Telemedicina e terapia del dolore per aiutare i detenuti ammalati di Valentina Stella Il Dubbio, 3 giugno 2017 Giornata organizzata dall’Ordine degli avvocati di Pisa e dalla Fondazione Scuola forense Alto Tirreno. Per l’avvocata Francesca Sassano "in cella la legge contro il dolore è latitante". E Alberto Marchesi, Presidente dell’ordine pisano, spiega: "c’è una difficoltà di dialogo tra le strutture". Terapia del dolore e telemedicina in carcere: questi i temi affrontati nella giornata di studio dal titolo "Il punto sulla medicina penitenziaria: attualità, criticità, prospettive future", organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Pisa e dalla Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno, con il patrocinio del Consiglio Nazionale Forense. Prima dell’inizio dei lavori i relatori hanno fatto una visita alla struttura del carcere di Pisa, tra i 12 centri clinici penitenziari presenti in Italia. Come racconta l’avvocato Alberto Marchesi, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Pisa e moderatore dell’incontro, quello toscano "è l’unico centro clinico, insieme a Torino, all’interno del quale c’è una sala operatoria". Sono 220 gli interventi chirurgici effettuati nel 2016, di cui hanno usufruito detenuti di diversi istituti di pena. Tuttavia ci sono delle criticità soprattutto dopo il trasferimento delle competenze sanitarie dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali. "Esiste una difficoltà sistemica nel dialogo tra strutture sanitarie - racconta Marchesi al Dubbio - ad esempio le Asl usano programmi informatici diversi per memorizzare le cartelle mediche elettroniche e spesso i dati non sono trasferibili telematicamente e si rischia così di perdere la copia cartacea quando un detenuto viene spostato in un altro carcere; poi c’è il problema dei Sert che non dialogano con le strutture sanitarie penitenziarie, e quello della degenza che i detenuti trascorrono in camere chiuse e con pochi spazi per le visite dei familiari che invece sono di conforto in una situazione in cui alla privazione della libertà si aggiunge la malattia". Si sta, comunque, lavorando per migliorare la sanità in carcere con un progetto della Fondazione Toscana Gabriele Monasterio: mettere a disposizione dei reclusi i vantaggi telemedicina. Già dal 2008 la Fondazione insieme all’Area della Ricerca di Pisa del Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) sta portando avanti iniziative finalizzate alla diagnosi e cura delle malformazioni cardiache, attraverso cui si è riusciti a effettuare una visita cardiologica anche a bambini residenti in Romania, Albania, Serbia. Ora l’obiettivo è quello di far entrare questa tecnologia in carcere: "Con un investimento di poche migliaia di euro - conclude Marchesi - i benefici sarebbero enormi: potrebbe esserci una prevenzione capillare senza spostare i detenuti, un risparmio sugli spostamenti dei reclusi, l’ottenimento di una visita specialistica". Si è ora in attesa del placet da parte della Asl competente e della Regione Toscana. Ma i problemi emergono anche per l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte dei detenuti, ossia agli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata con una prognosi infausta o con dolore cronico sia al suo nucleo familiare. Applicata in maniera disomogenea nelle varie regioni, e spesso non rispettandone tutti i punti, la legge 38 del 2010 "nelle carceri ha vissuto da latitante" sostiene l’avvocato Francesca Sassano, relatrice del convegno e coautrice insieme a Lorenzo Cristilli di "Carceri, senza dolore. La latitanza della legge 38/2010" (Casa Editrice Florence-Art) e di "Come applicare la legge contro il dolore - nel sistema penitenziario e non. La Legge 38 del 15 marzo 2010" (Maggioli editore). "La mia non è una frase ad effetto ma solo una scoperta incredibile che è diventata oggetto di un mio studio da alcuni anni. L’applicazione di una legge è una conseguenza necessaria della sua vigenza, le possibili criticità possono sorgere solo dopo la sua applicazione. In questo caso, un po’ paradossale, siamo in partenza", dice l’avvocata Sassano che illustra il progetto che sta portando avanti col Consiglio Nazionale Forense affinché la legge venga finalmente applicata anche negli istituti di pena. "Il Cnf si è fatto portavoce - aggiunge Francesca Sassano - della necessità di garantire l’accesso a tutti i detenuti, perché la dignità della persona deve essere massimamente affermata proprio nel rispetto del diritto alla salute. Per questo l’informazione e la formazione della comunità penitenziaria sono i prossimi obiettivi da perseguire. Sicuramente il circuito virtuoso che verrà a crearsi avrà una ricaduta sociale importante sia sulla adeguatezza delle cure in regime di detenzione, sia per contenere e diminuire il rischio suicidario". In particolare, conclude Sassano "la formazione è diretta a sanitari (medici e infermieri), avvocati, psicologi e ovviamente personale penitenziario, e anche ai destinatari, cioè i detenuti. È auspicabile che questa attività sia svolta in sinergia con la somministrazione di questionari e la elaborazione dei dati da essi ricavati e quindi che coinvolga la Università e gli Istituti di ricerca, con progetti specifici. Sul punto mi sto adoperando per realizzare su tutto il territorio e in ogni regione, utili contatti e coinvolgimenti di ricerca". "Pochi in carcere se è il primo reato". Così furti e rapine restano impuniti di Fabio Tonacci La Repubblica, 3 giugno 2017 Si riapre il dibattito dopo il caso delle sorelle bruciate: solo il 4,6 per cento dei ladri viene scoperto. "La condizionale è un diritto". Un orribile caso di cronaca nera, la morte delle tre sorelle rom bruciate vive in un camper di Centocelle, torna a interrogare il sistema giudiziario italiano. Perché uno dei presunti autori della strage, il bosniaco Serif Seferovic arrestato a Torino giovedì, non più tardi del febbraio scorso era stato condannato a due anni di carcere per lo scippo della studentessa cinese Yao Zhang, conclusosi nel peggiore dei modi: la ragazza investita da un treno mentre cercava di recuperare la borsetta. Serif Seferovic si è fatto ventuno giorni di carcere, poi è tornato in libertà. Perché? Il caso Seferovic - Sembra il fallimento di un intero sistema, che prima acciuffa il ladro e poi subito lo libera, ma in realtà lo prevede la legge per chi è incensurato. Quando strappa la borsa della studentessa cinese lungo la ferrovia romana, il 5 dicembre scorso, Seferovic ha la fedina penale linda. Non ha neanche precedenti di polizia. Dopo che si sparge la notizia della morte dì Yao Zhang, l'avvocato Gianluca Nicolini lo convince a consegnarsi ai magistrati di Roma. Cosa che avviene il 23 dicembre, nel pomeriggio. In quel momento Seferovic è ancora un uomo libero, ma dopo l'interrogatorio viene portato nel carcere di Regina Coeli. Dove rimarrà fino al 13 gennaio, giorno in cui viene liberato dal Tribunale del Riesame perché il suo legale e il pm si sono accordati sul patteggiamento. "Due anni di prigione - racconta Nicolini - una pena alta per uno scippo. Il giudice poi ci ha concesso la sospensione della pena perché non c'erano pericoli di fuga e Serif era incensurato". A febbraio, dunque, è tornato in libertà. La cella l'ha vista solo per ventuno giorni. Gli incensurati - Dire però che in Italia i ladri non pagano mai è una semplificazione grossolana, contraddetta dai fatti: attualmente 11.585 detenuti in carcere per furto (di cui 606 donne) e i 16.242 detenuti per rapina (tra cui 523 donne). È vero, invece, che se si è al primo borseggio è praticamente impossibile finire dietro le sbarre. La pena base per il furto aggravato va da uno a sei anni (fino a dieci anni se commesso in appartamento), ma qualsiasi avvocato col minimo sforzo riesce a evitare all'imputato la prigione. Al processo per direttissima, tra attenuanti generiche (ad esempio, la confessione e la riconsegna del bottino) e la scelta del rito abbreviato che riduce di un terzo la pena, il giudice raramente emette condanne superiori a un anno, si arriva a due nei casi particolari come quello di Seferovic. "Del resto la sospensione condizionale della pena per due anni è un diritto", ricorda Roberto Trinchero presidente delle Camere penali del Piemonte occidentale e Valle D'Aosta. "Quando invece si è recidivi, il discorso cambia". Mamma borseggio - O meglio, dovrebbe cambiare. Perché poi si incontra la storia di "mamma borseggio", come è stata ribattezzata la 36enne nomade arrestata dai carabinieri nel centro di Roma a febbraio. L'avevano notata mentre sbirciava dentro gli zaini di alcuni turisti sulla linea Termini-Vaticano e l'hanno controllata. Quando hanno inserito le sue impronte digitali nel terminale, i militari sono rimasti senza parole: la donna di origini serbe aveva alle spalle 25 sentenze di condanna in Italia per furto e borseggio, una carriera criminale cominciata tra Milano e Firenze ancora minorenne e proseguita per vent'anni grazie ai suoi dieci figli. Ogni volta che veniva catturata, infatti, il tribunale era costretto a liberarla perché costantemente in stato di gravidanza. "Donne incinte e minorenni non finiscono in carcere neanche quando sono ladri conclamati - spiega a Repubblica un alto magistrato di Cassazione - anche nei casi di recidiva, non è così scontato che si vada in cella: perché a un imputato di furto si possa contestare la recidiva che aumenta la pena, infatti, bisogna che ci sia stata una sentenza definitiva per l'altro reato e spesso ci si mette anni". Preso solo uno su venti - Ladri e borseggiatori, poi, spesso sfuggono alle maglie della polizia, in carenza di forze in campo: solo nel 4,6 per cento dei casi (dati Istat) vengono scoperti gli autori, addirittura solo due volte su cento per i furti in appartamento. Certo, se il sistema carcerario svolgesse il compito affidatogli dalla Costituzione, la riabilitazione del detenuto, ce ne sarebbero meno in giro. Uno studio commissionato dal ministero della Giustizia ha dimostrato che un percorso di riabilitazione corretto riduce del 10-15 per cento la possibilità della recidiva. Ma nonostante lo svuota carceri, sono ancora troppo affollate, motivo per cui i magistrati in sede di giudizio per furto tendono a non dare pene tali da finire dentro. C'è poi chi punta il dito sulla mancanza della certezza della pena, perché difficilmente i detenuti scontano l'intero periodo stabilito dalla condanna. "Ma la liberazione anticipata, i permessi, l'affidamento in prova ai servizi sociali sono istituti previsti dal codice - sostiene l'avvocato Troncheri - la certezza della pena talvolta è in contrasto con la rieducazione". Non è più un partito per magistrati: l’altra rottamazione del Pd di Errico Novi Il Dubbio, 3 giugno 2017 Negli attacchi di Davigo e Di Matteo c’è la fine di un’epoca. C’era modo ed modo di accogliere l’endorsement di Nino Di Matteo. Luigi Di Maio ha preferito non dissimulare: "È una buona notizia", ha detto, la disponibilità all’impegno politico (con i Cinque Stelle, è scontato) annunciata dal pm antimafia. Tutto come previsto. Anzi, non si realizzano previsioni che davano in squadra con Grillo persino Piercamillo Davigo e altre figure di spicco della sua corrente, come Sebastiano Ardita. Ma colpisce il fatto che nel giro di pochi giorni il Movimento abbia non solo confermato la propria vocazione di forza in simbiosi con i giudici, ma sia riuscito a strappare definitivamente al Pd tale prerogativa. E anzi proprio il convegno sulla giustizia dei pentastellati ha indirettamente consentito a Matteo Renzi di consumare, pur senza muovere un dito, una seconda rottamazione: ha definitivamente liberato il maggior partito del centrosinistra dal marchio di schieramento amico e in organica sintonia con la magistratura. Sembra niente, e invece nella rivoluzione compiuta dal segretario è un passaggio che pesa quasi quanto lo strappo con la nomenclatura di ascendenza postcomunista. Nel ventennio della cosiddetta Seconda Repubblica il Pds prima, i Ds e in parte il Pd poi sono stati la casa ideale per le toghe sedotte dalla candidatura. Alcune di loro sono pezzi della storia postcomunista. Su tutti Luciano Violante, passato tra l’altro dall’essere paragonato al Vishinsky (l’esecutore delle purghe staliniane) a teorizzare il rischio di una "società giudiziaria". Ma anche Anna Finocchiaro e le importanti figure di magistrato che hanno scelto la grande casa della sinistra, da Gerardo D’Ambrosio a Pietro Grasso. E ancora, giudici che hanno lasciato il segno per motivi diversi, come Giannicola Sinisi e Alcide Maritati, e pm che sono tuttora in Palamento grazie al Partito democratico: Donatella Ferranti, Felice Casson, Doris Lo Moro. Ma ecco, già gli ultimi due nomi dicono molto: eletti col Pd ma tra quei senatori passati all’Mdp bersanian-dalemiano. Casson e Lo Moro sono due esempi di come, con Renzi al comando, l’aria per i magistrati sia cambiata. L’ex premier non ha fatto granché per renderseli amici: ha tagliato loro (o a conti fatti si è illuso di esserci riuscito) le ferie di quindici giorni, ha ventilato una proroga dell’età pensionabile poi ritirata, li ha spesso provocati con battute degne del Cavaliere, su tutte il "brr… che paura" di tre anni fa. C’è uno strappo definitivo che sancisce la fine di un’epoca, e appunto non è direttamente Renzi a consumarlo: è piuttosto in due battute del convegno dei Cinque Stelle. Quella con cui Piercamillo Davigo ha detto che "i corrotti il più delle volte non vengono scoperti e perciò quasi mai sono condannati, ed ecco perché si dice vogliamo le sentenze", riferita chiaramente al segretario Pd; e l’indignata denuncia con cui Di Matteo ha detto che proprio mentre la Cassazione, con la sentenza definitiva su Dell’Utri, descriveva rapporti tra Fininvest e Cosa Nostra, Renzi era al tavolo con Berlusconi per riformare la Costituzione. Due bordate anti-dem da altrettanti magistrati d’avanguardia. Una divaricazione netta, che a questo punto sarà impossibile rimarginare. E che in fondo era stata anticipata da scelte significative come quella di Magistratura democratica: gruppo associativo delle toghe considerato storicamente di sinistra che però è stato l’unico a schierarsi ufficialmente per il "No" al referendum. Il rapporto organico con i giudici è finito per sempre: è un passo verso la maturità, per il Pd. Libero dalla paternalistica invadenza delle toghe a cui invece i Cinque Stelle più o meno allegramente decidono di abbandonarsi. Il senso della giustizia per il M5S: noi innocenti, tutti gli altri colpevoli di Michele Carugi Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2017 Che un "codice etico" di parte venga utilizzato per valutare la idoneità a ricoprire cariche pubbliche è cosa risibile o, peggio preoccupante. Che il codice etico venga modificato "ad usum delphini" quando a cadere nell’occhio delle procure è un proprio un accolito sarebbe ancor più risibile se non fosse un preoccupante segnale di quella che sembra essere l’idea di diritto elastico che i M5S tenterebbero di utilizzare qualora capitasse che arrivino a governare. Che poi il codice etico porti a conclusioni diverse in presenza di stessi ipotetici reati va oltre il ragionevole e indica un atteggiamento arrogante che potrebbe essere espresso, senza tante manfrine attraverso un pensiero simile: "Insomma, chi si dovrebbe dimettere lo decidiamo noi, a nostra discrezione e non ci rompete troppo le scatole". Non è affatto detto che Virginia Raggi, indagata per abuso d’ufficio e falso venga mai rinviata a giudizio. Per sgombrare il campo da ogni dubbio, la mia idea di diritto è che un rinvio a giudizio non debba essere mai considerato sintomo di colpevolezza, ma che si debba attendere la fine del processo giudiziario prima di trarre qualsiasi conclusione sulla cristallinità dei coinvolti. Purtroppo i casi di proscioglimenti "per non avere commesso il fatto" o, addirittura "perché il fatto non sussiste" dovrebbero avere insegnato come capiti con una certa frequenza che nelle maglie della giustizia cadano anche persone innocenti. Pertanto, dal punto di vista del diritto non mi turba affatto che il M5S si prepari a sostenere la correttezza del permanere in carica di Virginia Raggi anche se fosse rinviata a giudizio. Dal punto di vista politico, invece, trovo estremamente contraddittorio che una parte del Movimento abbia chiesto con sdegno virginale le dimissioni di un ministro (Angelino Alfano) indagato per abuso di ufficio e ritenga eventualmente ininfluente, per la permanenza in carica di un proprio rappresentante, lo stesso status di "indagata" sempre per abuso d’ufficio (con eventualmente l’aggiunta del carico del falso). Insomma, altro che due pesi e due misure. Confido che tra i commenti che riceverò, sfrondati dai soliti insulti a perdere che vengono scaricati violentemente sopra chiunque ritenga sbagliata un’idea M5S, qualcuno mi spiegherà la logica che può sostenere posizioni così antitetiche, perché altrimenti i dubbi che già nutro (con qualche evidenza a supporto) sull’obiettività dell’elettorato M5S diventeranno certezze. Eppure, ove si volesse farsi trascinare sulla strada indignata e stabilire una specie di "codice di opportunità" potrebbe comunque venirci in aiuto il codice penale, il quale definisce minimi e massimi di pena per ciascun reato non a caso, ma in base alla gravità dei reati stessi. Si potrebbe applicare questo schema: pena più alta -> reato più grave -> maggiore indignazione -> più forte richiesta di dimissioni. Anche in questo senso, però, non si capisce come il M5S possa avere chiesto, per esempio, le immediate dimissioni dell’ex governatore leghista del Piemonte Roberto Cota quando era indagato per peculato - poi assolto - reato che prevede pene da 6 mesi a 3 anni - mentre si preparava a sostenere la correttezza delle non dimissioni della Raggi ove fosse rinviata a giudizio per falso in atto pubblico, reato che prevede pene da 1 a 6 anni perché, evidentemente, più grave. Il dubbio, a questo punto fondato è che alla base dell’indignazione a senso unico non ci siano un reale senso di giustizia, un sussulto di moralità, il desiderio di purezza, ma il meno nobile intento di affabulare i propri elettori. Così risulta strumentalmente utile allontanarsi dalle evidenze e dalla valutazione dei reati eventualmente commessi, per portarsi nell’area totalmente grigia che è quel "codice etico" che il M5S si è inventato surrogando leggi, codice penale e ordinamento giudiziario e che può essere utilizzato ad personam come conviene. Tanto il codice etico mica deve passare al vaglio dei tribunali. Breve storia del dottor Di Matteo, che forse presto troveremo in via Arenula di Valter Vecellio Il Dubbio, 3 giugno 2017 Dice di non scandalizzarsi dal fatto che un Pubblico Ministero si possa impegnare direttamente in politica. Non dà risposte esplicite a chi gli chiede se sia disposto a fare parte di un futuro governo, magari a guida pentastellare; ma si dice convinto che l’esperienza maturata come magistrato può tornare utile una volta approdato nei banchi parlamentari, governo incluso. Certo che non scandalizzano le dichiarazioni rese dal Pubblico Ministero Nino Di Matteo. Figurarsi. Abbiamo avuto un magistrato (sia pure magistrato per soli quattro anni, dal 1942 al 1946) presidente della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro. Destra e sinistra hanno inzeppato i loro ranghi di "toghe": Luciano Violante, Franco Frattini; e ancora: Gerardo D’Ambrosio, Claudio Vitalone, Enrico Ferri, il di lui figliolo Cosimo; e ancora: Gianfranco Amendola, Ferdinando Imposimato, Tiziana Parenti, Giuseppe Ayala, Adriano Sansa, Felice Casson, Francesco Nitto Palma, Anna Finocchiaro, Alfredo Mantovano, Giuseppe Di Lello… Un ex magistrato fonda un suo partito, Antonio Di Pietro; la stessa cosa ha cercato di farla Antonio Ingroia… Per non dire di Luigi De Magistris, per ora (per ora…) sindaco di Napoli; o di Michele Emiliano, che riesce a fare un po’ di tutto: magistrato a Bari, sindaco di Bari, presidente della regione Puglia, candidato a segretario del Partito Democratico… Infine, come dimenticare Nicola Gratteri, che Matteo Renzi voleva ministro della Giustizia? Fuorviante, inutile, chiedersi se un magistrato, un Pm possa o no darsi alla politica. In quell’arca di Noé che è il Parlamento italiano c’è posto per tutti: ci sono giornalisti, avvocati, ragionieri… Magari non guasterebbe ci fosse anche qualcuno che sa far di politica, ma non si può avere tutto. La domanda da porsi, piuttosto, è se le istituzioni ricavano una qualche utilità dal fatto che un magistrato lascia le aule del tribunale per quelle parlamentari. Domanda che si può estendere anche per altre categorie; per concludere che ha un indubbio fondamento l’affermazione: "Braccia sottratte all’agricoltura". Non fosse che anche l’agricoltura è cosa seria. Se la memoria non inganna troppo, si ricorda un solo caso di magistrato utile alla politica: quello di Cesare Terranova: per anni "toga" in terra di mafia; deputato, componente della commissione antimafia: lui sì, pone al servizio delle istituzioni l’esperienza accumulata nel corso della carriera di magistrato. Finito il mandato nel 1979, torna a Palermo "per terminare il lavoro cominciato". Il 25 settembre 1979 la mafia lo uccide. Per Leonardo Sciascia, suo amico da sempre, eliminato perché "stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo". Ma per tornare al dottore Di Matteo, sembra si sia instaurato un certo feeling con i pentastellati. Luigi Di Maio nel suo blog racconta di un incontro alla Corte di Cassazione; c’è anche il sostituto procuratore John- Henry Woodcock. I tre discutono di corruzione, come contrastarla: "Di Matteo ha pubblicamente elogiato il nostro codice etico... Secondo lui è un importante e positivo segnale di svolta per tutta la politica". Vale la pena (letterale), di leggere un brano di quello che il dottore Di Matteo dice in quell’occasione: "Per troppo tempo abbiamo sentito la politica, ogni qual volta si aveva la notorietà di un’indagine che riguardava il rapporto di un politico con la mafia, dire nella migliore delle ipotesi: "Aspettiamo la sentenza definitiva della magistratura", operando quindi una sovrapposizione tra due concetti che devono rimanere, soprattutto in un sistema democratico, assolutamente distinti: la responsabilità penale e la responsabilità politica. Le polemiche che sono recentemente conseguite all’approvazione di un codice etico interno al MoVimento 5 Stelle che riguarda proprio il rapporto tra l’eletto o il candidato e vicende giudiziarie che lo dovessero riguardare… mi sembrano onestamente sterili, anzi strumentali al mantenimento di una situazione insostenibile. Io credo invece che quel codice costituisca un importante e molto positivo segnale di svolta… finalmente contribuisce a distinguere la valutazione di responsabilità politica che deve scaturire da certi comportamenti o certe situazioni dalla eventuale responsabilità penale". Un codice etico che potrebbe trasformarsi in una sorta di pelle di zigrino, se è vero che Virginia Raggi alla domanda se si dimetterà da sindaco di Roma nel caso di un suo rinvio a giudizio risponde: "direi di no". Comunque vale la pena di approfondirlo il Di Matteo pensiero; soccorre una intervista del novembre 2016 in occasione del convegno "Mafia- Mafie: è ancora Cosa Nostra", a Genova. Di Matteo spiega di aver rifiutato la proposta del Consiglio Superiore della Magistratura di lasciare Palermo per motivi di sicurezza, e di non andare a Roma a lavorare alla Direzione Nazionale Antimafia: "Accettare un trasferimento motivato esclusivamente da eccezionali ragioni di sicurezza avrebbe potuto rappresentare un segnale di resa personale e istituzionale che non ho voluto dare. La mia aspirazione rimane quella di andare alla Procura Nazionale Antimafia; ci andrò solo se e quando supererò un regolare concorso". Come combattere la mafia? "Lo Stato", risponde, "deve dare un esempio di efficienza, trasparenza e pulizia. Questo significa che dobbiamo garantire processi veloci, nel caso di condanna, pene certe che vengano effettivamente scontate e dobbiamo non solo essere, ma - come istituzioni - apparire credibili agli occhi dei cittadini… lo Stato non può avere paura di nulla, non può nemmeno avere paura di scoprire verità che riguardano propri appartenenti e che riguardino eventuali collusioni fra rappresentanti istituzionali con la mafia. Uno Stato autorevole, per essere tale, non può neppure avere paura di processare eventualmente sé stesso". Di Matteo si riferisce all’annosa telenovela che si chiama "trattativa Stato-mafia". Che settori dello Stato siano scesi a patti con le associazioni criminali, non è certo una novità. Si può cominciare con lo sbarco alleato in Sicilia negli anni della seconda guerra mondiale: non a caso "padrini" sono tutti i sindaci dei paesi siciliani; c’è poi Portella della Ginestra, il caso del bandito Giuliano, il caso di Ciro Cirillo… Ma la "trattativa" cui si riferisce Di Matteo, è altra cosa. In sostanza una sorta di strumentalizzazione di mafiosi come Riina e Provenzano da parte di settori dell’apparato statale. Un intrico che parte dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio e si allarga in labirintiche connessioni dove si trova tutto e il suo contrario. Chi vuole cercare di farsi un’opinione sulle evoluzioni di questi teoremi plurimi è bene che ascolti le registrazioni delle varie udienze processuali reperibili nel sito di Radio Radicale. Ci si deve armare di santa pazienza, ma è ascolto istruttivo di come possono andare (anzi: di come vanno) le cose di giustizia in questo paese. Curioso, quello che accade. Il 31 maggio 2013 Riina si fa sfuggire: "Io non cercavo nessuno erano loro che cercavano me"; da quel momento una selva di microspie "insegue" Riina; se ne ricava di tutto, compreso il fatto che il vecchio boss vuole riservare a Di Matteo la stessa fine di Falcone, "la fine del tonno". Le ragioni per le quali Riina lancia questa sua "esca" scatenano una ridda di ipotesi: dall’invio di "messaggi" a chi ha buone orecchie per intendere, alla necessità di rivendicare una leadership ormai irrimediabilmente erosa. Tutto quello che Riina confida, viene regolarmente pubblicato. Un giorno sibila: "Tanto deve venire al processo, è tutto pronto. Organizziamola questa cosa, facciamola grossa, in maniera eclatante, e non ne parliamo più, dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo". Per ragioni di sicurezza Di Matteo non presenzia all’udienza milanese del processo sulla trattativa: è quella dedicata all’audizione di Giovanni Brusca, che nel 1996 svelò i negoziati fra il Ros e Riina tramite Ciancimino. Il ministro Alfano ipotizza che il magistrato circoli a bordo di un lince. Lo stesso Di Matteo prega di lasciar perdere. Per un anno e mezzo (fino al dicembre 2013) è sotto procedimento disciplinare del Csm, assieme al procuratore Francesco Messineo, per le intercettazioni tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino: il Pm ne avrebbe confermato l’esistenza ai giornali e il capo non glielo avrebbe contestato. Finisce tutto in gloria. Nel 2015 il M5S lo inserisce tra i dieci nomi per le presidenziali. Arriva secondo, con il 13 per cento di consensi. Lo precede un altro magistrato, Ferdinando Imposimato (32 per cento). A luglio saranno 25 anni dall’uccisione di Borsellino e la sua scorta. Sarà l’occasione per rievocare tante cose. Non sarà male ascoltare la deposizione di Di Matteo al Borsellino quater, processo che si è dovuto celebrare perché nell’originario si sono condannati innocenti sulla base dell’inattendibile "pentito" Vincenzo Scarantino. Nella requisitoria del Pubblico ministero Scarantino è presentato come attendibile, gli accusati sono condannati senza troppi problemi a svariati ergastoli. Era Di Matteo, quel Pm. "Sembrava del tutto veritiero", dice. "Ma poi intuii che era mendace". Peccato che l’intuizione sia arrivata solo dopo che ha pronunciato la requisitoria, e ottenuto l’esemplare condanna. Anni fa, nel corso della commemorazione della strage di via D’Amelio, Di Matteo accusa "molti nelle istituzioni" di aver "privilegiato il silenzio e l’omertà di Stato, ottenendo l’evoluzione di splendide carriere e posizioni di potere crescente. E alcuni, pur sapendo, utilizzano le proprie conoscenze per piegare le istituzioni alle proprie esigenze". Trasparente riferimento al presidente del Senato Piero Grasso e al presidente emerito Giorgio Napolitano. Vai a capire perché quando Grasso testimonia al processo "sulla trattativa Statomafia", abbia ascoltato la sua deposizione senza batter ciglio e contraddirlo in nulla. Incomprensibile, perché Di Matteo condivide in toto l’impostazione che gli ha lasciato in eredità Antonio Ingroia sul presunto accordo tra apparati istituzionali e Cosa nostra, Quirinale compreso. Ha anche chiesto più volte che Giorgio Napolitano sia chiamato a testimoniare; e non ha mai nascosto quelle che ritiene essere le sue responsabilità e colpe. Destinatario di una quantità di minacce di morte, è evidente che gli investigatori fanno bene a non prenderle sotto gamba. Premesso questo, si può avanzare qualche critico rilievo, coltivare qualche dubbio sul modo con il quale Di Matteo conduce le inchieste, su come concepisce l’amministrazione della giustizia? A suo tempo non piacque per nulla la renziana ipotesi di un Gratteri ministro della Giustizia; così non piace per nulla oggi l’ipotesi grillina che un Di Matteo possa essere ministro dell’Interno o della Giustizia. E pazienza se il dirlo, il pensarlo, procurerà l’accusa, del resto non nuova, di fare "oggettivamente" il gioco di Riina e di Cosa Nostra. I Pm chiedono garantismo (ma soltanto per loro) di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 giugno 2017 Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato una delibera che permette alle toghe di riabilitare la propria reputazione. Attualmente, infatti, non è previsto nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la "macchia" disciplinare. Anche perché il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un caso unico in tutto l’occidente, come ricorda spesso il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Ma tutto questo non basta. I magistrati chiedono infatti che "dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta, si possano eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna". Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato, su proposta della Sesta commissione, competente sull’ordinamento giudiziario, una delibera destinata sicuramente a far discutere. In estrema sintesi, i consiglieri chiedono al Ministro della Giustizia di adottare "ogni iniziativa nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di introdurre un’apposita disciplina legislativa che permetta l’estensione anche alle toghe dell’istituto della riabilitazione". Attualmente non è previsto, infatti, nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la ' macchia" disciplinare. Nella sostanza questo determina, ad esempio, un handicap nei giudizi comparativi per accedere ai posti direttivi. In primis di procuratore o di presidente di tribunale. "Dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta", si legge nella delibera indirizzata al Ministro Andrea Orlando, si potranno dunque eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna. L’Assemblea del Palazzo dei Marescialli chiede, al momento, di limitare la riabilitazione ai casi di condanne alle sanzioni meno gravi (cioè censura e ammonimento), e di porre quale condizione ostativa la pendenza di procedimenti penali o disciplinari per fatti tali da pregiudicare la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario. Censura e ammonimento, in specie, colpiscono i casi di ritardo nel deposito di una sentenza. Va ricordato che ben il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un "unicum" fra le democrazie occidentali come spesso ricorda il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che pone interrogativi su come vengono effettuate le valutazioni di professionalità. Con questo "colpo di spugna" si aumenterà verosimilmente tale numero. "L’ineccepibilità" della condotta richiesta, poi, dovrebbe essere la norma, un prerequisito, per chi esercita la giurisdizione e lo differenzia dalla platea dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Forse sarebbe stato il caso, per ottenere la riabilitazione, di richiedere un qualcosa che vada oltre. E c’è da chiedersi, infine, cosa penseranno i magistrati che si sono sempre comportati in maniera corretta, soprattutto quando vengono comparati i loro profili nell’assegnazione delle tanto ambite carriere direttive. Non solo mafia: Roma e la morte di Falcone di Alfredo Galasso Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2017 Fu solo mafia? Questa domanda, antica, è riemersa nella lunga trasmissione di Rai1, ricca di ricordi e luoghi importanti, dedicata alle stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio. Il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che nelle indagini ogni pista è stata seguita e tuttavia prove idonee a promuovere l’azione penale verso i cosiddetti mandanti esterni non se ne sono riscontrate. Non c’è motivo di dubitarne, allo stato, ma la domanda resta aperta e la verità, del resto, non è tutta e necessariamente giudiziaria, pur se dalle indagini e dai processi possono trarsi elementi utili e che conviene ricordare. La scomparsa della "agenda rossa" di Paolo Borselllino è divenuta il simbolo di una verità incompiuta e il processo di revisione della condanna di undici mafiosi innocenti, che si è aperto a Catania, dovrebbe spiegare da chi e perché è stata organizzata un’accurata opera di depistaggio dopo la strage di via D’Amelio. Ma anche l’uccisione di Giovanni Falcone, certamente voluta dai capi di Cosa Nostra, lascia intravedere una convergenza di personaggi e interessi estranei alla mafia di Totò Riina e più vicini, forse, a quella di Bernardo Provenzano. Un noto esperto di esplosivi, nel corso del processo denominato "Capaci bis" ha spiegato come non potesse essere azionato con tanta precisione l’innesco micidiale sull’autostrada, senza una presenza e una strumentazione di alta tecnologia. Nel primo processo un consulente informatico aveva riferito che il computer di Falcone, nel suo Ufficio al ministero della Giustizia, era stato manomesso e alcuni file cancellati prima che giungessero sul posto la polizia e la Procura della Repubblica. Del resto, Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, ha raccontato che Salvo Lima aveva espresso la preoccupazione che Falcone, a Roma, "si mettesse l’Italia nelle mani". Una preoccupazione politica, dunque, mentre una di natura finanziaria, sempre secondo le dichiarazioni di Siino, l’aveva manifestata Nino Buscemi il capomafia di Passo di Rigano che nel famoso "tavolino" trattava con gli imprenditori del Nord gli appalti siciliani: Buscemi si era molto adirato quando aveva sentito dire a Giovanni Falcone che la mafia era entrata alla Borsa di Milano. Perciò, nel rivedere, ancora una volta, nel servizio di Rai1 il mio battibecco con Falcone, in una famosa trasmissione condotta da Santoro e Costanzo, ho sentito rafforzata la mia contrarietà alla sua decisione di trasferirsi al ministero della Giustizia, che consideravo ambiente inadatto se non infido per svolgere un’azione di contrasto al sistema di potere economico politico e criminale dominante all’epoca delle stragi e capace di riprodursi in ambienti e contesti diversi, come dimostra oggi Mafia Capitale. Un errore grave fu, piuttosto, la bocciatura da parte della maggioranza del Csm di Falcone quale Consigliere Istruttore a Palermo. Paolo Borsellino, che sedeva accanto a me, nella Biblioteca comunale di Palermo (segno evidente, detto per inciso, che non aveva colto alcuna ostilità nella mia presa di posizione nei confronti del suo collega, come pure qualcuno tenta di suggerire tuttora ignorando peraltro che in un rapporto di amicizia e solidarietà si può non essere d’accordo su alcune scelte) rivelò pubblicamente che Giovanni Falcone sarebbe tornato a fare il magistrato. Un ritorno, anzi un rientro noto a pochi e all’interno del Palazzo, che preoccupò non soltanto i vertici mafiosi, quanto e soprattutto i protagonisti del sistema politico-affaristico in pieno sviluppo a quel tempo. E Borsellino aggiunse nella stessa serata che egli aveva chiesto di essere un testimone nelle indagini sulla strage di Capaci. Cosa ciò significasse, per la scoperta della verità tutta intera, fu immediatamente intuito dalla folla che circondò per l’ultima volta in un abbraccio appassionato il "suo" giudice. Non solo mafia, appunto. Se la politica tollera gli speculatori di Nunzio Galantino Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2017 L’appunto porta una data - quella del 27 maggio - e un’indicazione geografica: Genova. Il riferimento è alla visita compiuta da Papa Francesco nella città ligure e, in particolare, a un suo momento specifico: l’incontro con il mondo del lavoro presso lo stabilimento dell’Ilva. Potenza della televisione, i volti di quegli operai che hanno parlato al Papa mi sono rimasti dentro. Ecco Micaela, rappresentante sindacale, che dà voce alla preoccupazione che la nuova frontiera tecnologica - la rivoluzione 4.0, com’è chiamata - non porti con sé nuova occupazione di qualità, ma anzi contribuisca a incrementare precarietà e disagio sociale. Ecco Vittoria, con la sua esperienza di disoccupata e un sentimento di avversione per le istituzioni, avvertite non soltanto lontane ma pure matrigne, intente più a un assistenzialismo passivo che a darsi da fare per creare condizioni che favoriscano il lavoro. Ecco Ferdinando, imprenditore, mettere in fila tanti ostacoli - l’eccessiva burocrazia, la lentezza delle decisioni pubbliche, la mancanza di servizi e infrastrutture adeguate - che spesso impediscono che siano liberate le migliori energie di una città. Ed ecco, infine, prendere la parola anche un lavoratore che riconosce come il lavoro - quando è vissuto adottando atteggiamenti di fratellanza, collaborazione e solidarietà - sia un’occasione privilegiata di testimonianza e di annuncio del Vangelo di Gesù Cristo: logica ben diversa - aggiunge - da quella che non raramente si respira dove prevalgono competizione, carriera e aspetti economici. Il luogo, come ho ricordato, era Genova; ma poteva essere Taranto come Mestre, Torino come Ancona. E se vere mi sono giunte le testimonianze dei lavoratori, a maggior ragione puntuali, provocanti e senza confini mi restano le parole del Santo Padre. A partire da quando ha osservato che nelle famiglie in cui manca il lavoro non è mai pienamente domenica. La mancanza di un’occupazione scippa davvero il tempo della festa, dell’incontro, della distensione. Lavoro e festa, festa e lavoro sono davvero un binomio inscindibile. Certamente, non lo coglie neanche chi non riesce mai a "staccare"; chi - per ambizione o per interesse economico - non sa dire di no e finisce schiavo della sua stessa disponibilità. Quanti matrimoni, quante relazioni ho visto saltare in questi ultimi anni perché chi doveva custodirle si è convinto di non aver tempo. Alla stessa stregua, non è festa nemmeno quella costruita attorno ai "templi del consumo": l’espressione è anch’essa di Papa Francesco, che la scorsa settimana ha messo in guardia da questo idolo, che "promette la vita eterna", ma a ben vedere la risolve nella possibilità di stordirsi nel perimetro stanco di "grandi negozi, aperti 24 ore ogni giorno, tutti i giorni, culti di puro consumo e quindi di puro piacere". Vale la pena di sottolinearlo: la nostra società non uscirà dalla crisi se non saprà recuperare anche la fatica, il sudore del lavoro - "doglie per poter generare poi gioia per quello che si è generato insieme" - e una visione meno edonistica dell’esistenza. Di una cultura "altra" hanno bisogno le nostre stesse aziende. Non si va da nessuna parte, in termini di diritti e, quindi, di dignità, finché il lavoro è pagato in nero. O, come ha denunciato il Papa, finché il datore di lavoro assume a settembre e licenzia a giugno per non farsi carico di qualche mese di contributi. O, peggio ancora, finché qualcuno può agitare l’arma del "ricatto sociale", facendo capire che la coda è lunga: se non accetti le condizioni che ti vengono offerte, puoi andartene, ci sarà più spazio per chi viene dopo di te. Una malattia che colpisce al cuore l’azienda - ha fatto capire ancora Francesco - è la progressiva trasformazione dell’imprenditore in speculatore. A quest’ultimo, il successore di Pietro non ha esitato ad applicare quanto dice Gesù nel Vangelo, quando definisce il "mercenario" contrapponendolo al Buon Pastore. Sì, chi specula è davvero un mercenario, dall’orizzonte meschino: "Non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto; usa azienda e lavoratori per fare profitto, per cui licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto". Rispetto al vero imprenditore - di cui c’è un enorme bisogno - lo speculatore non conosce i volti e le storie di chi lavora per lui: del resto, a lui nemmeno interessano. Il grave è che, stando alle parole del Papa, a volte non interessano più di tanto nemmeno alla politica: "Paradossalmente, tante volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti...". Sono parole che si commentano da sole. Contribuiscono a spiegare le difficoltà in cui da anni il nostro Paese si dibatte. Fanno capire la logica perversa che si cela dietro a tanti ritardi e risposte mancate. Permettono di cogliere il peso e le conseguenze che un sistema iniquo porta con sé. Il "riscatto sociale", per essere tale, domanda il coinvolgimento di tutti gli attori. Non solo: richiede che sappiano mettersi insieme. Perché non basta fare la propria parte. Occorre sapersi inserire in un disegno comune volto al bene, che tutti abbiamo il dovere di contribuire a elaborare, secondo le responsabilità di ciascuno. Chiudo attingendo un’ultima volta alle parole di Francesco: indicano una strada più forte non solo della crisi, ma anche della lamentela e della rivendicazione. Profumano di speranza e fanno giustizia rispetto a giudizi espressi con troppa superficialità. Eccole, queste parole: "Oggi ci sono tanti veri imprenditori, imprenditori onesti che amano i loro lavoratori, che amano l’impresa, che lavorano accanto a loro per portare avanti l’impresa... Gli imprenditori onesti e virtuosi vanno avanti, alla fine, nonostante tutto... Hanno quella mistica dell’amore...". Trentino Alto Adige: è indispensabile il Garante dei detenuti di Andrea de Bertolini Corriere del Trentino, 3 giugno 2017 La necessità di istituire la figura di un garante per i detenuti è passaggio ormai indispensabile. La politica deve dare segnali precisi. Diritti, pena, carcere: un rapporto per il nostro Paese sempre dolente. Un tema che mai andrebbe trascurato per chi ha a cura la salute della società e degli individui che ne fanno parte. Oggi la necessità di riaffrontarlo è indotta dalla condizione penitenziaria non salubre nel nostro territorio regionale. Una regione in cui difetta ancora la figura di un Garante, al contrario presente ormai in quasi tutte le realtà italiane. Per la provincia di Bolzano, una situazione non accettabile: una struttura di fatiscente vetustà che ammorba un concentramento di umanità troppo spesso sovrappopolata e che - come affermato in linea di principio generale dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo con la sentenza Torreggiani - genera trattamenti inumani e degradanti. Per la provincia di Trento, un nuovo carcere, ritenuto architettonicamente "modello", ma una diagnosi, per ragioni diverse, non meno negativa. Nel rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, si scriveva lo scorso ottobre: "La sera sia nelle caserme sia nelle zone detentive circolano dei ratti. Tale situazione, che va avanti da tempo, non è tollerabile e richiede interventi urgenti. La sensazione complessiva di spazi privi di "vita", nel senso di poco frequentati, si avverte in molte parti della struttura. Va segnalato inoltre che nessun detenuto lavora all’esterno, sintomo di una scarsa integrazione con il territorio. L’organico previsto di polizia penitenziaria è di 214 unità, ma quello effettivamente in servizio è di 137 unità di cui 21 distaccate presso altra sede". Al netto delle valutazioni positive per l’area sanitaria, queste alcune delle osservazioni che inducono a chiedersi - peraltro confidandolo - se a oggi la situazione sia migliorata in modo deciso. Ma ancora nel nostro carcere abbiamo subìto un numero di suicidi di detenuti insopportabilmente alto (tre fra il 2013 e il 2014, un quarto nel dicembre del 2016), senza dimenticare l’evidenza mediatica di una vicenda giudiziaria relativa a presunti maltrattamenti morali e fisici sui detenuti che, al di là dell’archiviazione, ha visto comunque un intervento supplente e propulsivo del Garante nazionale. In un simile contesto ambientale, l’assenza del Garante territoriale pesa ancor più, sollecitando il mondo della politica regionale a non procrastinabili risposte. Non possiamo fare naufragare lo sforzo compiuto per una concreta funzione rieducativa della pena, anche e soprattutto voluto dalla Provincia di Trento, lasciando che il carcere sia da una parte, per la quiete delle coscienze collettive, unicamente luogo di repressione retributiva ("tanto reato" uguale "tanta pena") e di oblio, e dall’altra, per i condannati, un luogo in cui si resta marchiati dallo stigma sociale indelebile dell’ex detenuto. La geografia umana, oltre al contesto materiale, considera i luoghi come spazi identitari. Un luogo, a volte, può essere espressione di contingenze culturali di materica sintesi. Rispetto a ciò, l’attuale ambiente penitenziario regionale è certamente distante da quello che vorremmo potesse diventare. Quindi, lontano da una struttura che deve essere in nome della legalità e dei principi costituzionali a fondamento del nostro Stato di diritto e di qualsivoglia moderno democratico sistema sociale. È pertanto davvero indispensabile che il mondo politico, nell’ambito delle proprie competenze, concentri sforzi condivisi per concorrere ad assicurare, attraverso l’introduzione di strumenti di controllo e vigilanza sul sistema penitenziario locale, la risocializzazione del reo e il suo presupposto non negoziabile: l’umanità dei trattamenti intramurari funzionali al reinserimento sociale. La legittima ambizione che il nostro territorio ha espresso, forte di un’identità autonoma, per la delega di funzioni riguardanti l’attività amministrativa e organizzativa di supporto al servizio giustizia, non può esaurirsi in quanto di positivo già fatto. È necessario proseguire, assumendosi la responsabilità, nell’interesse della società e dei cittadini, di istituire tale fondamentale presidio di garanzia. Le recenti notizie apparse sui media locali paiono rassicuranti sul prospettare una pronta soluzione dell’annosa vicenda. L’aspettativa dell’avvocatura trentina e di una consistente ampia parte delle coscienze civili è alta. Ne è prova l’esservi stati negli ultimi due mesi almeno quattro momenti di incontro incentrati proprio sul rapporto tra diritti, pena e carcere, organizzati da università, associazionismo sociale, istituzioni e associazioni forensi, rivolti anche alla comunità che vi ha partecipato con presenze numericamente importanti. L’appello fermo e deciso alla politica è che queste giuste pretese non siano ulteriormente frustrate e che, presto, tale presidio di civiltà possa operare. Non solo per il rispetto dei diritti umani ma anche, proprio, per la salute dell’intera società. Lecce: "Nessuno ci dà lavoro", ex detenuti e migranti contadini in una coop di Chiara Spagnolo La Repubblica, 3 giugno 2017 La fondazione "Con il Sud" li ha finanziati con 280mila euro: "abbiamo bisogno di progetti così". CI sono i melograni e gli alberi di fico, le mele cotogne e le melanzane. Pomodori in molte varietà - dal chiatto di Aradeo al lungo di Galatina una distesa di peperoncini, angurie, meloni e meloncelle, intorno alla masseria Rossa tra Lecce e San Pietro in Lama, diventata la sede della cooperativa sociale agricola Alba e il teatro del progetto "L'alba dell'integrazione nel Salento". La mission è inclusione tramite l'agricoltura, gli attori protagonisti - nella veste di soci e lavoratori - soggetti deboli e svantaggiati, dai migranti ai tossicodipendenti, ex detenuti e alcolisti guariti. Tra loro Luigi De Cagna, 66enne ex gelataio, che non ha vergogna a ricordare il suo passato di dipendenza dalla bottiglia, le cure nella cooperativa Arcobaleno di Diego Pellè, la disintossicazione, il diventare a sua volta operatore "per aiutare le persone ancora intrappolate tra droga e alcol", poi la voglia di fare qualcosa per reinserirsi nella società. Nei mesi scorsi Luigi ha guidato la squadra che ha rimesso in sesto i 10 ettari incolti attorno alla masseria e destinando un intero ettaro all'orto sociale. "L'agricoltura è uno dei settori economici più importanti per il reinserimento di persone che hanno avuto problemi o per l'inclusione di chi è appena arrivato in Italia" spiega Andrea Pignataro, responsabile Gus Puglia e project manager del progetto. Per consentire la sua realizzazione è scesa in campo la Fondazione Con il Sud, presieduta da Carlo Borgomeo, che ha finanziato 280mila dei 350mila euro necessari. "La selezione è stata dura, perché al bando hanno partecipato decine di progetti - chiarisce Borgomeo - Siamo convinti che l'agricoltura incrociata con il sociale possa consentire di fare cose clamorose e che il Sud abbia bisogno di questo piuttosto che di mantenere in vita a tutti i costi aziende al capolinea". Anche Alba, in realtà, ha l'ambizione di diventare una piccola azienda in cui inclusione sociale va di pari passo con produzione, come è già avvenuto in altre regioni d'Italia, aggiunge il presidente nazionale Gus Giovanni Lattanzi. Finora sono state impiegate cinque persone nei lavori dei campi ma a regime potrebbero diventare 15 e aumentare ulteriormente se si riuscisse a concretizzare il sogno di affiancare alla produzione agricola i laboratori per la trasformazione dei prodotti, per mettere sul mercato marmellate, cotognata, succo di melograno, fichi secchi. Proprio per avere il sostegno di persone molto competenti nel campo dell'agricoltura biologica, Alba - con la sua presidente Maria Rosaria Tondo - ha chiesto e ottenuto il partnerariato della Casa delle agricolture Tullia e Gino, che a Castiglione d'Otranto ha trasformato i terreni incolti in uno scrigno di tutela di prodotti locali. "Agricoltori non ci si inventa", ripete De Cagna, spiegando che la terra è una sfida ma anche un'enorme fatica. Insieme ad alcuni ospiti della cooperativa Arcobaleno e a giovani migranti, per mesi Luigi ha arato, costruito impianti di irrigazione, seminato, innaffiato, e ora guarda soddisfatto le sue piantine. "La produzione da immettere sul mercato si avrà tra due o tre anni - chiarisce - ma i fichi stanno già dando alcuni frutti e l'orto sarà produttivo fin da quest'estate. Dobbiamo provarci, perché vogliamo tornare a far parte della società". Porto Azzurro (Li): Corleone "in 2 contro dieci agenti? Mi pare un’esagerazione" di Lara Loreti Il Tirreno, 3 giugno 2017 Il Garante dei detenuti: "Il Provveditorato sull’isola deve mandare detenuti con pene lunghe. E gli agenti devono partecipare alla loro rieducazione". Da una parte il Provveditorato, che "la deve smettere di spedire al carcere Porto Azzurro detenuti condannati a pene brevi, con problemi di tossicodipendenza e/o mentali". Dall’altra la polizia penitenziaria, che "deve essere consapevole di partecipare a un progetto in linea con la Costituzione: mi riferisco all’articolo 27, che promuove il reinserimento sociale del condannato e stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Non le manda a dire a nessuno Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, che interviene così sulla lite che si è verificata ieri nel carcere elbano. Un detenuto nordafricano, con problemi di droga, ha dato in escandescenze nel chiedere la dose di metadone. Ne è nata una accesa lite a cui ha preso parte un altro detenuto e dieci agenti, tutti rimasti lievemente feriti. "Si stenta a credere che due detenuti causino situazioni gravi a dieci poliziotti, onestamente sembra un’esagerazione". Il problema secondo l’analisi del garante toscano dei detenuti è un altro: "C’è da dire che Porto Azzurro è stato a lungo un carcere abbandonato a sé, in una situazione deplorevole, senza un direttore e senza un garante. Da un anno e mezzo finalmente la musica è cambiata, l’istituto sta rinascendo grazie a una serie di iniziative: dalla ristrutturazione dei servizi igienici e dell’area verde al rilancio di spazi come la falegnameria, la panetteria e così via. Non vorrei che qualcuno fosse contrario a queste attività, che comportano inevitabilmente anche un aumento di lavoro". Nel carcere di Porto Azzurro ci sono circa 250 detenuti di cui una ottantina lavora tra l’Elba e Pianosa (più o meno 30) come previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. "Per fare questi tipi di lavori, importantissimi per il reinserimento sociale - riflette Corleone - è necessario che il carcere ospiti detenuti che devono scontare pene lunghe, da poter fruttare per recuperare abilità utili per il lavoro". Da qui l’appello al Provveditorato a fare attenzione alla selezione dei carcerati. "E anche gli agenti penitenziari - aggiunge - devono avere consapevolezza di certi percorsi: le carceri nelle isole devono servire a questo. Chi tra i poliziotti non è d’accordo può sempre chiedere il trasferimento in terraferma". Per Corleone è dunque importante andare a fondo nelle situazioni e non calcare la mano: "Io non metto in dubbio che ci siano degli episodi in cui i detenuti reagiscono male, con aggressività. In certe Residenze per le misure di sicurezza (Rems), ad esempio, i pazienti hanno reazioni forti, ma il personale lì non enfatizza perché è consapevole di fare parte di una grande riforma, quella della chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari". Padova: il falso allarme del neonazista "bomba in piazza" di Andrea Priante Corriere Veneto, 3 giugno 2017 L’Antiterrorismo indaga su un detenuto del Due Palazzi che si dichiarò vicino all’estrema destra e nel 1984 tentò di aggredire Giulio Andreotti. Ora è accusato di aver telefonato a due televisioni annunciando in diretta una bomba a Padova. Il Ros vuole scoprire come sia stato introdotto il cellulare nella prigione. "Il giorno 2 giugno alla parata militare per la festa della Repubblica, in piazza dei Signori a Padova scoppierà una bomba". Sono le 7.51 di giovedì e queste parole risuonano nello studio della trasmissione "La voce del mattino", che va in diretta su Antenna Tre. Nello studio, con il conduttore, c’è l’ex assessore regionale Raffaele Zanon (Fratelli d’Italia) che resta spiazzato: in collegamento telefonico, un uomo misterioso - che si è presentato come "Bruno da Udine" - ha appena annunciato un attentato nella città del Santo. Scatta subito la segnalazione ai carabinieri ma 24 ore dopo ecco un’altra telefonata, stavolta a una trasmissione televisiva della rete "Serenissima". Stesso timbro vocale, stesso nome e identico annuncio: "Tra poche ore a Padova scoppierà". Qui la linea cade o viene interrotta. Ma il messaggio è comunque chiaro e mette in allarme le forze dell’ordine, che fanno intervenire gli artificieri e avviano un controllo minuzioso in tutta l’area della città, dove proprio ieri era previsto l’arrivo del ministro degli Interni, Marco Minniti. Nel frattempo, la segnalazione arriva sulle scrivanie del capo dell’Antiterrorismo del Veneto, Adelchi d’Ippolito, e della sostituta Paola Mossa, che danno il via a un’inchiestalampo condotta dai carabinieri del Ros, che in poche ore riescono a risalire al luogo dal quale sono state effettuate le chiamate. E qui, gli investigatori hanno la prima sorpresa: le minacce sono partite da una cella del "Due Palazzi", il carcere di Padova. Non solo: il responsabile è un detenuto che era riuscito a rimediare un telefonino (naturalmente vietato, all’interno della prigione), che nascondeva nella suola di una scarpa. L’ultimo colpo di scena lo riserva l’identità del presunto mitomane: si tratta di Gerardo Deganutti, triestino di 60 anni, divenuto "famoso" nel novembre del 1984 per aver tentato di aggredire Giulio Andreotti. Fu bloccato dalla scorta dell’allora ministro degli Esteri mentre impugnava una pistola, che poi si rivelò una scacciacani. Deganutti ha trascorso metà della sua vita entrando e uscendo dalle carceri italiane. È un habitué delle "minacce a distanza" e in passato finì nei guai per aver spedito a politici e avvocati lettere minatorie contenenti della polvere bianca. All’epoca si pensò subito a un attentato condotto con l’antrace, invece era polvere che il triestino graffiava dai muri delle celle. "Volevo fare uno scherzo, una provocazione", si difese. In questi ultimi anni ha collezionato condanne con la stessa rapidità con cui si fa disegnare il corpo. "Ho 400 tatuaggi", raccontò in un’intervista in cui spiegava di aver simpatie per l’estrema destra. Così si spiegherebbe la frase "Arbeit Mach Frei" (il lavoro rende liberi) la stessa che accoglieva i deportati nel campo di concentramento di Auschwitz e che lui si è fatto tatuare sulla fronte. Nelle prossime ore l’Antiterrorismo formalizzerà l’accusa di procurato allarme mentre proseguono le indagini per scoprire come sia stato introdotto quel telefonino in carcere. Anche perché non è certo la prima volta che i detenuti del "Due Palazzi" vengono trovi in possesso di cellulari. Firenze: Sollicciano, il digiuno del cappellano. Per il Papa di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 giugno 2017 Don Vincenzo non mangia da 9 giorni: Francesco venga qui a dare una speranza ai detenuti. Un digiuno di preghiera per chiedere a Papa Francesco di venire a Sollicciano. Don Vincenzo Russo, cappellano del penitenziario fiorentino, non mangia da nove giorni. "Ma questo non è uno sciopero della fame - precisa - bensì un gesto simbolico per condividere le sofferenze dei reclusi del nostro carcere, uno dei peggiori d’Italia". Obiettivo, convincere il Pontefice a visitare Sollicciano in occasione del viaggio a Barbiana, in programma il prossimo 20 giugno. Sarebbe un sogno per gli oltre 500 detenuti del carcere. "Una visita di Bergoglio - ha detto Don Russo - darebbe loro una speranza per continuare a sopravvivere". Nei giorni scorsi i detenuti, insieme al sacerdote, avevano scritto un’accorata lettera al Pontefice: "Venga tra noi e ci benedica. Non trasformi il viaggio a Barbiana in una visita museale, indirizzi i suoi passi verso il nostro carcere, il luogo dell’emarginazione più dura". La lettera, spedita la scorsa settimana, è arrivata alla segreteria del Vaticano, che probabilmente ha informato direttamente Bergoglio. Difficile però, nonostante i colpi di scena a cui ci ha abituato il Pontefice, prevedere un cambio di programma durante la giornata fiorentina. Don Russo però continua a sperare, e nel frattempo prosegue il digiuno: "Bevo un bicchiere di latte caldo la mattina e un altro bicchiere la sera, oltre a qualche bicchiere d’acqua durante il giorno". Ieri la visita precauzionale dal medico, che gli ha consigliato di interrompere il digiuno. Eppure, il sacerdote sembra convinto a non mollare: "Continuerò a non mangiare fino a quando non riceverò una risposta ufficiale dalla Santa Sede. La mia non è una bizza - assicura - devo questo gesto estremo ai tantissimi detenuti che vivono in condizioni drammatiche nel carcere di Sollicciano, senza speranze e senza dignità". E se Bergoglio confermerà l’impossibilità di visitare Sollicciano, Don Russo si augura che potranno esserci perlomeno visite future, o magari anche soltanto una lettera scritta direttamente dal Pontefice per riflettere sulla questione Sollicciano. Torino: il Cantico dei cantici fa vincere l'amore dietro le sbarre di Lorenzo Montanaro Famiglia Cristiana, 3 giugno 2017 Come si può leggere il Cantico dei cantici dietro la sbarre di un carcere? Che sapore ha un inno all'amore in un luogo di pena, dove l'amore sembra proibito? Se lo sono chiesti, insieme al regista teatrale Claudio Montagna, 14 detenuti e 8 detenute della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Il risultato è "Metà, Meditazioni sul Cantico dei Cantici", uno spettacolo rappresentato, nelle scorse settimane, all'interno dell'istituto di pena. Al centro del lavoro, un tema delicato, di cui si parla poco: l'affettività in carcere. "Metà" raccoglie l'esperienza, concretissima, di vite "dimezzate". Al di là di categorie e pregiudizi, i detenuti sono uomini e donne, sono padri e madri, mariti e mogli. Hanno affetti, amicizie e legami che per l'intero periodo di reclusione vengono vissuti "sotto vetro", senza la possibilità di un vero contatto. La questione è spinosa, anche sul piano legislativo. "In altri Paesi europei viene affrontata con lo strumento delle visite coniugali" spiega Claudio Sarzotti, docente di Filosofia del Diritto all'Università di Torino "mentre in Italia siamo ancora in attesa di risposte da parte del legislatore. Va osservato, tra l'altro, che le privazioni affettive colpiscono anche i familiari dei reclusi, cioè persone che non hanno commesso alcun reato". Proprio per stimolare la riflessione sui temi carcerari, alcune studentesse del professor Sarzotti si sono inserite nello spettacolo. A loro è toccato il compito di interpretare la voce della legge, da un lato, e quella della "pancia", dall'altro: "se stai lì dentro, dopo tutto, te la sei cercata... è solo quello che ti meriti". Un punto di vista molto comune, che però, oltre a mancare di umanità, dimentica il ruolo di reinserimento sociale che la pena dovrebbe avere e che la Costituzione riconosce. Grazie all'impegno dell'associazione Teatro e Società e di altre organizzazioni tra cui il Gruppo Abele (oltre che alla sensibilità della direzione carceraria), a Torino i percorsi espressivi di questo genere sono ormai una prassi. Ma, di anno in anno, le novità non mancano. L'edizione 2017 ha visto, per la prima volta, una partecipazione femminile. Infatti, accanto a un gruppo di detenuti del padiglione A, protagonisti del corso di teatro avviato a settembre da Franco Carapelle, hanno lavorato al progetto alcune detenute del laboratorio di canto e recitazione corale, condotto dai musicisti Nicoletta Fiorina e Giovanni Ruffino. Anche la scelta del tema è inedita. Da 25 anni il regista Claudio Montagna segue progetti di teatro dietro le sbarre, ma solo ora ha deciso di concentrarsi sull'affettività. Come mai? "È un argomento che va affrontato con delicatezza, perché investe l'intimità di ciascuno. In alcuni spettacoli precedenti era già presente, ma sotto traccia. Forse, tutti questi anni sono stati un lungo lavoro preparatorio". La struttura scenica sottolinea, con forza, l'impossibilità di un contatto: sul palco, uomini e donne stanno in gruppi separati e, benché a dividerli ci sia solo qualche metro, fra loro esiste una distanza siderale. Possono parlarsi solo per interposta persona, oppure facendosi segni da lontano, con un accendino nel buio. Intanto, i loro sogni prendono vita e si fanno parola. Francesco immagina, una volta uscito dal carcere, di riabbracciare sua moglie: "tu non ce l'hai ancora una moglie, non sai che cosa voglia dire passare tutta la sera con lei". Sorin sogna di andare a prendere sua figlia a scuola: "poi la porto al parco e le offro un gelato". Altri immaginano un giro un bicicletta, una corsa in moto, una pasta aglio e olio, mangiata in campagna. Alle voci dei detenuti si alternano i versi biblici del Cantico dei Cantici: parole di un amore intenso e sensuale, che in quella condizione diventano dolore, lontananza e nostalgia. Prima dell'inizio della rappresentazione, incontriamo alcuni dei protagonisti: "Esperienze come queste sono importanti" ci dice Marina, "anche perché ci aiutano a occupare il tempo, sottraendoci, per un po', alla noia, al senso di colpa e di inutilità". Si avvicina un'altra ragazza: "Io vorrei poter fare un lavoro" scandisce, nel suo italiano un po' incerto, ma chiaro "Sì, un lavoro che mi ridia dignità". A proposito di pregiudizi, Michele ricorda l'incontro con un amico: "Eravamo in auto. Parlando dei detenuti, a un tratto lui mi disse: "che schifo. Non vorrei mai avere a che fare con uno che è stato in galera". Lo guardai negli occhi: "finire in carcere è più facile di quanto tu creda. A me è già successo. E ora, per favore, accosta che scendo"". Olga ci parla di una sua poesia, che aveva scritto tempo fa e che è risultata perfetta per inserirsi nello spettacolo: "io non sono sola e tu non sei solo, ma c'è la luna e c'è il sole, che non si incontrano quasi mai, proprio come noi". Chieti: giornata di riflessioni sul carcere al Liceo Vico eventoabruzzo.com, 3 giugno 2017 Momenti di grandi emozioni al Liceo Classsico GB Vico di Chieti. Giovedì 1° giugno presso l’aula magna si è tenuta la presentazione dell’edizione straordinaria e congiunta del magazine "Voci di dentro" e del giornale d’Istituto "Anemos metabolès", frutto di una esperienza di confronto e condivisione maturata tra i detenuti della casa circondariale di Pescara e un gruppo di studenti del Liceo nell’ambito del "Progetto carcere" coordinato dalle Prof. Silvia Elena Di Donato e Antonella Santarelli. Nell’aula Manzini stracolma di studenti, presenti la Dott.ssa Paola Di Renzo rettore-dirigente del Liceo, il Dott. Franco Pettinelli direttore della Casa circondariale di Pescara, il giornalista Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista, e la Dott.ssa Cinzia Turri, responsabile risorse umane della Lazzaroni, la ditta che ha sponsorizzato il numero speciale della rivista, si è parlato di carcere, giustizia, pena, emarginazione. E di periferia, tema centrale della rivista, luogo di disagio ma anche di ricchezza, luogo lontano, ma sempre più vicino e più centrale come centrale e diffusa sono la povertà e il disagio. "Il progetto Voci di dentro - Anemos Metaboles - ha detto la professoressa Antonella Santarelli - parte da lontano, parte dagli incontri al liceo sulla legalità e arriva alla giornata di oggi affrontando il tema della giustizia da vari punti di vista. Ci sono molti mondi possibili e tanti modi di affrontare il tema della pena e del carcere". Il direttore del carcere dottor Pettinelli ha aggiunto: "In carcere non ci si dovrebbe entrare. Bisogna lavorare prima, bisogna fare prevenzione. Per questo sono importanti gli incontri con le scuole e il lavoro di Voci di dentro e il liceo Vico. Perché da qui si parte per costruire un percorso di legalità". Insomma "l’inizio di un cammino", come ha spiegato la preside Di Renzo: "La nostra intenzione è che questa edizione speciale da fatto isolato diventi una collaborazione stabile. È emozionante che i giovani si avvicinino a una tematica che è periferia rispetto alla realtà quotidiana". Grande spazio hanno avuto gli studenti : "La cosa che più mi ha colpito entrando in carcere - ha detto lo studente Lorenzo Di Credico - è che in quel luogo i detenuti sono privati della possibilità di assumersi la responsabilità delle loro azioni". Per fortuna che ci sono i laboratori di Voci di dentro, "momenti di senso - come ha spiegato Caterina Profico studentessa del Liceo - luoghi che aiutano i detenuti a pensare e a costruire un futuro diverso dal loro passato". Momenti di emozione ci sono stati poi quando sono intervenuti Luigi Lainà e Denis Di Lorito, due detenuti della Casa circondariale di Pescara, redattori della rivista, autori di alcuni articoli che sono stati letti durante il dibattito: "spaesati, confusi, felici, non carcerati ma persone libere di essere se stesse senza etichette". Ha detto Veronica Fiaschetti, volontaria di Voci di dentro, redattrice della rivista e che ha guidato con Giulia Giampietro e Michela Cristofaro il laboratorio di scrittura creativa nel carcere di San Donato: "Il laboratorio di scrittura, come quello di teatro, come l’area sartoria o musica, o sala computer, sono un mezzo per arrivare all’unico fine di creare una valida alternativa all’emarginazione e alla devianza. Noi ci crediamo. Perché c’è sempre un’alternativa". Ha aggiunto Giulia Giampietro: "Noi siamo entrati in carcere guardando le persone non il reato…solo così si costruisce un legame, alla cui base vi è la fiducia" Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista ha aggiunto: "Questo giornale fatto con i ragazzi del Liceo Vico mostra la realtà del carcere al di fuori e contro i tanti stereotipi. Un lavoro fatto insieme che ha lasciato a tutti un segno, il segno del cambiamento, il cambiamento non imposto, ma libero e interiore. Tutto questo grazie all’idea della "città", lo spazio gestito da Voci di dentro nel carcere di Pescara frequentato ogni giorno da una quarantina di detenuti e una quindicina di volontari. Una specie di isola dentro il carcere, dove tutti danno e ricevono, perché tutti hanno qualcosa da dare, perché i muri non servono e fanno danni, perché l’errore è un errore e non una persona. E ogni persona ha diritto di essere vista e trattata come una persona e non come un errore". Migranti. Ius soli, il Pd promette (ancora) di approvarlo di Leo Lancari Il Manifesto, 3 giugno 2017 Quasi un milione di figli di immigrati potrebbe diventare cittadino italiano. Il 15 giugno il testo in aula al Senato. Delrio: "Sì alla legge", ma la strada è in salita. Ancora due settimane e poi si capirà se sulla riforma della cittadinanza il Pd fa sul serio oppure no. In ballo c’è il futuro di circa un milione di giovani, la maggior parte dei quali nati in Italia da genitori immigrati, che da anni aspettano di vedersi riconosciuto il loro diritto a essere cittadini italiani. Il 15 giugno va infatti in aula al Senato la nuova legge sullo ius soli dopo essere rimasta bloccata in Commissione Affari costituzionali per un anno e sei mesi dall’ostruzionismo della Lega che ha presentato ottomila emendamenti contro il testo. La decisione di far discutere il provvedimento dall’aula di palazzo Madama serve proprio per aggirare il boicottaggio messo in atto dal Carroccio e dalle altre opposizioni di destra, nella speranza di arrivare così a conclusione prima delle elezioni. "Se i dem non si tirano indietro possiamo farcela", ha dichiarato qualche giorno fa la senatrice di Mdp Doris Lo Moro, relatrice del testo. Dire che si tratta di un provvedimento atteso con ansia è dir poco. Come dimostrano anche i dati elaborati in occasione della festa della Repubblica dalla fondazione Ismu e dai quali si evince la voglia di molti immigrati di diventare cittadini stranieri. Secondo lo studio il 2016 ha fatto registrare un vero record con 205 mila nuovi italiani, cifra che conferma un trend in salta ormai da cinque anni (nel 2012 sono stati poco più di 63 mila). Di questi il 39,7% ha meno di 19 anni, il 9,2% dai 20 ai 29 anni, il 16,4% dai 30 ai 39 anni, il 20% dai 40 ai 49. Gli over 50 rappresentano invece il 13,9%. "Sono diventati italiani soprattutto molti di coloro che appartengono a comunità di antico insediamento e che hanno dunque maturato i requisiti di residenza o naturalizzazione: albanesi e marocchini in testa", spiega la fondazione. Che sottolinea anche come siano cambiate negli anni le modalità con cui si ottiene la cittadinanza. "Se negli anni Novanta e in parte nel 2000 era largamente maggioritario il matrimonio con cittadino/a italiano/a, oggi sono divenute prevalenti le acquisizioni ottenute a seguito di residenza regolare e continuativa sul territorio italiano (sintomo del processo di stabilizzazione delle presenze). Quasi parallelamente sono aumentati i giovani e giovanissimi che hanno ottenuto la cittadinanza perché trasmessa dai genitori e i 18enni che lo hanno scelto". Se approvata la nuova potrebbe creare quasi un milione di nuovi cittadini. Archiviato definitivamente lo ius sanguinis (sei italiano se figlio di italiani), si introdurrebbe uno ius soli temperato in base al quale acquisisce la cittadinanza chi nasce in Italia da genitori stranieri dei quali almeno uno ha diritto al soggiorno permanente, oppure una volta terminato un ciclo scolastico. Una possibilità che potrebbe diventare reale dal 15 giugno, quando al Senato comincerà la discussione del testo. Di sicuro però al momento non c’è niente. Nonostante le solite dichiarazioni di intenti(a favore si sono pronunciati il ministro dei Trasporti Delrio e quello dell’Istruzione Fedeli), il Pd in passato ha più volte fatto cadere la possibilità di arrivare all’approvazione della legge. La rottura tra Matteo Renzi e l’ex alleato Angelino Alfano (già di suo per niente convinto della legge e ora probabilmente tentato di propositi vendicativi verso il segretario Pd), rende la strada per il via libera definitivo ancora più in salita, tenuto conto anche che il M5S potrebbe astenersi, come fece 18 mesi fa quando la legge venne approvata dalla Camera. Droghe. L’erba uruguayana di Alicia Castilla di Paolo Lepri Corriere della Sera, 3 giugno 2017 Se da luglio in Uruguay si potrà comprare la cannabis dal farmacista il merito (o la colpa) è anche suo. Alicia Castilla, 72 anni, scrittrice argentina trasferitasi a Montevideo, ha combattuto infatti una battaglia continua per la liberalizzazione. Nel 2011 è finita in carcere. "Mi hanno trattato come la versione femminile di Pablo Escobar", ha raccontato all’Observer. Ma in prigione, dove ha convissuto per mesi con "gli scarafaggi che scorrazzavano sul letto", fu consultata dai parlamentari che mettevano a punto il provvedimento poi approvato. Sulla nuova legge Alicia ha però "sentimenti contrastanti", come succede spesso agli irriducibili sostenitori di un’idea: "Avrei preferito una libertà maggiore". Nel Paese sudamericano si potranno acquistare 40 grammi di cannabis al mese e sarà possibile coltivare sei piantine. Per farlo bisogna iscriversi a un registro statale, lasciando le impronte digitali. Il governo vuole così sconfiggere il traffico criminale senza incoraggiare il consumo. L’Uruguay sta diventando una specie di Canada in miniatura, anche se dal 2010 al 2015 è stato guidato da un presidente, l’ex guerrigliero José Pepe Mujica, che quando ha ceduto il posto a Tabaré Vázquez aveva quasi il doppio degli anni di Justin Trudeau. È ormai lontana l’epoca terribile delle dittature militari, delle attività coperte di Cia e Pentagono, della guerriglia dei Tupamaros, la cui immagine-simbolo appartiene al film L’Amerikano di Costa- Gavras: il capo che consulta gli altri membri del gruppo, saliti e scesi uno per volta da un autobus notturno, per decidere se eliminare l’ostaggio statunitense. Tutti dicono sì, lui annota su un giornale. E in Italia? Un disegno di legge sulla legalizzazione della cannabis per uso personale e terapeutico (firmato nel 2016 da 221 deputati e 73 senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici), è attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera. Paolo Mieli ha scritto su questo giornale che si tratterebbe di "una conquista sul fronte dei diritti" in grado di regolare "un mercato nascosto sempre più florido". Ma se si voterà in autunno sarà una delle riforme che verranno rinviate. Perché da noi le legislature sono "à la carte". Come i menù. Blue Whale. Quando la scorciatoia è dare la colpa a internet di Gianluca Foglia Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2017 Primo tempo. Mio figlio torna a casa chiedendomi cos’è "il gioco del Blue whale". Rispondo che non è un gioco. Mi racconta che all’intervallo se ne parlava tra compagni. Allora spiego, faccio domande, ne fa lui, ci dedichiamo tempo e facciamo quelle cose che l’uomo trascura: lentezza e confronto. La tv ha una paura fottuta di Internet. Così, prima ancora di sondare la realtà, la televisione attribuisce tutto il peggio che sappiamo fare alla rete. Il Blue whale è solo l’ultimo episodio in ordine di tempo e il prossimo non tarderà a venire (spiaggiando cetacei azzurri sulla sabbia dell’oblio). Anche la tv non brilla sempre, sempre si accende, ma non basta per illuminarci. È un trono stretto, sul quale i posti sono (molto) limitati. Ma ghiotti. Mi documento, guardo in giro, tv e compagnia, l’ansia mi fiuta, mi tasta e se ne va. Ricordo quando mi incidevo il braccio con un taglierino perché avevo visto Rambo 2 (quanto ero sfigato) o quando pensavo che si poteva morire prima che lo decidesse il destino. E tutto questo quando le balene azzurre erano solo in mare. Ma avevo qualcuno con cui parlarne e non mi esplodeva tutto dentro per far credere che fuori andava tutto bene. Quando mi ritrovo in queste parole "Un adolescente non si taglia perché un tizio che nemmeno conosce gli dice di farlo. Si taglia perché non trova ‘le parole per dirlo‘; perché, allo stremo delle proprie risorse mentali non riesce a trovare altro modo per dare forma al proprio vissuto". Così scrive Ada Moscarella e mi porta dritto dritto al secondo tempo di questo articolo: mio figlio mi racconta il giorno dopo: "Allora questo gioco della balena ti fa diventare una balena! A ogni prova che fai, devi diventare sempre di più una balena. Che quando mandi le foto se non sei abbastanza balena, allora devi impegnarti di più. Quando sei abbastanza balena ti butti giù da un palazzo, ma la cosa grave è che da balena non puoi più comunicare con la tua famiglia". Non avere le parole per dirlo è peggio che morire. Stati Uniti. I legami molto pericolosi dell’industria delle armi di Sergio Romano Corriere della Sera, 3 giugno 2017 Le connessioni con l’economia nazionale e la tecnologia del futuro rendono le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Possiamo naturalmente sperare che le armi vendute dal presidente Trump all’Arabia Saudita per 110 miliardi di dollari (complessivamente 350 miliardi nel corso del prossimo decennio) non vengano usate. Ma se usciranno dagli arsenali, il bersaglio sarà verosimilmente l’Iran. Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l’Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto. Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell’islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell’Isis; o addirittura aprire la strada all’avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L’America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1961, Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente definì un "complesso militare-industriale", vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L’industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l’uniforme, hanno avuto rapporti di committenza. Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l’hanno perduta economicamente le grandi imprese dell’Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d’occupazione americane. Ancora più potente l’industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e "intelligenti" hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre. Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump. Iran. Si dissacrano fosse comuni per distruggere prove delle esecuzioni extragiudiziali La Repubblica, 3 giugno 2017 La denuncia di Amnesty international: trovati i resti di almeno 44 prigionieri, uccisi nel 1988, eliminati e sepolti dopo aver trascorso diversi anni di carcere. Ad oggi, nessun rappresentante dello stato iraniano è stato posto sotto indagine o portato di fronte alla giustizia. Amnesty International ha denunciato l'imminente dissacrazione di una fossa comune che si trova ad Ahvaz, nel sud dell'Iran, contenente i resti di almeno 44 prigionieri, vittime di esecuzioni extragiudiziali nel 1988. Verrebbero in questo modo distrutte prove importanti e si rinuncerebbe per sempre alla possibilità di avere giustizia per le uccisioni di massa di prigionieri avvenute in tutto il paese quasi 30 anni fa. L'uso delle scavatrici accanto alle fosse. Le foto e i video forniti dall'organizzazione non governativa "Giustizia per l'Iran" e riesaminati da Amnesty International mostrano delle scavatrici al lavoro accanto alla fossa, circondata da spazzatura e detriti. Anche se le autorità iraniane non hanno fatto alcuna dichiarazione ufficiale, un operaio ha rivelato a un familiare delle vittime che il progetto prevede la distruzione del blocco di cemento che indica la fossa e una successiva costruzione nell'area interessata. "Tentando di distruggere la fossa comune di Ahvaz, le autorità iraniane paiono intenzionate a portare avanti il progetto inquietante e deliberato di distruggere prove importanti relative ai loro crimini passati e di negare alle famiglie delle vittime del massacro delle carceri del 1988 il loro diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione. Si tratta di un agghiacciante attacco alla giustizia che dev'essere fermato immediatamente", ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l'Africa del Nord. Il diritto negato alla degna sepoltura. "Da anni le autorità procurano una sofferenza indicibile alle famiglie delle vittime delle esecuzioni extragiudiziali del 1988. Negano loro il diritto di dare degna sepoltura ai loro parenti e le costringono a camminare tra cumuli di spazzatura quando visitano la fossa comune. Adesso le autorità intendono distruggere quel luogo di riposo eterno e cancellarne la memoria", ha affermato Shadi Sadr, direttore generale di "Giustizia per l'Iran". Le fosse comuni sono considerate "scene del crimine" che richiedono esperienza professionale nel campo medico-legale per eseguire esumazioni e assicurare tanto la conservazione delle prove quanto un'accurata identificazione dei corpi. Dissacrando la fossa comune, le autorità iraniane distruggerebbero prove fondamentali che, un giorno, potrebbero essere usate per fare luce sul numero e sull'identità delle persone uccise mentre erano nelle mani dello stato. Gli scavi fatti in tutta fretta. La fossa comune di Ahvaz si trova in un terreno arido, tre chilometri a est del cimitero di Behesht Abad. Si ritiene contenga i resti di decine di persone che facevano parte delle diverse migliaia di prigionieri politici uccisi in un'ondata di esecuzioni extragiudiziali nell'estate del 1988. Una delle fosse comuni scavate in tutta fretta per disfarsi dei corpi dei prigionieri uccisi è quella di Ahvaz. Le autorità l'hanno coperta di cemento per impedire alle famiglie di scavare la terra per recuperare i corpi dei loro parenti. A maggio un operaio ha confidato a un familiare in visita ad Ahvaz che i lavori in corso riguardavano l'ampliamento della strada che passa accanto alla fossa comune, la successiva demolizione della struttura e la costruzione di uno "spazio verde" o di un centro commerciale. Il diritto delle famiglie di sapere cos'è successo. "Invece di provare a cancellare la memoria dei prigionieri uccisi e a ostacolare la giustizia, le autorità iraniane dovrebbero assicurare la conservazione e la protezione delle fosse comuni del 1988 fino allo svolgimento di un'indagine adeguata e indipendente. Le famiglie hanno il diritto di sapere cosa è accaduto ai loro cari e di dar loro una degna sepoltura", ha detto Mughrabi. Quella di Ahvaz non è l'unica fossa comune del 1988 a rischio di distruzione. "Giustizia per l'Iran" ha avuto notizia del tentativo di danneggiare un'altra fossa comune, nella città di Mashhad, nel nord-est del paese, dove potrebbero essere stati sepolti fino a 170 prigionieri politici. La fossa si trova all'estremità del cimitero Behesht Reza. I morti vengono pubblicamente insultati. Le famiglie che, nel marzo di quest'anno, erano venute in visita in occasione del Capodanno, hanno scoperto che l'area, precedentemente piatta, era stata ricoperta da cumuli di terra. Non è chiaro il motivo di questa variazione anche se vi è il timore che le autorità iraniane stiano tentando di eliminare ogni traccia delle esecuzioni extragiudiziali di massa del 1988. Negli ultimi 30 anni, le autorità hanno mostrato completa mancanza di rispetto nei confronti di famiglie già provate dal dolore. I morti vengono pubblicamente insultati, le fosse comuni sono chiamate "terre maledette" e alle famiglie viene detto che i loro cari erano "gente fuorilegge" che non meritava una sepoltura adeguata né una tomba. Le famiglie non possono svolgere commemorazioni né abbellire le fosse comuni con messaggi e iscrizioni in ricordo dei loro parenti. Prigionieri uccisi dopo molti anni di carcere. Le esecuzioni extragiudiziali di massa risalgono all'estate del 1988 e iniziarono poco dopo una fallita incursione armata, a luglio, da parte dell'Organizzazione dei mojahedin del popolo, che aveva le sue basi in Iraq. In ogni parte dell'Iran prigionieri politici vennero radunati, posti in isolamento e poi uccisi a gruppi e sepolti in fosse comuni o prive di segni di riconoscimento. Alle famiglie venne detto a voce che i loro parenti erano stati uccisi ma i corpi non sono stati restituiti e buona parte dei luoghi di sepoltura rimane sconosciuta. Gran parte dei prigionieri uccisi aveva già trascorso diversi anni in carcere, spesso per nient'altro che aver esercitato pacificamente i diritti umani distribuendo volantini o quotidiani, prendendo parte a proteste pacifiche contro il governo o avendo affiliazione a uno dei tanti gruppi di opposizione. Alcuni avevano già completato il periodo di pena ma non erano tornati in libertà in quanto avevano rifiutato di dichiarare il loro "pentimento". Finora nessuno ha pagato. Ad oggi, nessun rappresentante dello stato iraniano è stato posto sotto indagine o portato di fronte alla giustizia per quelle esecuzioni extragiudiziali. Alcuni dei presunti responsabili continuano ad avere cariche politiche o a mantenere incarichi importanti, come nella magistratura. Afghanistan. A Kabul le forze speciali sparano sulla folla, 5 morti, decine di feriti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 3 giugno 2017 La rabbiosa protesta popolare in marcia sul palazzo presidenziale dopo l’attentato di mercoledì con 90 morti e centinaia di feriti. Nell’Afghanistan "posto sicuro", chieste le dimissioni di Ghani e del governo. La strage "non rivendicata" attribuita ai talebani filo-pakistani della Rete Haqqani. La strage senza paternità che mercoledì ha ucciso un centinaio di cittadini di Kabul e ne ha feriti oltre 400 con effetti devastanti sul centro città che si sono sentiti fino a 4 chilometri dal sito dell’esplosione, è stata seguita ieri da un ennesimo episodio mortale. A farne le spese alcuni dimostranti uccisi dalle forze di sicurezza afgane mentre, assieme ad altri, erano convenuti sul ruolo della strage per protestare contro l’insicurezza quotidiana che circonda la vita nella capitale e in un Paese dove, nei primi tre mesi del 2017, sono state uccise oltre settecento civili e che nel 2016 ha totalizzato il bilancio più grave della guerra infinita: 3.500 morti, in aumento rispetto al 2015. La protesta che dalle prime ore del mattino aveva raccolto un migliaio di persone si è rapidamente trasformata in una manifestazione politica con slogan che chiedevano la testa dei capi degli apparati di sicurezza ma anche le dimissioni del governo di unità nazionale. Numerosi gli slogan contro i talebani (che hanno preso le distanze dalla strage) e il Pakistan. I media locali sostengono che molti dimostranti fossero armati e che abbiano lanciato pietre contro gli agenti (alcuni dei quali sono stati feriti) ma la reazione delle forze dell’ordine, stando anche a quanto dichiarato dai responsabili di Amnesty International nella regione, sarebbe stata spropositata. L’organizzazione internazionale chiede ora un’inchiesta sull’impiego di armi da fuoco durante il corteo. Quel che è certo è che la tensione è salita alle stelle quando i dimostranti hanno cercato di spingersi verso il palazzo presidenziale, non molto distante dal luogo dell’attentato. In sostanza, quando la manifestazione, da semplice reazione di rabbia spontanea, è diventata politica, la sicurezza del governo è entrata in azione. Gas e acqua non sono stati ritenuti sufficienti e si è iniziato a sparare. I morti accertati sarebbero almeno cinque. Molti anche i feriti, con pallottole che hanno colpito alcuni dimostranti ai piedi e alle gambe. Alla protesta hanno partecipato anche alcuni parlamentari e anche l’ex rappresentante speciale di Ashraf Ghani per le Riforme e il Buon governo, Ahmad Zia Massud, licenziato dal presidente qualche tempo fa. Zia Massud (fratello minore del "leone del Panjshir" ed eroe nazionale Ahmad Shah), già vicepresidente con Karzai, si è unito a un sit in nel pomeriggio che chiedeva la testa di Ghani e Abdullah, i reggenti del governo "a due teste" dell’Afghanistan. La situazione resta tesa in città mentre è ancora senza paternità l’attentato che mercoledì mattina ha raggiunto il primato del più sanguinoso attacco suicida che la capitale afgana ricordi. Il massacro senza padrini di Kabul per l’intelligence afghana una firma invece l’avrebbe: i servizi sono infatti sicuri che dietro la strage ci sia la fazione talebana della cosiddetta Rete Haqqani, sanguinaria e favorevole ad attentati stragisti con grandi numeri, che è notoriamente vicina ai servizi segreti del Pakistan. Gli afghani sono così certi della paternità pachistana della strage che il presidente Ghani avrebbe deciso, dopo l’attentato di mercoledì, di firmare l’ordine di esecuzione per undici talebani, alcuni dei quali appartengono appunto alla Rete Haqqani. Nelle stesse ore l’Afghanistan Cricket Board cancellava tutte le partite con il Pakistan fino a nuovo ordine, un segnale non certo solo sportivo in quella che spesso viene chiamata cricket-diplomacy e che lavora proprio in quei Paesi dove il vecchio gioco degli inglesi è ora sport nazionale. Latore di buoni propositi ma anche di totali chiusure. Ghani, che ha ricevuto anche una telefonata di Trump e la solidarietà del generale Nicholson, che comanda le truppe Nato e Usa nel Paese ed è un fautore dell’aumento di soldati stranieri in Afghanistan, è comunque in seria difficoltà. Non solo potrebbe non bastargli il possibile aumento di nuove truppe straniere (anche italiane?) ma il presidente sa che l’abisso del suo Paese non fermerà comunque l’esodo forzato degli afghani venuti in Europa a chiedere asilo: nonostante lo stop alle deportazioni deciso a caldo, Angela Merkel ha fatto infatti sapere che il piano di rimpatrio andrà avanti.