come la direttrice dell’istituto reggino, dr.ssa Maria Carmelo Longo, nonostante si trovasse da circa due mesi in ferie "forzate", per un fastidioso incidente domestico, non si è risparmiata per ricostruire l’iter amministrativo della vicenda, pur di addivenire nel più breve tempo possibile alla chiusura della sezione, dalla stessa più volte segnalata. La sezione, pertanto, è stata già chiusa e vale la pena di ribadire la grande soddisfazione per un intervento coeso e trasversale che restituisce dignità ed umanità alla pena, nel solco più compiuto di quanto sancisce la nostra Costituzione". Siena: salute e alimentazione in carcere, il progetto coinvolge le strutture penitenziarie gonews.it, 6 giugno 2017 "Alimentazione e salute in carcere": è il progetto che l’Azienda Usl Toscana Sud Est ha messo a punto insieme alla direzione della casa di reclusione di San Gimignano e la casa circondariale di Siena con la partnership dell’Istituto superiore B. Ricasoli di Siena, che opera all’interno del carcere di San Gimignano come istituto per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera. Quale migliore occasione, per parlare di questo progetto e incontrare i rappresentanti delle autorità provinciali, è l’aperitivo che si tiene mercoledì 7 dalle 11 alle 12 presso lo stesso carcere di San Gimignano. A partire dalla valutazione dei piani nutrizionali adottati e l’allineamento alle linee guida per una sana alimentazione sia per i detenuti che per i dipendenti, il progetto "Alimentazione e salute in carcere", pensato dalla Usl Toscana sud Est, muove dal più ampio progetto Pranzo Sano Fuori Casa con incontri informativi e Counseling di gruppo, per la promozione e condivisione di uno stile alimentare corretto, rivolto sia ai detenuti che al personale del carcere, anche attraverso la consulenza di dieta individuale per patologie correlate all’alimentazione e la redazione del piano nutrizionale personalizzato, da attivare con la dietista della Usl. Compilazione piani nutrizionali specifici per celiachia, intolleranza al lattosio, patologie legate all’alimentazione e per motivi etico-religiosi sono gli altri dettagli del programma. Il progetto prevede anche il coinvolgimento di altri partner per attività quali la coltivazione di un orto all’interno della casa di reclusione in collaborazione con il Gruppo degli Orti urbani del Comune di Siena, un accordo con lo stesso Gruppo per riservare parte del raccolto alla casa di reclusione e soprattutto incontri di cucina tra detenuti e studenti dell’Istituto professionale per i servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera di Colle di Val d’Elsa. La prevenzione prima di tutto e la salute in carcere passano proprio dall’attività proattiva che si riesce a fare con i detenuti, a partire dall’analisi dei bisogni alimentari che una multiculturalità presente richiede. Il progetto coinvolge diverse strutture della Usl a partire dalla unità operativa Salute in carcere, la promozione della salute e l’igiene degli alimenti e della nutrizione del dipartimento di prevenzione, la dietista del dipartimento delle Professioni Tecnico Sanitarie. Oristano: "ecco come viviamo noi detenuti", lettera dal carcere di Massama di Elia Sanna L’Unione Sarda, 6 giugno 2017 "Anche se strutturalmente di nuovissima generazione, il carcere di Massama resta ancorato a vecchi metodi educativi che, come ben sappiamo, sono risultati fallimentari. La situazione all’interno del penitenziario risulta certamente inadeguata alla costruzione di un uomo veramente nuovo. Quando vengono a mancare le opportunità di trattamento, anche le autorità dirigenti finiscono per ricadere nel baratro dell’inconsapevolezza. Impossibilitati ad esprimere un parere in scienza e coscienza, sull’osservazione della personalità dell’individuo e sul percorso da questi intrapreso". La denuncia arriva da Massama e porta la firma del classificato ad alta sorveglianza A. E., che ha voluto rendere pubblica la situazione all’interno della struttura, scrivendo, anche per conto degli altri 230 detenuti, una lettera che ha inviato alle autorità e a Papa Francesco. "Nell’istituto di Massama, oltre ai lavori domestici, sottopagati e che non consentono di provvedere al proprio sostentamento, vi è una forte discriminazione rispetto alle altre mansioni che i detenuti potrebbero svolgere. Fermo restando che restano esclusi i ristretti in AS1, non si capisce - chiede A.E. - perché non vengano ammessi a queste mansioni (cucinieri, lavapiatti oppure elettricisti, muratori, imbianchini) i detenuti in AS3, cui la stessa Amministrazione centrale concede la possibilità. Non vi sono interazioni con la comunità esterna, che pure dimostra una certa sensibilità nei confronti del carcere". A rendere pubblica la missiva è stata Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione socialismo diritti Riforme: "L’elenco delle criticità riguarda anche il mancato rispetto della territorialità della pena, della continuità trattamentale da una struttura all’altra, il peso della burocrazia interna, le difficoltà di fruire di fotocopie e di utilizzare la palestra. Deficitari anche il servizio postale, con gravi ritardi nella spedizione e consegna di lettere e pacchi, nonché quello sanitario soprattutto relativamente alla distribuzione degli antidolorifici. Vi è poi la questione dell’assenza del regolamento d’istituto". La Direzione, specificamente interpellata sulle problematiche, ha espresso amarezza rispetto alle richieste sulle iniziative culturali. "Abbiamo attivato - ha precisato il direttore Pierluigi Farci - complessivamente cinque corsi di scuola superiore, oltre alla scuola media di primo grado e a quello dei privatisti con i docenti volontari dell’Istituto di Agraria. L’anno prossimo i corsi saranno addirittura almeno 8 se non nove". Padova: droga e cellulari dietro le sbarre, due detenuti ritenuti "modello" ancora nei guai di Luca Ingegneri Il Gazzettino, 6 giugno 2017 Hanno fatto parte della squadra di "Ristretti Orizzonti" beneficiando di ampi spazi di manovra all’interno della struttura penitenziaria, tra cui la detenzione nella speciale sezione al quinto piano della Casa di reclusione. Entrambi ne hanno però approfittato a piene mani per spacciare droga o per mantenere contatti con il mondo esterno comunicando con il cellulare direttamente dalla cella. Due pregiudicati vicini alle organizzazioni camorristiche sono stati pizzicati dalle guardie carcerarie e segnalati alla Procura della Repubblica. La loro permanenza nella redazione guidata da Ornella Favero si è fatalmente interrotta. Il primo caso risale ad un mese fa. Raffaele Delle Chiaie, 32enne salernitano, che sta scontando una condanna definitiva (dopo due annullamenti di altrettanti ergastoli da parte della Cassazione) a 27 anni di reclusione per l’omicidio del figlio di un boss, avvenuto nel 2007 in seguito ad un pestaggio davanti ad una discoteca di Vietri a Mare, è stato pizzicato con la droga in cella. Gli agenti della polizia penitenziaria sono andati a colpo sicuro effettuando una perquisizione a sorpresa. Delle Chiaie nascondeva lo stupefacente nella doppia fodera dei boxer che indossava. Sedici grammi di hashish recuperati e sequestrati dalle guardie del Due Palazzi, che hanno trasmesso la segnalazione in Procura. Con la denuncia per detenzione a scopo di spaccio di sostanze stupefacenti, è scattata la revoca di tutti i benefici. Il giovane salernitano non ha più potuto partecipare alle riunioni della redazione di "Ristretti Orizzonti". Un inequivocabile giro di vite all’interno della struttura penitenziaria, provocato anche dall’avvio dell’inchiesta giudiziaria a carico dell’ex direttore Salvatore Pirruccio, accusato di falso per aver "declassato" a "detenuti comuni" alcuni pericolosi criminali. E che il vento all’interno del Due Palazzi stia cambiando è dimostrato dal fatto che Delle Chiaie ha dovuto fare i bagagli. Sabato scorso il killer del figlio del boss Luigi Parlato ha definitivamente lasciato il Due Palazzi per essere trasferito nel carcere di Parma. Destino che potrebbe toccare pure a Luigi Guida, 37enne napoletano, figlio del boss pentito del Rione Sanità. Dietro le sbarre fin da minorenne, è considerato un manovale del clan, specializzato in rapine ed estorsioni. Deve scontare una ventina d’anni di galera. Mercoledì scorso un agente penitenziario l’ha visto conversare con un cellulare tra le mani all’interno della sua cella. Le guardie hanno proceduto alla perquisizione della stanza. L’hanno setacciata in ogni angolo senza però riuscire a recuperare il telefono. Hanno avuto il sospetto che Guida se ne fosse sbarazzato gettandolo nel water. Gli agenti non hanno potuto far altro che procedere ad un controllo degli scarichi fognari. Tra gli escrementi sono riusciti a recuperare il cellulare. Ora sono in corso gli accertamenti disposti dalla Procura sul traffico telefonico. Dall’esame della Sim si risalirà alle persone contattate dal figlio del boss. Anche per Guida, considerato un pupillo di Ornella Favero, cimentatosi più volte nella redazione di testi, si è bruscamente interrotta l’esperienza giornalistica con "Ristretti Orizzonti". Ed è più che probabile il trasferimento ad un altro carcere. Parma: la "San Vincenzo" regala sei computers alla redazione di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2017 Mercoledì 31 maggio Graziano Vallisneri, Presidente del Consiglio Centrale di Parma della San Vincenzo de Paoli e Mauro Burani - vice presidente della San Vincenzo hanno consegnato sei computers alla redazione di Ristretti Orizzonti che dal settembre del 2016 lavora con un gruppo di persone detenute dell’Alta Sicurezza sotto la direzione di Ornella Favero e con il coordinamento di Carla Chiappini. Al cuore della donazione il desiderio di onorare la memoria di due volontari significativi: Giorgio Bertoni vincenziano e Luigi Menozzi amico di antica data nonché compagno di scuola dello stesso dottor Valisneri. Nell’occasione è stata scoperta e benedetta dal cappellano padre Giovanni Mascarucci una targa posta nella stanza della redazione. Alla cerimonia hanno preso parte le signore Maria Grazia Fornaciari Menozzi, Marianna Menozzi (figlia di Luigi), Angela Furlotti Bertoni e Rocco Cristalli (nipote di Giorgio Bertoni), Mauretta Ghirardi dell’associazione "Per ricominciare", Gildo Nardon per Rete carcere. Per l’istituto erano presenti la responsabile dell’Area Trattamentale dott.ssa Annaclara Marchesini, l’ispettore Giuseppe Ciuffreda e tutte le educatrici. Antonio Di Girgenti, uno dei redattori, ha scritto una riflessione sulla mattinata "È andata così, come era nostro desiderio. Una targa ricordo, la donazione di sei computers, un rinfresco e la presenza di tutti coloro che in vita avevano conosciuto Giorgio Bertoni e Luigi Menozzi, li avevano amati e accompagnati fino agli ultimi istanti della loro vita. Oggi, mercoledì 31 maggio, erano tutti qui commossi ma felici a testimoniare valori quali pace, responsabilità e dignità. Ideali forti che le famiglie di Giorgio e Luigi hanno chiesto fossero impressi nella targa che Padre Giovanni ha benedetto con una breve cerimonia. Da credenti ci piace immaginare Giorgio e Luigi mentre ci guardano da lassù. Ci piace immaginarli felici nel sapere che le loro compagne di una vita erano qui, in una stanza del carcere, a portare calore e solidarietà; sentimenti di reciprocità che mai hanno abbandonato questo luogo. Ci sentiamo vicini a queste donne, a questi amici generosi, per affetto, perché riconosciamo in loro una serie di affinità; prima fra tutte la semplicità fiera e decorosa che li ha sempre caratterizzati. Il loro ricordo ci ha scaldato il cuore e la vicinanza dei loro parenti, dei loro amici, ci ha commosso e abbracciato, tanto più adesso che abbiamo ben presente le loro dolorose esperienze, conosciamo la forza dei loro legami familiari e sappiamo quanto è grande il rispetto per il dolore altrui. Con queste poche righe vogliamo ringraziarli tutti. Speriamo che incontri futuri non debbano limitarsi solo a casi del genere e che, anzi possano svilupparsi situazioni tali da consentire un migliore approccio con la società esterna, con i volontari di questa accogliente città, per far crescere l’idea di cittadinanza. Il nostro impegno sarà costante; noi crediamo nella forza delle nostre convinzioni, crediamo in un futuro di momenti speciali e istanti sereni da passare, magari, con le nostre famiglie. Crediamo ancora possibile, nonostante tutto, nonostante questa maledetta galera, il ritorno alla libertà (temporaneo ma pur sempre occasione incredibile) con i suoi aspetti bellissimi e con le difficoltà che tanti anni di lontananza incredibilmente determinano". Torino: "LiberAzioni", arti dentro e fuori dal carcere di Antonietta Nembri Vita, 6 giugno 2017 Lanciato il primo Festival nazionale di cinema, fotografia e scrittura per detenuti e liberi cittadini. Aperta la call ai laboratori che si terranno al quartiere delle Vallette di Torino. Tra gli obiettivi del concorso valorizzare gli under 35. I temi sono: reclusione, pena, libertà e relazione dentro/fuori dal carcere Reclusione, pena, libertà e relazione dentro/fuori dal carcere: sono questi i temi del primo Festival nazionale di cinema, fotografia e scrittura per detenuti e liberi cittadini. Un concorso e una serie di laboratori propedeutici gratuiti che si terranno nel quartiere delle Vallette di Torino. Si tratta di LiberAzioni - Festival delle arti dentro e fuori dal carcere che è stato presentato in una sede particolare Freedhome, il primo store di economia carceraria nato in Italia. È un irripetibile occasione per unire con le proprie sezioni di concorso e attraverso il lavoro delle giurie, detenuti e liberi cittadini residenti in Italia. LiberAzioni - l’arte dei giovani tra carcere quartiere - ricorda una nota - ha vinto il bando nazionale Sillumina - Sezione Periferie, promosso dalla Siae e dal ministero dei Beni culturali. In merito al progetto Lorenza Bravetta, consigliere del ministro Franceschini e membro della giuria del concorso fotografico, ha sottolineato come accanto alla valorizzazione degli under 35 in vari ambiti disciplinari LIberAzioni "aggiunge un ulteriore elemento: l’attenzione al mondo del carcere e alla creazione di un dialogo tra detenuti e non", Bravetta si è detta anche convinta che la fotografia "sia prima di tutto un linguaggio, efficace strumento di espressione, comunicazione e inclusione e che, se condotta nel modo adeguato, la narrazione per immagini possa abbattere barriere sociali e culturali, aprendo a nuove opportunità e forme di sviluppo democratico". Tre i bandi lanciati dedicati rispettivamente a cinema, fotografia e scrittura (quest’ultimo riservato esclusivamente ai detenuti degli Istituti penitenziari italiani). Le opere vincitrici riceveranno premi in denaro pe un ammontare complessivo di 7.500 euro. La call per partecipare ai laboratori propedeutici gratuiti si è aperta il 31 maggio. Pensati espressamente per gli under 35 i laboratori sono alla base dell’organizzazione partecipata su cui si fonda LiberAzioni e nascono per coinvolgere attivamente la cittadinanza giovanile all’interno dell’arco progettuale, durante il periodo di apertura dei bandi, durante e dopo il festival, per attivare l’osmosi, a livello di dialogo e azioni, tra l’interno e l’esterno del carcere. In particolare le Call per due laboratori: quello per operatori culturali e quello video e si chiuderanno il 14 giugno. "La scelta di far ricadere su un territorio specifico queste iniziative è dettata dall’esigenza di inserirsi all’interno di un tessuto sociale complesso, come è quello delle Vallette, quartiere nel quale è necessario stimolare e valorizzare le competenze progettuali dei giovani proprio per la presenza controversa della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno", presenza alla quale si intende dare nuovo significato attraverso iniziative culturali mirate e sviluppare attitudini inclusive, dall’interno come dall’esterno del carcere", hanno dichiarato gli ideatori del progetto coordinato dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema in partenariato con Stalker Teatro - Officine Caos, Casa di Quartiere Vallette, Antigone Piemonte, Videocommunity, Eta Beta, Sapere Plurale e la collaborazione della Casa Circondariale "Lorusso e Cutugno" di Torino, Comune di Saluzzo, Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo, SocietàINformazione, FluxLab, PubCoder, ManaManà e Witty Kiwi. Il progetto ha il patrocinio di Regione Piemonte, Città di Torino e Circoscrizione 5 della Città di Torino. Gli altri due laboratori son il Laboratorio di impaginazione e grafica in cui saranno coinvolti cinque giovani detenuti della casa circondariale Lorusso Cotugno e quello teatrale che si volgerà dopo l’estate tra settembre e dicembre e vedrà il coinvolgimento di un massimo di trenta detenute, le iscrizioni sono comunque aperte anche a giovani liberi under 35 che vogliano fare un’esperienza formativa in carcere. Per informazioni e per iscriversi ai laboratori si deve scrivere a liberazioni.torino@gmail.com, specificando a quale laboratorio si vuol partecipare. Trento: studenti e detenuti, incontro senza barriere a Padova di Leonardo Omezzolli Il Trentino, 6 giugno 2017 Arco, straordinaria esperienza per i giovani dell’Enaip che hanno trascorso una giornata nella casa circondariale: hanno ascoltato, in uno scambio commovente, le storie di chi è in galera. Si è trattata di una vera e propria lezione di vita che ha coinvolto le tre terze dell’istituto professionale Enaip di Arco assieme ad altre 11 classi di tutto il Trentino che nelle scorse settimane sono andate “in visita” alla Casa Circondariale di Padova per affrontare un confronto aperto con i detenuti presenti nella struttura, alcuni dei quali sottoposti al regime del 41-bis, quello del cosiddetto carcere duro e dei condannati all’ergastolo. L’iniziativa, che prende il nome di "Dalla viva voce" si fonda sulla condivisione di racconti con l’idea di aiutare sia gli studenti che i detenuti in una fusione di emozioni e sensazioni particolarmente toccanti. Per gli studenti delle Enaip, accompagnati dai professori Cristian Giacomozzi, Luca Fedrizzi e Giorgia Zanin, si è trattato di un profondo viaggio introspettivo, inaspettato e sorprendente, un’esperienza che li ha segnati riuscendo a far vibrare le più profonde corde interiori. Le classi coinvolte hanno affrontato un percorso di avvicinamento grazie a Ornella Favero, direttrice e responsabile del progetto Ristretti Orizzonti, l’associazione di cultura e informazione della Casa di Reclusione di Padova, che gestisce questi particolari incontri tra detenuti e scolari. Durante l’ingresso al carcere l’idea più cinematografica e immaginifica dell’ideale di carcere che ognuno di noi ha nella propria testa si è scontrata con la realtà dei fatti, con le 11 porte che separano l’esterno e la libertà, dalla reclusione forzata. "Entrando - ha raccontato uno degli studenti - si percepisce quella sensazione di aria pesante, quasi viziata, mentre contemporaneamente si sente una tensione quasi inspiegabile". L’incontro si è svolto in una sala controllata dove i detenuti sono apparsi in tutta la loro forma umana. Niente manette o sbarre a separare i prigionieri dagli scolari, solo uomini seduti e pronti a raccontarsi. I detenuti si sono così aperti agli studenti che in un clima di assoluto silenzio hanno ascoltato i vari crimini commessi e le conseguenze di scelte sbagliate. A poco a poco che i racconti si susseguivano e vedendo la commozione nel volto degli stessi detenuti, ragazzi e professori hanno cominciato a scoprire il lato umano di queste tragedie, introiettando il significato profondo dell’incontro che molti alunni hanno letto come un monito a non lasciarsi trasportare dagli imprevisti della vita, a saper reagire con coscienza e non d’impulso, ad avere qualcuno al proprio fianco con cui confrontarsi e sfogarsi. "L’esperienza vissuta ha cambiato questi ragazzi - ha spiegato Giacomozzi - e credo che la si debba incentivare anche al carcere di Trento. Si può capire veramente cosa sia una casa circondariale e che quelle all’interno sono persone". In definitiva un’esperienza formativa. "Quando siamo usciti - ha commentato un altro alunno - abbiamo capito che sapore ha l’aria di libertà". Napoli: l’Aiac farà un corso da allenatori ai detenuti di Poggioreale cronachedellacampania.it, 6 giugno 2017 Circa 100 detenuti del carcere napoletano di Poggioreale potranno partecipare a un corso da allenatori e ottenere "il primo passo verso una possibile carriera in panchina". Così Biagio Savarese, vicepresidente dell’Associazione Italiana Allenatori, ha lanciato oggi tra le mura del carcere partenopeo l’impegno dell’Aiac per aiutare i detenuti nel reinserimento sociale. L’iniziativa è stata presentata nella prima giornata di Football Leader a Napoli, nel corso di un lungo incontro che i detenuti hanno avuto con Fabio Capello e Marco Tardelli. Il corso si terrà a partire da settembre e prevede 80 ore di lezione su tecnica e tattica del calcio, metodologia dell’allenamento, psicopedagogia, carte federali, e regole di gioco. Queste ultime lezioni saranno tenute, sempre in carcere, da ex arbitri. L’iniziativa si svolge già in alcune case circondariali italiane e sbarca ora nel grande carcere di Napoli, fornendo ai detenuti che potranno partecipare: "Un attestato per poter collaborare con gli allenatori squadre giovanili", ha precisato Savarese, sottolineando che l’iniziativa serve a "lenire la pena ma anche a dare un primo passo del cammino completo poi bisogna intraprendere per diventare allenatori e che comprende altri tre corsi di diverso grado, per essere abilitati ad allenare i giovani di qualsiasi categoria, i dilettanti e poi i professionisti". L’iniziativa è stata apprezzata da Antonio Fullone, direttore di Poggioreale, che ha sottolineato come "il carcere fa parte della società e della città e il calcio è uno degli elementi di identità collettiva. La ricostruzione del detenuti deve partire da se stesso e sentire dai campioni la loro storia come accaduto oggi è un’occasione di ripensamento per chi è qui oggi". "Un corso per allenatori così come corsi di artigianato sono decisivi per la vita dei detenuti, perché evitano che i ragazzi qui dentro si incarogniscano e gli dà una prospettiva di vita futura". Lo ha detto il governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca, a margine della visita al carcere napoletano di Poggioreale insieme con Fabio Capello e Marco Tardelli, organizzata nell’ambito di Football Leader. I due campioni hanno lanciato insieme all’Aiac, l’associazione allenatori, un corso di base di allenatori che si terrà in carcere. De Luca ha sottolineato che "il corso da allenatori è un’iniziativa che dà coraggio ai 150 ragazzi che saranno coinvolti. È anche un atto di grande generosità e impegno da parte di questi sportivi che sono anche dei simboli positivi: Tardelli e Capello hanno conosciuto anche sconfitte nello sport e nella vita in generale, ma hanno combattuto e mandano un messaggio di fiducia e di speranza, ricordando a tutti che chi sbaglia paga ma nessuno nella vita è condannato per sempre e tutti hanno una possibilità di riprendersi e di rinascere". De Luca si è poi rivolto ai giovani: "Lanciamo un messaggio - ha detto - ai figli dei detenuti che devono spezzare la catena della vendetta, perché un ragazzo che ha il padre in galera viene spinto alla vendetta sociale e invece dobbiamo essere capaci di considerarli figli nostri". Lucera (Fg): il carcere apre ai figli dei detenuti e diventa un "salotto culturale" di Francesco Barbaro Gazzetta del Mezzogiorno, 6 giugno 2017 "Raccontami una favola", il progetto per il reinserimento sociale. Nuova iniziativa alla casa locale casa circondariale. Dopo il successo lo scorso mese dell’evento finale del ciclo "Salotto culturale" mercoledì 7 giugno alle 9.30 le porte della casa circondariale di piazza San Francesco si apriranno per ospitare la manifestazione conclusiva del progetto "Raccontami una favola...papà". Alla casa circondariale è prevista la presenza del dirigente dell’Ust - ex provveditorato agli studi - di Foggia Maria Aida Tatiana Episcopo. "Il Progetto, ideato da alcuni docenti del Cpia di Foggia, ha coinvolto i detenuti, alunni dei corsi scolastici, i quali hanno ideato fiabe e realizzato illustrazioni, immaginando di dedicarle ai propri figli" spiega Cinzia Conte responsabile dell’area educativa della casa circondariale. I racconti realizzati dai detenuti nell’ambito del progetto educativo sono stati raccolti e rilegati in un apposito testo ed hanno dato vita ad un opuscolo stampato in più copie; alcuni dei racconti saranno letti dagli stessi detenuti ai propri figli, che avranno accesso alla casa circondariale, durante la manifestazione di mercoledì 7 giugno. La progettualità legata al ruolo di genitori dei detenuti ha visto altri momenti, in occasione della festa del papà infatti lo scorso maggio alla casa circondariale suonò l’orchestra dell’istituto comprensivo "Tommasone Alighieri". "La realizzazione del progetto testimonia il clima di collaborazione sinergica tra il carcere e il Cpia, che non si esaurisce - spiega Cinzia Conte - con l’attività didattica, ma arricchisce le opportunità rieducative rivolte alla popolazione detenuta". Il Cpia di Foggia si occupa di istruzione e formazione in favore dei detenuti. "Doverosi sono i ringraziamenti agli insegnanti che hanno curato il progetto, al direttore della casa circondariale, Giuseppe Altomare, al responsabile dell’area educativa Cinzia Conte e al personale di polizia penitenziaria guidato dal Comandante Daniela Raffaella Occhionero, che hanno reso possibile - sottolineano gli organizzatori - la realizzazione ed il successo di un progetto che ha riscosso consenso fra i detenuti genitori impossibilitati per la loro condizione di detenuti a vivere con i propri figli". Saluzzo (Cn): inaugura oggi la mostra fotografica "Manicomi", per non dimenticare cr.piemonte.it, 6 giugno 2017 S’inaugura martedì 6 giugno alle 18 a Saluzzo (Cn) l’esposizione fotografica "Manicomi", visitabile fino a fine mese al piano terra di Palazzo civico, in via Macallè 9. Si tratta di una doppia mostra, che raccoglie gli scatti dei reportage "Le prigioni della mente - Quel che resta di quel che era" di Ivan Agatiello e "Nocchier che non seconda il vento - Viaggio all’interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari italiani" di Max Ferrero. A quasi quarant’anni dall’approvazione della "legge Basaglia", che ha chiuso i manicomi civili in Italia lasciando però aperti e dimenticati i manicomi criminali - ribattezzati Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) - e a ormai tre anni dalla legge n. 81/2014, che ha definito il percorso di superamento degli Opg, l’esposizione di Saluzzo permette di ritornare su un tema delicato e attuale. Gli scatti di Agatiello, giovane fotografo lucano che vive a Parma, permettono di far luce su quel che rimane delle grandi e famigerate strutture manicomiali, a cominciare da quelle di Racconigi e della Certosa di Collegno, con uno sguardo all’indietro attraverso l’obiettivo fotografico che scruta fra edifici, reperti, polveri e fantasmi. Sono scatti che riportano alla memoria pagine buie del nostro recente passato. Ferrero è invece il fotografo torinese che nel 2014 ha deciso di documentare le fasi di superamento degli Opg, deciso per legge ma più volte rinviato. Una pagina di cronaca che sta finalmente diventando storia: l’11 maggio scorso l’ultimo ospite di Opg è stato trasferito nelle nuove Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). L’inaugurazione della mostra, alla presenza del sindaco e di alcuni assessori, prevede una breve conferenza nell’ex Sacrestia di Sant’Ignazio dell’ex Collegio dei Gesuiti - ora sede del Comune - e la partecipazione, accanto ai due fotografi, di Michele Miravalle, assegnista di ricerca presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e autore del volume "Roba da matti" pubblicato dal Gruppo Abele. La mostra, realizzata grazie al patrocinio della Città di Saluzzo, è organizzata dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano in collaborazione con la garante comunale dei detenuti Bruna Chiotti e con la Consulta delle Pari opportunità di Saluzzo. All’evento inaugurale, insieme ai Garanti, sarà presente ed interverrà anche la psicologa Maria Barrera. Pescara: l’atletica entra in carcere, la missione delle Acli Il Centro, 6 giugno 2017 Via al progetto di solidarietà per il reinserimento sociale dei detenuti I 2.500 atleti iscritti alle competizioni salutano la città: ultimo giorno di gare. Ha varcato anche le porte del carcere San Donato l’edizione 2017 di Sport in Tour 2017, la manifestazioni delle Acli tra atletica e solidarietà iniziata il 1° giugno scorso e che si concluderà oggi con le ultime gare per i 2.500 atleti iscritti. Una giornata speciale per i detenuti che hanno preso parte a una lezione per il reinserimento sociale. Dopo aver partecipato con una delegazione di 5 atleti nella selezione degli amministratori locali al triangolare andato in scena giovedì scorso allo stadio Adriatico, ieri è stata la casa circondariale ad aver aperto le porte a una delegazione dell’Us Acli che, nell’ambito dell’iniziativa RieducAzione Sport FormAttivo inserita nel progetto nazionale Make the Difference cofinanziato con risorse del 5 per mille Acli, mira all’inclusione e la coesione sociale attraverso corsi di formazione nello sport. Presenti all’appuntamento, oltre al direttore del carcere Franco Pettinelli, il presidente dell’Us Acli nazionale, Damiano Lembo, il vicepresidente Luca Serangeli, il membro di presidenza Antonino Scimone, il presidente dell’Us Acli provinciale di Pescara, Adamo Scurti, la responsabile del Coordinamento nazionale Donne Acli, Agnese Ranghelli, e Laura Bernardini, responsabile di Us Acli Sport e Carcere. Un progetto di reinserimento, rieducazione e formazione all’interno del San Donato, in collaborazione con l’amministrazione comunale di Pescara, l’asd Squali Pescara Sud, il Boot Camp, Pescara Assistenza, Avis e Assonautica. Il progetto è in corso e durerà fino a dicembre 2017, coinvolgendo una quindicina di detenuti in moduli che prevedono attività motoria con le associazioni coinvolte (asd Squali Pescara Sud e Boot Camp) e formazione per il primo soccorso e per l’uso del defibrillatore. Parte integrante dell’attività del progetto sono proprio le iniziative legate allo Sport in Tour in corso a Pescara. Si tratta di una struttura che ospita ben 308 detenuti con età media compresa tra i 35 e i 40 anni. Brescia: in carcere serata di cinema all’aperto "così integriamo detenuti e società esterna" di Liliana Golia Corriere della Sera, 6 giugno 2017 Pane e salamina e film sotto le stelle. La normalità arriva in cella per riflettere sul "fine pena mai", la rieducazione e il reinserimento sociale. Il carcere di Verziano diventa un cinema all’aperto per consolidare il collegamento tra la realtà detentiva e quella oltre le sbarre. "A chi è stato condannato all’ergastolo è permesso, dopo una lunga detenzione, di accedere alla libertà condizionata o alla semilibertà - spiega la direttrice del carcere, Francesca Paola Lucrezi - ed è doveroso nei confronti dei detenuti far fronte a questa possibilità". La riflessione partirà dal docufilm "Spes contra spem" ( la speranza contro la speranza) del regista Ambrogio Crespi, presentato al Festival del Cinema di Venezia, sulla speranza persa da alcuni ergastolani ostativi, quelli per cui non sono previsti benefici di legge per la gravità dei reati commessi. "È anche un manifesto contro la mafia, contesto da cui provengono i protagonisti", precisa l’avvocato Veronica Zanotti, consigliere della Camera penale di Brescia. Appuntamento per il 22 giugno (ore 20.45), aperto a tutti (100 i posti disponibili, la prenotazione entro il 12 giugno, a info@act-bs.it) proprio per "far capire che il carcere può essere un luogo in cui trascorrere una serata - spiega il presidente dell’Associazione Carcere e territorio, Carlo Alberto Romano - per rafforzare il valore aggiunto di Verziano nel più ampio progetto di integrazione dei detenuti con la realtà esterna, che si spera continui anche quando sarà realizzato il nuovo carcere". Il pericolo è che "l’etichetta di ex carcerato non permetta di ricostruirsi una vita, se la collettività non contribuisce al reinserimento sociale" evidenzia Luisa Ravagnani, garante dei diritti dei detenuti. Prima della proiezione ci sarà un momento conviviale, sostenuto dalla Congrega della Carità apostolica che "condivide il carattere inclusivo dell’iniziativa", ha spiegato l’avvocato Stefano Bontempi. Alla serata prenderanno parte i 35 detenuti che hanno seguito un progetto su legalità e vivere civile. E nell’ottica della normalità "si mangerà pane e salamina tutti insieme - spiega l’avvocato Andrea Cavaliere, presidente della Camera Penale - e saranno gli avvocati a cucinare". L’ingresso è a offerta libera. Stili di vita (ovvero noi e i terroristi) di Alberto Leiss Il Manifesto, 6 giugno 2017 Avevo voglia di parlare di certe mie piccole manie di melomane (in particolare il fastidio che provo per l’eccessivo uso di fortepiani d’epoca nell’esecuzione moderna di musiche composte tra sette e ottocento: non so se avete mai ascoltato Mozart, o addirittura Beethoven, suonati su questi strumenti dal fastidioso timbro nasale e farlocco, che sembrano anche un pò scordati. E noi che siamo abituati a goderceli con gli acuti cristallini degli Steinway, o con le asserzioni glaciali di un Bosendorfer sotto le dita di Backhaus!). Ma mi sembrano argomenti scandalosamente futili nei giorni in cui si ripetono attentati contri cittadini inermi, e si rischia una strage a Torino per la paura di una bomba. Sentiamo ripetere: la miglior risposta è non cambiare i nostri stili di vita, che rappresentano il vero bersaglio dei fanatici estremisti "radicalizzati". Ma come sarà mai possibile? Il mio stile di vita comprende la passione per gli strumenti a tastiera (in realtà una volta mi sono molto divertito a provare un autentico fortepiano a casa di una cara amica) ma oggi non riesco a pensarci con la spensieratezza di sempre. Continuo a prendere la metropolitana, ma mentre aspetto il treno non posso fare a meno di immaginare che potrebbe esplodere un vagone, e guardo con qualche sospetto il giovane dalla carnagione scura e dalla barba nera che trasporta un sacco o uno zainetto. E mi sorprendo a riflettere sui rischi mentali che corriamo. Il primo fra tutti, forse, è proprio quello di cercare di rimuovere questi pensieri insopportabili, e con essi il problema che abbiamo di fronte. Si affaccia infatti una specie di rimedio consolatorio: non ci posso fare niente, i terroristi sono una presenza ormai costante del nostro contesto sociale, la loro follia provoca un certo numero di vittime. Ma il mondo va avanti ugualmente. Non muore tantissima altra gente - molta di più - per cose assurde come gli incidenti stradali, oppure quelli sul lavoro, l’inquinamento, le malattie per cui non si trovano cure, anche per interessi oscuri? C’è persino chi afferma che in realtà le violenze e le guerre sono in termini relativi diminuite. Ma è evidente che simili esercizi di rimozione hanno un valore del tutto effimero. Più interessante il riconoscere in noi qualcosa di maggiore consistenza: certo il mio modo di vivere la quotidianità non voglio cambiarlo, anche accettando qualche probabilità in più di diventare per caso una delle vittime (soprattutto a una certa età ci si sorprende a dirsi: bè di qualcosa prima o poi dovrò pur morire), ma il mio modo di ragionare e di valutare le cose - e le stesse mie scelte di vita - invece cambia. È bene che sia così, e soprattutto che io ne sia ben consapevole. Perché possa rimanere padrone delle mie reazioni, delle mie idee e dei miei sentimenti. Per esempio il modo di valutare la reazione della premier inglese Theresa May: "quando è troppo è troppo". Sul Corriere della sera Paolo Mieli mi pare giustamente diffida delle affermazioni stentoree e delle promesse impraticabili da parte di chi ha responsabilità di governo. Più che immaginare soluzioni facili e impossibili, aggiungendo che nulla deve cambiare nei nostri stili di vita, è meglio riflettere, cercare le "parole giuste" per definire e sconfiggere questa guerra mortale che ci invade in molti modi diversi. Riflettere anche se poi, alla fine, qualcosa sarebbe invece meglio cambiare proprio nei nostri stili di vita e nei valori che li informano. Panico a Torino e non solo, perché siamo i peggiori nemici di noi stessi di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 6 giugno 2017 Lo spettacolo dei quarantamila tifosi di Torino che, nel panico per l’esplosione di petardi, stavano per provocare una catastrofe maggiore di quella provocata dai terroristi islamici a Londra, conferma che siamo i peggiori nemici di noi stessi. Le reazioni sadiche, delle tifoserie nemiche, favorite dalla fortunata assenza di morti, mettono in risalto la crisi di solidarietà sottostante al compattarsi difensivo contro un persecutore esterno. Danno, al tempo stesso, una soddisfazione surrettizia al desiderio represso di dell’ironia in un mondo mesto in cui si ride, scaricando le tensioni, senza sorridere, sciogliere le riserve, aprendosi dall’interno alla presenza dell’altro. Dopo la notizia di ciò che è accaduto a Torino, tra i tifosi del Napoli sono circolate due battute. Una dice che l’Isis non aveva motivo di venire in Italia, visto che il danno ce lo possiamo procurare da soli. La seconda, che i terroristi non potevano che essere demotivati dalla paura di essere travolti dalla nostra dabbenaggine, invece che riuscire a travolgerci con la loro violenza. Pur nell’intento di sdrammatizzare la paura collettiva, cogliendo con la prontezza tipica dei napoletani, il lato comico (o più precisamente tragicomico) della situazione, le due battute configurano due aspetti importanti della questione del terrorismo. Lo stato di panico latente in cui viviamo, pronto a esplodere anche in assenza di un pericolo concreto, e il fatto, che sfugge al nostro sguardo, che i terroristi vivono nella nostra stessa situazione emotiva, sono soggetti travolti da smottamenti identitari che pensano di sfidare illudendosi di poter diventare agenti, piuttosto che vittime delle forze travolgenti. I terroristi commettono assassini feroci e disumani che nulla può giustificare. La loro ferocia non ci dispensa, tuttavia, della nostra responsabilità, dell’assoluta necessità di leggere in modo ragionevole e non impulsivo i fenomeni che li hanno prodotti e sostengono la loro azione. Lo smantellamento persistente dei legami solidali, comunitari, dell’associazionismo, delle identità culturali, degli scambi e la graduale sostituzione della cittadinanza con la "tifoseria" (l’adesione acritica a cause unificanti in modo impersonale) creano un mondo di folle passive che vivono simbioticamente e senza progettualità, pronte a impazzire al primo rumore che le sveglia dal loro sonno. La pazza folla che cerca la sicurezza come fondamento della sua costituzione, è minata internamente, perché non ci sono legami reali di reciprocità, fondati sul riconoscimento delle particolarità e delle differenze. Chiunque ne fa parte corre il pericolo di essere pestato da chi li sta vicino a ogni perturbamento dei suoi movimenti. L’intrinseca insicurezza che caratterizza ogni corpo sociale che ha un assetto di chiusura, viene arginata con l’esteriorizzazione del pericolo, così che il cortocircuito interno può agire indisturbato. Gran Bretagna. Nelle carceri programmi mirati anti-radicalizzazione di Paola De Carolis Corriere della Sera, 6 giugno 2017 introduzione nelle carceri di un "ufficiale contro l’estremismo". La radicalizzazione dei detenuti è un problema evidenziato dal profilo di Adrian Adjao, ovvero Khalid Masood, il terrorista del ponte di Westminster, apparentemente convertitosi al fanatismo nel corso di un periodo in prigione. Ad aprile il governo aveva annunciato la creazione di una task force per studiare, assieme a un centinaio di esperti tra funzionari pubblici, accademici e addetti ai lavori, come meglio arginare il problema. Il centro strategico è a Londra con succursali nel resto del Paese. L’idea è di aiutare le singole carceri a gestire individui a rischio e situazioni pericolose, ma anche di addestrare il personale a individuare persone influenzabili per, ha detto il sottosegretario Sam Gyimah, "allontanarle dall’estremismo e indirizzarle verso altri sbocchi". Sono state istituite, inoltre, tre unità per la reclusione di islamisti considerati pericolosi: una si trova a Durham, una a Milton Keynes e una vicino a Cambridge. Stati Uniti. Con il cuore siamo dentro Folsom prison di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2017 Come Johnny Cash difendiamo i diritti. Dallo scorso 25 maggio tutti i detenuti nel braccio di isolamento della prigione di Folsom, in California, sono in sciopero della fame. Stanno pacificamente protestando contro le terribili condizioni di detenzione cui sono sottoposti. Alcuni cittadini si sono dati appuntamento ieri 4 giugno di fronte al carcere per far sentire ai detenuti il loro appoggio nel chiedere condizioni di vita rispettose della dignità di tutti. La Folsom prison è una delle carceri più dure degli Stati Uniti. È immortalata in antichi film quali "Inside the Walls of Folsom Prison", di Crane Wilbur, girato nel 1951, e "Rivolta al blocco 11" di Don Siegel, del 1954. Edward Bunker, che vi era stato recluso, in "Educazione di una canaglia" descrive la prigione con queste parole: "Folsom copre un’area di centottanta ettari…. Ci sono soltanto tre muri. Il quarto muro è in fondo a un cortile creato spianando una collina, e in realtà è una gola in cui gorgoglia e spumeggia l’American River. Un detenuto imbecille una volta si trasformò in un sottomarino umano, con tanto di tubo respiratorio e tasche zavorrate, ma sopravvalutò la sua spinta di galleggiamento, e finì sul fondo annegando. Le possibilità di raggiungere il fiume sono minime (…). La storia di Folsom è brutale e imbrattata di sangue". Il 13 gennaio del 1968 Johnny Cash - che anni prima aveva scritto la canzone Folsom Prison Blues - ha tenuto un memorabile concerto dentro Folsom. Suonò in una sala mensa gremita di detenuti. Chiudete gli occhi e immaginate la scena: le luci non potevano essere abbassate, siamo pur sempre in un carcere; lui sale sul palco, dice semplicemente "Hello, Ìm Johnny Cash"; e comincia a cantare. Quella frase, la musica, le canzoni di quel giorno, sono rimaste immortalate in un grandissimo disco dal titolo At Folsom prison. Nel disco si sente l’atmosfera che c’è intorno a Johnny Cash, si sentono i detenuti che applaudono, parlano, ridono con lui, sono rapiti dal concerto e dalla sua voce. "La prima volta che ho suonato in un carcere ho pensato che quello era l’unico posto in cui registrare un album dal vivo", aveva detto Johnny Cash, cui in passato era già capitato di suonare nel carcere di San Quentin, ancora in California, e aveva sentito la grandissima partecipazione dei detenuti. Ma neanche la Columbia Records, la più aperta delle due case discografiche con le quali Cash pubblicava, vedeva di buon occhio l’idea. Solo quando nel 1967 il vecchio produttore Don Law va in pensione e arriva al suo posto Bob Johnston, più giovane e più ardito, si riesce nell’impresa. Johnston accetta di registrare il concerto. E aveva visto più che giusto: At Folsom prison vende sei milioni di copie. At Folsom prison è un album strepitoso. Jailhouse Rock è la trasmissione radiofonica settimanale, in onda sul circuito di Popolare Network, curata dall’associazione Antigone, alla quale collaborano varie redazioni e rock band di detenuti in giro per le carceri italiane. La prima puntata in assoluto mai andata in onda di Jailhouse Rock, oramai ben sette stagioni radiofoniche or sono, era dedicata al grande concerto nella prigione di Folsom. Il nostro cuore musicale è dentro Folsom insieme a Johnny Cash. Dallo scorso 25 maggio, ci sentiamo dentro Folsom prison anche nel chiedere il rispetto dei diritti di ogni essere umano. L’affollamento delle prigioni negli Usa ha avuto un freno in anni recenti. Su questo ha avuto un ruolo essenziale Barack Obama, che è stato capace di mettere in discussione la durezza della giustizia americana graziando centinaia di detenuti condannati all’ergastolo per reati legati alla droga. Donald Trump, tuttavia, proprio sul terreno della sicurezza, della lotta alla droga e delle politiche anti-immigrazione ha costruito la sua fortuna. Obama voleva rescindere i contratti con quelle multinazionali che hanno in gestione le carceri private. Trump ha invece annunciato di voler immettere più ossigeno nel sistema. "È finita la stagione riformista? Siamo di fronte a un ritorno all’incarcerazione di massa su scala universale?", ci chiedevamo nel nostro ultimo Rapporto sulle carceri. "Il rischio è notevole", rispondevamo. "Se le politiche di Trump porteranno ad aumentare il tasso di incarcerazione nel Paese che già oggi ne detiene il primato, l’effetto potrebbe propagarsi significativamente al di là dell’oceano. Già in passato abbiamo assistito a meccanismi emulatori da parte di Paesi europei nei confronti degli Usa". In questo quadro, sono contenta di far sapere a chi leggerà queste righe che i detenuti di Folsom hanno trovato la forza di mettere in atto una pacifica protesta per i propri diritti. Johnny Cash era uno di loro. Sento le note della sua chitarra sotto le mura di ogni galera del mondo. Turchia. Massimo delle pene per presunti golpisti, anche i giornalisti rischiano l’ergastolo di Antonella Napoli articolo21.org, 6 giugno 2017 Mentre continua l’azione repressiva in Turchia, favorita dallo stato di emergenza prorogato a maggio di altri tre mesi, è ripreso alcuni giorni fa il processo contro i presunti istigatori del fallito golpe dello scorso 15 luglio. Tra i 221 imputati ci sono anche 20 giornalisti. Circa duecento sono detenuti in carcere, 12 sono riusciti a fuggire prima dell’arresto e gli altri sono in libertà vigilata. Per tutti loro il rischio è la condanna all’ergastolo per "appartenenza a organizzazione terroristica e attentato alla costituzione". Per poter contenere tutti gli imputatati è stata allestita un’enorme sala per le udienze nella prigione di Sincan, poco lontana dalla capitale. Tutta l’area è presidiata da poliziotti e veicoli blindati e addirittura è stata predisposta la copertura con droni e cecchini. Al loro arrivo in tribunale, sotto una pesante scorta, i detenuti sono stati fischiati da decine di manifestanti che scandivano slogan reclamando la pena di morte. Proprio sulla reintroduzione delle sentenze capitali si è espresso più volte il presidente Recep Tayyip Erdogan, il quale si è detto pronto a seguire il volere ‘popolarè indicendo un referendum. Erdogan non ha fatto mistero di ‘desiderarè pene esemplari per quelli che ritiene i complici di Fethullah Gülen, l’ex ‘amicò ed imam autoesiliato negli Stati Uniti che ha accusato di essere la mente del colpo di stato. Ma lui ha sempre negato qualsiasi implicazione nel tentativo di detronizzare Erdogan. Nel corso dell’ultima udienza il pubblico ministero ha illustrato la teoria accusatoria rilevando che oltre 8.000 esponenti delle forze armate avrebbero preso parte al tentativo di golpe con l’ausilio di 35 aerei da guerra, 37 elicotteri, 74 carri armati, 246 veicoli blindati e circa 4.000 armi leggere. Il tutto per instaurare un regime laico guidato dall’esercito per frenare la radicalizzazione islamista del presidente in carica. La tesi dell’accusa coinvolge non solo i militari, ma anche giornalisti, accademici e funzionari pubblici civili, che avrebbero supportato e propagandato l’azione terroristica attuata contro il Paese. Dopo la requisitoria e la richiesta del massimo della pena il processo è stato rinviato al 15 giugno. Dallo scorso luglio sono state chiuse centinaia di scuole e università, giornali e altri media, sono stati licenziati migliaia di dipendenti dello Stato e altrettanti sono stati incarcerati. I fermi continuano anche in queste ore. Erdogan sembra non voler porre fine alla sua caccia alle streghe, con arresti di massa che non perdonano nessuno. L’ultima ondata di purghe da parte delle autorità turche si è abbattuta la scorsa settimana su alcuni funzionari pubblici sospettati di attentare alla sicurezza nazionale. Negli ultimi 11 mesi almeno in 15 mila sono stati destituiti dai loro incarichi e decine di associazioni ed enti culturali sono stati dichiarati illegali. La polizia, grazie alle nuove norme stabilite con il decreto dello stato di emergenza, oltre ad accedere alle informazioni personali che si trovano in rete, nel quadro delle inchieste che riguardano la cyber-criminalità, può procedere all’arresto senza dover formulare contestualmente un reato. Come nel caso di molti giornalisti accusati di propaganda del terrorismo. Il repulisti voluto del presidente turco ha coinvolto ogni esponente della stampa libera, o ciò che ne è rimasto, del Paese. Le autorità di Istanbul e Ankara hanno emanato, ad oggi, oltre 150 mandati d’arresto nei confronti di giornalisti. Tra i colleghi finiti in carcere alcuni hanno doppia nazionalità, come i colleghi tedeschi Deniz Yucel, corrispondente di Die Welt, e Mesale Tolu, che scrive per alcuni media filo-curdi. Molti i nomi noti della carta stampata turca o di siti di informazione online e blog finiti nel mirino del Sultano, tra cui Nazli Ilicak, 72 anni, firma di punta di molti quotidiani e commentatrice televisiva. Una vera e propria repressione della libertà di espressione e di informazione quella messa in atto dal regime turco che ha portato in piazza in Turchia come in molte capitali europee giornalisti e organizzazioni per i diritti umani. Nei giorni immediatamente successivi al tentato colpo di stato, l’authority per le comunicazioni aveva sospeso le trasmissioni di 54 emittenti Tv e radio ed erano stati ritirati i tesserini a 134 operatori dell’informazione. Poi gli arresti, che continuano ancora oggi. La Turchia, ormai, è il più grande carcere del mondo per i giornalisti.