"Nessuno si salva da solo". I detenuti, i clochard… e il Pd di Roberto Magurano Corriere dell’Alto Adige, 4 giugno 2017 "Nessuno si salva da solo" era il titolo della giornata di studi organizzata qualche giorno fa a Padova nel carcere "Due Palazzi". Nella palestra c’erano circa cinquecento persone tra detenuti, relatori, giornalisti, avvocati, agenti, operatori sociali e studenti per affrontare insieme il tema della detenzione dalla prospettiva di chi si trova a vivere (o meglio, a sopravvivere) dietro alle sbarre. Gli ospiti più illustri, tra i quali Gad Lerner e Edoardo Albinati, si sono alternati al microfono con chi aveva da raccontare storie che lasciavano sgomenti, fatte di ripetuti trasferimenti, di ergastoli senza benefici, di esistenze violente trascorse più dentro che fuori. Storie che, a volte, però cambiano corso grazie agli sforzi dell’amministrazione carceraria patavina e a quelli dei volontari dell’associazione "Ristretti Orizzonti", volti a dare un senso a chi fatica a mantenere accesa la speranza. Particolarmente toccante il racconto di un giovane finito al "Due Palazzi" dopo l’ennesimo trasferimento. "Sul mio fascicolo personale c’era scritto "irrecuperabile" - ha riferito - ma il direttore mi ha convocato e mi ha detto: macché irrecuperabile, dai, forza, vediamo di fare insieme qualcosa di buono". Ho pensato a quel detenuto leggendo la presa di posizione del circolo Pd di Gries contro i clochard che stazionano da anni in piazza Vittoria, così perentoria e "muscolare", come l’ha definita con efficacia il nostro Francesco Clementi. Se, giustamente, si riesce a dare una chance anche a un galeotto di lungo corso, forse a Bolzano potremmo riuscire ad aiutare otto e nove senzatetto. Alessandro Huber, capogruppo Pd in comune, ha parlato di "bivacco indecente", il che probabilmente è vero. Fa tuttavia impressione che il Pd usi gli stessi toni del centrodestra. I bivacchi, più o meno indecenti, erano infatti un cavallo di battaglia del candidato sindaco Mario Tagnin. Ora se ne accorge pure Huber, al quale arrivano puntuali i complimenti di Gabriele Giovannetti di "Alto Adige nel cuore". Il che non è proprio una medaglia al valore. Sfugge quale sarebbe la soluzione ideale per risolvere il problema dei senzatetto di piazza Vittoria, che sono un’altra cosa rispetto all’emergenza migranti. Foglio di via? Arresto? Rieducazione civica attraverso una Leopoldina su misura? Più che mostrare i muscoli e invocare l’intervento della polizia, il Pd potrebbe fare uno sforzo per aiutare chi si trova in difficoltà e che non merita certo tanto disprezzo. In altre parole: nessuno si salva da solo. Cavare sangue dalle rape? Missione impossibile di Franco Corleone L’Espresso, 4 giugno 2017 Il Parlamento quando arriva alla fine della legislatura esprime il peggio di sé, non il meglio. Le ragioni sono tante, ma si possono riassumere nella tendenza ad assecondare le pulsioni demagogiche, di pura propaganda, le spinte corporative ed elettoralistiche. Ricordo che per fare approvare la legge Finocchiaro sulle detenute madri dovetti mettere in atto un digiuno ed ero sottosegretario alla Giustizia. Ora che neppure viene rispettato il limite della costituzionalità delle proposte che vengono presentate occorrerebbe direttamente il suicidio per richiamare al rispetto delle regole istituzionali fondamentali. Qualche esempio? I decreti Minniti su immigrazione e sicurezza, la proposta di legge sulla legittima difesa, la norma che fa risorgere gli Opg appena chiusi, la legge sulla tortura che va contro le convenzioni internazionali, la proposta incostituzionale sull’eliminazione retroattiva dei vitalizi. Nonostante questa teoria di fatti e misfatti persone di buona volontà, di fronte alla possibilità di uno scioglimento anticipato delle Camere propongono un patto per approvare alcune leggi significative. Le leggi da non tradire sarebbero queste: Codice antimafia, biotestamento, ius soli, processo penale, tortura, cannabis. Condivido l’esigenza che alcune norme su cui si è lavorato a lungo non vengano rinviate all’infinito. In particolare penso che la legalizzazione della canapa sia in ritardo di decenni e mi piace ricordare che presentai una proposta su questo tema già nel1996 alla Camera dei deputati sottoscritta da più di cento autorevoli parlamentari. Purtroppo temo che non vi siano né il tempo né le condizioni per raggiungere questo obiettivo. Aggiungo che se non fosse stato per la decisione della Corte Costituzionale sarebbe ancora in vigore la Fini-Giovanardi. Occorrerebbe un patto per prevedere la conclusione dell’iter legislativo per le proposte già votate da un ramo del Parlamento. Ma la verifica del rispetto delle Istituzioni si potrebbe misurare sulla elezione del giudice mancante da molti mesi alla Consulta. Il Presidente Grasso e la Presidente Boldrini dovrebbero convocare il Parlamento ogni giorno non mettendo altri provvedimenti all’ordine del giorno. Un conclave laico per la democrazia e per lo stato di diritto. "Serve un nuovo progetto di società, che guardi ai valori della Carta" di Sandra Bonsanti, Tomaso Montanari, Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 4 giugno 2017 L’appello di Giustizia e Libertà. "La nostra cultura politica ci obbliga a dire che la più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia". Nel momento in cui il nostro Paese da una classe politica incapace di guardare al di là dei propri interessi e dei propri timori è portato con cinismo a un appuntamento elettorale ricco di incognite e povero di speranze, Libertà e Giustizia, nella continuità del suo impegno a sostegno dei valori costituzionali che il suo stesso nome sintetizza, si rivolge ai cittadini con le considerazioni che seguono e con la proposta che le conclude. L’alta partecipazione al referendum costituzionale del 4 dicembre, confrontata con il crescente astensionismo alle elezioni politiche, ha dimostrato che esistono milioni di elettori che attendono proposte sulle quali sono disposti a mobilitarsi quando non si tratta semplicemente di essere convocati o, meglio, utilizzati in operazioni di potere da cui sono lontani, che non li interessano più e che spesso nemmeno comprendono. Essi sono una risorsa della democrazia e una forza potenziale di rinnovamento della politica. Solo cerchie chiuse di potere possono non curarsi del progressivo restringersi della partecipazione politica e perfino rallegrarsene, fino a quando non verrà per loro il momento di dover constatare su quanto fragili basi sociali poggia il sistema di potere che hanno costruito. Per questo, Libertà e Giustizia ritiene necessaria una proposta che possa motivare politicamente i cittadini, dando loro una prospettiva per la quale valga la pena di impegnarsi politicamente, a incominciare dal prossimo appuntamento elettorale. A fronte del tanto sbandierato rinnovamento, il Partito Democratico si logora in tattiche di sopravvivenza, incurante della sua tradizione riformatrice e della sua storia, una storia che fu a favore della giustizia sociale e contro il privilegio. La riproposizione dell’alleanza con il partito Forza Italia, presentata come necessaria nel prevedibile quadro politico post-elettorale, non fa che confermare il forse definitivo mutamento di natura in atto in quel Partito. Si prospetta il ritorno a un passato tutt’altro che glorioso, segnato da interessi inconfessabili, da scandali che non finiscono di indignare e da conseguenti manovre per impedirne la conoscenza e la discussione nel dibattito pubblico. Per questo Libertà e Giustizia invita all’impegno pubblico coloro che avvertono l’urgenza di una politica per l’uguaglianza nella società e per la trasparenza nella politica. I maggiori partiti si presentano ai cittadini non con i tratti della partecipazione dei cittadini, ma con quelli della personalizzazione nella figura del capo, cui fanno seguito corteggi di seguaci che dal capo sperano d’ottenere gratificazioni. Piccole oligarchie di partito formano tra loro un’oligarchia grande e autoreferenziale. Per questo Libertà e Giustizia ritiene essere il momento di tentare di scoperchiare un sistema di potere chiuso che, per coloro che non vi sono dentro, è divenuto irrespirabile. La grottesca e vergognosa vicenda che ha portato alla legge elettorale in discussione in questi giorni è la dimostrazione d’una classe politica che si sente assediata e, invece di aprirsi alla democrazia, se ne difende rinchiudendosi sempre più su se stessa. La legge elettorale dovrebbe essere fatta per i cittadini e, invece, sarà fatta per gli interessi di partito, secondo i sondaggi. S’era detto no al Parlamento dei nominati e saranno tutti nominati. S’era detto no alle liste bloccate e per metà saranno bloccate e per l’altra metà non ci sarà bisogno di bloccarle perché non ci saranno proprio. S’era detto, no alle candidature plurime e sono rimaste. S’era detto no alle nomenclature di partito garantite e inamovibili e ce le troveremo tali e quali, anzi più forti che mai. Si può discutere sull’opportunità di ritornare alla proporzionale, ma questo sistema è di per sé uno scandalo. Lo si può subire in silenzio, magari decidendo di non farsene complici astenendosi dal voto. Oppure si può decidere di non stare al gioco. Libertà e Giustizia sosterrà coloro che prenderanno iniziative per cambiarlo. A questo quadro piuttosto desolante è prevedibile che, se rimarrà invariato, la risposta sarà ancora più astensionismo, proprio quando, il 4 dicembre, abbiamo constatato il desiderio di partecipazione soprattutto della parte più debole del nostro Paese: poveri e giovani che chiedono di contare ai quali si risponde, invece, rafforzando le oligarchie. L’associazione Libertà e Giustizia, sollecitata in questo senso da molti dei suoi aderenti, ritiene doveroso tentare una proposta che colmi il vuoto di rappresentanza e che offra agli elettori una identità politica chiara nel senso della giustizia sociale, dell’istruzione e della salute pubbliche, della lotta alla corruzione, della difesa dei beni comuni dal loro sfruttamento privatistico, della partecipazione: in una parola, il patrimonio di valori che sono nella Costituzione ai quali si può guardare per un "futuro" che non sia chiacchiera e slogan, ma progetto di società concreta. La nostra Associazione non ha mai preso parte direttamente alle contese elettorali né si è mai candidata a qualche cosa. Conformemente alla sua natura culturale, non lo farà nemmeno ora. Ma, la sua è "cultura politica" e ciò la obbliga a dire che la più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno, da risentimenti personali, è necessaria, come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia. In questo senso e a queste condizioni, essa è pronta a partecipare al dibattito e alle iniziative che si renderanno necessarie in vista delle prossime elezioni. Illegittima perquisizione corporale effettuata facendo spogliare completamente il detenuto di Domenico Zampelli Il Mattino, 4 giugno 2017 Lo ha stabilito - e ribadito - la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal boss dei casalesi Vincenzo Zagaria, per il quale peraltro una diversa sezione della stessa Suprema Corte ha contemporaneamente confermato il regime del 41bis. Gli ermellini hanno quindi ribadito la necessità del rispetto per l’intimità personale dei detenuti, pur in regime di carcere duro. Il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo prima ed il Tribunale di sorveglianza di Roma dopo avevano respinto la richiesta di Zagaria tesa ad inibire la prassi adottata dall’amministrazione della Casa di circondariale di Viterbo in forza della quale lo stesso, detenuto sottoposto al regime previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario veniva sottoposto a perquisizione mediante denudamento prima e dopo lo svolgimento del colloquio con il difensore "corretto il provvedimento assunto in considerazione della pericolosità del soggetto e della inidoneità dei dispositivi tecnici a individuare oggetti non metallici o comunque non individuabili con la perquisizione ordinaria". Una decisione non condivisa dai giudici della prima sezione, che si è riportata al costante orientamento di legittimità secondo il quale "la misura del denudamento del detenuto per lo svolgimento della perquisizione personale prima del colloquio dello stesso con il difensore è legittimamente imposta dall’amministrazione penitenziaria soltanto ove sussistano specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna, in riferimento a particolari situazioni di fatto che non consentano l’accertamento con strumenti di controllo alternativi, oppure in riferimento alla pericolosità dimostrata in concreto dal detenuto, che renda la misura ragionevolmente necessaria e proporzionata". "Nel caso in esame - prosegue la Suprema Corte - il provvedimento impugnato è caratterizzato dalla mera apparenza della motivazione". Nel contempo la settima sezione ha respinto il ricorso proposto da Zagaria contro la proroga del regime di carcere duro. "L’ordinanza impugnata - si legge nel provvedimento - ha correttamente valutato gli elementi risultanti agli atti, con motivazione congrua, adeguata e priva di erronea applicazione della legge penale e processuale, soffermandosi in particolare sulle informazioni trasmesse dagli organi investigativi debitamente compulsati, dall’esame dei precedenti penali del detenuto e dall’esame della situazione criminale del territorio di riferimento, da cui emergeva la sua capacità di mantenere inalterati i collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza". Lecce: detenuto 45enne trovato senza vita, a breve l’autopsia sulla salma lecceprima.it, 4 giugno 2017 L’uomo originario del Tarantino e ospite a Borgo San Nicola è deceduto nelle ultime ore. A giorni l’esame autoptico. Si indaga sulla morte di un 45enne di origini tarantine, deceduto nel carcere di Lecce nelle ultime ore. L’uomo è stato trovato senza vita: sarebbe infatti deceduto a causa di complicazioni mediche. Una circostanza sulla quale gli inquirenti intendono vederci chiaro. Stando alla prima ispezione cadaverica eseguita dal medico legale, il 45enne sarebbe morto per un arresto cardiocircolatorio. La sua salma, intanto, è stata trasferita presso la camera mortuaria dell’ospedale "Vito Fazzi" di Lecce, in attesa di nuove disposizioni da parte della Procura della Repubblica. Per il caso, l’autorità giudiziaria seguirà una procedura ordinaria, disponendo nei prossimi giorni l’autopsia sul corpo dell’uomo. Da quanto si apprende dagli ambienti del carcere di Borgo San Nicola, il 45enne era tenuto regolarmente sotto osservazione da parte del personale medico, per via di una cardiopatia. Biella: la Garante dei detenuti "più possibilità di sviluppare comunità riparativa" newsbiella.it, 4 giugno 2017 Abbiamo intervistato Sonia Caronni, che si occupa da circa un anno dei diritti delle persone private della libertà personale a Biella. Nonostante le criticità, il carcere è in continua trasformazione grazie a scuola e volontariato: "Lavoro per sgretolare gli stereotipi". Da poco più di un anno è garante dei diritti delle persone private della libertà personale a Biella. Originaria di Milano, laureata in giurisprudenza, dal 1998 lavora su progetti legati alla detenzione e al reinserimento nella società di chi sta scontando una pena. Sonia Caronni ha recentemente tenuto un’audizione durante il consiglio comunale cittadino sulla situazione del carcere di via dei Tigli dove non mancano le criticità quotidiane. Il compito del garante, figura presente in molti stati europei (in alcuni da 50 anni) è di dare voce alle persone fragili e che hanno bisogno di sostegno per far valere i loro diritti. Chi sconta una pena risulta colpevole per la giustizia, ma la vita non si ferma alla sentenza o al giudizio dell’opinione pubblica. Anche per questi motivi il ruolo di "difensore civico" riveste particolare importanza su temi delicati come il diritto alla salute, all’istruzione, alla formazione, al lavoro, a mantenere legami parentali e alla genitorialità. Sonia Caronni si occupa di tutti questi aspetti e di sensibilizzare la comunità attraverso la creazione di veri e propri ponti che uniscano enti locali, carcere e volontariato. I numeri sembrano gettare benzina sul fuoco: nel carcere di Biella, infatti, i detenuti hanno superato di due unità il limite di posti disponibili, con un’alta percentuale di migranti presenti (65%). Tutto ciò nonostante il nuovo padiglione inaugurato nel 2013 dove si effettua la sorveglianza dinamica. Il compito del garante è complicato: "Si tratta di una casa circondariale in trasformazione che nell’ultimo anno si è aperta molto ad attività sperimentali con scuola e volontariato - spiega Sonia Caronni a Newsbiella - ho trovato massima disponibilità da parte di tutti, direzione, polizia penitenziaria e amministrazione, per lavorare su progetti e richieste specifiche. Come l’utilizzo di attrezzature sportive, la creazione di spazi ludici culturali, con l’istituzione di una biblioteca nel vecchio padiglione, e di luoghi di incontro destinati a colloqui tra genitori e minori in ambienti dove non si colga soltanto la restrizione. Cercheremo di capire se esistono lavori di pubblica utilità su cui si possa intervenire mentre partirà sicuramente il progetto "murales" finanziato dal Centro Servizi Volontariato che vede coinvolte associazioni di volontariato e, ci tengo a sottolinearlo, Gli Amici del Vernato che mira a realizzare opere d’arte con un gruppo unico pilota composto da artisti esterni e allievi del liceo artistico. I ragazzi, così facendo, potranno sviluppare forme di alternanza scuola lavoro". Ci sono persone che provengono da altre realtà carcerarie del nord Italia e che vivono gli spostamenti con una certa sofferenza: "Ci sono migranti che non hanno nulla, compresi i contatti con il paese d’origine. Avere un minimo di colloqui è fonte di resistenza per poter continuare a vivere la detenzione altrimenti il rischio è di veder aumentare frustrazioni e solitudine che possono portare ad implosioni negative". Come è capitato ad un ragazzo di 24 anni, straniero, in istituto da cinque mesi: "Mi avevano segnalato suoi atti di autolesionismo - afferma Caronni - lo spostamento nel nuovo padiglione ha comportato diversi cambiamenti che non riusciva ad accettare. Grazie all’iscrizione ad un corso di alfabetizzazione e ad una rete di supporto a cui ha partecipato anche il Banco Alimentare, le sue condizioni sono migliorate". Restano alcune difficoltà: "In particolare per l’area sanitaria, un problema a livello nazionale - sottolinea - quando sono stata nominata si percepiva un fortissimo livello di abbandono mentre ora c’è più fiducia grazie alla prospettiva futura di un coordinatore regionale. Certo, l’Asl si deve impegnare di più. Poi l’area educativa trattamentale che deve mantenere una connessione attiva con il territorio. Sul fronte della sicurezza non ho riscontrato negli ultimi mesi fenomeni di violenza dopo che nei primi tre mesi del mio mandato (che scadrà nel 2020, ndr) vi erano state criticità e risse nelle zone comuni". La visione che si ha dell’istituto di pena è molto spesso negativa: "Bisogna proporre attività di sensibilizzazione continua partendo dalle scuole - sostiene la garante - sono stata invitata a spiegare il mio ruolo e il carcere alle elementari di Pollone. I bambini hanno già l’idea dei detenuti con la tuta arancione, la palla legata al piede e come autori di crimini inauditi. Ho iniziato a farli ragionare per sgretolare gli stereotipi, cercando di pensare ad una situazione più legata all’accoglienza che all’esclusione per dimostrare che anche le persone che hanno commesso reati possono uscire dopo aver scontato la loro pena in modo differente rispetto a quando sono entrati". Sonia Caronni è ottimista sul futuro della casa circondariale: "Biella, grazie alle sue dimensioni rispetto ad altre realtà, ha più possibilità di sviluppare una comunità riparativa. I biellesi non erano abituati a pensare al loro carcere, ora sto trovando terreno fertile per proporre un’idea di pensiero diversa". Lucca: candidata Sindaco Barabini "non possiamo più avere un carcere come S. Giorgio" Gazzetta di Lucca, 4 giugno 2017 La candidata Cinzia Barabini, della lista Lucca in Movimento per Remo Santini Sindaco, interviene sul tema del penitenziario di S. Giorgio. "Uno dei temi sicuramente più sottovalutati di questa campagna elettorale è certamente quello del carcere di via S. Giorgio a Lucca. Come fosse una liturgia laica, ne sentiamo parlare a Natale e a Pasqua quando i parlamentari lucchesi fanno una visita per riempire una pagina di giornale o poco più. Da anni si ripete questo teatrino : emozione all’uscita ma, poi, nessun intervento fino a Natale prossimo. Addirittura ora viene fuori la relazione del garante dei detenuti della Toscana Corleone che di fatto allontana la possibilità della sua nuova costruzione perché i fondi sono stati tolti dalla disponibilità di Lucca. L’ennesimo regalo della nostra amica regione Toscana e di chi l’amministra da sempre, per Lucca e i suoi cittadini. Infatti, nonostante la professionalità, umanità e sensibilità degli operatori delle forze dell’ordine e di chi manda avanti la struttura, il carcere di S.Giorgio non assicura certamente ai detenuti una condizione in linea con il trattamento che un paese che si ritiene evoluto dovrebbe riservare loro. Di contro, almeno fino a oggi, gli interventi effettuati sono serviti a tamponare qualche emergenza, senza risolvere alla radice il problema. Se non erro proprio Tambellini e il suo schieramento proposero diverse soluzioni, cinque anni fa, senza che poi abbiano nemmeno più pensato al carcere. Ora la decisione della Toscana di dirottare altrove i finanziamenti promessi più volte in campagna elettorale dalla sinistra dimostra quanto conti Lucca e quanto possano risultare veritiere le promesse di alcuni politici. Oggi siamo punto e a capo e non mi pare che ci siano spiragli per cambiare lo stato delle cose. Personalmente, e parlandone con Remo Santini mi sembra una posizione condivisa, si dovrebbe procedere con la individuazione di una zona alternativa per creare un nuovo penitenziario in una zona più periferica, anche se gli standard prevedono diversi ettari per la sua realizzazione. Infatti non è un caso che l’area vicina al carcere sia la mano sviluppata e la meno attraente della città. Si potrebbero ottenere diversi vantaggi : liberare una zona bella del centro cittadino, eliminare i disagi attuali e innalzare il livello di sicurezza di chi ci lavora e dei detenuti. Secondo il nostro metodo, questa scelta dovrebbe coinvolgere i cittadini, che dovrebbero aiutarci nella individuazione della zona dove collocare la nuova struttura carceraria e anche sulla destinazione migliore delle aree dentro la città che si libererebbero. Certo, alla luce della relazione del garante Corleone, sarà impresa difficile, anche se un sindaco a schiena dritta potrebbe farsi assegnare di nuovo, stavolta davvero, i soldi necessari per una struttura di questa portata". Caserta: manette facili, l’ora del dialogo fra le toghe di Biagio Salvati Il Mattino, 4 giugno 2017 Mercoledì confronto a più voci tra Dda, giuristi e avvocati, il meeting è ad Aversa. L’accusa, la difesa, la magistratura giudicante, il diritto e la giurisprudenza, l’associazionismo e l’informazione: ci saranno tutte le voci, rappresentate da autorevoli relatori, al convegno che si terrà il 7 giugno prossimo (a partire dalle 17) nella sala convegni del Tribunale di Napoli Nord, ad Aversa, dal tema "Carcerazione preventiva: un male necessario". L’evento, che segue altri incontri svolti in passato su argomenti altrettanto interessanti, è stato organizzato dall’associazione aversana "Palestra Normanna", fondata e presieduta dall’ex senatore e sottosegretario, già magistrato, Pasquale Giuliano. Il sodalizio con sede ad Aversa ha, tra le sue finalità, quella di avviare e alimentare un confronto ed un dibattito tra tutte le componenti sociali e, in particolare, sensibilizzare e coinvolgere soprattutto i giovani sui temi nobili della politica. "È un tema scottante, così come il titolo forte che si è voluto dare al convegno - spiega Giuliano - quello della "carcerazione preventiva", vecchio termine usato al posto dell’attuale "custodia cautelare" che sarà analizzato da varie angolature grazie alla presenza di relatori d’eccezione. Si discuterà in linea generale, ma ovviamente gli esempi e gli spunti che ci fornisce ogni giorno la cronaca sono numerosi". "La nostra categoria vive un tempo di evoluzione, frutto di una capacità di mantenere nel tempo il più alto livello di competenze per proporre innovazioni che contribuiscono allo sviluppo della società. Un’evoluzione che affonda le sue radici nel preziosissimo lavoro fatto da chi ci ha preceduto ed ora ci guida e ci consiglia nell’animo da lassù, a cui va il nostro grato ricordo". Così Aniello Della Valle, presidente del Collegio dei geometri e geometri laureati della Provincia di Caserta nel corso dell’incontro avvenuto presso la biblioteca diocesana con il vescovo di Caserta, Giovanni D’Alise. Una cerimonia toccante che ha visto anche la celebrazione della Santa Messa in suffragio dei colleghi defunti. "La nostra categoria - ha proseguito Della Valle - si trova lì, tra periferia e centro: interprete delle esigenze dei cittadini, enti pubblici e privati, aziende ed interprete del variegato mosaico di norme tecnico urbanistiche amministrative. Chiamati quotidianamente a garantire la sostenibilità". è al centro di una raccolta di firme da parte dell’avvocatura penale che chiede di introdurre in Costituzione la differenziazione delle carriere di magistratura inquirente e requirente: un’iniziativa che ha già raccolto seimila firme in soli due giorni. Tematiche che saranno trattate da diversi relatori, come la presidente del Tribunale di Napoli Nord, Elisabetta Garzo e il Procuratore capo Francesco Greco dello stesso ufficio giudiziario (padroni di casa del convegno); il presidente della sezione di Napoli Nord dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cioffi; il docente Mariano Menna, ordinario di diritto processuale e penale e direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università della Campania, Luigi Vanvitelli; il professore Giuseppe Riccio, professore emerito di diritto processuale penale; il Procuratore aggiunto di Napoli, Giuseppe Borrelli coordinatore della Dda; il presidente della Camera Penale di Napoli Nord, Paolo Trofino; il capo della redazione di Caserta, de Il Mattino, Lorenzo Calò con il coordinamento del presidente di Palestra Normanna, Pasquale Giuliano. Un paio di mesi fa, per esempio, il dibattito sull’uso eccessivo della custodia cautelare si era infuocato nel circuito mediatico all’indomani degli arresti eseguiti tra Caserta e Napoli, nell’ambito dell’inchiesta battezzata The Queen. Strumento, quello della carcerazione preventiva, ritenuto dalla magistratura inquirente, "l’extrema ratio". Un tema, insomma, quello delle manette facili, che da Tangentopoli ai giorni nostri resta di stringente attualità. Sarà questa dunque la prossima tappa del prossimo 7 giugno che vedrà confrontarsi magistrati di punta del settore inquirente e giudicante ma anche docenti universitari del mondo accademico e giuristi che analizzeranno il fenomeno dal punto di vista squisitamente normativo. Un convegno valido anche per l’acquisizione dei crediti formativi per gli iscritti all’ordine forense, ma soprattutto aperto a tutti per consentire anche all’opinione pubblica di trarre conclusioni sull’argomento. Milano: donna trattenuta in Questura senza motivo, agenti indagati di Franco Vanni La Repubblica, 4 giugno 2017 Rimase sei ore in questura dopo un diverbio. Il gip la assolve e manda sotto processo i due poliziotti. Hanno portato in questura una donna, senza una ragione giuridicamente valida. La hanno trattenuta per oltre sei ore, "in violazione delle norme di legge e di regolamento", come scrive il giudice per le indagini preliminari nel decreto di rinvio a giudizio. Protagonisti della vicenda sono due poliziotti in servizio presso il commissariato Garibaldi Venezia, accusati di abuso d’ufficio in concorso fra loro. Il fatto per cui i poliziotti andranno a processo, di fronte al giudice Marco Formentin della Decima sezione penale, risale al 4 aprile 2015 e avvenne in zona Melchiorre Gioia. La donna vide che un ragazzino veniva fermato dai due poliziotti, senza saperne la ragione (si scoprirà poi che il minorenne aveva preso a calci un autobus). Si avvicinò a loro, facendo domande sul perché di quei controlli. Ne nacque un diverbio e gli agenti le chiesero di qualificarsi. La donna rispose che i documenti le erano stati rubati qualche giorno prima, e che la mattina stessa aveva fatto denuncia. I poliziotti decisero di portarla in via Fatebenefratelli per identificarla. Lì la trattennero per sei ore, alcune delle quali passate in camera di sicurezza. Secondo il giudice per le indagini preliminari Gennaro Mastrangelo, che ha accolto la richiesta del pm Roberto Pellicano, questo avrebbe comportato "un danno ingiusto" alla donna. I poliziotti, peraltro, la avrebbero condotta in questura "omettendo di avvisare il pubblico ministero di turno". I poliziotti depositarono nei confronti della donna una notizia di reato per interruzione di pubblico servizio e oltraggio a pubblico ufficiale. Accuse per cui la procura ha chiesto l’archiviazione, ritenendola innocente. La richiesta è agli atti del procedimento contro i due poliziotti, come anche il verbale che dimostra come alla donna fossero veramente stati rubati i documenti. L’avvocato Matteo Pozzi dice: "Quello che interessa alla mia assistita è capire se davvero la sua libertà sia stata limitata illegittimamente per sei ore, o se invece sussistevano dei requisiti, che allo stato non siamo stati in grado di individuare, come nemmeno la procura e l’ufficio del gip". Raffaele Gaetano Crisileo, legale di uno dei poliziotti, replica: "Non c’era altro modo di identificare la signora, se non portarla in questura. E dimostreremo che l’avviso al pm non era obbligatorio". Bologna: "Cinevasioni", il grande schermo entra in carcere di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 4 giugno 2017 Il corso alla Dozza (tra i docenti Giorgio Diritti) sta producendo un cortometraggio. Portare il cinema dentro un carcere, la Casa circondariale della Dozza di Bologna, è stata l’idea, in apparenza avventurosa, che l’anno scorso aveva dato il la alla prima edizione del festival "Cinevasioni". Con vari ospiti a incontrare un pubblico misto formato da detenuti e persone entrate nella struttura per seguire le proiezioni, da Claudia Cardinale a Gabriele Mainetti, regista rivelazione di Lo chiamavano Jeeg Robot. Ma l’attività avviata dal gruppo di lavoro guidato da Filippo Vendemmiati e Angelita Fiore fa parte di un percorso ben più articolato, come conferma il laboratorio anche quest’anno tenuto dentro la Dozza e conclusosi un mese fa. Alcuni dei partecipanti passati, come Claudio Cipriani, ha ottenuto la semi libertà proprio grazie a questo impegno arrivando a frequentare il Dams. Davide Pagenstecher sta invece svolgendo del volontariato in una società di produzione cinematografica, anche lui in regime di semi libertà. "Da quando abbiamo iniziato - racconta Vendemmiati - con il nostro piccolo contributo cinque persone hanno iniziato un percorso alternativo alla detenzione e questo ci fa molto piacere". Nel frattempo il corso "Ciak in carcere" sta producendo anche un cortometraggio a partire da un soggetto dello sceneggiatore bolognese Fabio Bonifacci, tra i docenti del corso con il regista Giorgio Diritti. Per Claudia Clementi, direttrice della Dozza, "il carcere è riuscito ad aggregare dei soggetti che di solito non collaborano tra loro. Siamo abituati a pensare il carcere fuori dai circuiti cittadini, invece in questa occasione diventa un polo di aggregazione di energie. Realizziamo così il nostro mandato, consentendo ai detenuti di utilizzare il tempo in maniera proficua, fornendo strumenti attraverso cui potersi costruire un futuro diverso". Lo sforzo organizzativo richiesto è notevole ma è alla base del successo incontrato. Grazie a una formula che unisce in platea il pubblico in arrivo dall’esterno e quello interno al carcere. Proprio per consentire il mantenimento di questo format, la seconda edizione del festival, sostenuto da Fondazione del Monte e Gruppo Hera, si svolgerà in ottobre. Con i 15 partecipanti del corso chiamati, come giurati, a valutare i film che si iscriveranno partecipando al bando, già disponibile su www.cinevasioni.it. Intanto si pensa a una possibile ristrutturazione della sala polivalente all’interno della Dozza, perché possa essere a disposizione dei detenuti, settimanalmente o mensilmente, come sala anche per prime visioni. "Potrebbe chiamarsi Atmosfera", la butta lì Vendemmiati. Brescia: "Circostanze" per ballare, parlare, conoscersi. Anche tra detenuti Corriere della Sera, 4 giugno 2017 La danza è mente e corpo, insieme. Un linguaggio universale, che tutti possono "parlare" e che aiuta a ritrovare se stessi. Anche i detenuti, che non si conoscono e arrivano da Paesi diversi. Non è un caso, quindi, se la danza è associata ancora una volta al Progetto Verziano. Nei mesi scorsi Giulia Gussago,(foto) ballerina professionista e direttrice della Compagnia Lyria, ha lavorato con i detenuti elaborando con loro e creando, ex novo, uno spettacolo che sarà proposto martedì sera al Teatro sociale di Brescia, in via Cavalotti 20. Ballerini non professionisti e carcerati saranno i protagonisti dello spettacolo "Circostanze": una performance di danza contemporanea, fatta di gesti e movimenti più che di parole. Uno spettacolo che vale davvero la pena vedere. Appuntamento dopodomani dalle 20.30: i biglietti costano 5 euro (3 i ridotti). Si possono acquistare al Teatro sociale (tel 030/2808600 biglietteria@centroteatralebresciano.it), agli Uffici Ctb o su vivaticket.it. Sul produzionidalbasso.com è attiva una raccolta fondi per contribuire alle spese sostenute. Bankitalia: un bambino su dieci in povertà assoluta La Repubblica, 4 giugno 2017 Un bambino su dieci nel 2015 viveva in una situazione di povertà assoluta. È quanto evidenza Bankitalia nella sua ultima relazione annuale, in cui si sottolinea come negli anni di crisi la povertà sia aumentata in Italia soprattutto tra le famiglie numerose e tra le coppie con due o più figli. Più protetti invece gli anziani, "per effetto della maggiore stabilità dei redditi da pensione rispetto a quelli da lavoro". Nel 2015, ultimo anno per il quale si dispone di informazioni, il numero di persone in condizioni di disagio economico è rimasto sui massimi raggiunti a seguito della crisi. La quota di individui a rischio di povertà o esclusione sociale (secondo i dati Eurostat) si è attestata al 28,7 per cento, circa tre punti percentuali in più rispetto al 2007 e cinque punti oltre il dato medio dell’Unione europea. Il numero di individui in condizione di povertà assoluta era pari al 7,6 per cento della popolazione (4,6 milioni di persone, sulla base di stime dell’Istat), il valore più elevato dal 2005. A versare in tali condizioni, si legge nella relazione, erano in particolare i nuclei composti da soli cittadini stranieri, con un’incidenza sette volte superiore a quella delle famiglie di soli italiani cresciuta, tra il 2014 e il 2015, specialmente al Nord. La povertà è aumentata tra le famiglie numerose e tra le coppie con due o più figli. La conseguenza, evidenzia ancora Bankitalia, è stata un ulteriore aumento della povertà minorile, anche questa elevata nel confronto europeo; la quota di minori in povertà assoluta ha superato nel 2015 un decimo della popolazione di riferimento. Tra gli anziani l’incidenza del fenomeno è stata più bassa e stabile durante la crisi (circa il 4 per cento nel 2015) per effetto della maggiore stabilità dei redditi da pensione rispetto a quelli da lavoro, in linea con quanto osservato nei principali paesi dell’area. Migranti. Minniti sfida le Ong: "portate i salvati in altri Paesi Ue" di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 4 giugno 2017 L’immigrazione è l’emergenza nazionale numero uno; su cosa fare c’è almeno un punto sul quale i partiti sono tutti d’accordo? "No, non c’è! Ma poiché è una questione che impatterà con gli equilibri democratici dell’Italia e dell’Europa, io mi comporto come se ci fosse. Anche se so che è come fare un triplo salto mortale senza rete", risponde Marco Minniti, ministro dell’Interno. Nel dopo Gheddafi, lei è il primo ministro che va a trattare con fazioni e tribù per bloccare le partenze verso l’Italia. Quanto stiamo pagando? "Al momento 200 milioni dall’Ue e 200 dall’Italia, ma aumenteranno perché il confine sud della Libia è il confine sud dell’Europa, ed è sul quel terreno che si contrasta il traffico di esseri umani e terrorismo". Non avrebbe più senso allora concentrare li tutte le risorse, invece di trattare su tanti tavoli? "Se vuoi fermare le partenze occorre fare in modo che il governo libico prenda il controllo delle acque territoriali, e quindi formiamo la guardia costiera a nord e rimettiamo a posto le loro motovedette. Poi devi stroncare il traffico di esseri umani, che è un’industria aberrante e armata, che però produce e distribuisce reddito, e quindi bisogna pensare ad un circuito economico alternativo". Cosa intende per circuito alternativo? "Faccio un esempio: la carovana che arriva dal sud della Libia deve passare attraverso numerosi check point, ed è probabile che paghi un dazio. Per rendere questo sconveniente dobbiamo addestrare e pagare anche le guardie di frontiera al sud, e su questo abbiamo fatto un accordo con i ministri dell’interno di Libia, Niger e Ciad". Ma le guardie di frontiera sono intrecciate con tutte le fazioni e non rispondono solo ad al-Serraj con cui parlate voi. "Lo sappiamo perfettamente, ma lui controlla la Tripolitania, da dove partono i flussi, e comunque stiamo parlando anche con tutti gli altri, visto che l’idea di una stabilizzazione militare è una drammatica illusione. L’unica strada è quella di un "rammendo" sul territorio". La fa Minniti da solo questa opera di "rammendo"? "In questo contesto contano molto i rapporti personali, ma non sono solo, ho a fianco il governo e anche un investimento dell’Ue". Quale investimento? "La scorsa settimana io e il mio collega tedesco abbiamo mandato alla commissione europea la richiesta congiunta di intervento finanziario significativo per il controllo dei confini del sud. L’Italia farà da apripista con il Mediterraneo centrale, così come la Germania ha fatto con la Turchia. È la prima volta che succede questo, ed è l’unico modo per mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità". In Turchia si tratta solo con Erdogan, in Libia comandano in tanti, inclusi i trafficanti... a meno di pagarli uno per uno. "Non c’è bisogno di arrivare a questo. Abbiamo portato le 3 tribù più potenti del Sahara a fare la pace dopo essersi combattute per anni, e questo può fare da volano per una ipotesi di stabilizzazione. Dopodiché mi è nota la fragilità di quell’accordo, ma l’alternativa qual è? Se qualcuno ce l’ha la metta in campo, e mi misurerò con quella. Intanto poche settimane fa Unhcr ha aperto alla Libia, e con i 90 milioni della Commissione Europea, l’accoglienza verrà dirottata li". Tutta l’Africa subsahariana è in movimento; augurandoci di fermare le partenze dalla Libia, i flussi poi si sposteranno sulle coste egiziane, e al Cairo non abbiamo un ambasciatore. "Sull’Egitto bisogna prima arrivare ad una piena cooperazione giudiziaria fra Roma e Il Cairo per trovare la verità sulla vicenda Regeni. Mi auguro che i rapporti diplomatici riprendano presto perché l’Egitto è un Paese cruciale, sia nei rapporti con la Libia, sia per l’immigrazione, sia per il terrorismo". Parliamo dell’oggi: per le attività di soccorso al largo delle coste libiche sono nati sospetti che alcune ong possano avere legami con i trafficanti e ci sono indagini aperte. Lei che idea si è fatto? "L’idea che bisogna aspettare le conclusioni, senza generalizzare o sottovalutare. Nel frattempo la commissione senato ha prodotto un documento che verrà tradotto in un progetto operativo su come le ong dovranno coordinarsi con la nostra guardia costiera". Tante navi di nazionalità diverse (Panama, Malta, Paesi Bassi, Belize, Gibilterra) operano soccorsi in quella zona, ma tutte sbarcano i migranti in Sicilia, è un problema? "Io vorrei che una nave, una soltanto, si dirigesse in un altro porto europeo, certo non risolve i nostri problemi ma sarebbe il segnale di un impegno solidale dell’Europa. Io mi batterò per questo, perché è inaccettabile separare il momento del soccorso da quello dell’accoglienza, ed è un’ipocrisia dire: salvo una vita in mare, ma che fine fa poi quella vita è un problema di un solo Paese. L’Italia". Negli ultimi 2 anni sono nate associazioni che di mestiere fanno soccorso. Nelle pieghe della solidarietà si muove anche altro? "Non do giudizi se non fondati su fatti; dovremmo però comprendere che la questione dei grandi flussi migratori impatta in modo molto forte sia sui sentimenti che sulla stabilità di un Paese. Le due cose vanno governate con scelte strategiche". Intano in Italia sbarcano migliaia di persone, ad oggi il 30% in più rispetto all’anno scorso. Il sistema dell’accoglienza qui si appoggia tutto sul terzo settore, e non funziona. Non sarebbe ora di fare la scelta strategica di una gestione pubblica della prima accoglienza? "Abbiamo puntato sulla ripartizione dei flussi in piccoli gruppi che mandiamo ai comuni in proporzione al numero degli abitanti, la gestione è affidata solo ad associazioni scelte con requisiti stringenti e piccoli appalti, per evitare infiltrazioni della criminalità. Abbiamo accorciato i tempi da 2 anni a 6 mesi per stabilire chi ha diritto a restare e chi no, e ridotto da 4 a 3 i gradi di giudizio". Le riconosco di aver migliorato le cose, ma la sostanza non cambia. Ogni giorno ne arrivano 1000 e non sapete dove metterli, li stipate qua è là per le impronte digitali e una visita medica, poi li disperdete nei comuni sapendo che un 60% dovrà essere rimpatriato, con il rischio che molti di loro spariscano nel nulla. Io credo che la prima accoglienza debba essere gestita dal pubblico nei suoi numerosi e immensi immobili, senza pagare affitti a terzi. E avviare lì dentro il processo di identificazione, corsi di lingua e formazione, attraverso l’assunzione di personale specializzato. Trascorsi i 6 mesi, solo chi ha diritto alla protezione, viene affidato ai comuni secondo il vostro modello. Non crede che ci sarebbe un maggiore controllo, meno difficoltà di inserimento sul territorio, oltre ad essere un’opportunità di lavoro anche per noi? "Il suo è un modello razionale ma troppo costoso, e il contributo dell’Europa su questo non è all’ordine del giorno. Per me è più importante che l’Europa si spenda dall’altra parte del Mediterraneo. Se non ce la faremo a fermare i flussi, allora ne riparleremo". L’attentato al concerto a Manchester cos’ha di diverso rispetto a quello di Nizza, Stoccolma Londra o Berlino? "Quelli erano atti di terrorismo a prevedibilità zero, mentre a Manchester per la prima volta un attentato viene fatto con esplosivo, ed è parte di un network europeo organizzato, con un link diretto con la Libia. Questo significa che la minaccia non è confinata all’Inghilterra". Su questo punto cosa avete deciso al G7? "I 7 grandi del mondo stanno lavorando insieme ai grandi provider per trovare delle soluzioni di controllo con dei warning più efficaci di quello che è successo finora, poiché il reclutamento di radicalizzati, pazzi, e psicolabili di tutto il mondo, avviene attraverso il web". Come vi state organizzando per i grandi concerti estivi? "Subito dopo Manchester abbiamo fatto una direttiva per la gestione degli eventi dove gli organizzatori sono chiamati ad avere degli stewards per gestire gli ingressi con le forze di polizia, e mettere in campo tecnologie. Sono procedure molto complesse da adattare caso per caso. Sono 1700 gli appuntamenti estivi, e naturalmente il faro è puntato sul concerto di Vasco Rossi, ma senza allarmismi". Quale comportamento cosa consiglia ai fans? "Ai 220.000 fans dico: andate al concerto e coordinatevi senza insofferenze con le forze di polizia, dateci una mano, perché quando l’Italia viene considerato un Paese in grado di sostenere sfide importanti sul piano della sicurezza, accresce la sua credibilità internazionale". Droghe. Cannabis, una carovana per il sì di Monica Rubino La Repubblica, 4 giugno 2017 I Radicali e l’Associazione Luca Coscioni in viaggio per distribuire e piantare semi di canapa nelle città italiane. "Abbiamo il sostegno di cittadini e parlamentari ma il testo è insabbiato in commissione Giustizia della Camera". Una carovana di "disobbedienti" sta attraversando l’Italia da Nord a Sud per distribuire semi di cannabis e piantarli in giardini e aiuole delle città. È la campagna antiproibizionista dei Radicali italiani e Associazione Luca Coscioni per chiedere che sia approvata entro la legislatura la legge per la legalizzazione della cannabis dell’intergruppo parlamentare, arenata ormai da otto mesi in commissione Giustizia della Camera. Dopo Roma, Milano, Torino, Foggia, Bari e Napoli il tour disobbediente tornerà nelle prossime settimane a Roma e Torino e toccherà anche Bologna. Nella tappa milanese alcuni militanti, fra cui il tesoriere dell’Associazione Coscioni, Marco Cappato, sono stati identificati dalla Digos per "istigazione a delinquere". Aderire al "Radical Cannabis Club" costa dieci euro e la tessera riservata agli iscritti contiene una sorpresa: un seme di cannabis. "Regaliamo un seme di libertà, con l’auspicio che presto piantarlo non sia più reato", spiega il segretario nazionale dei Radicali italiani Riccardo Magi. Oggi infatti, in base alla legge Fini-Giovanardi possedere, donare, cedere, spedire e vendere semi di cannabis non è illegale. Mettere un seme in un vaso, innaffiarlo e coltivare una pianta invece è punibile con pena della reclusione da due a sei anni e con una multa da 5.164 a 77.468 euro. "A sostegno della legge per la legalizzazione della cannabis per uso personale e terapeutico in Parlamento c’è un intergruppo larghissimo", sottolinea Magi, "forse uno dei più grandi che si sia mai creato, nel quale ci sono anche alcune delle forze maggiori che ci stanno portando a questo salto nel buio delle elezioni anticipate". Dopo un passaggio lampo nell’aula di Montecitorio a luglio 2016, la legge sulla legalizzazione della cannabis a ottobre dello stesso anno è tornata nuovamente in commissione Giustizia, dove rischia di essere definitivamente affossata. Libia. Piano Minniti in sette mosse all’esame dell’Ue di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2017 Tra Roma e Bruxelles da due mesi si studia un progetto di ampio intervento sulla Libia. L’obiettivo è stato indicato dal ministro dell’Interno, Marco Minniti. Per dirla col gergo internazionale, è un quadro di interventi di "capacity building" per il governo di Tripoli. Misure, cioè, destinate a dare forza ai libici per il controllo delle frontiere, il contrasto ai trafficanti di esseri umani, il controllo delle coste. Di noto, finora, c’è la consegna delle motovedette - quattro, ma dovrebbero arrivare fino a dieci - e la formazione di 39 addetti ai servizi di guardia costiera. Il piano Minniti, condiviso con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, prevede molto di più. Se non ci saranno intoppi, il programma italiano potrebbe diventare una proposta ufficiale da presentare al Consiglio d’Europa. Ora la procedura è nella fase più delicata: l’articolazione del ventaglio di interventi, la sequenza temporale, la quantificazione delle risorse. Gli obiettivi sono sette:?1) rafforzare la capacità della Libia nella sorveglianza marittima; 2) dare loro assistenza per la definizione di un’area marittima Sar (Search and rescue, ricerca e salvataggio);?3) istituire una Mrcc (maritime rescue coordination centre), una centrale operativa di coordinamento di salvataggio; 4) assistere la guardia costiera di Tripoli nelle procedure Sar; 5) irrobustire la cooperazione tra le agenzie internazionali e le autorità libiche; 6)?intensificare gli interscambi operativi marittimi con l’Italia e gli altri stati Ue; 7) sviluppare le capacità di intervento ai confini di terra nel controllo dei traffici di esseri umani e di soccorso ai migranti in fuga. La centrale operativa (Mrcc) in Libia è uno degli obiettivi prioritari, un passaggio decisivo a detta di tutti. Insieme alla formazione del personale locale. La previsione è di arrivare a 132 membri di equipaggio guardia costiera libica formati entro quest’anno. Il comitato misto italo libico - impegnato a dare attuazione al memorandum di intesa firmato il 2 febbraio da Gentiloni con il presidente Fayez al Serraj - è in piena attività. Si è riunito a Roma il 14 marzo, poi a Tripoli il primo maggio. Ci sono stati confronti presso il dipartimento di Pubblica sicurezza, guidato da Franco Gabrielli. Una riunione con il capo della guardia costiera libica a Bizerte, in Tunisia, il 18 maggio scorso. Oltre la Polizia di Stato e i tecnici del ministero dell’Interno, anche la Guardia Costiera italiana segue il dossier e partecipa agli incontri. Il via vai con Bruxelles è continuo. Nella pianificazione definita finora si ipotizza di rimettere in acqua e consegnate otto motovedette; programmare una manutenzione triennale della flotta libica, compresa la costruzione di un cantiere presso il porto di Tripoli; definire una missione in più anni di formazione per il personale libico destinato al controllo delle coste. In ballo ci sono anche nuovi mezzi: una decina di gommoni per le ricognizioni; 30 Suv e una decina di autobus e ambulanze; quattro barche di pattugliamento di 17 metri di lunghezza, dispositivi di comunicazione satellitari. In fase di valutazione il recupero di una nave di 28 metri ferma nei cantieri libici. Il piano del Viminale, dunque, è molto dettagliato. Indica le strutture libiche di riferimento dove fare "capacity building". Sono quella degli Interni, nelle articolazioni dell’amministrazione generale per la sicurezza costiera e la direzione generale per la lotta contro l’immigrazione illegale. E della Difesa, sia per le guardie di frontiera territoriali sia per la protezione della costa e la sicurezza dei porti. Uno sforzo più complesso, ma imprescindibile, è mettere a fattor comune il processo italiano di sostegno all’azione libica insieme agli attori europei e internazionali: Frontex, l’operazione EunavFormed-Sophia, la delegazione dell’Ue in Libia, l’Eubam (la missione di assistenza di Bruxelles nello stato nordafricano), ma anche l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e l’Unhcr, l’alto commissariato Onu per i rifugiati. Una progettazione così articolata non poteva essere presentata a Bruxelles senza l’impegno svolto finora dall’Italia sul fronte immigrazione. Quest’anno siamo già a quota 60mila200 sbarchi: un terzo di tutti quelli del 2016 e con la prospettiva di una lunga stagione di flussi migratori almeno fino a ottobre. I dati dell’agenzia Frontex, del resto, stigmatizzano come le partenze dalla Libia superano quota 100mila fin dal 2014. Certo, il rischio politico in Libia è palese, i cambiamenti di governo possono arrivare in un baleno. Ma qui si gioca la scommessa italo-europea. Aspettare gli eventi sarebbe devastante. Un intervento per rafforzare le strutture tecniche - la guardia costiera, i ministeri della Difesa e degli Interni - non è infruttuoso, anzi può dare subito risultati. L’Italia si è esposta fino a riaprire, non senza rischi, la sede diplomatica a Tripoli ora guidata da Giuseppe Perrone. Ora serve il sostegno e soprattutto il consenso di tutti gli stati dell’Unione europea. Iraq. Così i nostri alleati torturano i prigionieri di Gigi Riva L’Espresso, 4 giugno 2017 L’altro volto della guerra contro l’Isis: grazie al coraggio del fotografo Ali Arkady vi mostriamo gli abusi dell’esercito di Baghdad sui civili sospettati di avere avuto rapporti con i jihadisti. Le persone vengono picchiate e seviziate nella casa delle torture dell’Erd. Da soldati addestrati da americani e italiani. Medhi Mahmoud Mahmud sperava che l’incubo fosse finito quel 23 novembre dell’anno scorso quando l’offensiva della coalizione internazionale e dell’esercito regolare iracheno per sradicale lo Stato islamico da Mosul era finalmente cominciata e alcuni villaggi a sud della "capitale" erano già stati strappati al califfo. Così si è messo in marcia col figlio Ahmad per raggiungere il territorio liberato. Nemmeno il tempo di gustare il ritorno a una parvenza di vita normale e viene stato bloccato dalla task force anti-terrorismo dell’armata di Baghdad denominata Erd (Emergency Response Division). Li portano in una casa che è diventata la loro base. "Il tempo di spiegarci e tutto sarà chiarito", deve aver pensato Medhi. Invece una volta dentro le mura, lontano da occhi indiscreti (ma non dall’occhio di una macchina fotografica, come vedremo) lo vestono completamente di bianco (per distinguersi dall’arancione modello Guantánamo?). Lo accusano di essere un miliziano dell’Isis, al minimo un fiancheggiatore. Lui nega con forza, ma quelli vogliono "informazioni". Lo bendano, lo appendono con un gancio al soffitto, lo fanno dondolare, lo sbattono contro le pareti. Dura un’ora, quel trattamento inumano che scrive l’ennesimo capitolo del libro nero "l’Iraq e la tortura", inaugurato, nei tempi recenti, da Saddam Hussein, arricchito dagli americani con l’orrore di Abu Ghraib nel 2004, arrivato al suo culmine con lo scempio dei diritti perpetrato dai seguaci di Abu Bakr al Baghdadi. Dopo Medhi, tocca al figlio Ahmad lo stesso trattamento. Quando vengono gettati stremati al suolo e rilasciati sembra loro di poter catalogare l’episodio sotto la voce "equivoco". Ma il peggio deve ancora arrivare. Passano due settimane e l’unità di intelligence dell’Erd (ce se sono tre, oltre agli 007, i cecchini e la task force propriamente detta) si riprende padre e figlio. Stavolta vanno per le spicce: li ammazzano assieme ad altri detenuti vicino al villaggio di Qabr al-Abd, nell’area Hamman al-Alil, sud di Mosul. Si poteva sospettare che i diritti umani non siano merce corrente nemmeno adesso che a Baghdad c’è un governo insediato, "amico" dell’Occidente che, oltretutto, si preoccupa anche dell’addestramento delle truppe. Ora ci sono le prove perché in quelle stanze c’era un coraggioso fotografo iracheno, Ali Arkady, 34 anni, "autorizzato" a seguire il lavoro dei soldati da qualcuno che deve essersene pentito se ora il reporter vive in un luogo segreto, minacciato per il lavoro che vedete in questi scattie, straordinario e raccapricciante documento della faccia più oscura di una guerra che in Iraq dura ormai, in forme diverse, da 14 anni. Come Arkady sia stato ammesso in quei luoghi che avrebbero dovuto restare segreti è una storia nella storia. Il cui elemento principale è la dedizione di un professionista che non ha lasciato nulla di intentato per essere laddove le cose accadono, per testimoniare a un mondo troppo spesso dimentico gli sviluppi del conflitto infinito. Quando nel 2014 a Baghdad decidono che è finalmente l’ora di riprendersi la provincia di al-Anbar, con le città simbolo di Falluja e Ramadi, finita sotto controllo del sedicente Stato islamico, il fotografo chiede di essere ammesso in prima linea. Si scontra con l’arcigna burocrazia militare però non demorde finché ottiene un lasciapassare con tutti i timbri necessari. Segue gli uomini agli ordini del capitano Omar Nazar, usa i social media per rilanciare le gesta, invero anche eroiche, di chi cerca di ridare un’identità statuale al martoriato Paese. Diventa un beniamino delle forze speciali, ne apprezzano qualità umane e coraggio. Nessuna sorpresa se quando inizia la battaglia per Mosul, "la madre di tutte le battaglie", vuole esserci. Stavolta è, se possibile, ancora più pericoloso. Ma Alì è Alì e il comandante in capo delle forze Erd, colonnello Mohamed Ismail Thamer, nome di battaglia Abu Turab, alla fine cede. Eccolo di nuovo, e siamo al fatale novembre scorso, al fronte, col capitano Nazar, sunnita, col caporale Ali Haider e coi loro uomini, in maggioranza sciiti. Però, in questo caso, le due confessioni in lotta per l’egemonia dell’intero Medio Oriente, stanno insieme contro il comune feroce nemico Stato islamico. Non sa ancora, Arkady, che scenderà i gironi di un inferno dove vede "torture, stupri, uccisioni", di civili iracheni, suoi concittadini, ad opera di altri suoi concittadini iracheni. Ossessionati dall’idea di aver davanti per forza dei miliziani islamisti in chiunque sia stato nei territori occupati dagli uomini del sedicente califfo. Sono talmente abituati, i soldati dell’Erd, ad avere a fianco il fotografo da considerarlo uno di loro, se ne dimenticano persino. E Arkady scatta, scatta, scatta. Per lui non hanno tabù, è un amico ormai. "Chi ci ha addestrato? Gli americani". "Anche gli italiani?". "Sì anche gli italiani". È con loro quando, di notte, per un semplice sospetto fanno irruzione nella casa di Fathi Ahmed Saleh, lo buttano giù dal letto e se lo portano via mentre la moglie grida, li implora di non farlo. E per tutta risposta il caporale si chiude la porta della camera alle spalle, vuole violentare la donna e desiste solo quando scopre che ha il suo ciclo mensile. Assiste, sbigottito, alla cattura di Raad Hindia, "che aveva la sola colpa di essere un inserviente in una moschea, ma non per questo era per forza un fanatico estremista", con la madre che, intuendone il destino, si aggrappa a quei rapitori piangendo e pregandoli come solo una genitrice. Non sarà necessario alcun processo per decretarne la condanna a morte e la sepoltura nello stesso luogo dei Mahmoud. Per tutta una notte il fotografo ha assistito alle torture sui corpi di due fratelli, Leith e Ahmed Abdullah Hassan. È stata la polizia federale irachena a consegnarli alle "cure" delle forze speciali dopo che sono stati sorpresi, con le rispettive famiglie, nell’area di Gogjali. Vicini e conoscenti hanno testimoniato sul fatto che sono due brave persone, assai lontani dalla dottrina fondamentalista. Niente da fare. Ci si sono messi in quattro a farli pentire di essere nati. A Leith hanno messo le dita negli occhi e premuto con forza fin quasi a cavarli dalle orbite. Ad Ahmed hanno puntato un coltello lungo la schiena e lo hanno fatto scorrere lentamente per fargli provare i brividi della fredda lama che penetra nelle carni. Poi con le mani hanno premuto forte sulla sua gola: "Adesso te la spezziamo". Quando ormai albeggiava, si sono stancati di tanta crudeltà e li hanno ammazzati, seppellendo i corpi nella zona di Bazwaia. Ali Arkadi, oltre che fare clic centinaia e centinaia di volte, scrive tutti i dettagli su un taccuino, nomi, fatti, circostanze ("non sono solo fotografo e regista, anche giornalista"). Sa che per rendere credibile quella che diventerà questa potente denuncia ha bisogno di pezze d’appoggio. E stavolta, per lui, è peggio delle altre, quando è stato un implacabile divulgatore delle nefandezze dello Stato islamico, quando ha documentato il genocidio degli ezidi e si è prodigato in prima persona per aiutare un gruppo di donne di quel popolo che erano fuggite dopo essere state ridotte in schiavitù dagli islamisti. Siamo andati a vedere come vengono giudicati gli ex combattenti di Daesh nelle città non più sotto il controllo dello Stato islamico. Tra confessioni solo parziali e giuramenti poco credibili Stavolta il suo "j’accuse" è contro il suo stesso esercito, dunque il suo stesso governo. Sa che il prezzo da pagare è quello di essere considerato un traditore. Però non si ferma. È necessaria la verità, solitamente la prima vittima di ogni guerra. Quella verità che, prima o poi, lentamente, si afferma. Era già successo con le violenze degli sciiti che andarono a liberare la popolazione sunnita di al-Anbar dall’Isis ma non resistettero all’idea di punire i nemici confessionali. Succede, proprio in questi giorni, appena oltre il confine, nella Siria del conflitto gemello, dove gli americani sostengono che il dittatore Bashar Assad abbia da anni messo in funzione un forno crematorio per incenerire i cadaveri dei prigionieri eliminati. Nella battaglia di Mosul per sradicare lo Stato islamico, salutata finalmente come la resa dei conti col Califfo, la tortura è l’ingrediente indigeribile anche per chi plaude alla guerra giusta. Perché sia tale fino in fondo non si può scendere sotto il livello della civiltà. Iran. L’accanimento contro le fosse comuni dei massacri del 1988 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 giugno 2017 Nell’estate del 1988, dopo una fallita incursione dalle sue basi irachene dell’Organizzazione dei mujaheddin del popolo, in molte carceri dell’Iran vennero selezionati, posti in isolamento e poi uccisi migliaia di prigionieri politici. Gran parte di loro era in carcere da anni, in molti casi per aver solo distribuito giornali e volantini, preso parte a manifestazioni pacifiche o militato in gruppi di opposizione. Alcuni avevano già completato il periodo di pena ma non erano tornati in libertà in quanto avevano rifiutato di dichiarare il loro "pentimento". Nessun rappresentante dello stato iraniano è stato indagato per quelle esecuzioni extragiudiziali. Alcuni dei presunti responsabili continuano ad avere cariche politiche o a mantenere incarichi importanti, come nella magistratura. I corpi dei prigionieri uccisi vennero gettati in fosse comuni scavate in tutta fretta e ricoperte di cemento. L’ubicazione della maggior parte di loro rimane sconosciuta. Le famiglie non hanno mai riavuto indietro i corpi e quelle che hanno individuato il luogo dove si trovano i resti dei loro cari vi compiono meste visite, tra lo scherno e il disprezzo delle autorità: è loro vietato di svolgere commemorazioni e di abbellire le fosse comuni con messaggi e iscrizioni in ricordo di coloro che le autorità definiscono "fuorilegge" non meritevoli di una sepoltura adeguata. Secondo l’organizzazione non governativa "Giustizia per l’Iran", una delle poche fosse comuni note, quella di Ahvaz, nel sud del paese, sta per essere dissacrata e distrutta. Dovrebbe contenere i resti di almeno 44 prigionieri. Le foto e i video forniti da "Giustizia per l’Iran" e riesaminati da Amnesty International mostrano delle scavatrici al lavoro accanto alla fossa, circondata da spazzatura e detriti. Le autorità iraniane non hanno mai fatto dichiarazioni ufficiali ma un operaio si è lasciato sfuggire, parlando con un familiare delle vittime, che il progetto prevede l’ampliamento della strada che scorre accanto alla fossa, la distruzione del blocco di cemento che la indica e la successiva realizzazione di uno "spazio verde" o di un centro commerciale. Come detto, le autorità iraniane non hanno mai voluto indagare sul massacro delle carceri del 1988. Ma se distruggeranno la fossa comune di Ahvaz, elimineranno prove fondamentali che, un giorno, potrebbero essere usate per fare luce sul numero e sull’identità delle persone uccise e negheranno per sempre alle famiglie delle vittime il loro diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione. Quella di Ahvaz, peraltro, non è neanche l’unica fossa comune del 1988 a rischio di distruzione. "Giustizia per l’Iran" ha avuto notizia del tentativo di danneggiare un’altra fossa comune, nella città di Mashhad, nel nord-est del paese, dove potrebbero essere stati sepolti fino a 170 prigionieri politici. Le famiglie che, nel marzo di quest’anno, erano venute in visita in occasione del Capodanno, hanno scoperto che l’area, precedentemente piatta, era stata ricoperta da cumuli di terra. Non è chiaro il motivo di questa variazione anche se vi è il timore che le autorità iraniane stiano tentando di eliminare, anche in questo caso, ogni traccia delle esecuzioni extragiudiziali di massa del 1988. Marocco. Ottavo giorno di proteste, i detenuti denunciano maltrattamenti Nena News, 4 giugno 2017 Ieri il Rif è tornato in piazza per l’ottava sera consecutiva per chiedere il rilascio del leader del Movimento Popolare, Nasser Zefzafi. Condanna di Amnesty per i pestaggi ai detenuti. Continuano le proteste nella regione settentrionale marocchina del Rif: per l’ottava notte consecutiva, ieri, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere il rilascio di Nasser Zefzafi, leader del Movimento Popolare, al-Hirak al-Shaabi, che da mesi chiede lavoro e giustizia sociale. Ieri teatro della protesta è stato il porto della città di al-Hoceima dove ad ottobre morì Mouhcine Fikri, venditore ambulante di pesce di 31 anni, ucciso da un camion della spazzatura mentre tentava di recuperare un pesce spada confiscato e gettato via dalla polizia. Dopo mesi di tensioni e manifestazioni, le proteste sono riesplose con più vigore a metà maggio fino all’arresto, lunedì, di Zefzaki, ancora detenuto a Casablanca. Dopo la preghiera del venerdì, migliaia di persone sono scese in strada e si sono scontrate con la polizia: "Se imprigionate i nostri leader - hanno gridato - resisteremo fino a quando le nostre richieste non saranno accolte". La reazione della polizia è giunta con i cannoni ad acqua, sparata per disperdere la folla. I manifestanti hanno risposto lanciando pietre e, con un atto simbolico, bruciando alcuni dei loro passaporti. Il governo per ora risponde con qualche promessa: ieri il portavoce del governo, Mustafa al-Khalfi, ha parlato di "dialogo aperto con la società civile" e annunciato l’invio di una delegazione che incontri i leader del Movimento Popolare. Ma la comunità del Rif, regione da sempre in tensione aperta con il governo centrale, non crede alle parole di chi finora non ha garantito né investimenti né redistribuzione del reddito, di uno Stato che si palesa solo con le uniformi della polizia, considerata responsabile di abusi umilianti verso i lavoratori. Di queste richieste Zefzaki è simbolo: 39 anni, disoccupato, si è posto alla guida di una popolazione stanca. Al momento è detenuto con altri 31 manifestanti, l’accusa è "attacco alla sicurezza interna" per aver interrotto la preghiera in una moschea di al-Hoceima per chiamare i fedeli alla piazza. Su richiesta degli avvocati la prima udienza è stata fissata per il 6 giugno. Nel frattempo la sua casa è stata perquisita dalla polizia, alcune proprietà danneggiate e i libri confiscati. Proteste giungono da Amnesty International che accusa il governo marocchino di arresti di massa contro manifestanti "che chiedono la fine della marginalizzazione delle proprie comunità e migliore accesso ai servizi nella regione". "Ad alcuni detenuti è stato negato immediato accesso ai propri legali - si legge nel comunicato di Amnesty - In alcuni casi i legali in grado di incontrare i propri clienti al tribunale di al-Hoceima hanno visto sui loro corpi i segni di ferite e di pestaggi. Temiamo che questa ondata di arresti sia un tentativo deliberato di punire i manifestanti del Rif per mesi di proteste pacifiche". In tutto sono 71 i detenuti dal 26 al 31 maggio, accusati informalmente di reati diversi: lancio di pietre, insulto e assalto a pubblico ufficiale, ribellione, manifestazione non autorizzata. Vanno rilasciati, aggiunge Amnesty: il codice penale marocchino permette la detenzione senza accuse formali per tre giorni, per 8 solo nel caso di offese alla sicurezza dello Stato. Nei giorni scorsi proteste in solidarietà si sono tenute anche in altre città marocchine, Tangeri, Casablanca, Rabat. A monte un disagio sociale diffuso che non riguarda solo il Rif: la disoccupazione giovanile resta alta, superando il 25%, e l’economia arranca. Di investimenti nelle zone periferiche non arrivano e le nuove infrastrutture progettate dallo Stato hanno interessato solo settori specifici, elettronica e aeronautica in particolare. Cina. Tank man, la storia del "rivoltoso sconosciuto" di piazza Tienanmen di Silvia Morosi e Paolo Rastelli Corriere della Sera, 4 giugno 2017 Non servono i social network perché una fotografia diventi un’icona. È successo per centinaia di immagini entrate nella memoria comune molto più delle parole, come per lo scatto del "rivoltoso sconosciuto" di Piazza Tienanmen. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989 (il Muro di Berlino doveva ancora cadere), una violenta repressione spense nel sangue le proteste di studenti e lavoratori cinesi a Pechino. L’Esercito di Liberazione Popolare uccise centinaia di persone scese in piazza per chiedere più libertà e democrazia. Le stesse che ancora oggi sono il tallone d’Achille della superpotenza economica cinese. La protesta in piazza Tienanmen era iniziata un mese e mezzo prima, il 15 aprile, quando - dopo la morte Hu Yaobang, ex-capo del Partito comunista e sostenitore di riforme democratiche - circa 100mila studenti si erano riuniti per commemorare il leader ed esprimere la loro insoddisfazione verso il governo di Pechino. Dopo i funerali del politico riformista la rivolta era esplosa. A metà maggio migliaia di studenti avevano iniziato uno sciopero della fame a oltranza. Il 20 maggio il governo aveva imposto la legge marziale e truppe corazzate furono inviate per disperdere i manifestanti. Le forze governative in un primo tempo avevano desistito di fronte alla folla e si erano ritirate, finché Deng Xiaoping, all’epoca capo della Commissione Militare, aveva dato ordine di far fuoco. Il risultato fu un massacro il cui bilancio ufficiale non è ancora stato accertato, poiché il governo cinese non ha finora mai reso pubblico alcun documento in merito ai fatti di Tienanmen. Negli stessi giorni la protesta arrivò sulle televisioni di tutto il mondo. La stampa internazionale era a Pechino per l’arrivo di Mikhail Gorbaciov, nel Paese per una riconciliazione russo-cinese. Il segretario del partito comunista Zhao Zhiyang si era dimesso e, come ricordato, Deng Xiaoping e il primo ministro Li Peng avevano ordinato all’esercito la definitiva repressione della protesta. Come per molti eventi che restano nella memoria collettiva c’è una foto simbolo, conosciuta come "Tank Man". Nello scatto viene ritratto un giovane solo e disarmato davanti ai carri armati, nel tentativo di fermarli. La rivista "Time" ha inserito "il ribelle sconosciuto", come è stato chiamato, tra le 100 personalità più importanti del XX secolo. Sottolineando però come, citando uno dei leader del movimento pro-democratico cinese, "gli eroi nella fotografia del carro armato sono due: il personaggio sconosciuto che rischiò la sua vita piazzandosi davanti al bestione cingolato e il pilota che si elevò alla opposizione morale rifiutandosi di falciare il suo compatriota". La foto, diffusa dai media di tutto il mondo, è considerata una delle immagini simbolo di tutto il Novecento. Diverse ipotesi sono state avanzate sull’identità del ragazzo, ma nessuna è stata mai provata e lo stesso regime non ha mai fornito informazioni sull’accaduto; alcuni ritengono che il ragazzo abbia passato anni nei campi di rieducazione, altri dicono che sia stato ucciso dopo poche ore o giorni, altri che oggi sia un giornalista. A scattare l’immagine fu Jeff Widener, che lavorava per l’Associated Press. Fu il responsabile del gruppo, Liu Heung-Shing (vincitore del Premio Pulitzer), lì presente a chiedere a Widener di riprendere gli scontri, dicendogli di non rimanere nella piazza, ma di andare a scattare dal balcone della camera del Beijing Hotel dove alloggiava la sua fidanzata. Lì ci sarebbe stata una visuale sufficiente per riprendere la scena con un teleobiettivo, rimanendo al sicuro (lo scatto venne fatto da una distanza di circa 800 metri, con una macchina fotografica Nikon FE2 dotata di un obiettivo da 400 mm e di un moltiplicatore di focale). Buona parte del fascino e dell’impatto, per noi di Poche Storie, stanno anche nel carattere sfocato e impreciso dell’immagine, che il digitale avrebbe fatto perdere. Ma come evitare che la polizia cinese in borghese, che presidiava la zona, sequestrando le pellicole? Liu chiese a Widener di togliere il rullino dalla fotocamera e lasciare tutto nella stanza d’albergo. Venne pagato un giovane biondo "con lo zaino e la coda di cavallo" - incaricato dalla AP - di far avere il rullino all’agenzia, evitando i controlli della polizia. L’Associated Press fu l’unica a poter diffondere quell’immagine in tutto il mondo: altri quattro fotografi l’avevano fatta, ma i loro rullini furono sequestrati. In questo video sul Washington Post Liu Heng Shing racconta in dettaglio la vicenda. Un altro punto di vista è quello dell’immagine ripresa dal fotografo di Magnum Stuart Franklin, meno famosa ma che offre una visione panoramica di quello che stava succedendo il piazza (qui il racconto sul Guardian). La sua fotografia nel 2003 è stata inserita nella rubrica "Le 100 foto che hanno cambiato il mondo" della rivista Life. Mentre il reporter AP Terril Jones, sembra essere stato l’unico ad aver colto inconsapevolmente l’atmosfera vissuta da chi è stato colto dagli eventi. Brasile. Fare luce sugli scandali per superare la crisi di Michele Valensise La Stampa, 4 giugno 2017 Le immagini di dimostrazioni di piazza e di polizia in assetto di guerra scorrono veloci sui nostri teleschermi. L’America Latina, l’"Estremo Occidente", riaffiora accanto a crisi e violenze del mondo geograficamente più vicino a noi. Ai tropici le piazze si somigliano, ma non confondiamo Brasilia con Caracas. In Venezuela è in atto da tempo uno scontro cruento tra un governo sempre più arroccato su se stesso e un’opposizione composita, in una drammatica emergenza sociale con rischio di guerra civile. In Brasile la destituzione di Dilma Rousseff dell’anno scorso e l’insediamento di Michel Temer alla presidenza della Repubblica erano stati seguiti, dopo anni di recessione, da una timida ripresa economica. Riduzione dell’inflazione, controllo della spesa e avvio di riforme dolorose ma necessarie (Lavoro, Previdenza) hanno migliorato un po’ il clima, grazie soprattutto alla competenza di Henrique Meirelles, ministro dell’Economia ed ex presidente della Banca centrale (con Lula). Invece il quadro politico rimane fragile. Se Dilma non era popolare, chi l’ha detronizzata non gode di consensi più ampi. Trasformismo, spregiudicatezza e corruzione hanno alimentato sfiducia e disorientamento, sull’onda di indagini giudiziarie e di rivelazioni gravi. Lo scandalo che ora ha investito Temer non è cosa da poco. L’accusa è di coinvolgimento personale in un oscuro episodio di corruzione, già costato il carcere all’ex presidente della Camera, suo sodale, Eduardo Cunha, e ad altri notabili. Su un altro fronte lo stesso Lula, icona assoluta del decennio scorso, è insidiato da sospetti e accuse. Una miscela pericolosa, specie nell’instabilità diffusa di questi mesi. Gli scontri sulla monumentale "esplanada" dei ministeri di Brasilia, l’asse che gli architetti Costa e Niemeyer avevano disegnato come la carlinga di un aereo da cui partono le due ali della città, non hanno precedenti e sono un campanello d’allarme. Bene ha fatto il presidente a revocare subito il decreto che autorizzava l’uso dell’esercito per mantenere l’ordine pubblico. Senza precedenti sarebbe anche un impeachment di Temer, artefice a sua volta della cacciata della Rousseff. Se quello fosse lo sbocco, non scontato ma possibile, il Brasile dovrebbe darsi un presidente di transizione, eletto dal Congresso e non dal voto popolare, che resterebbe in carica fino alla fine del 2018. Solo allora ci sarebbe l’elezione diretta del nuovo presidente. Una strada tortuosa e incerta. Nella sua storia il Brasile ha sempre evitato, sin dall’indipendenza, cesure radicali o confronti esasperati. Oggi, nonostante le difficoltà, dispone di istituzioni solide e di un’economia incomparabilmente più forte di quella dei suoi vicini, è membro influente del G20. Guarda al Mercosur per aprire il suo mercato e persino all’Ocse per agganciarsi ai Paesi più avanzati, il che sarebbe nel nostro interesse. Ha mezzi e capacità per gestire la crisi, ma per farlo saranno necessarie scelte responsabili e la volontà di far luce sui troppi lati oscuri della sua vita pubblica.