In 6 mesi 1.500 carcerati in più, il 34% delle persone detenute in custodia cautelare di Marzia Paolucci Italia Oggi, 5 giugno 2017 In sei mesi, il numero dei detenuti dei nostri 190 istituti penitenziari è aumentato di 1.500 unità, arrivando a toccare quota 56.436 e dall’inizio del 2016 a oggi se ne aggiungono altri mille per circa 2.500 unità complessive. Numeri che si impennano per casi di resistenza a pubblico ufficiale o furto o raggiro nei supermercati perché anche pesare male la frutta può costare caro. La denuncia è dell’associazione Antigone che ha appena diffuso il suo XIII rapporto sullo stato delle carceri italiane intitolato a quella che a conti fatti è una notizia: "Torna il carcere". Dopo gli Stati generali dell’esecuzione penale, l’inversione di tendenza generata da una serie di misure messe in atto in questi ultimi anni - maggior ricorso alle pene alternative, celle aperte per otto ore al giorno, più apertura al mondo esterno - regredisce. L’abbattimento dei grandi numeri da sovraffollamento carcerario che aveva portato a un calo di ben 16 mila presenze in cinque anni, passando dai 68 mila del 2010 ai 52 mila del 2015, comincia a scricchiolare sotto il peso dell’allarme Sicurezza, slogan sempre efficace da cavalcare in clima pre-elettorale. I numeri - "Nel 2010, quando è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale per il sovraffollamento penitenziario, la popolazione detenuta aveva raggiunto livelli senza precedenti nella storia repubblicana. Da allora è stata avviata una serie di interventi, su numerosi fronti, che ne hanno determinato un calo notevole. Si è così passati dai 68.000 detenuti del 2010 ai 52.000 del 2015. Ed ora questa stagione è giunta ad esaurimento?". Si chiede nel rapporto a cui ha collaborato, Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. Oggi la più parte delle voci, custodia cautelare, sovraffollamento, percentuale degli stranieri e durata delle condanne in calo tra 2010 e 2015, è tornata a crescere. Dalla fine del 2015 alla fine del 2016 il tasso di affollamento è passato dal 105 al 108,8% e al 30 aprile 2017 eravamo già al 112,8%. I detenuti in custodia cautelare sono passati dal 34,1% al 34,6% e aumenta intanto anche la percentuale de gli stranieri tra i detenuti: il 33% della fine del 2015 sale al 34% a fine 2016. Tendenza confermata anche per la durata delle condanne: aumentano quelle inferiori ai tre anni, dal 23,7 al 24,3% e diminuiscono dal 28,9 al 28,6 percentuale i detenuti per condanne superiore ai dieci anni. Il paradosso - Ci distinguono nel mondo una legislazione e un forte orientamento del sistema penitenziario al reinserimento sociale presente fin dal nostro dettato costituzionale con l’articolo 27 ma al solito ci perdiamo nella pratica. Ben il 90% del personale è composto da agenti di custodia contro una media europea del 69%. Da noi criminologi e psicologi sono solo lo 0,1% contro una media europea del 2,2%, mentre il personale medico e paramedico è lo 0,2%, contro il 4,3% della media europea. Custodia cautelare - Non siamo più in emergenza come nel 2008 quando il paese ha raggiunto l’apice con ben 51% di detenuti in attesa di sentenza definitiva. Ma la percentuale di oggi si assesta sul 34% - media degli ultimi tre anni - dato che fa comunque spavento, soprattutto pensando che il Ministero della giustizia dispone di soli 2 mila braccialetti elettronici che consentono il controllo della persona fuori dalle patrie galere. Numeri che parlano da soli visto che gli arresti domiciliari con o senza braccialetto elettronico non decollano più di tanto: nel solo primo semestre del 2016, sono stati circa 8mila contro quasi 60mila ingressi in carcere tra sentenze definitive e misure cautelari dopo la convalida dell’arresto in flagranza. E che succede se si è innocenti? Dal 1992 a oggi, l’Italia ha speso 648 milioni, 42 milioni soltanto lo scorso anno, per risarcire ingiuste detenzioni cautelari subite da persone che dopo anni ed anni di processo sono state assolte. Più vulnerabili in tal senso gli stranieri - in un caso fino a 445 giorni dentro di "ingiusta detenzione" - anche per le complicanze di spiegazione e traduzione di meccanismi e atti processuali a garanzia del loro diritto alla difesa. Dagli Opg alle Rems, un passaggio che va monitorato senza retrocedere di Vanna Iori (Deputato Pd) Dire, 5 giugno 2017 La legge 81 del 2014 fu salutata come un provvedimento importante e di civiltà: la previsione di fissare al 31 marzo 2015 la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari rappresentava allora (e rappresenta tutt’ora) un traguardo importante. Per la prima volta nel nostro Paese, infatti, si arrivava a considerare come superato il modello dell’Opg e a dare maggiore attenzione a quegli internati ritenuti in grado di proseguire il loro cammino teraupetico-riabilitativo all’esterno o in nuove strutture, le cosiddette Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La lunga e faticosa chiusura degli Opg è una storia che viene da lontano e ha le sue radici nel peggior degrado dell’istituzione manicomiale e di quella carceraria. È la storia dei manicomi giudiziari che la legge 345/1975 ha denominato ospedali psichiatrici giudiziari, cambiandone solo il nome, mentre è rimasta la fisionomia di luoghi di segregazione, strutture spesso fatiscenti, disumane e infernali di custodia, luoghi di punizione e sofferenza con letti di contenzione e violenze, basate sulla filosofia del "sorvegliare e punire". Si doveva e si è scelto di cambiare. La chiusura è la fine di una storia di segregazione disumana, ma deve essere anche l’inizio di buone pratiche socio-sanitarie, di percorsi individualizzati, di inclusione sociale e assistenza in famiglia o in gruppi di convivenza, di collaborazione degli operatori con le reti territoriali di avvocati, associazioni, garanti dei detenuti, familiari, volontari, cooperative. La legge 81/2014 va attuata nel suo spirito autentico. Il che significa innanzitutto non trasferire semplicemente i malati psichiatrici dagli Opg alle Rems, trasformandole in neostrutture manicomiali o più confortevoli, ma ancora improntate alla logica custodialistica. E soprattutto dopo la chiusura non dobbiamo dimenticarci di potenziare e monitorare l’effettivo recupero della dignità di queste persone, della libertà e dei diritti di reale cittadinanza sul piano umano, etico, civile e politico. Qual è la situazione oggi? Allo stato dell’arte le trenta Rems attive sul territorio nazionale non sembrano, sia per numero sia per tipologia, rispondere alle necessità rilevate per accogliere pazienti psichiatrici con misure di sicurezza. La natura non ospedaliera delle Rems e la necessità che si costituiscano in maniera efficace rende necessaria una riflessione sul mandato riabilitativo specifico. Si è evidenziata infatti la necessità di non far riferimento ad un’unica tipologia generalizzata di Rems perché ad oggi sono necessari diversi livelli assistenziali che tengano conto di caratteristiche diverse, dalla possibile differenziazione delle strutture rispondenti alle tipologie cliniche alla differenziazione di genere che possa permettere l’attivazione di spazi adeguati non solo per posti letto ma soprattutto per gli spazi sociali e riabilitativi. È importante tenere poi conto della differenziazione dei livelli di sicurezza: è perciò necessario avere strutture con un più alto livello di sicurezza per pazienti particolarmente "difficili" nella gestibilità, con specifica attenzione ai livelli assistenziali. Sono tutti fattori che spingono verso una direzione dove dovrebbero prevalere le dimensioni della cura e dell’assistenza individualizzata, con l’obiettivo di superare definitivamente il paradigma dell’omologazione che era proprio dell’Opg. Ho presentato due successive interrogazioni al ministro della Giustizia proprio in tal senso: il modello delle Rems deve essere sottoposto oggi a un’attenta e approfondita riflessione. Il movimento Stop Opg ha promosso recentemente un digiuno, iniziato il 12 aprile e conclusosi il primo giugno, in concomitanza con l’avvio della discussione alla Camera del disegno di legge 4368, per ottenere lo stralcio della norma che riporta agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Questa norma, se approvata, delega il Governo a emanare un decreto che potrebbe disporre il ricovero di detenuti nelle Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) come se fossero i vecchi Opg. La strada da seguire è un’altra e va nella direzione di un potenziamento e di un efficientamento del modello delle Rems. Occorre non retrocedere sulle conquiste dei diritti di civiltà e salvaguardare la dignità umana delle persone con problemi psichiatrici e giudiziari recuperando lo spirito della legge 81/ 2014. "Papà è in viaggio…". Le difficoltà sociali e psicologiche dei figli di carcerati di Franco Zantonelli caffe.ch, 5 giugno 2017 "Papà è in viaggio d’affari". È il capolavoro di Emir Kusturica, Palma d’oro a Cannes, ambientato nella Jugoslavia di Tito. Il papà, in realtà, è un prigioniero politico, condannato ai lavori forzati. Che sia in viaggio d’affari è la pietosa bugia, raccontata ai suoi due bambini. Per anni, ai figli di detenuti, non solo nei Paesi del blocco comunista, sono state giustificate con motivi come questo, oppure con ragioni di salute, le assenze del padre o della madre che, in realtà, si trovavano dietro le sbarre. Anche perché, come spiega al Caffè il sociologo ticinese Giacinto Colombo, esperto in problemi carcerari da una quarantina d’anni, collaboratore di diverse Ong, nonché di progetti specifici dell’Unione europea, i bambini i cui genitori sono in prigione vengono, immancabilmente, confrontati "con gravi problemi di ordine psicologico e sociale". "Dove sei papà? Dove sei mamma?", le inevitabili domande ricorrenti. "Se pensiamo - annota Colombo - che, in tutta Europa, 800mila bambini si ritrovano con uno o entrambi i genitori in carcere, l’interrogativo diventa inevitabile". Il problema, sovente, viene affrontato, dai familiari, in modo un po’ abborracciato. "Spesso la famiglia cerca di superare la rottura del legame affettivo con una sorta di strategia del segreto, ovvero con il divieto di parlare della detenzione, soprattutto in presenza del bambino", dice ancora l’esperto. E alla domanda su dove si trovano il padre e la madre come si risponde? "Per giustificarne l’assenza si lascia libero sfogo alla fantasia, proprio come nel film di Kusturica". Tuttavia, si tratta di una soluzione di corto respiro. "A livello sociale, infatti, il bambino subisce i contraccolpi dell’incarcerazione dei genitori, in particolare la stigmatizzazione, vale a dire l’esclusione da parte dei vicini di casa e dei compagni di scuola". "Per intenderci - precisa Colombo - il figlio del galeotto non è frequentabile, viene colpevolizzato, di modo che il reato di cui si sono resi responsabili il padre o la madre diventa, anche, la sua condanna". Il tema è stato affrontato, nei giorni scorsi, a Napoli, nell’ambito di un convegno organizzato dall’associazione Children of Prisoners Europe, con il titolo "Figli di genitori detenuti, un approccio integrato per il mantenimento della relazione genitoriale, a beneficio dell’intera società". "I lavori - rileva Colombo - hanno permesso di identificare alcune linee guida, che dovrebbero orientare le politiche e gli interventi per favorire il mantenimento dei legami genitoriali". Sempre, è doveroso ricordarlo, all’insegna dei trattati internazionali, segnatamente della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Da Napoli è uscito, tra l’altro, l’impegno a utilizzare, laddove sia possibile, l’impiego delle pene alternative alla detenzione, soprattutto quando la posta in gioco è il mantenimento della relazione genitori-figli. Altra misura auspicata è il miglioramento delle opportunità relazionali. Oltre alle visite, alla corrispondenza e alle telefonate si pensa a nuove tecnologie comunicative, quali ad esempio Skype. Al riguardo vale la pena ricordare che, in Gran Bretagna, l’Ispettorato reale delle carceri si è dichiarato favorevole, giusto un anno fa, all’accesso dei detenuti ai telefoni cellulari e ai social media. "Li aiuterebbe - è stato detto - a rimanere vicini a familiari ed amici, rendendo più agevole il loro reinserimento sociale, una volta scontata la pena". Naturalmente, per evitare abusi, come è stato con Skype, prima introdotto e poi bandito dalle carceri britanniche, i cellulari in uso ai reclusi potrebbero accedere a non più di 20 numeri, opportunamente selezionati. Insomma, si può affermare che, per evitare di non dover più dire che quel papà dietro le sbarre è in viaggio d’affari, qualcosa si sta muovendo. Quelle che mancano, semmai, sono le risorse finanziarie ed il sovraffollamento di molte carceri europee, ma anche di alcuni istituti svizzeri, è lì a dimostrarlo. Poi, nel mondo buio delle prigioni si intravvedono alcuni barlumi di luce. "Pensiamo - conclude Colombo - al Progetto Pollicino che in Ticino, aspira a favorire e mantenere i legami e le relazioni dei bambini con i loro genitori". Divieto di ricezioni libri e riviste per i detenuti in regime di 41-bis O.P. giurisprudenzapenale.com, 5 giugno 2017 Corte Costituzionale, Sentenza n. 122 del 2017. Presidente Grossi, Redattore Modugno. Lo scorso 26 maggio sono state depositate le motivazioni della Corte costituzionale in merito alla sentenza n. 122/2017: la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis O.P., co. 2-quater lett. a) e c) sollevate in relazione agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, co. 1 Cost., 3 e 8 Cedu (v. l’ordinanza di rimessione del Magistrato di sorveglianza di Spoleto). In sintesi, le motivazioni della Corte costituzionale. 1) La violazione della libertà di manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., intesa nella sua accezione (passiva) di diritto di essere informati e diritto allo studio ex artt. 33 e 34 Cost. La garanzia costituzionale prefigurata dall’art. 21 Cost. trova specifica attuazione, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario - quanto alla stampa - nella previsione dell’art. 18, co. 6 O.P., che autorizza i detenuti "a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno", e nel correlato disposto dell’art. 18-ter, co. 1, lett. a) O.P., in forza del quale limitazioni "nella ricezione della stampa" possono essere disposte solo dall’autorità giudiziaria, per i motivi e nelle forme ivi indicati. In questo modo, si è precluso all’autorità amministrativa di esercitare una censura sulla stampa, impedendo ai detenuti di accedere a determinate pubblicazioni in ragione del loro contenuto: operazione che comprimerebbe il diritto dei ristretti - non inciso dallo stato di detenzione - a conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna. La tutela - tanto costituzionale quanto legislativa - è, dunque, riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, mentre restano indifferenti i mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso delle pubblicazioni desiderate. Un discorso analogo vale evidentemente per il diritto allo studio, che pure trova specifico riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso rieducativo (v. art. 19 O.P., nonché artt. 41 e ss. d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 reg. esec.). Delineato il quadro normativo, la Consulta fa salva l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità in materia (v. Cass. pen., Sez. I, 17 febbraio 2015 (ud. 16 ottobre 2014), n. 6889; più recente, in questa Rivista, Cass. pen., Sez. I, 22 febbraio 2017 (ud. 25 novembre 2016), n. 8766, con nota di L. Amerio, Corrispondenza e carcere: un difficile equilibrio tra esigenze di sicurezza e garanzie di tutela, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 4), qualificata come "diritto vivente", per cui ciò che viene limitato e regolato non è il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma solo la modalità attraverso la quale dette pubblicazioni possono essere acquisite. Al detenuto non è impedito l’accesso alle letture preferite e al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, nell’ottica di evitare che - secondo quanto è emerso dall’esperienza - il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo. Resta fermo, peraltro, che la misura in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto. Nel momento stesso in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, l’amministrazione dovrebbe impegnarsi a fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e "barriere di fatto" che penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto. L’eventuale vulnus dei diritti del detenuto deriverebbe, comunque sia, non dalla norma, ma dal non corretto comportamento dell’amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla, esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale. 2) La violazione della libertà di corrispondenza ex art. 15 Cost. La censura fa perno sull’assunto, per cui la trasmissione di libri e riviste rientrerebbe nella nozione - costituzionalmente rilevante - di "corrispondenza". Il rimettente non contesta che i libri e le riviste, pur concretandosi nell’espressione di idee o nella narrazione scritta di notizie, non costituiscano, in quanto tali, "corrispondenza" o, amplius, forme di "comunicazione" agli effetti dell’art. 15 Cost. È, infatti, indiscusso che le comunicazioni tutelate dalla citata norma costituzionale - di cui la "corrispondenza" rappresenta una species, come attesta l’uso dell’aggettivo indefinito "altra" ("La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili") - consistano nella trasmissione di idee, sentimenti e notizie da una persona a una o più altre persone determinate: se i destinatari sono indeterminati - come nel caso dei libri e delle riviste, rivolti ad una collettività indifferenziata di potenziali lettori - si ricade in una diversa sfera di tutela costituzionale, quella della libertà di manifestazione del pensiero (v. art. 21 Cost.). Obietta, tuttavia, il giudice a quo che la spedizione (o la consegna brevi manu) di una pubblicazione può servire, non (soltanto) come strumento di diffusione del pensiero del suo autore (che è un terzo rispetto ai diretti interessati), ma (anche) quale veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario. Mediante l’invio di un libro o di una rivista si potrebbero, infatti, esprimere sentimenti di vicinanza, di affetto o di sostegno nei confronti del detenuto; nel testo a stampa potrebbero essere interpolati messaggi, palesi od occulti, di vario genere, leciti e illeciti. Pur prendendo atto dell’interpretazione fornita dal giudice remittente, la Consulta ritiene di non potersene avvalere, nella misura in cui, se vi aderisse si dovrebbe riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali quantitativa - fin tanto che non intervenga uno specifico provvedimento limitativo dell’autorità giudiziaria - non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto. La postulata idoneità a fungere da veicolo di comunicazione di idee, sentimenti e notizie tra mittente e destinatario non è affatto una caratteristica propria ed esclusiva delle pubblicazioni a stampa: qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere - per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto "anomalo" dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno. E poiché l’eventualità di un simile impiego della res non potrebbe essere - così come per la stampa - esclusa a priori, ne dovrebbe derivare una indiscriminata libertà di circolazione dei beni tra il carcere e l’esterno. La Corte conclude, pertanto, in assonanza con la giurisprudenza di legittimità, che le regole di cui si discute non incidano sul diritto alla corrispondenza del detenuto, quale riconosciuto - in termini coerenti, sotto il profilo considerato, con la condizione di restrizione della libertà personale in cui egli versa e perciò non collidenti con la previsione dell’art. 15 Cost. - dalla legge di ordinamento penitenziario. 3) La censura di violazione dell’art. 117, co. 1 Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 Cedu. Ultima censura denunciata verrebbe - secondo la Consulta - assorbita dalle precedenti. In particolare, secondo la Corte costituzionale, lo stesso richiamo operato dal giudice a quo ai parametri sovranazionali sarebbe da considerarsi palesemente incongruo. Il divieto dei trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 Cedu ha infatti carattere assoluto, sicché - se si versasse in tale ipotesi - neppure l’auspicato intervento del giudice varrebbe a rendere convenzionalmente legittime le misure. Il mero fatto che il detenuto debba servirsi dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, e non possa trasmetterla all’esterno, non determina livelli di sofferenza e di svilimento della sua persona tali da superare la soglia di gravità richiesta ai fini della configurazione di ipotesi di trattamento inumano e degradante, rilevanti ai sensi dell’art. 3 Cedu. Quanto, poi, all’art. 8 Cedu, § 1, secondo cui si riconosce ad ogni persona il "diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza", non prevede un tipo di tutela assoluta. Ai sensi, infatti, del co. 2 della medesima disposizione si consentono ingerenze della "pubblica autorità" (non necessariamente quella giudiziaria) nel suo esercizio, in presenza di tre condizioni: in primo luogo, l’ingerenza deve essere "prevista dalla legge": formula che - secondo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - deve essere intesa, sul piano delle fonti, come comprensiva non del solo diritto scritto, ma anche dell’applicazione e dell’interpretazione delle disposizioni normative da parte della giurisprudenza, e, sul piano della "qualità" della legge, come espressiva dell’esigenza dell’adeguata accessibilità e della sufficiente precisione della norma che prevede l’interferenza, così da fornire un’adeguata protezione contro l’arbitrio; in secondo luogo, poi, l’ingerenza deve perseguire uno degli scopi legittimi indicati dal § 2 dell’art. 8 Cedu ("la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui"); da ultimo, l’ingerenza deve essere "necessaria", "in una società democratica", per il raggiungimento dei predetti scopi: requisito che - sempre secondo le indicazioni della Corte di Strasburgo - postula la proporzionalità del sacrificio del diritto rispetto alla finalità legittima perseguita (v. C. eur. dir. uomo, Olsson c. Svezia, 24 marzo 1988, ric. n. 10465/83). Ciò premesso, secondo la Consulta il divieto di scambiare libri e riviste con l’esterno, e con i familiari in specie, tramite il servizio postale non può essere assimilato alla sottoposizione della corrispondenza del detenuto a visto di controllo (la cui disciplina interna - nell’assetto anteriore alla legge n. 95 del 2004 - è stata ripetutamente censurata dalla Corte di Strasburgo in plurime sentenze, tra cui, da ultima Paolello c. Italia, 1° settembre 2015, ric. n. 37648/02). La limitazione dei canali di ricezione della stampa e il divieto di trasmetterla all’esterno non solo non incidono affatto - come è ovvio - sulla segretezza della corrispondenza del detenuto (diversamente dal visto di controllo), ma neppure comprimono, alla luce delle considerazioni in precedenza svolte, la libertà di corrispondere a mezzo posta già riconosciutagli dalla legge nazionale in coerenza con la condizione di legittima restrizione della libertà personale in cui il soggetto versa: libertà - quella di corrispondere a mezzo posta - che continua a potersi esplicare, in tutta la sua ampiezza, tramite l’ordinaria corrispondenza epistolare. Per tali ragioni, la Corte costituzionale ha ritenuto non fondate tutte le questioni testè enunciate. Illeciti variabili sugli stipendi in nero di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2017 Il lavoro nero rischia di non essere adeguatamente sanzionato sotto il profilo penale tributario: secondo la pronuncia emessa dalla Suprema corte nel 2013 (sentenza 36900) e mai smentita, la corresponsione di somme al lavoratore in misura inferiore rispetto a quanto certificato configurerebbe il reato di dichiarazione fraudolenta con altri artifici (e non mediante utilizzo di falsa documentazione), la cui sussistenza richiede il superamento di soglie di punibilità. Dall’entrata in vigore del Dlgs 158/2015 (il 22 ottobre 2015), il reato in questione è stato inoltre modificato e non è detto sia ancora configurabile in futuro. Le due violazioni - L’impiego irregolare di lavoratori dipendenti si manifesta in genere in due modi differenti a seconda che le somme certificate dal datore nei documenti ufficiali siano superiori, oppure inferiori, a quanto realmente corrisposto. Certificazione in eccesso. Nella prima ipotesi il datore di lavoro certifica emolumenti superiori rispetto a quelli realmente corrisposti, una circostanza che gli consente una indebita deduzione dei costi pari alla differenza tra l’importo certificato e quanto veramente consegnato al lavoratore. In questi casi potrebbe inoltre ottenere eventuali contributi, sgravi e altre agevolazioni in misura maggiore di quella spettante. Certificazione in difetto. Nella seconda tipologia si tratta di somme "fuori busta" che consentono al datore di risparmiare imposte e contributi sull’importo non certificato. L’uso di falsi "documenti" - Il primo illecito è certamente più insidioso perché costringe il lavoratore a ricevere una documentazione ufficiale che attesta la corresponsione di somme superiori a quelle realmente date. Gli elementi che caratterizzano questa condotta sembrerebbero integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di falsi documenti (articolo 2 del Dlgs 74/2000), sanzionato con la reclusione da 18 mesi a 6 anni. Infatti parrebbero sussistenti tutti gli elementi tipici di questa fattispecie che riguarda chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazione relative a tali imposte elementi passivi fittizi. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Non pare ci possano essere dubbi, a questo proposito, che le certificazioni rilasciate ai sostituiti siano "documenti" che hanno rilievo probatorio analogo alle fatture in base alle norme tributarie, così come richiesto dall’articolo 1 del Dlgs 74/2000. Da ricordare poi che il reato scatta anche quando, sempre in base alla definizione data dall’articolo 1, siano indicati corrispettivi in misura superiore rispetto a quelli reali, come esattamente avviene nell’illecito in esame. Secondo la Cassazione, intervenuta una sola volta sulla questione (sentenza 36900/2013), a fronte di un rapporto di lavoro esistente, ma con indicazione in busta paga di un differente importo rispetto a quello (inferiore) effettivamente corrisposto, non si configura la fattispecie di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, in quanto vengono utilizzati documenti attestanti operazioni parzialmente inesistenti, mentre per l’integrazione del reato in parola sarebbe necessaria l’inesistenza sotto il profilo oggettivo, con diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti. Ne consegue, secondo i giudici di legittimità, l’effettiva esecuzione della prestazione di lavoro: eventualmente, potrebbe integrarsi l’altro delitto di dichiarazione fraudolenta - mediante altri artifici - connotato, però, da soglie di punibilità. Mestieri rumorosi, contravvenzione più pesante se viene turbata la quiete pubblica di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 2 maggio 2017 n. 20846. In tema di "rumori molesti" la Cassazione, con la sentenza n. 20846del 2 maggio scorso, chiarisce le differenze e i rispettivi trattamenti sanzionatori. Con riferimento infatti ad attività o mestieri rumorosi, l’ambito di operatività dell’articolo 659 del Cp deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei valori limite di emissione di rumori fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, si configura il solo illecito amministrativo di cui all’articolo 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995 n. 447 (legge quadro sull’inquinamento acustico); quando, invece, la condotta si sia concretata nella violazione di altre disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio dell’attività e del mestiere, si configura la contravvenzione sanzionata dall’articolo 659, comma 2, del Cp; mentre, nel caso in cui l’attività e il mestiere vengano svolti eccedendo dalle normali attività di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, il fatto integra la contravvenzione prevista dall’articolo 659, comma 1, del Cp(nella specie, secondo la Corte, correttamente era stata ravvisata quest’ultima ipotesi a carico del gestore di un locale bar, che abusando dell’impianto audio installato, aveva diffuso musica in orario notturno superando i livelli consentiti e arrecando disturbo alle persone). Gli orientamenti precedenti - In termini, tra le altre, sezione III, 21 gennaio 2015, Giuffrè, laddove la Cassazione ha affrontato la controversa disciplina applicabile ai rumori provocati nell’esercizio di una professione o di un mestiere rumoroso, laddove non è sempre immediatamente chiaro se il fatto debba intendersi "depenalizzato", in ragione dell’applicazione del solo illecito sanzionato amministrativamente previsto dall’articolo 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995 n. 447, ovvero se debbano trovare applicazione le ipotesi penalmente rilevanti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 659 del Cp. Secondo la Corte, con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei valori limite di emissione di rumori fissati in base ai criteri delineati dalla legge quadro sull’inquinamento acustico 26 ottobre 1995 n. 447 (articolo 3, comma 1, lettera a): detti limiti devono essere fissati ai sensi della legge 8 luglio 1986 n. 349, e successive modificazioni, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro della salute e sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano) è configurabile solo l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 10 della legge n. 447 del 1995; si applica, invece, l’illecito nel caso in cui la condotta rumorosa si sia concretata nel superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti ovvero nella violazione di altre disposizioni di legge o prescrizione dell’autorità che regolano l’esercizio dell’attività e del mestiere; è configurabile, infine, l’illecito anche nel caso in cui l’attività e il mestiere producano rumori eccedenti la normale tollerabilità e idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori siano prodotti, quindi anche nel caso in cui l’abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio dell’attività o del mestiere rumoroso. Sempre in termini, rispetto a una fattispecie analoga a quella esaminata dalla sentenza massimata, la Cassazione ha ravvisato il reato a carico del gestore di un locale (nella specie, un bar-pizzeria) che aveva contravvenuto all’obbligo di controllare il volume delle emissioni sonore musicali e di impedire schiamazzi da parte degli avventori, specie in ora notturna destinata al riposo della massima parte dei cittadini, così disturbando la quiete pubblica (sezione I, 23 marzo 2011, Cavallo). Napoli: carcere di Nola; altro che rispetto dei diritti umani, gli spazi progettati sono da 800 di Eleonora Carrano (Architetto) Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2017 Il tanto atteso modello di architettura penitenziaria per il nuovo carcere di Nola, che dovrebbe orientare le future progettazioni dei sistemi penitenziari italiani, presentato dagli Stati Generali dell’esecuzione della Pena indetti dal Ministro della Giustizia, non solo manca del requisito dell’innovatività esplicitamente richiesto dal bando - ma riporta indietro il nostro Paese di almeno un paio di secoli. Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, pronunciata l’8 gennaio 2013, che condannava il sistema penitenziario italiano per trattamento inumano, sarebbe stato auspicabile che il progetto per il nuovo Istituto Penitenziario di Nola riscattasse il nostro Paese dall’umiliante pronuncia; auspicio che è stato purtroppo disatteso. Non ci aspettavamo di vedere emulato il celebrato modello di carcere norvegese di Halden ad Oslo per 252 detenuti, progettato dagli architetti Erik Møller Architects, il cui sistema detentivo (e di conseguenza l’architettura ad esso finalizzata) è centrato sul rispetto e i diritti umani; ma neppure le settecentesche e labirintiche "Carceri d’invenzione" di Piranesi. Il modello distributivo e funzionale del sistema penitenziario di Nola, con la sequenza ripetitiva delle corti chiuse, che dovrebbe accogliere 1.200 detenuti "a trattamento avanzato" (ma prevedibilmente raddoppieranno, contro la tendenza attuale che vuole piccoli sistemi di detenzione) parla il linguaggio sbrigativo e superficiale dell’edilizia, non certo quello dell’Architettura, che supera i criteri della mera "funzionalità e dello "standard". Della ricerca innovativa degli spazi per i nuovi sistemi di detenzione e rieducazione non c’è traccia; esso ricorda piuttosto, con le torri dalle quali si dipartono i "bracci", gli schemi ottocenteschi della Prison de la Santé a Parigi, costruita nel 1867 per accogliere 1.400 detenuti, o "Le Nuove" di Torino, inaugurato nel 1870 sotto il regno di Vittorio Emanuele II. I progettisti dell’ufficio tecnico del D.A.P. del Ministero della Giustizia tengono a precisare che per l’elaborazione dello schema - unico modello di riferimento vincolante e invariabile (!) per coloro che si aggiudicheranno la gara per la realizzazione del carcere di Nola - hanno tenuto conto degli indirizzi emersi dal Tavolo n.1 - Architettura e Carcere - degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, composto da esperti e coordinato dall’architetto Luca Zevi. Se l’espressione di un anno di consultazioni che ha coinvolto oltre 200 esperti del sistema penitenziario a ben 18 tavoli di lavoro, sollevando numerose polemiche e prese di distanza, persino tra gli stessi partecipanti, è una proposta così modesta, qualcosa però non ha funzionato. L’esperto architetto Burdese, in un recente intervento pubblico, definisce il preliminare, senza mezzi termini, un lager, contrario ai valori dichiarati nel bando che richiamano invece al "rispetto per la persona del detenuto". L’associazione Antigone e la Fondazione Michelucci, in prima linea per i diritti e le garanzie nel sistema penale, contestano i numeri della prevista popolazione detenuta e lamentano la genericità degli spazi destinati alle attività lavorative e l’assenza del necessario scambio con le attività del territorio. Il prof. Ruggero Lenci, architetto, avverte che un penitenziario basato su uno schema progettuale non condiviso, chiuso e introverso, oltre ad essere fallimentare in partenza, potrebbe arrecare un danno d’immagine all’Italia. Eppure non era difficile prevedere che, sottraendo l’elaborazione del modello sperimentale al confronto necessario del Concorso di Progettazione, i risultati sarebbero stati deludenti. La modalità seguita per arrivare alla presentazione di un unico schema di riferimento, che contraddice con le immagini ogni buon proposito contenuto nel bando di gara, è frutto di una teoricità verbosa e autoreferenziale fallimentare. L’Amministrazione Penitenziaria, insomma, ha privilegiato con colpevole approssimazione una gara basata sull’aggiudicazione di un’offerta tecnica ed economica al ribasso, sbagliando. Costo presunto dell’opera complessiva, 120 milioni di euro: un’altra occasione mancata di ricerca e di crescita per la società italiana, con il prevedibile e immancabile spreco di denaro pubblico. Milano: basta sbarre nelle aule del tribunale; c’è il progetto, mancano i fondi di Franco Vanni La Repubblica, 5 giugno 2017 Ordine degli avvocati e Camera penale insistono perché venga bandita la gara per l’appalto. C’è finalmente un progetto, e un preventivo dettagliato. Al momento, però, mancano i soldi. Sostituire le gabbie nelle aule delle sezioni penali di tribunale e corte d’appello costerebbe un milione e 200mila euro. Vale a dire 25mila circa per ciascuna delle 48 gabbie da zoo, composte da sbarre metalliche, che secondo la Camera penale di Milano dovrebbero essere sostituite con strutture in vetro infrangibile, "più rispettose della dignità dell’imputato". Gli ingombri esterni delle nuove celle sarebbero i medesimi rispetto a quelli delle gabbie con sbarre in cui vengono rinchiusi oggi gli imputati ritenuti pericolosi. L’unica aula che richiederebbe un progetto specifico (con costi nell’ordine dei 100mila euro) è la grande sala che ospita la corte d’assise d’appello, dove la gabbia occupa quasi per intero una delle due pareti laterali. Carmelo Maugeri, architetto e responsabile della manutenzione di palazzo di giustizia, spiega: "Mettendo il servizio a gara, i costi necessari all’installazione delle singole strutture potrebbero ridursi". A pagare dovrebbe essere il ministero della Giustizia, ma in forma di rimborso, non direttamente. In pratica, il palazzo di giustizia di Milano dovrebbe trovare i soldi nel proprio bilancio, inoltrando poi la richiesta di copertura a Roma. Un meccanismo che finora ha sempre bloccato ogni ipotesi di intervento, vista l’esiguità dei fondi a disposizione degli uffici giudiziari milanesi. Il tema della sostituzione delle gabbie con strutture più dignitose fu posto per la prima volta dal Partito radicale negli anni Settanta, al tempo dei sequestri di persona e del terrorismo politico e. Nei decenni successivi, la questione è stata più volte sollevata da avvocati e parenti degli imputati. A insistere di recente perché in ogni caso l’appalto sia finanziato e sia quindi bandita la gara sono l’Ordine degli avvocati di Milano e la Camera penale, secondo cui "non si può avere un processo equo se una delle due parti è chiusa in gabbia", come scritto in comunicati pubblici e lettere aperte al governo. Per l’architetto Maugeri, "un giorno si arriverà alla sostituzione delle gabbie, trattandosi di una questione di civiltà, ma ancora non sappiamo dire quando". Maugeri è autore dell’unico prototipo di "cella in vetro" installato sette anni fa nell’aula H al primo piano del tribunale. Una struttura in vetro antiproiettile, montata su un telaio metallico. A chiederne la realizzazione fu l’allora presidente Livia Pomo doro. Da allora nulla di concreto si è più fatto. Un’ipotesi sollevata dagli avvocati è di provare chiedere un contributo economico ad altre pubbliche amministrazioni. La prossima riunione della conferenza permanente sulla manutenzione e il funzionamento degli uffici giudiziari è in programma per il 15 giugno. Napoli: Orlando "la tregua è stata una parentesi, ma lo Stato è all’altezza di questa sfida" di Maurizio Capozzo Il Mattino, 5 giugno 2017 Sette omicidi in dieci giorni: "La tregua nella guerra di camorra è stata solo una parentesi, e si illudeva chi pensava che i clan fossero stati sconfitti per sempre". Non nasconde le difficoltà del momento il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a Portici tra i militanti del Pd per sostenere la candidatura a sindaco del senatore Vincenzo Cuomo. Ma il tema del giorno è proprio l’emergenza-sicurezza, tornata tristemente di attualità dopo il recente bagno di sangue per le strade della provincia napoletana. C’è una sfida in atto nei confronti dello Stato ed il Guardasigilli, a nome del governo assicura: "La risposta dello Stato, con la magistratura e le forze dell’ordine, è all’altezza di questa sfida. Naturalmente è necessario non abbassare la guardia. Se saranno necessari altri mezzi o strumenti - aggiunge Andrea Orlando - il governo è a disposizione. Oggi Napoli torna in condizioni che abbiamo già conosciuto. Dobbiamo dare la risposta che abbiamo saputo dare e che in questi armi ha inferto colpi durissimi ai clan". Parla al popolo del Pd il ministro, in tour elettorale nel Napoletano e annuncia la nascita di un suo movimento "che resta all’interno del Pd - assicura in maniera chiara - ma che intende recuperare quel rapporto diretto con la gente che questi ultimi tempi è stato trascurato. Ma parla anche al mondo delle professioni. Ad attenderlo a Portici c’erano ieri mattina esponenti dell’avvocatura, per sonale di cancelleria dei tribunali del circondario, uomini della polizia penitenziaria: "Giustizia e sicurezza sono priorità per il Paese - tiene a sottolinea Orlando - e gli sforzi in questa direzione devono moltiplicarsi. In un anno abbiamo dimezzato l’arretrato nei giudizi civili, grazie anche alla collaborazione dell’avvocatura, componente fondamentale nel sistema giustizia". Proprio agli avvocati il ministro anticipa una importante iniziativa: "Intendiamo sancire coi una norma chiara il diritto all’equo compenso per i professionisti. Parlando con tanti giovani che si affacciano al mondo delle professioni - ha spiegato Orlando dopo tanti anni di studio e sacrifici, ho avuto modo di verificare che il compenso per le prestazioni non lo determina il mercato, né il merito, né tanto meno il professionista stesso quanto piuttosto le grandi banche, le grandi compagnie di assicurazione, la grande industria che in questi senso dominano il mercato delle professioni. Ebbene, ritengo che il legislatore debba intervenire in maniera decisa questo settore a garanzia dei professionisti". Il tour elettorale del ministro Orlando che era di ritorno da una serie di impegni in Puglia, è proseguito nel pomeriggio con tappe ad Acerra ed a Pozzuoli, a sostegno rispettivamente di Paola Montesarchio e Vincenzo Figliola. Anche in quasi due centri l’attenzione si è focalizzata sull’emergenza sicurezza. "È un fenomeno di recrudescenza e non possiamo assolutamente abbassare la guardia", ha ribadito, concentrandosi anche sui rischi del voto di scambio: "Teniamo, tenete tutti la guardia alta anche su questo, perché anche esprimendo e pretendendo un voto libero e pulito si combatte la criminalità". Monza: bulli in oratorio? arriva il braccialetto elettronico di Veronica Todaro quotidiano.net, 5 giugno 2017 Esperimento in Brianza: è una fascetta in gomma azzurra, con un chip che tiene costantemente d’occhio il ragazzino. Vuoi mandare il bimbo all’oratorio? Devi mettergli i braccialetto elettronico. L’ultima frontiera della lotta al bullo è una fascetta in gomma azzurra, con un chip che tiene costantemente d’occhio il ragazzino. Entrata, uscita, attività, pagamenti e mensa: senza, non si può neppure entrare. Il prete, ma soprattutto mamma e papà, sapranno in tempo reale dove si trova il piccolo, se compra un ghiacciolo al bar o gioca a calcio con i compagni. Il tutto grazie all’ennesima app sul telefonino. Nell’era del grande fratello informatico non bastano più le cappellette con la scritta ammonitrice "Dio ti vede" per tenere buoni i pargoli, neppure nella bianca Brianza. A Varedo, a due passi da Monza e Milano, il bullismo nei centri parrocchiali è più che una preoccupazione. Proprio qui, dove lo scorso anno un reticente cartello avvisava della chiusura del centro estivo "per ferie", il parroco fu costretto a sprangare i cancelli e bloccare le attività. L’arrivo di ragazzi "non identificati" coincise infatti con fastidiosi atti di prevaricazione: furti di cellulari, monetine e marsupi, poi minacce e persino la richiesta di un teppistello in vena di atteggiamenti da mafioso di farsi baciare l’anello da due inermi ragazzini. Immediate, fioccarono le proteste delle famiglie e il "don" corse ai ripari con la serrata. UNA spinta in più per don Giuseppe Grisa, che guida la chiesa del paese, da cui dipende il centro San Luigi Gonzaga, per accelerare la svolta tecnologica. L’idea di "Sansone 2.0", il braccialetto elettronico che potrebbe ricordare i controlli assai più stringenti dedicati ai detenuti ai domiciliari, è venuta ad una delle tante fabbrichette della zona, la C&L di Carate Brianza, che ha già venduto il servizio ad altri centri religiosi della Diocesi. La società si occupa di software gestionali per aziende, ma ha sviluppato una sezione dedicata alle "comunità pastorali". E proprio così la mette il sacerdote con le mamme e i papà, facendo leva su un piano squisitamente organizzativo con una bella brochure spedita a casa: "Siamo ormai nel terzo millennio - scrive - e la tecnologia entra ogni giorno nelle nostre case. Ormai usiamo pc e smart-phone con disinvoltura per collegarci a Internet: da oggi lo useremo anche per iscriverci alle varie proposte della parrocchia e dell’oratorio". Già, ma l’accesso all’oratorio sarà solo per gli iscritti: un profilo, un codice e una password per tutti. La registrazione e la scheda di silicio che segnala l’ingresso ai tornelli virtuali. Chi non è conosciuto e iscritto, come i vandali dello scorso anno, non potrà accedere. E se questo, comunque, non mette al riparo i bambini dalle vessazioni dei compagni regolarmente registrati sul portale, le famiglie comunque l’hanno presa bene. Comodo, ma soprattutto sicuro, il nuovo sistema ha raccolto infatti il plauso della maggioranza dei genitori, gli stessi che lo scorso anno avevano sonoramente protestato perché più di un ragazzo era tornato a casa spaventato e con qualche soldo in meno nello zaino, dopo le attività dell’oratorio estivo. Tempio Pausania: appello di Corbelli (Diritti Civili) alla Rai per la figlia di un detenuto di Luigi Aiello primapaginanews.it, 5 giugno 2017 "È appena rientrato in carcere in Sardegna il papà detenuto della bambina calabrese di 5 anni, malata di tumore, in fase terminale. La piccola ha espresso il desiderio di avere accanto il suo papà, G.V., detenuto in Sardegna. Quest’uomo, dopo l’appello di Diritti Civili, aveva avuto un permesso straordinario di 5 giorni che è scaduto ieri ed è per questo dovuto rientrare, ieri sera alle 20, nel carcere sardo di Tempio Pausania, per scontare una condanna definitiva emessa nel 2013 (fine pena prevista nel 2025). C’è una sola speranza che questo detenuto possa rimanere accanto alla sua sfortunata bambina negli ultimi giorni di vita: è la sentenza che sarà emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari (a cui rivolge un nuovo accorato appello il Movimento Diritti Civili) che dovrà pronunciarsi sull’istanza di detenzione domiciliare speciale presentata dal legale di quest’uomo e discussa ieri". È quanto afferma, in una nota, Franco Corbelli, coordinatore ed instancabile leader del Movimento Diritti Civili, e delegato della Regione Calabria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani. Ieri Corbelli è andato a trovare questa bambina, che risiede a Corigliano. Il responsabile di Diritti Civili è stato accompagnato dall’assessore alle Politiche Sociali del comune ionico, Marisa Chiurco. "È una storia tristissima e drammatica che addolora. Una bellissima e sfortunata bambina calabrese, di 5 anni, malata terminale, chiede di avere accanto a sé prima di volare in Cielo il suo papà detenuto in Sardegna. Quest’uomo dopo i cinque giorni di permesso straordinario (ottenuti dopo l’appello di Diritti Civili) ieri mattina ha dovuto far ritorno in Sardegna, alle 20 è dovuto rientrare in carcere, mentre la sua sfortunata bambina per un destino crudele sta purtroppo per terminare la sua brevissima, infelice e dolorosa esistenza, nella sua casa di Corigliano, in provincia di Cosenza, dove risiede con la sua mamma e altri tre fratelli minorenni anche loro con gravi problemi di salute. C’è una sola speranza che questo detenuto possa rimanere accanto alla sua sfortunata bambina negli ultimi giorni di vita: è la sentenza che sarà emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari che dovrà pronunciarsi sull’istanza(discussa ieri) di detenzione domiciliare speciale presentata dal legale di quest’uomo, l’avv. Francesco Paolo Oranges. Ho chiesto al Tg Rai Calabria di raccogliere l’appello della mamma di questa bambina e di farlo trasmettere nel telegiornale Rai della Sardegna affinché i giudici di Sassari possano vedere con i loro occhi il dramma di quella bambina e della sua famiglia. E a questi giudici che rivolgo oggi ancora una volta un nuovo, accorato appello supplicandoli di accogliere questa istanza e di consentire a questo detenuto di ritornare e restare accanto alla sua bambina sino a quando il Signore non la chiamerà in Paradiso. Mi auguro che così come è stato, dopo il primo appello di Diritti Civili del mese scorso, per il permesso straordinario dei 5 giorni, prevalga anche e soprattutto adesso nuovamente la grande umanità di questi giudici". Intanto sulla rete, ad opera di Cosenza.2, è iniziata una raccolta firme. Milano: la "Società del libro" toglie le sbarre al carcere Di Paolo Foschini Corriere della Sera, 5 giugno 2017 Detenuti, studenti e ospiti della Casa delle carità hanno letto "I Miserabili" di Victor Hugo. Oggi il dibattito finale all’auditorium di via Brambilla. "Sono ormai quattro anni che partecipo alla Società di Lettura e ancora non riesco a dire basta". Il racconto di uno dei ragazzi coinvolti nella faccenda comincia così. E forse è che uno non ci pensa, ma è sempre incredibile cosa possa fare un libro. Nello specifico leggere un libro con qualcun altro e parlarne. In questo caso, per esempio, attorno allo stesso libro si sono ritrovati trenta detenuti della sezione "giovani adulti" di San Vittore, una decina di ospiti della Casa della carità con diversi minori arrivati in Italia da soli, e un gruppo di studenti ed ex studenti del liceo scientifico Volta. Non è la prima stagione del progetto Società di Lettura. Ma sta crescendo di anno in anno. Ora hanno letto I Miserabili di Victor Hugo. Ne hanno discusso, pianto, riso, litigato e scritto. E alle 18,30 di oggi i protagonisti dell’esperienza ne presenteranno il risultato nell’auditorium della Casa della carità, in via Brambilla 10. Si tratta di una performance tra reading e teatro, che tocca in pratica tutti i temi della lettura affrontata e rielaborata alla luce delle proprie esperienze: legalità, rapporto genitori/ figli, libertà, progetti di vita, valori, differenze, povertà. Il percorso era partito a marzo e in una trentina di incontri, sulle orme di Jean Valjean, ha creato una connessione tra quattro luoghi fisicamente distanti come la comunità per minori stranieri non accompagnati di via Ucelli di Nemi, il liceo Volta, la Biblioteca del Confine della Casa della carità e appunto la Casa Circondariale di San Vittore: i cui partecipanti alla lettura collettiva, pur dovendo portarla avanti restando in carcere, hanno sempre potuto confrontarsi con gli altri attraverso i volontari che ogni settimana li sono andati a trovare. "Leggere un libro insieme - scrive il ragazzo di cui sopra - è vivere qualcosa di diverso dal normale, ma che con gli anni rientra nel tuo concetto di normale. Per questo non si riesce a dire basta". La lezione di Valjean tra ingiustizie, forza e riscatto Sorprende l’importanza del bibliotecario all’interno di un carcere. Molti non se ne accorgono neppure. Ma la mente può trascinare qualsiasi persona fuori dalla realtà. Quando poi la persona non si sente libera, se il corpo è imprigionato, ci si affida ancora di più alla mente, che è sempre libera. Ore e ore a cazzeggiare con gli altri detenuti del raggio certo aiutano. Ma quando poi si sta soli i pensieri riaffiorano. Ti dicono dove sei, perché, per quanto: allora ci si rifugia nei sogni. Questo è il compito principale del bibliotecario: mostrare agli altri come poter sognare. E quest’anno gli studenti hanno lanciato una sfida alla Società di Lettura: leggere I Miserabili di Victor Hugo. Un libro che parla di ingiustizie e povertà, amore e libertà, obiettivi e scopi raggiunti. Temi non sempre facili. E infatti ha suscitato grandi perplessità un po’ fra tutti, all’inizio. Alla fine però questa sfida l’abbiamo vinta e al nostro Jean Valjean, forzato liberato, condannato per aver rubato un pezzo di pane, adesso possiamo aggiungere una nuova condanna: quella per aver rubato anche i nostri cuori. Torino: la "Liberazione Poetica" dal carcere al Salone del Libro da Associazione culturale Officina 177 vivereancona.it, 5 giugno 2017 All’importante fiera italiana del libro, il volume con i testi scritti dai detenuti, che fa parte del progetto delle Brigate Rivoluzionarie Poetiche. Voluta dallo scrittore statunitense, Jack Hirschman, l’iniziativa è arrivata nelle Marche grazie all’Officina associazione culturale onlus. Detenuti sì, ma le loro parole sono arrivate fino alla più importante manifestazione italiana dedicata al libro, alla lettura e all’editoria: il Salone di Torino. Sono quelle contenute nel volume "Liberazione Poetica" curato dall’Officina Associazione culturale Onlus di Ancona, che da anni porta avanti progetti di scrittura creativa nelle carceri marchigiane, e presentato alla kermesse piemontese da Alberto Ramundo dell’Officina insieme all’Ombudsman regionale, Andrea Nobili, nello stand marchigiano. Il testo è il primo del progetto "Brigate Rivoluzionarie Poetiche" che, ideato dall’autore statunitense Jack Hirschman, ha l’intento di unire in più pubblicazioni, diffuse in diverse parti del mondo, tra cui gli Usa, i versi composti sia da scrittori famosi che da detenuti e persone emarginate. Nel caso specifico, infatti, "Liberazione Poetica" contiene le poesie non solo di detenuti e detenute marchigiani, ma anche di detenuti dei carceri minorili statunitensi e di poeti italiani e stranieri. Ogni autore, poi, avrà il compito di presentare il volume nel proprio Paese di origine e nella sua realtà. Di lunga data è la collaborazione dell’Officina con Hirschman. Più volte, infatti, l’associazione anconetana lo ha invitato e ospitato nelle Marche per iniziative all’interno degli istituti di pena dove il celebre poeta statunitense ha portato i suoi versi e ha conosciuto i detenuti. Il progetto delle Brigate, che nasce ufficialmente nelle Marche grazie all’Officina e a questo primo volume, vuole dare spazio a livello internazionale a chi non può far sentire la propria voce. Come quella di una detenuta del carcere di Villa Fastiggi: i suoi versi sono arrivati negli Usa, in una raccolta curata da Hirschman, sempre all’interno del progetto delle Brigate. "Essere stati a Torino è un grande riconoscimento - ha detto Alberto Ramundo dell’Officina che ha partecipato al Salone del Libro - per noi, ma soprattutto per i detenuti, che, in questo modo, possono sentirsi ancora parte della società, apprezzati e utili. Queste loro parole, infatti, parlano a tutti noi, di libertà certo, ma soprattutto di sentimenti, di sensi di colpa, di rabbia e frustrazione, di rimorsi e rimpianti. Ecco perché sono universali e ci colpiscono così tanto. La collaborazione con Hischman, poi, ci entusiasma, ci spinge ad andare avanti e conquista anche le persone private della libertà personale che vedono in questo progetto anche un mezzo di riscatto". Il volume, che è il primo del filone delle "Brigate Rivoluzionarie Poetiche" è l’ottavo di quelli curati e pubblicati dall’Officina al termine dei laboratori di scrittura creativa all’interno delle carceri marchigiane. E, in questo caso, le sue pagine arriveranno ancora più lontano. Fermo (Ap): carceri, musica e poesia, così l’arte tocca il cuore dei detenuti anconatoday.it, 5 giugno 2017 Venerdì mattina l’arte è entrata in punta di piedi in un ambiente difficile, quello del carcere, per l’occasione la Casa circondariale di Fermo. Parole, note e recitazione. Venerdì mattina l’arte è entrata in punta di piedi in un ambiente difficile, quello del carcere, per l’occasione la casa circondariale di Fermo, dove una 40ina di detenuti (60 persone il totale della popolazione carceraria) hanno assistito al musical di Dario Aspesani e alla lettura di poesie scritte dagli Lucio Doria e dallo scrittore napoletano Antonio Gerardo D’Errico. Parole d’autore interpretate dall’attore Massimiliano Falconi, Paolo Ciuccarelli e dagli stessi autori. Nella sala polivalente del carcere fermano, i detenuti non solo hanno assistito, si sono lasciati coinvolgere quando la musica e la poesia hanno celebrato la figura della madre. Il tutto alla presenza della direttrice della struttura detentiva la direttrice Eleonora Consoli e il comandante della Polizia Penitenziaria il commissario Gerardo D’Errico, insieme a vari esponenti della politica locale. Gli artisti hanno raggiunto il cuore della platea quando Lucio Doria ha recitato "A livella" mentre D’Errico, con la poesia "Per te" ha toccato il cuore dei presenti, non senza momenti di vera commozione. E proprio D’Errico, già autore di numerosi libri autobiografici, tornerà a breve con il suo prossimo lavoro: un giallo dal titolo "Red Carpet in noir. Delitto a Cinecittà" edito da Soletti. Il libro è tratto da una storia vera sul mondo del cinema e affronta temi come la gelosia, l’invidia, la rabbia che sfociano nel delitto e nella recriminazione senza esclusione di colpi. Cassino (Fr): "Maratona di primavera" nella Casa circondariale tg24.info, 5 giugno 2017 Una giornata all’insegna dello sport e della solidarietà. Dopo il grande successo delle prime due edizioni, il Cus Cassino domani tornerà al San Domenico per una speciale edizione della "Maratona di primavera". Circa 70 detenuti della casa circondariale diretta dalla dottoressa Irma Civitareale, lunedì 5 giugno alle ore 14:30, prenderanno parte all’evento sportivo che vedrà, tra gli altri, la presenza delle istituzioni politiche ed accademiche e di tanti studenti tirocinanti di Scienze Motorie. Gli amministratori lo scorso anno, più che sul campo sportivo, hanno brillato su quello del sociale ed hanno regalato ai ragazzi del San Domenico una sana giornata di sport, divertimento e solidarietà. Il presidente del Cus Cassino, professor Carmine Calce, ha pertanto ricevuto i complimenti di tutti per aver organizzato la maratona di primavera all’interno della casa circondariale, mostrando sensibilità e attenzione per il mondo del sociale, molto spesso dimenticato dalle società sportive impegnate a migliorare solo l’aspetto agonistico e non quello dell’attenzione alle fasce deboli. "Per festeggiare i 27 anni della maratona di primavera che si è svolta il 25 aprile scorso in città - spiega il presidente del Cus - intendiamo tornare al San Domenico perché la sensibilità al sociale è nel dna del nostro centro. "Facciamo fiorire la pace nella città per il mondo" del resto è da 27 anni lo slogan della maratona di primavera. E la pace, come lo sport, si inizia a praticare in casa. Lo sport si rivela, senza dubbio, un metodo molto efficace per conseguire la pace, perché va oltre qualsiasi differenza di lingua, razza, religione o opinione politica. È questa dunque l’ennesima dimostrazione del nostro modo di intendere lo sport: vincere nella vita, prim’ancora che sul campo". La presenza dei detenuti alla gara podistica si propone di rappresentare la popolazione quivi ristretta in un’importante manifestazione che ha come obiettivo la crescita di una cultura, nelle istituzione come nei cittadini, che tuteli l’ambiente in tutte le sue forme e declinazioni. La manifestazione podistica si svolgerà attraverso un percorso di 5 Km, all’interno dell’intercinta dell’Istituto, individuato dalla Direzione e visionato dai Tecnici del Cus Cassino. Napoli: "Football leader ", Capello dà lezione di tattica ai detenuti di Poggioreale Il Mattino, 5 giugno 2017 Il grande calcio torna a Napoli. Non quello giocato perché l’amato pallone va in vacanza, però quello chiacchierato e oggetto di dibattiti raramente conosce soste. E a Napoli fa capolino per la prima volta - Football leader - la kermesse dedicata proprio ai grandi personaggi che negli anni passati facevano passerella ad Amalfi: cambia la location, Napoli appunto, individuata dagli organizzatori per affrontare grandi temi di iniziativa sociale. Si parte questo pomeriggio alle ore 15 e l’appuntamento è presso la casa circondariale di Poggioreale. "L’Aiac incontra i detenuti" è il titolo che l’Associazione italiana allenatori di calcio, presieduta da Renzo Ulivieri, dà al laboratorio, al quale ha aderito anche il governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Una tavola rotonda arricchita da illustri esponenti del calcio italiano, su tutti l’ex campione del mondo Marco Tardelli, l’allenatore pluridecorato Fabio Capello (abituale frequentatore della kermesse) e Gianni Di Marzio, una vita spesa in panchina tra serie A (anche a Napoli), B e C: tutti e tre oggi apprezzati commentatori televisivi. Si discuterà del grande fascino che il football esercita nei centri di rieducazione, nella possibilità di trasformarsi in occasione di riscatto sociale, oltre che strumento per poter ritornare all’attività fisica nonostante la difficile condizione di detenuto. Una rappresentanza di detenuti porterà a conoscenza degli ospiti del dibattito il loro precario disagio sociale e avrà la facoltà di poter porre domande sugli argomenti che riguardano più strettamente la materia calcistica. Insomma un incontro che si preannuncia toccante sotto l’aspetto emotivo ma che sicuramente sfocerà in racconti di pura passione sportiva. Se ne discuterà alla presenza di Ulivieri e del suo vice Biagio Savarese, di Antonio Fullone, direttore del carcere di Poggioreale. Modereranno i giornalisti Xavier Jacobelli ed Enrico Varriale. "Una strage semplice", di Nando dalla Chiesa. Stragi di mafia, un filo rosso di Corrado Stajano Corriere della Sera, 5 giugno 2017 Eccidi di Capaci e via D’Amelio tappe di un unico disegno di cui sappiano troppo poco. La ricostruzione di Nando dalla Chiesa nel volume "Una strage semplice" (Melampo) a venticinque anni dall’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si può dire che questo libro di Nando dalla Chiesa, Una strage semplice (Melampo), sia, un quarto di secolo dopo, la commemorazione più vera, dolorosa e terribile, dell’assassinio di Giovanni Falcone e del massacro sanguinante di Paolo Borsellino e delle loro scorte. A Palermo, a Milano, un po’ dappertutto si è appena ricordato sia l’anniversario di Capaci sia, in tono minore, quello di via D’Amelio. Lo si è fatto spesso con sincero dolore, partecipi anche i giovani: la nave della legalità arrivata coi ragazzi a Palermo è stata un segno bello e civile. Sono usciti anche libri seri e importanti, Storie di sangue, amici e fantasmi, del presidente del Senato Pietro Grasso, L’assedio di Giovanni Bianconi. Ma nella patria del melodramma che ama i palchi gremiti di autorità celebranti, gli sbandieratori, i tamburi, le cerimonie sono state anche formali. Si è parlato di quel passato che non passa come di una storia finita, senza porsi le domande che non hanno ancora risposta, e non si è tentato di riempire i buchi neri, dimenticando, per esempio - una vergogna da nascondere - il processo in corso a Palermo, mafia-Stato, di cui nessuno parla. Nando dalla Chiesa, professore ordinario di Sociologia della criminalità organizzata all’Università Statale di Milano, che, da quasi ragazzo, porta sul cuore il macigno della tragedia della mafia, confessa nel finale del libro di averlo scritto "esclusivamente a memoria" controllando solo le cifre, le date, i giorni, tanto quei fatti gli si sono impressi nella memoria. Nei decenni non ha mai smesso di pensarci su, di scriverne, di fare: "Vorremmo saperne molto di più. (...) Vorremmo conoscere per filo e per segno come andò", confessa. Perché Una strage semplice? Lo scrittore, autore dopo l’assassinio di suo padre, del memorabile libro Delitto imperfetto, risponde così: quella strage (un’unica strage, come dimostra) "avanzò grazie alle sconfitte e grazie alle vittorie, indifferentemente, delle sue vittime designate. Con una linearità che ebbe qualcosa di epico e implacabile, dentro una grande recita corale. I misteri successivi, l’agenda rossa (di Borsellino, scomparsa, ndr), gli uffici dei Servizi segreti a monte Pellegrino, gli incontri tra esponenti dello Stato e ambasciatori di Cosa nostra, fanno parte di un grande e sconfinato scenario". Una strage semplice non vuole essere un saggio organico sul fenomeno politico-criminale della mafia. Seleziona piuttosto i punti più accesi della tragedia di Cosa nostra che in pochi anni uccide a Palermo tutti, proprio tutti, gli uomini dello Stato, i migliori, il prefetto, e con lui magistrati, carabinieri, poliziotti, uomini politici, medici legali che stanno facendo il loro dovere nel nome della Repubblica e dello Stato di diritto. Possono sembrare frammenti, queste pagine, ma i fatti narrati, il tutto sulla mafia che l’autore riesce a dire, sono invece bene incastrati l’uno nell’altro. Il lettore che li conosce li ritrova, anch’egli con angoscia e nuovo immenso stupore; il lettore che non li conosce può diventare l’esterrefatto spettatore di un giallo inimmaginabile ma scientificamente verificato. Il racconto scorre. Dal 1982, l’anno dell’assassinio di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso per quel che era e rappresentò nei cento tremendi giorni nella Conca d’Oro, al 1984, quando avvenne l’incontro tra Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta, il "pentito" per eccellenza. È una scena di gran teatro il lungo interrogatorio di quell’estate. "Don Masino" ha deciso di parlare, è la sua vendetta nei confronti dei capimafia diventati nemici. Di quel magistrato si fida: ha intuito che tutto sa della mafia, conosce, capisce, gli basta mezza parola, un gesto. Spiega a lungo che cos’è veramente Cosa nostra, la sua struttura, le decine, le famiglie, i mandamenti, fino alla Cupola, nomi e cognomi. La notte del 28 settembre di quell’anno partono 366 ordini di custodia cautelare. I due terzi finiscono in carcere, tra gli altri l’ex sindaco Vito Ciancimino e i cugini Salvo, i potenti esattori. "Lei diventerà famoso", dice Buscetta a Falcone, "ma loro non scorderanno". Cosa nostra non scorda naturalmente Buscetta. Si vendica ferocemente, stermina quasi tutti i suoi familiari, una decina. Il metodo Falcone sembra elementare: seguire il flusso del denaro sporco, cercarlo in tutto il mondo. I soldi sono come bisce, le prove. Cosa nostra investe, certe banche svizzere o d’altri Paesi ne sono imbottite. Non soltanto con i profitti della droga. Falcone scopre i traffici illegali, gli appalti appetiti dalle aziende, soprattutto del Nord, anche pulite, in combutta con la mafia. La sua inchiesta semina il terrore nel Paese illegale e anche in quello formalmente legale. Poi il maxiprocesso che nasce dall’ordinanza-sentenza del pool Caponnetto, Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta: 10 febbraio 1986, 475 imputati, i capi di Cosa nostra in gabbia nell’aula bunker costruita vicino all’Ucciardone. Non è mai accaduto. La paura, l’ambiguità dei giudici e della società assente l’hanno avuta sempre vinta. Quella volta no. Il processo di primo grado va a buon fine, la sentenza della Cassazione, il 31 gennaio 1992, conferma l’impianto accusatorio del pool. Falcone, il giudice con la barba, è un nemico, non solo della mafia. Viene oltraggiato, linciato, subisce impavido (e sofferente) le più vili accuse. Deve arrivare il 6 maggio 2004 per ricevere una "medaglia d’oro al valore", alla memoria. La seconda sezione penale della Cassazione, in una sentenza, scrive che il magistrato fu "oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia, tendenti a impedirgli di assumere quei prestigiosi incarichi cui aveva diritto perché era indiscutibilmente il più bravo e il più preparato, e offriva le maggiori garanzie - anche di assoluta indipendenza e di coraggio - nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale". Deve subire in quegli anni un marasma di offese. Quando Leonardo Sciascia scrive sul "Corriere" (contro Borsellino, ma in effetti contro i giudici) il rovinoso articolo del 10 gennaio 1987 in cui dice, tra l’altro: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per fare carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso", Falcone, accorato, confida che quell’articolo ha fatto regredire di dieci anni la lotta alla mafia. Borsellino, il 25 giugno 1992 - ha soltanto un mese di vita - dice alla Biblioteca comunale di Casa Professa, a Palermo, che quel giorno dell’articolo Giovanni cominciò a morire. Racconta Nando dalla Chiesa che Falcone sa di psicologia e di antropologia, oltre che di diritto, sa leggere i bilanci, possiede una cultura e una fantasia giuridica che gli fanno sempre immaginare e mettere in pratica le misure operative e legislative adatte per sconfiggere la mafia. È il naturale successore di Caponnetto, il consigliere istruttore del pool. Il Csm, con il tradimento, la cattiva coscienza, la lucida preoccupazione di quel che Falcone può fare, la stupidità, gli preferisce un magistrato che nulla sa di mafia - proprio per questo - ed è capace di distruggere il pool disturbante. Ciò che fa. Falcone viene di continuo delegittimato, isolato. Nel 1989 subisce all’Addaura, vicino a Palermo, un attentato. Un borsone pieno di tritolo viene lasciato davanti alla sua casa. Per fortuna non esplode. Falcone parla di "menti raffinatissime" e non si riferisce soltanto alla mafia. Viene accusato di avere organizzato lui l’attentato fallito. Se ne va da Palermo. Non ne può più dell’assedio mafioso-istituzionale, accetta dal ministero della Giustizia l’incarico di direttore generale degli Affari penali. Il ministro è il socialista Martelli, Falcone viene criticato anche da chi gli vuole bene e lo stima. La mafia, invece, se ne preoccupa molto. Salvo Lima commenta la nomina con Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra": "Chistu si metterà l’Italia nelle mani". Falcone non considera una ritirata il suo andare in via Arenula a Roma. Si muove subito come un dannato, un angelo vendicatore, meglio. Riesce a far firmare ad Andreotti il decreto che fa tornare in carcere decine di pericolosi mafiosi chissà perché liberati, seguita a indagare sui centri occulti del potere, sulle alleanze con la mafia, pone le basi per la nascita della Procura nazionale antimafia che spaventa i poteri criminali e non soltanto loro. Sarà lui il procuratore. Viene annunciato con imprudenza. Cosa nostra, del resto, ha informatori e confidenti ovunque e sa quel che succede in tempo reale. Falcone viene ucciso per tutto questo, una vendetta per il passato, un’azione di prevenzione per il futuro. Capaci. Poi Borsellino. Nando dalla Chiesa spiega, convincente, che Capaci e via D’Amelio fanno parte di un unico disegno. Cosa nostra anticipa i tempi, ha qualche notizia di cui non si sa. È al corrente che sarà Borsellino il nuovo capo della Procura. Sa anche che il magistrato conosce l’andamento, forse i segreti della morte di Falcone. Qualcuno, misterioso, chiede a Riina il nuovo delitto. "Abbiamo ucciso Falcone e adesso abbiamo addosso il suo gemello", coraggioso e fedele, deve pensare Cosa nostra insufflata dagli inconfessabili interessi di una certa imprenditoria del Nord, anche al di fuori dell’organizzazione. Via D’Amelio. Un quarto di secolo dopo un’immagine che non esce dagli occhi e dal cuore. Terrorismo. Segnalare i sospetti, prevenire la psicosi: misure anti rischi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 giugno 2017 Ci sono delle "regole", delle indicazioni su cosa fare in caso di attentati di matrice jihadista o dopo quanto accaduto a Torino. L’attenzione di prefetture e questure è puntata anche sui comportamenti: segnalare i sospetti e non farsi prendere dal panico. Il combinato disposto tra l’attentato di Londra e quanto accaduto in piazza San Carlo a Torino costringe gli apparati a rimodulare nuovamente le misure di sicurezza. Perché adesso, come chiarisce il ministro dell’Interno Marco Minniti al termine del comitato convocato d’urgenza ieri pomeriggio al Viminale, "tra le disposizioni antiterrorismo dobbiamo tenere in conto anche la prevenzione della psicosi". È un bilancio grave quello che si registra in serata nel capoluogo piemontese, poteva essere drammatico. E allora bisogna fare i conti con le conseguenze di ciò che può avvenire quando ci sono centinaia o addirittura migliaia di persone in piazza e si perde il controllo della situazione. Arrivando anche a vietare gli eventi, i concerti e le altre manifestazioni se non prevedono non soltanto dispositivi adeguati alla prevenzione degli attacchi jihadisti, ma anche vie di fuga in caso di emergenza dovuta al panico collettivo. Il Ramadan e i nuovi attacchi - La riunione con i responsabili di forze dell’ordine e intelligence serve a fare il punto della situazione in base alle notizie provenienti dal Regno Unito e dopo aver avuto la conferma, evidenzia Minniti, "di uno schema che si ripete esattamente come era accaduto durante il Ramadan del 2016 con l’alternanza di attentati in Europa e nei teatri di guerra". Riferimento evidente alla sequela di attacchi delle ultime settimane: il Regno Unito con l’esplosione nell’arena di Manchester durante il concerto di Ariana Grande; le bombe in Egitto, Iraq e Afghanistan; l’assalto di ieri a Londra. Gli analisti sono concordi nel ritenere che altre azioni potrebbero essere già state programmate. Le indagini in corso diranno se i kamikaze delle ultime azioni in Gran Bretagna siano parte di un’organizzazione o abbiano agito autonomamente, ma questo cambia poco rispetto alla strategia terroristica. Soprattutto tenendo conto che sui siti dei fondamentalisti si continuano ad incitare anche i "lupi solitari" e questo espone tutti i Paesi all’azione estemporanea e dunque impossibile da prevedere. Minniti: necessario prevenire episodi di psicosi collettiva Da oggi nuova analisi sui 1.700 concerti e manifestazioni dell’estate. Oltre a garantire un servizio di steward, come già avviene negli stadi, gli organizzatori dovranno assicurarsi che nelle strutture ci siano adeguate via di fuga e soprattutto la possibilità di effettuare un doppio filtraggio per controllare l’ingresso delle persone. "La nostra intenzione è garantire lo svolgimento di tutte le manifestazioni - chiarisce il ministro - ma la nostra priorità è la salvaguardia delle persone e dunque in caso di minimo rischio il prefetto dovrà sospendere l’autorizzazione e addirittura revocarla in caso di pericolo". Una situazione come Torino, con migliaia di persone ammassate, non sarà mai più tollerata. I radicalizzati nelle carceri - Nelle ultime settimane c’è stata un’escalation di episodi di violenza da parte di detenuti stranieri che aggrediscono gli agenti penitenziari e inneggiano alla jihad. Da tempo le agenzie di intelligence hanno avviato il monitoraggio all’interno dei penitenziari e adesso i controlli sono stati intensificati. Il 30 maggio scorso a Pesaro, denuncia Donato Capece segretario del Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari, "una decina di reclusi nordafricani, fondamentalisti musulmani simpatizzanti della jihad, hanno appiccato un incendio nella cella e poi minacciato il personale lanciando rudimentali ordigni realizzati con le bombolette del gas che usano per cucinare". Un episodio analogo era accaduto qualche giorno prima nel penitenziario di Rossano che ospita detenuti per terrorismo. Secondo Capece "non è un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, che pure non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, e ora si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati". La guerra ai terroristi si fa anche con le parole giuste di Paolo Mieli Corriere della Sera, 5 giugno 2017 Minacciare ritorsioni impraticabili è rischioso, meglio raffinare l’analisi di un problema che durerà e non si supera dicendo che la vita continua come prima. Dice Theresa May, premier britannico, che "quando è troppo è troppo". E il ministro degli Esteri Boris Johnson promette che "ai terroristi non sarà consentito di distruggere la nostra democrazia". Per poi aggiungere: "Oggi milioni di londinesi continueranno la loro vita, andranno al pub, al museo, nei parchi, a vedere spettacoli e questa sarà la miglior risposta". Quante volte abbiamo ascoltato queste parole? In genere il leader di turno conclude con annunci di "reazioni durissime". "Spietate" specificò l’allora presidente francese François Hollande il 13 novembre 2015 dopo la strage del Bataclan. E il saggista inglese Niall Ferguson così commentò: "Non gli credo … questa l’ho già sentita, poi in genere quando la situazione comincia a girare per il verso sbagliato ecco che su entrambe le sponde dell’Atlantico emergono le riserve dell’opinione pubblica … Altro che spietati, quando lo siamo stati davvero nei nostri Paesi si gridava allo scandalo". Effettivamente la prima cosa che una donna o un uomo di governo dovrebbero fare nei minuti successivi a un attentato come quello di sabato notte al Borough Market è pronunciare sì parole di cordoglio ma evitare di promettere ritorsioni che tutti sappiamo non essere praticabili. Ci basta sapere che negli ultimi mesi in Gran Bretagna su otto attentati ne sono andati a segno solo tre e gli altri sono stati sventati. E sarebbe più saggio non dare l’illusione che da adesso in poi, grazie a chissà quale svolta, di atti terroristici non ne vedremo più. E meglio ancor più, raffinare le analisi di un fenomeno che ci accompagnerà per chissà quanti anni ancora. Sotto questo profilo fu più efficace il predecessore della May, David Cameron, che in due importanti discorsi (giugno e luglio del 2015, il primo in Slovacchia, il secondo a Birmingham) chiese agli islamici inglesi cosa avrebbero fatto per aiutare le autorità di polizia a combattere i terroristi, ricordò che musulmani venivano sistematicamente uccisi da altri musulmani e spiegò come, a parer suo, fosse sbagliato continuare a dire che "l’integralismo è frutto dei nostri errori o della povertà". La guerra al terrorismo oggi, eccezion fatta per coloro che indossano una divisa, andrebbe combattuta principalmente sul piano culturale. Ed è un conflitto tra noi e noi, prima ancora che tra noi e "loro". Il confronto militare con "loro", cioè con Daesh, ha tempi più lunghi di quelli che - sprovvisti di un’adeguata conoscenza - siamo stati indotti a supporre. Ne è riprova la "liberazione" di Mosul iniziata lo scorso 17 ottobre e presentata all’epoca sui media come qualcosa che sarebbe stata portata a termine nel giro pochi giorni. Adriano Sofri che ha seguito la vicenda sul campo già in novembre aveva puntato l’indice contro "un giornalismo mediamente cialtrone" che aveva dato Mosul per conquistata già a fine ottobre "quando la forza speciale antiterrorismo irachena era appena entrata nei sobborghi della sponda est del Tigri, la meno difendibile da parte dell’Isis". Dopodiché l’avanzata non aveva fatto sostanziali passi avanti e a volte ne aveva "fatti indietro". Questo a metà novembre. Siamo a giugno e Mosul non è stata ancora definitivamente liberata. Ma, dicevamo, ciò che ci compete non è improvvisarci strateghi militari né a Mosul, né qui in Europa. Chi sostiene di avere soluzioni militari pronte per l’uso - sia qui che lì - è un ingenuo semplificatore o, peggio, un imbroglione. L’unica cosa che possiamo fare (e che ci compete) è approfondire la discussione sulle categorie a cui facciamo ricorso per affrontare una questione - quella del radicalismo islamico - che ormai ci accompagna da oltre un quindicennio. Qui sembra che il Paese che, sotto questo aspetto, ha fatto più passi avanti sia la Francia. Si pensi a Gilles Kepel che fece notare come l’ottantaseienne sacerdote Jacques Hamel fosse stato sgozzato nel luglio scorso a Saint-Étienne-du-Rouvray (Rouen) da un diciannovenne. Un ragazzo che aveva appena trascorso un anno in carcere per aver cercato di andare in Siria e che era stato da poco liberato per buona condotta. Quando entrò in prigione - ha sottolineato Kepel - quel ragazzo non sapeva quasi nulla della Jihad, ma ne è uscito islamizzato dalla testa ai piedi e con la volontà di uccidere. Si pensi a Jean Birnbaum il quale ha scritto che a confonderci le idee sono in campo due illusioni complementari: la sinistra vede gli jihadisti come poveri; la destra li confonde con gli immigrati. Ma l’essenza della religione è quella di essere senza paese o confini. Il Jihadismo è una causa la cui influenza è così potente che può inghiottire un giovane cresciuto nella campagna francese o uno studente brillante che proviene da una famiglia cristiana. Birnbaum, nel libro "Un silence religieux. La gauche face au djihadisme" (Seuil) ha definito "rienavoirisme" la tesi secondo cui il terrorismo islamico non ha niente a che vedere ("rien à voir") con la religione. Polemizzando sia pure velatamente con papa Francesco. In Francia si è più discusso sul "ricatto dell’islamofobia": così lo ha definito Alain Finkielkraut per il quale il concetto è ricalcato su quello di antisemitismo, sicché non se ne riesce a capire la specificità. Di più, sostiene Finkielkraut che tale "analogia occulta la realtà eclatante dell’antisemitismo islamista". Quando a Colonia a Capodanno del 2016 gruppi di ragazzi musulmani molestarono ben mille e duecento donne di ogni età in un’azione evidentemente coordinata, in Francia ci fu chi cercò di minimizzare. Elisabeth Badinter in quell’occasione definì "scioccante" tale "negazione da parte di alcune femministe militanti francesi che hanno preso le difese degli aggressori anziché delle vittime". "Sono quasi trent’anni - disse apertamente - che cediamo spazi all’islam radicale per paura di passare per islamofobi… Siamo sempre stati zitti perché c’è il terrore di fare il gioco dei razzisti e dei partiti di estrema destra". Ed è sbagliato: "È negando la realtà che si nutrono razzismo ed estrema destra e che si perde la fiducia della gente". Secondo il filosofo Michel Onfray il termine "islamofobia" sarebbe addirittura da bandire. Non corrisponde a niente di realmente esistente, sostiene Onfray, nel libro Penser l’Islam, "è un concetto polemico utilizzato per impedire ogni riflessione sull’islam che non sia un pensiero di reverenza". Siamo in presenza di un anti-islamista militante? No. Lo scorso settembre Onfray dichiarò alla televisione Russia today che il fatto che la comunità musulmana fosse in collera contro l’Occidente gli sembrava "del tutto legittimo; l’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo - proseguiva Onfray - ma crea il terrorismo attaccando". E una sua frase, "dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane", finì addirittura in un video Isis di rivendicazione degli attentati di Parigi. Abbiamo l’impressione che le proclamazioni stentoree non si accompagnino, in genere, a discussioni approfondite. Anzi, spesso è l’opposto. Coloro che ad ogni attentato incitano a continuare a vivere come si faceva prima e nel contempo annunciano l’uso, "da questo momento", di maniere forti (non si sa né dove, né contro chi) dicono cose che da tempo hanno perso di senso. Meglio affidarci a chi non offre soluzioni e propone riflessioni. Almeno, forse, faremo qualche passo avanti e non rimarremo inchiodati al punto in cui siamo fermi da anni. Terrorismo. Non c’è solo la paura per chi deve difendersi, il coraggio ci salverà di Antonio Polito Corriere della Sera, 5 giugno 2017 Se continua così, tra un po’ basterà fare un botto, urlare un bum, per spaventarci e colpirci. In fin dei conti questo è successo l’altra sera a Torino, migliaia di feriti per una suggestione collettiva e un colpevole tappeto di bottiglie rotte. Ma c’è voluto il terrorismo islamista, questo terrorismo fai-da-te al quale basta un’auto o un coltello per uccidere, per fare del nostro naturale sentimento di paura il più potente amplificatore dei loro attacchi. Eppure non bisogna farsi vincere dalla paura, diciamo come un mantra, ripetiamo come un esorcismo, ogni volta che ci aggrediscono nelle nostre, e spesso anche loro, città europee (una volta ogni quindici giorni, dal 22 marzo a oggi). Ma siamo proprio sicuri? Sicuri che la migliore risposta sia organizzare un concerto come se nulla fosse, ricominciare da ciò che i terroristi hanno sanguinosamente interrotto, come ieri sera a Manchester con Ariana Grande, come al Bataclan un anno dopo la strage? E soprattutto: siamo sicuri che nel nostro stile di vita, che vogliamo difendere, non ci debba essere spazio anche per il coraggio, oltre che per la paura? L’altra sera a Londra è successo qualcosa di imprevedibile: diversi episodi di autodifesa, avventori di bar e locali che scagliano sedie e bottiglie contro i tre terroristi armati, un tassista che tenta di investirne uno, un ristorante sushi che distribuisce coltelli ai suoi clienti. Non è l’eroico "let’s roll" del gruppo di passeggeri del volo 93, che la mattina dell’attacco alle Torri di New York si ribellarono al commando che aveva sequestrato il loro aereo e li fermarono, precipitando insieme con i terroristi. Ma è il segno di una reazione, di qualcosa che è scattato nella testa di chi rischiava. Il segno che anche il coraggio, oltre alla paura, è un sentimento naturale dell’uomo quando è costretto a difendersi, e che anche il coraggio deve far parte del nostro stile di vita. "Run, hide, and tell", raccomanda Scotland Yard a chi si dovesse trovare in mezzo a un attacco come quello dell’altra notte a London Bridge. Giusto: la nostra civiltà ha delegato allo Stato il monopolio della violenza, e dallo Stato e dai suoi rappresentanti noi ci aspettiamo protezione e sicurezza. Ma non si può sempre fuggire, nascondersi e chiedere aiuto. Né metaforicamente, nella guerra alle centrali del terrore in Medio Oriente dalla quale non possiamo "ritirarci", né concretamente quando ti aggrediscono a casa tua. Mantenere calma e sangue freddo, usarli per difendersi al meglio, sapere che tra i modi migliori per farlo c’è anche quello di mettere chi ci attacca in condizione di non nuocere, essere consapevoli che insieme siamo una moltitudine in grado di mettere in fuga un assassino, ma in fuga siamo una folla sbandata, un’onda che si abbatte su se stessa; sono tutti sentimenti che forse si fanno strada tra i cittadini delle metropoli più esposte al rischio, e che comunque fanno parte delle nostre opzioni ogni volta che ci chiediamo: ma se ci fossi stato io, lì in mezzo, che avrei potuto fare? Abbiamo diritto a difendere il nostro stile di vita, e lo faremo, non diremo mai a nostro figlio non andare al concerto perché è pericoloso. Ma forse potremmo imparare anche a dirgli, come fa chi vive da anni a Tel Aviv, se c’è un attentato non pensare che sei già morto, pensa che puoi difenderti, che puoi fare cose giuste e cose sbagliate. Nelle prime immagini di questo ennesimo orrore, abbiamo visto la foto di un ragazzo inglese che scappava con un boccale di birra in mano. L’avrà fatto certamente per non rinunciare al nostro stile di vita (la birra ne fa parte integrante a Londra). Ma anche, ci piace pensare, per avere a portata di mano qualcosa con cui difendersi, "just in case". Migranti. I soldi buttati dell’accoglienza: migliaia di coop improvvisate spremono lo Stato di Andrea Malaguti La Stampa, 5 giugno 2017 In Sardegna chi ha fallito col turismo si è ripreso con gli immigrati. Lo Stato investe per l’accoglienza 4,5 miliardi l’anno. Per un richiedente asilo adulto vengono erogati 35 euro al giorno. Per un minorenne 45. Complessivamente nelle strutture temporanee di accoglienza sono ospitati attualmente 142.981 migranti (dati aggiornati al 15 maggio). La Lancia Delta si ferma sullo sterrato davanti al grosso cubo di cemento e fa scendere la ragazza nera. L’autista ingrana la prima sollevando un polverone che si deposita sul vestito della giovane nigeriana. Ha un volto appesantito e magro. Le fa sembrare gli occhi ancora più grandi. Sono venuti a prenderla alle dieci del mattino, l’hanno portata a battere e adesso, sei ore dopo, la riconsegnano a domicilio. "Senti, scusa…". La ragazza gira impercettibilmente la testa e abbassa gli occhi, perché la paura scaccia ogni emozione ma non la vergogna. Supera il cancello e si confonde fra uomini e donne ospiti di quella che era una discoteca e ora è un Cas: centro straordinario di accoglienza. Uno dei 120 sparsi per la Sardegna e sbucati come funghi negli ultimi due anni. Un mediatore culturale si avvicina al gruppo di persone guidate da una senatrice 5 Stelle arrivata per un’ispezione. Dice: "Vi stavamo aspettando". Ha intenzione di mostrare il meglio del servizio per i richiedenti asilo. Ma quel meglio non c’è. Centodiciannove persone. Venti minorenni. Molte donne. Quattro aspettano un bambino. Gli altri sono maschi adulti che ciondolano. La legge dice che donne, minori e uomini devono stare separati. Il mediatore senegalese scuote le spalle. "Siamo in emergenza, no?". Lo sanno bene le prefetture, costrette a reperire alloggi in fretta e furia. Poche strutture pubbliche e molte cavallette private confuse fra decine di cooperative sane. Servirebbero controlli. Ma ci vuole tempo. E soprattutto personale. Che non c’è. Il cubo di cemento ha due piani, camere arrangiate da dieci, dodici posti, letti a castello, lenzuola sottili che sembrano carta vetrata, bagni lasciati andare - "questi non sanno cos’è la pulizia" - uno stanzone dove sono raggruppati gli under 18. E, in fondo a quella che doveva essere la pista da ballo, oggi perfettamente pulita, una tv. "Qui facciamo lezioni d’italiano", dice fiero il mediatore. Quando? "Due volte a settimana". Partecipano tutti? "Mica li possiamo obbligare". Uno dei minorenni si avvicina nervoso. Viene dal Gambia, usa un inglese basico ma chiaro. "Qui divento pazzo". Si picchia la testa con l’indice. "Sono arrivato sette mesi fa e non so una parola d’italiano. Non mi mandano a scuola. Il mio tutor non risponde neanche al telefono". È aggressivo. Sa di essere fastidioso. Ma l’ansia ha comunque la meglio. La lamentela diventa corale. I minorenni arrivano tutti e venti, non ce la fanno più. "Vogliamo un futuro. Se no era meglio morire in mare". Il mediatore prova ad allontanarsi. Perché non li portate a scuola, non è obbligatorio? "Mica dipende da noi". È la sua risposta fissa. Lo sapete che cosa fanno le ragazze nigeriane? "I maggiorenni sono liberi di entrare e uscire come credono. Non dipende da noi". Che cosa dipende da voi? "Il cibo, i vestiti, un medico due volte a settimana. I corsi di lingua. Ma tutto è complicato". Poco complicato è contare i soldi. Un richiedente asilo adulto vale 35 euro al giorno. Un minorenne 45. Per l’ex discoteca fa poco più di 130 mila euro al mese. Un milione e mezzo l’anno. Tutto regolare. "Siamo qui per il loro bene". In un ristorante poco lontano, di fronte alla parlamentare 5 Stelle e a un piatto di pesce fresco, il commercialista che gestisce il cubo di cemento parla di sé e della nuova impresa come fosse Madre Teresa di Calcutta. "Ogni mese spendo 30 mila euro per il cibo e 40 mila per le 24 persone che ho assunto. Più 7.500 euro di affitto e qualche migliaio di euro per le bollette". Facendo finta che abbia uscite impreviste per altri diecimila euro, ne mancano ancora quarantamila per arrivare all’assegno che la collettività stacca per l’opera benemerita. Ruba? No. Ma il sistema fa schifo. Più ammassi immigrati, più incassi. E destreggiarsi in mezzo agli obblighi imprecisi dei bandi pubblici è un gioco. Risparmi su un insegnante, su una nutella, compri più frutta che pasta, prendi stock di lenzuola usate e i margini di guadagno esplodono. "Sa che penso quando vedo i ragazzi tristi?", dice il commercialista. Che avrebbero bisogno di scuola, formazione, bagni e letti civili? "Che dovrei prendere un intrattenitore per divertirli un po’". Ordina il dolce. È un uomo felice. Nella discoteca dormitorio la ragazza nigeriana si stende sul letto. Tiene il capo reclinato. Ti va di parlare? Si gira dall’altra parte con l’atteggiamento passivo di chi ha già predigerito ogni cosa e si aspetta solo di continuare il naufragio. Comuni in fuga - Lo Stato investe per l’accoglienza 4,5 miliardi l’anno. Difficile dire che siano soldi spesi razionalmente. Al ministero dell’Interno lo sanno. Un nuovo decreto prevede una task force per la verifica delle strutture di accoglienza. "Sono stati programmati 2500 controlli e l’autorità anti-corruzione spinge per una white list nella quale inserire cooperative al di sopra di ogni sospetto", dice Elena Carnevali, parlamentare Pd della Commissione Affari sociali. I pilastri del sistema sono due: lo Sprar (servizio di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) gestito dai Comuni, e, appunto, i Cas, affidati a privati scelti dalle prefetture attraverso bandi pubblici o chiamata diretta. L’adesione al progetto Spar è volontaria. Su ottomila Comuni, cinquemila e trecento hanno detto no grazie. "Aprire ai migranti non rende popolari. E in Italia si va al voto ogni anno", dice Carnevali. "Basterebbe accogliere la proposta di distribuire tre immigrati ogni mille abitanti per ridurre considerevolmente il problema. Più le strutture sono grandi, più sono grandi i problemi", spiega monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes e neo arcivescovo di Ferrara. La solidarietà che l’Italia chiede all’Europa dovrebbe pretenderla dai sindaci. In Svezia hanno risolto con una legge: non vuoi la tua quota di immigrati? La prendi lo stesso. Da noi no. Ma se gli immigrati non arrivano attraverso lo Sprar, lo fanno attraverso i Cas. Ogni due strutture pubbliche ce ne sono dieci private. "Cercheremo di ribaltare il rapporto", dice Carnevali. In Sardegna i Cas sono aumentati del 400%. Una bella inchiesta della Nuova Sardegna li ha messi in fila: il centro vacanze Baja Sunaiola, il centro congressi Antas di Fluminimaggiore, l’hotel ristorante Toluca, l’hotel Summertime. Strutture turistiche che non ce la facevano più e hanno rialzato la testa col business degli immigrati. Si potrebbe dire che parte di loro paga debiti pregressi con soldi pubblici. Va così ovunque. Che ne sanno di mediazione culturale o di formazione? Niente. Ma per qualche anno sapranno come arrivare a fine mese. Il laboratorio dei fantasmi - In questo quadro sballato, buoni e cattivi rischiano di finire nelle stesse sabbie mobili del sospetto. Giuseppe Guerini, galantuomo che guida Confcooperative, è costretto a fare i conti con una preoccupazione e con un’amarezza. "La preoccupazione è che il sistema di accoglienza si sta trasformando in una fabbrica di clandestini. L’amarezza è di essere considerati affaristi. Chi si comporta correttamente, come i nostri soci, non ha grandi margini di guadagno. Però le cooperative che fanno riferimento a noi e a Lega Coop sono novemila, mentre nella banca dati del ministero ne sono iscritte ventimila. Molte sono nate di recente attorno ai rifugiati sulla base di autocertificazioni. Per aprire una cooperativa bastano tre persone davanti a un notaio. Prima che arrivino i controlli passano anni". Ma perché Guerini parla di fabbrica di clandestini? Per capirlo vale la pena andare a Bergamo, dove il meccanismo dell’accoglienza, che ruota attorno alla Caritas e alla cooperativa Ruah, è tra i più trasparenti ed efficaci d’Italia. Grosse strutture da 300 posti come il centro Gleno, o da 60 come Casa Amadei, organizzati come convitti svizzeri, si alternano a 150 appartamenti affittati nei condomini. Bilanci e stipendi certificati (il presidente della Ruah guadagna 1600 euro al mese e si è comprato una Golf dopo 36 anni di lavoro) e uno schema ricettivo chiaro. "Prima cosa una scuola di italiano che dura per tutta la permanenza. Poi il coinvolgimento nel volontariato. Quindi l’organizzazione di corsi di formazione e infine tirocini e borse lavoro". La parola più usata da don Claudio Visconti, direttore della Caritas diocesana, e Bruno Goisis, presidente della Ruah, è progetto. Mettono la persona al centro. Investono. La formano. Meccanici di biciclette, cuochi, artigiani navali. E poi? "Poi arriva il problema". Perché otto richiedenti asilo su dieci sono migranti economici e non ottengono il permesso di soggiorno. Restano al centro Gleno o a Casa Amadei per due anni e dopo finiscono in mezzo alla strada con il foglio di via. Lo Stato li caccia. Ma non li accompagna alla porta. E gli immigrati diventano fantasmi. Eccola la fabbrica dei clandestini. "I soldi che spendiamo nella formazione vanno sprecati. Le relazioni vanno sprecate. E allora mi domando, soprattutto col blocco del decreto flussi, perché non introduciamo un sistema premiale che consenta di restare a chi si è formato e dimostra voglia di lavorare". Perché la politica aiuta chi scappa dalla guerra. Ma considera un criminale chi scappa dalla povertà. "Eppure i richiedenti asilo sono una parte minimale dei migranti. Qui ci sono un milione e trecentomila abitanti, centotrentamila famiglie straniere residenti e 1500 richiedenti asilo. Possono essere un problema?". Che fine faranno questi 1500 ragazzi, don? "Andranno a Roma a fare gli ambulanti. A Napoli a lavorare nei campi. Un gruppo, pakistani e cingalesi, si fermerà a Foggia a mungere le mucche in cambio di vitto, alloggio e dieci euro al giorno". Lasciano una terra dove un po’ di lavoro regolare ci sarebbe per spostarsi a Sud. Dove il lavoro è nero, sottopagato e non servono documenti. Ultima fotografia di un’Italia spaccata a metà. Migranti. I profughi dell’Uganda: "sparavano anche sui bambini" di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 5 giugno 2017 Ogni anno 1 milione di migranti rischia la vita per scappare dal Sud Sudan. In fuga da guerra civile e fame, molti disperati vengono uccisi nel tragitto. La casa su un camion. Una famiglia di rifugiati arrivata alla frontiera che divide il Sud Sudan dall’Uganda e prima della registrazione nei campi profughi porta con sé tutto quel che è riuscita a caricare sul camion: sedie, biciclette, vestiti. La quiete apparente sulla strada sterrata che collega il villaggio sud-sudanese di Isohe a Tsertenya, frontiera con l’Uganda, è interrotta dalle grida di donne e bambini. Dagli arbusti secchi della savana sbucano sagome nere scheletriche. In lontananza, si materializza un camioncino. Inizia una corsa confusa e disperata nella canicola poco sopra l’Equatore. Non c’è posto per tutti. Chi riuscirà a salire, dopo giorni di fuga dai villaggi sud-sudanesi distrutti dalla guerra tra ribelli e forze governative, sarà ormai a pochi chilometri dalla salvezza: l’Uganda. Chi rimarrà a terra, dovrà tornare a nascondersi, mangiare piante selvatiche e aspettare il prossimo turno. Un business redditizio gestito dai pochi uomini della regione non coinvolti nel conflitto civile che sta lacerando il Sud Sudan con oltre 50 mila morti già accertati. Ogni giorno circa 3 mila persone scappano da guerra e fame verso i campi di rifugiati del Nord dell’Uganda. Una crisi umanitaria infinita. Secondo l’Unhcr, il numero di profughi sud-sudanesi ha superato il milione solo in Uganda che, con una popolazione di 39 milioni di persone, si è trasformato nello Stato con più rifugiati in Africa e tra i primi tre al mondo. Dalla frontiera di Tsertenya-Palabek quasi tutte le mattine ne passano un centinaio. Le autorità lo sanno e predispongono il primo cordone per accoglierli ed iniziare le pratiche di registrazione. Con le poche forze rimaste scendono a piedi nudi dal camioncino. Alcuni portano sedie in plastica, le donne taniche gialle per l’acqua, gli anziani delle galline, c’è chi ha persino una bicicletta. Nessuno ha una valigia. I pochi averi sono avvolti in lenzuola bucate e scolorite. Non sono viaggiatori, bensì migranti, costretti a lasciare capanne di terra e fango da cui mai avrebbero voluto separarsi. Li attendono i cooperanti di un’agenzia umanitaria incaricata da Unhcr alla registrazione e alla distribuzione di generi di prima necessità prima di essere trasportati con degli enormi pullman nei campi profughi ugandesi. Un’immagine che si ripete nelle continue crisi umanitarie che attanagliano questa regione dell’Africa. Nome e cognome, le impronte digitali prese con un inchiostro blu. Alcuni non sanno l’età, molti sono bambini non accompagnati: i genitori sono stati uccisi dai miliziani nei villaggi. Ricevono una saponetta, tre confezioni di biscotti energetici. Le donne un pacco di assorbenti. Grace, una madre di 32 anni, senza marito e con sei figli al seguito, apre con i denti l’involucro di biscotti. Il più piccolo dei suoi figli ha la pancia vuota, non mangia da giorni e reclama. "La mia famiglia è stata decimata dai ribelli - racconta la donna, se fossimo rimasti, i prossimi saremmo stati noi. La notte è impossibile dormire per il rumore degli spari, la mattina quando ti svegli, a terra trovi solo cadaveri. Negli ultimi mesi abbiamo mangiato solo erba, non c’è cibo, siamo stremati. Speriamo in Uganda di poter stare al sicuro e che i miei figli possano mangiare ed andare a scuola". Storie di disperazione con il comune denominatore della guerra e della fame condivise sui pullman che li porta a Palabek, distretto di Lamwo, Nord dell’Uganda. Un campo appena nato, che può contenere fino a 50 mila persone, costruito dall’Unhcr per sopperire al flusso continuo di rifugiati. Le strutture di Bidi Bidi e Palorinya sono al collasso: oltre 450 mila persone in totale. Nuove città-limbo abitate da anime in transito. A pochi chilometri da Palabek si inizia ad intravedere un’immensa distesa bianca, che contrasta con la terra rossa e la vegetazione verde rigogliosa. Sono le tende che ospitano i rifugiati. Alcuni dei profughi, soprattutto bambini, vengono subito trasferiti nell’ospedale mobile: vaccinati e intubati quelli malnutriti. Altri si mettono in fila per ricevere il primo pasto. A tutti viene consegnata una carta d’identità che gli permetterà di muoversi in Uganda. La prima notte la passano in tenda, uomini separati da donne e bambini. In un’altra anziani e disabili. Il giorno dopo ad ognuno viene assegnato un fazzoletto di terra da 30x30 metri e dei semi per coltivare. Lì sorgerà la loro nuova casa, una piccola oasi immersa in un deserto di dolore. "Stavo andando con mio marito a cacciare topi nella savana, poi all’improvviso a Pajok sono arrivati i militari dell’esercito e si è scatenato l’inferno - ricorda Ayaa, una madre con 4 figli appena arrivata a Palabek - mio marito è stato arrestato, io sono riuscita a nascondermi con i miei figli. Ho aspettato ore prima che i militari se ne andassero, quando sono uscita a terra c’erano decine di cadaveri. Ho gli incubi tutte le notti". Accanto a lei c’è Ocan, prima di fuggire da Pajok faceva il maestro di scuola. "I bambini mi hanno avvisato che stavano entrando i militari, li ho fatti uscire di corsa, ma era troppo tardi, nella fuga molti sono stati colpiti dai proiettili - ricorda sconvolto, ho visto i corpi a terra degli amici dei miei figli. Non tornerò mai più in Sud Sudan". Gran Bretagna. Londra con il terrore e 7 morti nelle urne di Sabrina Provenzani Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2017 Dopo i 12 arresti, il premier chiede interventi duri: revisione di strategia e legislazione antiterrorismo. E verso l’estremismo tolleranza zero. Il primo ministro May chiede una nuova legislazione anti-terrorismo e tolleranza zero, mentre Trump attacca il sindaco della capitale inglese Khan di origini pachistane: "Ora basta politically correct". Al termine del briefing con ministri e vertici dell’intelligence e della polizia, Theresa May esce dalla sua residenza ufficiale a Downing Street e parla ad un Paese che ha subito tre attentati terroristici in tre mesi. Distingue fra Islam ed estremismo islamico, "ideologia malvagia" che del primo è una "perversione" e dichiara: "Non possiamo far finta che le cose possano continuare come ora". Chiede interventi duri su vari fronti: revisione della strategia e della legislazione antiterrorismo, tolleranza zero verso l’estremismo nelle moschee e online, e promuove la necessità di convincere i potenziali terroristi della "superiorità morale dei valori occidentali" sull’ideologia islamista. Argomento culturalmente scivoloso. "Quando è troppo è troppo" conclude. Uno slogan che ostenta sicurezza, ma tradisce debolezza, perché la May è premier da quasi un anno e perché prima, per altri sei, è stata ministro degli Interni, quindi responsabile anche dell’antiterrorismo. Se questo attentato segnerà davvero un giro di vite, viene da chiedersi perché non sia stato deciso prima. Intanto, è chiara la dinamica dell’attacco di sabato notte: otto minuti in tutto. Alle 22.08 la polizia riceve una chiamata da London Bridge, dove un furgone bianco, lanciato a circa 80 chilometri all’ora, ha investito alcuni pedoni. Polizia e ambulanze accorrono sul posto: centinaia di persone fuggono, testimoni riferiscono di aver visto feriti a terra. Il furgone procede per pochi metri fino a schiantarsi di fronte ad un pub vicino al mercato di Borough, a sud del Tamigi, zona fitta di locali e frequentatissima nel fine settimana. Ne escono tre uomini che, armati di coltelli, colpiscono alla cieca: poi si separano, entrano in alcuni ristoranti, accoltellano ancora. Gli avventori si nascondono sotto i tavoli, altri reagiscono lanciando oggetti o proteggendo i feriti. Intervengono agenti armati. Entro le 22.16 i terroristi vengono uccisi fuori dal Wheatsheaf pub. Indossava- no finti giubbotti esplosivi con l’intento di diffondere il panico. Non hanno avuto bisogno di bombe per uccidere 7 persone e ferirne 48, (fra cui 4 agenti) ricoverati in 5 ospedali della capitale. Di loro 21, conferma il servizio sanitario, sono in condizioni critiche. Uno è un passante ferito dai colpi degli agenti. L’area intorno a London Bridge e Southwark viene chiusa al traffico, ma l’invito della polizia è di evitare tutto il centro; 5 stazioni della metro vengono chiuse, i bus sospesi. Decine di migliaia di persone si allontanano a piedi. Altri restano bloccati nei locali per alcune ore. Il Met dirama l’avviso: Run, Hide, Tell. Scappa, nasconditi, racconta cosa hai visto. È un attentato vissuto in diretta, perché è costante l’afflusso di testimonianze, video e tweet in tempo reale. Molti descrivono la corsa del furgone, i feriti sul ponte, la brutalità dei terroristi che affondano 10, 15 colpi alla gola, al viso, all’addome, il sangue ovunque. Sempre ieri la polizia ha arrestato 12 persone "connesse all’attacco" a Barking, est di Londra, dove viveva almeno uno degli attentatori. È un quartiere molto popolare, dove le tensioni fra musulmani e il resto della popolazione sono frequenti: qui, non a caso, i nazionalisti dell’Ukip sperano di ottenere un seggio parlamentare. Il livello di allarme intanto resta "serio" ma non viene elevato a "critico" perché, chiarisce il Ministro degli Interni Amber Rudd, "pensiamo di aver fermato tutti i responsabili". Dopo quello di Westminster gli attacchi sventati sono stati cinque, aggiunge, ma "dobbiamo ottenere dai social media che facciano di più contro la radicalizzazione online". Per esempio, limitando i servizi che criptano le comunicazioni fra utenti, e proteggono così anche quelle fra terroristi. Solo per un giorno, ieri, tutti i partiti tranne l’Ukip hanno sospeso la campagna elettorale. Le elezioni politiche sono giovedì: l’ipotesi di rimandarle è stata esclusa dalla stessa May. Come ha detto il sindaco di Londra Sadiq Kahn, musulmano osservante e simbolo di un’integrazione riuscita: "Questi terroristi vogliono impedirci di goderci il nostro stile di vita e le nostre libertà. Non dobbiamo permetterlo. Non possiamo farci intimidire". Oggi è un altro giorno. Londra si stringe intorno alle vittime. E va avanti, come sempre. Medio Oriente. Arabia Saudita, Emirati ed Egitto rompono le relazioni con il Qatar di giordano stabile La Stampa, 5 giugno 2017 La grande alleanza araba contro il terrorismo, lanciata due settimane fa da Donald Trump a Riad, perde un pezzo importante. Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein hanno annunciato lo stop dei rapporti diplomatici col Qatar, accusato di "sostenere il terrorismo". Il Segretario di Stato americano Rex Tillerson, allarmato, ha chiesto agli alleati di "restare uniti". Le tensioni con l’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani sono cominciate subito dopo la visita del presidente americano. Sui media qatarini erano comparse dichiarazioni di fuoco contro la "linea anti-Iran" dettata da Riad e soprattutto contro la presa di posizione durissima nei confronti dei Fratelli musulmani di Hamas, l’organizzazione palestinese da sempre appoggiate e finanziata dai qatarini. Finto hackeraggio - Il governo aveva denunciato un "hackeraggio" dell’agenzia di stampa da parte di ignoti, che avrebbero manipolato le dichiarazioni dell’emiro, ma Arabia Saudita, Egitto ed Emirati non hanno creduto a questa versione e le tensioni sono cresciute fino alla rottura annunciata questa mattina. La "Nato araba" che dovrebbe nascere con la leadership di Riad quindi si è già spaccata in due, anche perché Kuwait e Oman, altri due Paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), sono su posizioni più prudenti e per ora non si sono allineati con i sauditi. Rapporti cordiali con l’Iran - Le ragioni della rottura sono però più profonde. Qatar, Kuwait e Oman conservano da sempre rapporti più cordiali con Teheran. Il Qatar condivide nel Golfo Persico il più grande giacimento di gas al mondo, la fonte della sua immensa ricchezza, e ha tutto da perdere in una guerra aperta con l’Iran. Le posizioni sono poi diverso sul piano ideologico. Il Qatar ha come religione di Stato lo stesso wahhabismo dei sauditi ma appoggia anche formazioni salafite "rivoluzionarie", come i Fratelli musulmani, che si sono sempre schierate contro la Casa dei Saud e vogliono abbatterla. Primavere arabe - Questo ha dato al piccolo emirato (2,5 milioni di abitanti su una superficie più piccola del Lazio) una grande influenza sul mondo arabo durante le "primavere", dove la forza trainante erano i Fratelli musulmani con l’appoggio del megafono mediatico di Al-Jazeera, la tv panaraba con sede a Doha. La prima rottura - Già nel 2014, dopo che Riad aveva appoggiato il colpo di mano del generale Al-Sisi contro il presidente islamista Mohammed Morsi, Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo avevano rotto per otto mesi le relazioni diplomatiche con il Qatar. La questione libica - L’ostilità interna ai Paesi del Golfo è diventata un "guerra per procura" in Libia, dove il Qatar non solo appoggia le milizie islamiche di Misurata, ma anche quelle fedeli all’ex premier islamista Khalifa Al-Ghwell e al Gran Muftì Sadiq al-Ghariani, soprannominato a Tripoli "il Muftì del Qatar". Emirati ed Egitto sostengono, anche direttamente con le loro aviazioni, il generale Khalifa Haftar. Il golpe del 1995 - Poi ci sono ragioni personali. L’ostilità dei Saud contro gli Al-Thani risale al colpo di Stato, anzi di palazzo, con cui il padre dell’attuale emiro, Hamad bin Khalifa al-Thani, prese il potere nel 1995. Già allora Riad chiese all’allora presidente egiziano Mubarak di intervenire con le sue truppe per detronizzare l’usurpatore, ma all’ultimo momento il raiss del Cairo si tirò indietro. I rapporti con Israele - Nel caos delle "primavere arabe" l’Arabia ha imposto poi nel 2013 che ad Hamad succedesse l’attuale emiro Tamim bin Hamad. Ma le tensioni sono rimaste, a causa di una visione strategica molto diversa. Doha è anche su posizioni più anti-israeliane rispetto a Riad, tanto che nelle sue "dichiarazioni hackerate" l’emiro ha difeso persino Hezbollah, il movimento sciita libanese arci-nemico dello Stato ebraico. Arabia Saudita ed Emirati hanno invece ormai buoni rapporti con Israele, a un passo dal riconoscimento e l’apertura di relazioni diplomatiche, come vorrebbe l’America per inserire gli israeliani nell’alleanza anti-terrorismo (e anti-Iran) a guida saudita. L’Arabia Saudita afferma che le truppe qatariane sarebbero state tirate dalla guerra in corso in Yemen. Il Bahrein accusa il Qatar per "l’incitamento dei media, il sostegno alle attività terroristiche armate e i finanziamenti legati a gruppi iraniani per sabotare e diffondere il caos in Bahrein". Bahrain, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il ritiro del loro personale diplomatico dal Qatar, nazione ricca di gas e che ospiterà i Mondiali di calcio del 2022. Le quattro nazioni arabe hanno annunciato anche di voler tagliare il traffico aereo e marittimo verso il paese peninsulare. Brasile. Le carceri in cui i detenuti vogliono entrare invece di scappare di Silvia Gandini bejournal.it, 5 giugno 2017 Se si pensa alle carceri, gli elementi che nel nostro immaginario non possono mancare sono guardie armate che ne custodiscono le chiavi e detenuti privi di ogni libertà di scelta ed autogestione. In Brasile, stato che vanta la più alta percentuale di rivolte carcerarie (l’ultima delle quali, molto sanguinosa, nel gennaio di quest’anno), esistono prigioni nelle quali quegli elementi base sono completamente sovvertiti. Cinquanta strutture del paese, infatti, non hanno agenti penitenziari, i detenuti (che sono all’incirca 3500) possiedono le chiavi delle celle e, a differenza degli altri luoghi di detenzione, i prigionieri richiedono di essere trasferiti qui con grande insistenza. Le strutture sono state ideate dall’Apac (Associação de Proteção aos Condenados) e vengono coordinate dalla Fbac (Fraternitade brasileira de assistência aos condenados). Il primo passo per poter accedere ad una prigione Apac, come spiegato dal direttore generale di Fbac, Valdeci Antonio Ferreira, è che il detenuto faccia richiesta volontaria di trasferimento. Non ci sono vincoli riguardanti il tipo di reato e di pena da scontare, chiunque può essere ammesso. Tassello importante, perché fondamentale in questo tipo di percorso riabilitativo dell’individuo, è che la sua famiglia abiti nella città nella quale sorge la struttura Apac in cui vorrebbe essere trasferito. "Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori". È questa la massima che campeggia sulle pareti bianche e azzurre delle prigioni e che riassume perfettamente il concetto alla base di questo nuovo metodo. Gli uomini devono essere trattati in quanto tali e non come bestie, anche all’interno delle carceri, anche se hanno commesso gravi delitti. Per questo esistono spazi aperti, un appartamento nel quale i detenuti possono ricevere le loro famiglie o visite coniugali ed una serie di attività interamente organizzate dai volontari. Questo sistema di riabilitazione è progressivo e sembra ottenere ottimi risultati: se le recidive nelle carceri in Brasile è dell’80%, nelle Apac è solo del 15%. Anche all’interno di queste strutture vigono diversi regimi: cancelli e sbarre vengono serrati a chiave solo nel regime chiuso, nel semi-aperto esistono meno divisioni strutturali e il recuperando, così vengono chiamati i carcerati in Apac, viene preparato al contatto con l’esterno, mentre nel regime aperto il recuperando sconta la pena solo di notte, mentre di giorno lavora. Come già anticipato non esistono guardie carcerarie, ma le chiavi vengono affidate ai recuperandi che hanno già compiuto il percorso riabilitativo, in modo da responsabilizzarli. Accanto a questo, grande importanza assumono i coinvolgimento delle famiglie e della società civile ed il reinserimento lavorativo. Tutto è volto a ridare al detenuto fiducia nel futuro, restituendogli dignità. Forse a molti può apparire come un metodo troppo "soft", inutile, ma i risultati sono effettivamente strabilianti, se si pensa che comunque il fine ultimo di ogni carcere dovrebbe essere quello della riabilitazione dell’individuo. Ed è proprio con i risultati, ha spiegato Ferreira, che "siamo riusciti a rompere le barriere del pregiudizio sociale, dell’idea che il carcerato deve soffrire, deve morire, che l’unico malvivente buono è il malvivente morto. Ora è la popolazione stessa a volere l’apertura di nuove Apac". Il sistema è stato addirittura ripreso in 23 paesi nel mondo e anche l’Italia sta sperimentando qualcosa di simile a Rimini, con il progetto Cec (Comunità educante con i carcerati). Riuscirà ad attecchire anche da noi?