Cassa Ammende, più autonomia per finanziare i progetti per detenuti e vittime di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2017 La Cassa Ammende ha un suo Statuto e, soprattutto, ordinamento e finalità e modalità di finanziamento chiari. Con il Dpcm 102/2017, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 149 del 28 giugno 2017, è stato stabilito che "La Cassa, ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico". Eroga i propri fondi per il finanziamento di: a) programmi di reinserimento di detenuti, di internati, di persone in misura alternativa alla detenzione o soggette a sanzioni di comunità; b) programmi di assistenza ai detenuti, agli internati o alle persone in misura alternativa alla detenzione o soggette a sanzioni di comunità e alle loro famiglie; c) progetti di edilizia penitenziaria di riqualificazione e ampliamento degli spazi destinati alla vita comune e alle attività lavorative; d) programmi di giustizia riparativa in favore delle vittime del reato o della comunità locale, anche comprensivi di eventuali contributi a sostegno dell’attività volontaria gratuita o del lavoro di pubblica utilità del reo. Le entrate della Cassa, dotata di presidente, consiglio di amministrazione, segretario generale, collegio dei revisori dei conti, consiglio di amministrazione, e collegio dei revisori dei conti, derivano da: rendite patrimoniali; interessi sui depositi e su titoli; proventi o altre entrate espressamente devolute o assegnate dalla legge; depositi costituiti presso la Cassa e ad essa devoluti per disposizione dell’autorità giudiziaria; proventi delle manifatture carcerarie; vendita di beni mobili fuori uso; entrate eventuali e diverse. Le entrate in conto capitale sono costituite da ricavi per vendite di beni immobili ed altri beni fruttiferi, rimborsi di titoli di proprietà e finanziamenti. Il Dpcm entrerà in vigore il 28 luglio 2017. Detenuti, scandalo braccialetti: pochi e costosi di Davide Milosa Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2017 Ce ne sono solo 2mila. Spendiamo per ognuno 115 euro al giorno, Londra 7 euro. Doveva essere messo ai domiciliari, così non è stato, perché il carcere ha terminato i braccialetti elettronici. La vicenda che riguarda l’attore Domenico Diele accusato di omicidio stradale per aver travolto e ucciso a Salerno la 48enne Ilaria Dilillo, riporta di grande attualità il tema del braccialetto elettronico. Tema cruciale per diversi motivi. Tra i vari, certamente, la possibilità, incrementando l’utilizzo di questo strumento, di dare un po’ di sollievo al problema del sovraffollamento delle carceri italiani. Sollievo, non tanto di più. Questo va detto. Oggi il vero nodo dei nostri penitenziari sta nei circa 15 mila detenuti senza fissa dimora e condanne non superiori ai due anni. Si tratta di persone che potrebbero usufruire di pene alternative, l’ostacolo è la mancanza di domicilio. Il braccialetto elettronico è comunque ritenuto oggi uno strumento molto utile sia da parte dei giudici sia da parte della polizia penitenziaria. C’è solo un problema: in Italia ne esistono solamente duemila. Di questi, poi, una percentuale minima è dotata di gps. La maggior parte, dunque, è utilizzabile solo per chi deve stare ai domiciliari e non può essere applicata alle persone che di giorno possono uscire per svolgere attività lavorativa. Eppure, la storia del braccialetto non è nuovissima. La sua introduzione risale addirittura al 2001. In quell’anno, a Milano in particolare, alcuni detenuti riuscirono a liberarsi dello strumento. Per questo i giudici evitarono il loro utilizzo. Dal 2012, in poi, l’uso è aumentato. Giusto per capire: nei primi sei mesi del 2012 ne furono attivati 26, nella seconda metà altri 85. Mentre nei primi tre mesi del 2014 erano già 140. L’EX ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri spinse per il loro utilizzo. L’idea era di metterne in circolazione 4 mila in più, 6 mila in totale. "Ad oggi - spiega il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria - siamo ancora a duemila e sono tutti utilizzati. Dal loro esordio ad oggi, lo stato italiano ha speso 173 milioni di euro. Uno spreco enorme, rispetto a uno strumento, comunque, di grande utilità". Una cifra esorbitante alla quale non corrispondono risultati di rilievo. "Almeno 700 detenuti - prosegue il sindacato - oggi potrebbero essere messi ai domiciliari, ma la mancanza di braccialetti li fa restare in galera". "La scelta del braccialetto - spiega un ex dirigente del Dap che non vuole essere citato - dipende dai tribunali. È in sostanza una sorta di aggravante ai domiciliari. Uno strumento di controllo ulteriore che deve essere deciso dai giudici. Naturalmente i detenuti possono rifiutare". Insomma, oggi il vero problema sono i numeri e i costi. Tra pochi giorni dovrebbe essere assegnata la nuova gara bandita dal Viminale per il biennio 2017-2018. Obiettivo: mettere in circolazione 12 mila apparecchi. Valore dell’appalto: 45 milioni di euro. Ad oggi, i braccialetti vengono gestiti da Telecom. Il sistema prevede un’assistenza h24 per 365 giorni all’anno. Tutto viene remotizzato in una centrale operativa. Il braccialetto viene applicato alla caviglia, il segnale rimanda a una centralina installata nell’abitazione. È la centralina che coglie ogni anomalia e lancia l’allarme. Il costo giornaliero per ogni apparecchio si aggira attorno ai 115 euro. Cifra esorbitante se si pensa ai soli 7 euro inglesi. E del resto anche sui grandi numeri l’Italia è buona ultima: in Gran Bretagna oggi i braccialetti sono ben 25 mila. Da noi la prospettiva è di arriva a 12 mila, anche se nell’attualità siamo fermi ai 2000 introdotti 16 anni fa. L’equilibrio necessario tra giustizia e informazione di Antonello Soro* Corriere della Sera, 30 giugno 2017 Nel testo di riforma del processo penale al governo è affidata la delega legislativa che disciplina l’uso delle intercettazioni per garantire il diritto di cronaca senza però che ci vada di mezzo la tutela della privacy. Il disegno di legge per la riforma del processo penale, approvato in via definitiva lo scorso 14 giugno, affida al governo una delega legislativa importante, tra l’altro in materia di intercettazioni. Importante per il tema stesso oggetto di disciplina, in quanto ridisegna i rapporti tra alcuni presupposti essenziali di un sistema democratico: potere di accertamento dei reati, diritto di difesa libertà di stampa, riservatezza delle parti e dei terzi, a qualunque titolo coinvolti nel procedimento. E altrettanto importanti sono le scelte compiute, nel merito, dal legislatore, molte delle quali si conformano alle direttive emanate da alcune Procure oltre che alle indicazioni più volte fornite dal Garante sul tema. Rileva in tal senso, in particolare, la garanzia di una più puntuale selezione del materiale investigativo assicurando, nel doveroso rispetto dei diritti della difesa, che negli atti processuali non siano riportati interi spaccati di vita privata (delle parti ma soprattutto dei terzi), del tutto estranei al tema di prova, dunque non necessari ai fini delle indagini. E si tratta di una soluzione che, pur coprendo tutte le fasi procedimentali in cui assumono rilievo le intercettazioni, dal brogliaccio all’acquisizione, rimette doverosamente la decisione definitiva all’autorità giudiziaria, nel contraddittorio delle parti. Per altro verso, la salvaguardia del diritto di informazione è assicurata da uno specifico criterio di delega, volto a tenere conto della giurisprudenza Cedu in materia. La valorizzazione di tali criteri direttivi, nell’esercizio da parte del governo della delega legislativa, consentirà, auspicabilmente, di minimizzare l’impatto sulla privacy (delle parti e dei terzi), che ha uno strumento prezioso ma anche assai invasivo, come quello intercettativo, senza minimamente indebolirne l’efficacia. L’effettiva tenuta "sociale" di tale riforma dipenderà tuttavia, in misura significativa, da come i principi sanciti saranno "vivificati" ogni giorno, in quell’impegno comune a cui sono chiamati, su questo terreno, tutti gli attori coinvolti. Non saranno infatti le sole norme, per quanto eque e lungimiranti, a poter garantire il migliore bilanciamento tra i vari diritti in gioco, in assenza di un’etica e deontologia professionali capaci di da- re corpo, di volta in volta, ai principi enunciati in astratto dal legislatore. E questo soprattutto in una materia che, nel rapporto con la riservatezza, coinvolge due dei presìdi essenziali per uno Stato di diritto: la giustizia e l’informazione. Le quali si caratterizzano principalmente, entrambe, per la loro indipendenza e, quindi, per la responsabilità nell’esercizio delle rispettive funzioni. Responsabilità tanto più necessaria rispetto al potenziale distorsivo del processo mediatico, in cui logica dell’audience e populismo penale rischiano di rendere la presunzione di colpevolezza il vero criterio di giudizio. Ma a questo esercizio di responsabilità, seppure in forme diverse, non devono sentirsi estranei neppure quanti - valorizzando la straordinaria risorsa, offerta dalla Rete a ciascuno, di rendersi autonomo artefice di informazione - rilanciano su blog o social network atti d’indagine, immagini d’imputati in vincoli, interrogatori di indagati, a volte addirittura in stato di detenzione, senza filtri e spesso persino videoregistrati. La dignità della persona è, infatti, un valore che tutti, in misura proporzionale al nostro ruolo nella società dell’informazione, dobbiamo difendere. Ne va della qualità della nostra democrazia e del senso stesso della cittadinanza. *Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali E adesso basta, separate le carriere in magistratura di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 giugno 2017 I pm fanno politica? Bene. Allora siano sottoposti alla politica. Dopo venticinque anni d’incursioni giudiziarie, salti nei cerchi di fuoco, intrecci sempre più inquietanti tra procure e giornalisti, arrivati al climax dell’indagine sull’inchiesta Consip, che sembra la sceneggiatura di un thriller fantapolitico -con giornalisti, carabinieri e magistrati che sembrano lavorare in pool per terremotare il governo del paese (a proposito: si veda sul dizionario la definizione del sostantivo "eversione") - raggiunto insomma un tale livello di sputtanamento e di compromissione del sistema inquirente italiano, viene da dire, con una certa dose di fatalismo e un sospiro, quasi facendo spallucce: visto che alcuni pm fanno politica, e a quanto pare non c’è modo di impedirglielo, allora separiamo le carriere, distinguiamoli dai giudici, e mettiamoli finalmente a diretto contatto con la politica. Lì dove evidentemente già stanno. Insomma mettiamo i pubblici ministeri alle dipendenze dell’esecutivo, come accade in molti altri paesi del mondo occidentale, nazioni, come la Francia, da cui potremmo prendere esempio in materia di limpidezza dei comportamenti istituzionali, efficienza democratica e bilanciamento dei poteri. E certo questa è una vecchia idea, una soluzione radicale - ma quali sono le alternative? - che la magistratura organizzata in questi anni ha sempre respinto con forza, mobilitando lo sdegno dell’opinione pubblica cosiddetta sana e impegnata, spalleggiata da quei famosi giornaloni del buon senso democratico e civile. È un’idea che veniva dal mondo di Berlusconi - orrore - era considerata alla stregua di un’azione punitiva da parte del Caimano nei confronti della libertà e dell’indipendenza della magistratura, largamente - fin troppo - intesa. Ma stanno davvero così le cose? Quali poteri sono davvero sotto scacco in Italia, da almeno venticinque anni? L’esecutivo o il giudiziario? Il legislativo o il giudiziario? La risposta è sotto gli occhi di chiunque non sia un fanatico, o un sepolcro imbiancato. La risposta è davanti agli occhi di ciascuno, adesso forse più che mai, nei giorni in cui la procura di Roma indaga sull’indagine dai contorni perlomeno discutibili del pm Woodcock, mentre in Parlamento, dal 2013, il partito che ha più scranni di tutti è una forza che accompagna il culto zelota delle manette all’idea perniciosa che la democrazia rappresentativa (cioè il Parlamento) sia un concetto superato. E sarebbe il potere giudiziario quello in pericolo? Ma per favore. E allora visto che i magistrati con il loro autogoverno non riescono, o non vogliono, "autoriformarsi", come si ripete noiosamente da sin troppo tempo, dev’essere il potere legislativo, cui questo compito spetta per diritto costituzionale, a riequilibrare i pesi falsi della nostra povera Repubblica impazzita. Che si separino le carriere! I pm saranno avvocati dell’accusa, in diretto contatto con la politica che già praticano, e non più circonfusi da quell’alone di finta terzietà e di rispetto istituzionale, se non sacrale, che dovrebbe evocare la parola "magistrato". Poi ci saranno i giudici. I magistrati, quelli cui, non a caso, gli anglosassoni mettono la parrucca e il tocco sulle spalle. Ma che davvero siano magistrati. Silenti, nelle loro torri eburnee. Altro che "riforma penale": lo stalking è depenalizzato di Virginia Della Sala Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2017 La legge dà al giudice la possibilità di estinguere il reato facendo pagare una multa. Albamonte (Anm): inciampo del governo. Prima l’allarme dei sindacati (Cgil, Cisl e Uil). Poi la conferma della criticità della situazione in un’intervista di Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, al quotidiano online rassegna.it: con un articolo del ddl penale - approvato con la fiducia a metà giugno con l’obiettivo dichiarato di una giustizia più certa e tempi più brevi - di fatto si depenalizza e indebolisce il reato di stalking. Il giudice, fa notare Albamonte, potrà decidere che pagando una multa potrebbe esserci l’estinzione del reato in quei casi per cui la querela può essere ritirata. Con due problemi. Primo: potrà avvenire anche senza la remissione della querela da parte della vittima. Secondo: interesserà i casi più frequenti di stalking, dai pedinamenti alla persecuzione. L’articolo. Il problema è l’introduzione di un articolo, il 162 ter, dal titolo "Estinzione del reato per condotte riparatorie". Si riferisce a tutte le categorie dei reati, ma ha conseguenze soprattutto per lo stalking. Prevede che nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice possa dichiarare estinto il reato quando, dopo aver sentito le parti, reputi che l’imputato abbia "riparato interamente" e prima del processo, il danno che ha causato, con "restituzioni o risarcimento" e abbia "eliminato, ove possibile, le conseguenze". Risarcimento che può essere riconosciuto dal giudice anche qualora la persona offesa dovesse essere contraria. E, soprattutto, anche qualora non volesse ritirare la querela. Il legislatore. Secondo i relatori della legge (in primis la deputata dem Donatella Ferranti), si tratta di un articolo che non riguarda le condotte gravi di violenza e di minaccia "quelle per cui non è prevista la remissione della querela", ma solo una pletora di molestie meno gravi sulle quali decide il giudice. Nessun automatismo, quindi, spiega la Ferranti: "Il fatto che il molestatore cessi la sua condotta - non violenta, chieda scusa e risarcisca il danno è un aspetto molto importante, soprattutto quando è minimo È il concetto di giustizia riparativa: io posso ottenere l’estinzione del reato ma devo integralmente riparare il danno alla vittima. O eliminarne le conseguenze. E la vittima deve comunque essere ascoltata". Femminicidi. Il Pd ha reagito alle critiche parlando di fake news e "terrorismo psicologico". Eppure è di una settimana fa il caso di Ester Pasqualoni, l’oncologa uccisa dallo stalker contro il quale aveva presentato due denunce. Entrambe archiviate. "Ritengo sia molto grave indebolire il reato di stalking in un momento in cui è evidente quanto sia indispensabile - spiega l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha contribuito a scrivere la legge quando era presidente della Commissione Giustizia - e mi dispiace assisterne allo svuotamento". Lo stalking, spiega, può essere realizzato con minaccia o molestia e può essere punito dopo la querela. "Dal 2013, per alcuni reati caratterizzati da "reiterate minacce gravi" non si può più revocare la querela. Ma resta la possibilità di rimetterla per tutti quei casi in cui le minacce siano gravi ma non reiterate e per tutti i casi di stalking commessi con molestie. Ovvero, la maggior parte". Normalmente, infatti, lo stalking avviene con sms, pedinamenti, telefonate. "Quasi mai con la pistola puntata alla testa. Senza contare che con questi metodi persecutori lo stalker potrebbe ottenere facilmente anche la remissione della querela e continuare con la sua condotta". Dagli inseguimenti al farsi trovare ossessivamente in tutti i luoghi frequentati dalla donna. Ossessione. E poi ci sono i casi di stalking commessi con minacce che il pm potrebbe considerare non gravi: un messaggio in cui si scriva alla donna "se stasera non esci con me non sai cosa ti succederà", potrebbe non essere considerato tale. "Lo stalker è un personaggio ossessivo. Non ho mai incontrato uno stalker che punti un coltello alla gola e dica "vieni a cena con me". Una norma frutto della "tendenza a un eccessivo perdonismo propria di una certa sinistra - conclude la Bongiorno - che ha generato anche un articolo discriminatorio visto che potrà risarcire solo chi potrà permetterselo". Il ministro Orlando ammette l’errore: "correggeremo la norma sullo stalking" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2017 La legge sulla riforma penale non è ancora andata in "Gazzetta", il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha firmato ieri il provvedimento, ma già si annuncia che verrà corretta. E su un punto poi non marginale, come gli effetti della nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie. Ad annunciarlo ieri è stata una nota dello stesso Orlando, con la quale si sottolinea da una parte che "le preoccupazioni espresse sull’applicazione dell’estinzione del reato per condotta riparatoria, sia pure soltanto alle ipotesi meno gravi di stalking, secondo le interpretazioni degli uffici risultano non fondate". Tuttavia, chiarisce ancora Orlando, "per evitare comunque qualunque possibilità di equivoco interpretativo si deve agire riconsiderando la punibilità a querela prevista nella legge del 2009. È una modifica sulla quale il Governo sta intervenendo. Ritengo essenziale il contrasto alla violenza sulle donne e ricordo che nel provvedimento antimafia che il Senato approverà martedì è prevista la applicabilità delle misure di prevenzione personale agli indiziati di stalking". E lo strumento sul quale traghettare la decisione è già stato individuato dall’Ufficio legislativo del ministero nel disegno di legge che estende la procedibilità d’ufficio per tutte le ipotesi di corruzione di minorenne. Il provvedimento è già stato approvato dalla Camera e ora è in discussione al Senato. Il nodo da sciogliere, che ha agitato il dibattito in queste ultime ore, è quello degli effetti estintivi del reato, quando l’autore ne ripara le conseguenze nell’area dei reati perseguibili a querela. Di qui l’interrogativo sulla possibile applicazione anche allo stalking, dove, peraltro, si prevede sì che il reato è perseguibile a querela e quindi sembrerebbe rientrare a pieno titolo tra i delitti suscettibili di estinzione per condotte riparatorie. Ma poi l’articolo 612 bis del Codice penale puntualizza che la remissione della querela, nei casi meno gravi, deve sempre essere processuale e cioè avvenire davanti all’autorità giudiziaria, mentre, nei casi più gravi, quelli di commessi attraverso una sequenza di minacce, una volta presentata, la querela non è più revocabile. Tanto basta alla presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti per smorzare l’allarme, mettendo in evidenza come "nessuno stalker che usi violenza o minacce gravi contro una donna potrà mai cancellare il reato con un semplice risarcimento. Non c’è alcun errore o svista da correggere" Per Ferranti si tratta di "una norma equilibrata, improntata alla ragionevolezza e al vero garantismo. Le condotte gravi di stalking, quelle che preludono a fatti di efferata violenza, sono o soggette a querela irrevocabile o procedibili d’ufficio, dunque non rientrano assolutamente nella giustizia riparativa. La norma sulla giustizia riparativa resta riservata esclusivamente ai casi marginali di molestie, e anche in questi casi ci sarà comunque un giudice che dovrà valutare, sentita la parte offesa, la congruità delle condotte riparatorie". Assai più critica l’Anm. Con il presidente Eugenio Albamonte per il quale "la preoccupazione è sicuramente fondata. Le nuove soluzioni che sono state pensate dal legislatore, con spirito deflattivo, cioè con l’intento di ridurre il carico di lavoro che grava sugli uffici giudiziari del penale, sono incappate, non so quanto volontariamente, in questo errore. E cioè che anche per reati gravi come lo stalking, il giudice possa decidere, sulla base del risarcimento del danno, l’estinzione del reato procedibile a querela, senza che ci sia un’effettiva remissione della querela stessa". L’antimafia per tutti nel Parlamento degli incompetenti di Giovanni Fiandaca Il Mattino, 30 giugno 2017 Riforme che incidono profondamente sui diritti fondamentali, come quella volta a estendere la confisca preventiva antimafia all’indiziato anche di un solo delitto contro la pubblica amministrazione, non dovrebbero essere varate in assenza di una elaborazione tecnico-giuridica adeguata. Purtroppo, in Parlamento predominano incompetenze, confusione, improvvisazione e approssimazione. E non dovrebbe costituire criterio di decisione politica determinante, per un partito come il Pd, la paura di essere accusato dai grillini di non voler fare sul serio nella lotta alla corruzione. Ribadisco, in sintesi, perché l’innovazione è poco ragionevole. La confisca di prevenzione cosiddetta allargata, che può avere ad oggetto l’intero patrimonio, è stata introdotta nel 1982 riguardo agli indiziati di appartenenza alla criminalità organizzata di stampo mafioso, sulla base di un presupposto empiricamente avvalorato dalle conoscenze criminologiche: che il mafioso sia un soggetto che accomuna patrimoni grazie a una attività illecita ripetuta e protratta nel tempo. Da qui la presunzione legislativa che le ricchezze acquisite, salva prova contraria, siano frutto di pregresse e reiterate condotte delittuose. Una presunzione analoga non risulta, invece, altrettanto ragionevole (con la possibilità, dunque, di essere sindacata dalla Corte Costituzionale) nel caso di chi sia indiziato di aver commesso, ad esempio, un solo piccolo peculato o anche una sola corruzione: la persona a cui capita di commettere un reato contro la pubblica amministrazione non è infatti, perciò stesso, un soggetto professionalmente o abitualmente dedito a compiere reati dello stesso tipo. Per superare una simile incongruenza, gli attuali relatori al Senato Lumia e Pagliari hanno ritenuto di far proprio un suggerimento del Procuratore nazionale antimafia, consistente nell’aggiungere che il soggetto in questione debba altresì essere indiziato di far parte di un’associazione per delinquere, anche cosiddetta semplice (art. 416 Cp). Con tutto il rispetto per il Procuratore Franco Roberti, questa modifica aggiuntiva non mi pare idonea a risolvere il problema. Nella logica della confisca allargata, decisivo non è infatti che il singolo reato contro la pubblica amministrazione sia oggetto del programma criminoso di un’associazione: ma, piuttosto, è determinante la presenza di riscontri circa la continuità o la professionalità dell’attività illecita, elementi questi che possono anche prescindere dal fatto che il soggetto sia o meno indiziato di appartenere ad un sodalizio criminale. Tutto ciò premesso, auspicherei - almeno allo stato attuale - un atto di sopravvenuto pentimento parlamentare, con conseguente blocco della riforma. Tanto più che, nonostante la stragrande maggioranze dei cittadini lo ignori, la confisca antimafia può già in base al diritto vigente (a partire dai pacchetti sicurezza de12008 e de12009) essere applicata a tutti i soggetti indiziati di essere "abitualmente dediti ad attività delittuose", quale che sia l’attività criminosa che viene in rilievo e, dunque, anche un comportamento delittuoso abituale contro la pubblica amministrazione. Il diritto vigente, per quanto paradossale possa sembrare, è quindi comparativamente più intelligente e ragionevole rispetto alla novità in discussione: novità che, evidentemente, i fautori della riforma vorrebbero introdurre proprio per consentire il sequestro e la confisca dell’intero patrimonio prescindendo dall’accertamento di una abitualità nell’illecito, ma in presenza appunto anche di un solo reato contro la pubblica amministrazione. Questa tendenza ad estendere, oltre il ragionevole, sequestro e confisca antimafia non è solo frutto di un populismo penale onnivoro, che strumentalizza politicamente la lotta alla corruzione come spot elettorale. Essa non tiene, per di più, conto della perdita di legittimazione che la normativa italiana sulle misure di prevenzione sta cominciando a subire per effetto della Corte Europea di Strasburgo, in particolare a partire dalla recente sentenza "de Tommaso". Anziché incrementare i difetti del sistema attuale, approvando una novità normativa non solo discutibilissima ma di pressoché nulla utilità pratica, il ceto politico farebbe meglio ad avviare un processo di profonda revisione dell’intero sistema della prevenzione personale e patrimoniale, in modo da renderne meno generici e vaghi i presupposti applicativi, e così da riscriverlo in linea con i principi di civiltà giuridica additati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Roberti: "Codice Antimafia, testo più equilibrato, sarà più facile prevenire questi reati" di Liana Milella La Repubblica, 30 giugno 2017 Il procuratore nazionale per la lotta alla mafie e al terrorismo: "Sono state accolte le proposte che avevo presentato alla Commissione Giustizia. Manca ancora un tassello contro gli agenti che operano sotto copertura". "Sì, adesso la norma va bene. È un punto di mediazione coerente con il sistema delle misure di prevenzione". Dice così il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti che già davanti alla commissione Giustizia del Senato aveva suggerito proprio questa soluzione. Cambia la pagina della corruzione. Un passo avanti o uno indietro? "È una modifica coerente con le regole già in vigore. Il sistema delle misure di prevenzione, che esiste soltanto in Italia, non si basa su una condanna, ma sul giudizio di pericolosità del soggetto. Con le leggi attuali si fonda su due pilastri, il comportamento delittuoso abituale, oppure le condotte delittuose riferibili a un contesto associativo". E quindi, lei dice, siamo in una linea già tracciata? "La modifica inserisce in questo sistema le condotte più gravi contro la pubblica amministrazione, nonché la truffa finalizzata a ottenere pubbliche erogazioni. Ma è opportuno che esse rientrino nel programma di un’associazione per delinquere. Il singolo peculato o la singola truffa, di per sé, possono essere un indizio di pericolosità, ma senza una condanna definitiva è difficile ottenere la misura di prevenzione". Quali vantaggi verrebbero dalla nuova norma? "Già ora, sulla base del comportamento delittuoso abituale, si può applicare una misura di prevenzione personale e patrimoniale per tutti i reati. Ma l’abitualità delittuosa deve essere dimostrata ". E quindi dov’è la novità? "Sarà più agevole applicare le misure di prevenzione ai corrotti. Senza il rischio di sollevare un problema di incostituzionalità per disparità di trattamento. Se il corrotto o il corruttore sono inseriti in un contesto associativo sarà più agevole dimostrare la pericolosità ". Quindi non è un cedimento? "Questa è una valutazione politica che non mi riguarda. Dal mio punto di vista, che è tecnico, non lo considero affatto un cedimento. Perché d’ora in avanti una misura di prevenzione contro i corrotti sarà più agevole e praticabile, soprattutto in assenza di una condanna. Peraltro, già oggi, per i condannati per corruzione è obbligatoria la confisca dei beni di valore sproporzionato ai redditi dichiarati, salvo che non dimostrino la loro legittima provenienza". Però in un’inchiesta famosa come quella del Mose il 416 non viene contestato... "Già oggi basta dimostrare che i soggetti vivono abitualmente di delitti contro la pubblica amministrazione per applicare la misura di prevenzione. Non so poi se questo sia il caso degli imputati del Mose...". Perché evoca il rischio di una bocciatura della Consulta? "Non bisogna mai fare norme inutili o peggio incoerenti con i principi del sistema, ma norme efficaci e utilizzabili". Come risponde a chi critica la legge perché si potrebbe applicare a fatti molto antichi? "Non è così, perché bisogna sempre dimostrare che la pericolosità è attuale. A meno che il reato non sia riferibile a un contesto associativo per cui si procede a distanza di tempo. Non bisogna mai dimenticare che i reati associativi sono permanenti". Il divieto di giustificare i beni come provento di evasione fiscale è giusto? "È sacrosanto, perché finora i corrotti si giustificavano con le riserve in nero. Ora bisognerà dimostrare la legittima provenienza del denaro e dei beni". È certo che per la corruzione non si dovrà provare anche il legame con la mafia? "Certamente, perché nel primo caso, con il 416bis, ricadiamo in una misura che già esiste, mentre così il campo si allarga e l’accertamento riguarda anche l’associazione semplice". Lei se la sente di dire che con questo codice si fa un passo avanti? "Sì, ma manca ancora uno strumento importante contro la corruzione, gli agenti sotto copertura con la garanzia del controllo giudiziario, già indicati nella convenzione Onu contro la mafia e la corruzione del 2000, e poi una previsione di non punibilità per chi rompe il vincolo dell’omertà e collabora con la giustizia, già prevista nei documenti europei". Tutti quei dubbi sull’omicidio di Yara che l’appello potrebbe dissolvere di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 30 giugno 2017 Inizia oggi il processo di secondo grado per Massimo Bossetti e la sua difesa mostrerà prove fotografiche e testimoniali (un elicotterista) che dimostrerebbero come il corpo della ragazza non era lì nelle settimane precedenti il suo ritrovamento. Si gioca tutto, la sua stessa vita, Massimo Bossetti, che comparirà questa mattina davanti alla Corte d’assise d’appello di Brescia dopo la condanna che un anno fa l’ha inchiodato alla pena dell’ergastolo per la morte di Yara Gambirasio. Perché il secondo grado di un processo non si limiti a un mero atto notarile che ricopia nelle motivazioni la sentenza di primo grado, magari con un ritocco verso il basso della pena, occorre che i difensori dell’imputato sappiano convincere i giudici a riaprire il dibattimento sulla base di elementi nuovi o trascurati nel primo processo. La scommessa è tutta qui. L’inchiesta è stata molto mediatica e ricca di forzature. Certe distorsioni non albergano solo nelle inchiesta di tipo politico, come quella sulla Consip. Basti pensare a quel furgone che abbiamo visto cento volte girare e girare intorno alla palestra da cui è uscita Yara, salvo scoprire in aula durante il primo processo addirittura dalle parole del colonnello dei Ris che si trattava di un video montaggio costruito "per esigenze della stampa". In realtà quel furgone, ammesso che fosse quello di Bossetti, cosa non dimostrata, passò una sola volta. Ma l’immagine costruita mostrava invece il lupo mannaro che girava e girava in attesa di trovare una preda. Questo è solo un esempio delle forzature che hanno costellato tutta la fase delle indagini, fino all’arresto del muratore, che ci hanno mostrato come una bestiola sorpresa da fari accecanti, mentre un carabiniere gridava "prendilo prendilo, sta scappando, scappa! ", come se si trattasse di mettere in cattività una belva feroce. Neppure gli arresti di mafia hanno comportato tanta crudeltà. Il grosso della partita si gioca sul dna, dopo che neppure la grande accusatrice, la pm Letizia Ruggeri, ha saputo determinare quale fosse con certezza il movente del delitto. L’unica prova (e non è da poco) a carico di Massimo Bossetti è quella di esser stato identificato come quell’Ignoto Uno che lasciò una sua impronta genetica sui leggings e sugli slip di Yara. C’erano altri dna sul corpo della ragazzina, ma non sono mai stati identificati. Inoltre è stata fatta un po’ di confusione nei laboratori scientifici, tanto che a un certo punto il dna del presunto assassino è stato addirittura mescolato a quello della vittima. Inoltre non c’è la parte mitocondriale, ma solo quella nucleare che definisce la paternità ma non la maternità. I punti non chiari sono molti. Si sa che la difesa mostrerà anche prove fotografiche e testimoniali (un elicotterista) che indicheranno come Yara potrebbe essere stata uccisa altrove, in quanto il suo corpo non era lì nelle settimane precedenti il suo ritrovamento. A tutti questi dubbi è doveroso aggiungerne un altro, che può parere assurdo, ma che va preso comunque in considerazioni. In diverse trasmissioni televisive (prima a Telelombardia e poi a Quarto grado) la signora Ester Arzuffi, madre di Bossetti, ha dichiarato con insistenza di non avere mai avuto rapporti sessuali con Giuseppe Guerinoni, l’autista di pullman che è sicuramente il padre biologico del muratore. Potrei esser stata inseminata a mia insaputa nello studio del mio ginecologo, ha insinuato, fornendo anche particolari. La sintesi della vicenda sarebbe: è possibile che Guerinoni sia stato un donatore di seme? E in questo caso, quanti fratellastri di Bossetti si aggirano in quelle valli? E uno di loro non potrebbe essere il vero assassino di Yara? È difficile che la Corte d’appello prenda in considerazione questo elemento, anche perché ufficialmente l’inseminazione artificiale in Italia è iniziata in anni successivi. Ma molti medici e biologi hanno sostenuto che sperimentazioni un po’ clandestine erano in corso fin dagli anni settanta. Sarebbe interessante assistere a una disputa scientifica sul punto nell’aula della corte d’appello. In ogni caso la riapertura del dibattimento sarebbe doverosa. Quando i dubbi (sul movente e sulla dinamica, oltre che su un dna incompleto) sono così tanti, la certezza del diritto è importante per la vittima prima di tutto. E anche per l’imputato, perché non diventi una vittima anche lui. Dell’Utri non finisca come Rizzoli di Melania Rizzoli Libero, 30 giugno 2017 L’ex senatore è in carcere nonostante le gravi condizioni di salute. Fu così anche per Rizzoli: non venne trasferito in un ambiente più idoneo e ci lasciò la pelle. Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute di Marcello Dell’Utri il mio cuore sobbalza, e vengo pervasa da un senso di amarezza, di disgusto e di indignazione che credevo sopiti, e che invece riemergono intatti e vivi dentro di me. Soprattutto vengo assalita da ricordi orribili, che tornano a galla nitidi, quelli dei giorni e dei mesi trascorsi in inutili e ridicole battaglie per dimostrare e certificare una accertata ed evidente incompatibilità con il regime carcerario, nell’illusorio tentativo di sottrarre un detenuto in attesa di giudizio a una condanna a morte certa, senza riuscirci, perché quella morte puntualmente è arrivata, nonostante fosse stata più volte annunciata, prevista e inascoltata. Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute di Marcello Dell’Utri, io penso a mio marito Angelo Rizzoli, arrestato nel 2013 in condizioni cliniche molto peggiori di quelle attuali dell’ex senatore, e in quelle gravi condizioni mai liberato, mai mandato in un luogo idoneo di cura né tantomeno ai domiciliari, se non allo scadere dei termini di legge, dopo quattro mesi e mezzo di carcerazione preventiva in cella, nei quali le sue molte patologie si sono aggravate, sono precipitate e lo hanno quindi, poco dopo, condotto a morte. Senza mai aver subìto un interrogatorio, un processo o una condanna, ad eccezione di quella di morte, firmata in calce dalla giustizia italiana. Ogni volta che leggo una notizia sullo stato di salute del detenuto Marcello Dell’Utri, io spero che la storia non si ripeta, che lui non faccia la fine di mio marito, anche se le loro situazioni sanitarie e giudiziarie sono molto differenti, come pure lo stato detentivo, che per Angelo fu solo preventivo, e fatto di abbandono, di noncuranza, di sottovalutazione e di isolamento, trascorso nel disinteresse generale e senza una voce che ne denunciasse alle autorità competenti l’incredibile crudeltà a lui applicata. Ma più che le differenze, sono le analogie tra i due casi quelle che mi colpiscono, e quella che ritengo più pericolosa è la certificazione di "compatibilità" con il regime carcerario, firmata da un perito nominato dal giudice, il quale, in entrambi i casi, ha omesso di prendere visione degli esami strumentali, ignorato le analisi a disposizione ed evitato un approfondimento specialistico, pur nella discrepanza tra lo stato clinico evidente del detenuto e quello da lui certificato. Quella dichiarazione di compatibilità, emessa in presenza di altri periti di parte che la contestavano apertamente con documenti inequivocabili, ha determinato di fatto la condanna a morte di Angelo, e deve essere tornata in mente a qualcuno se, alcuni giorni fa, ha indotto a intervenire ben due Garanti per i diritti dei detenuti, quello nazionale Mauro Palma e quello del Lazio Stefano Anastasia, che sono andati entrambi a verificare di persona la condizione in cui si trova Marcello Dell’Utri. Il quale, ricordo, sta scontando una condanna definitiva per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa dal luglio 2014, e da allora è stato più volte ricoverato d’urgenza in pericolo di vita per seri problemi cardiaci, setticemici e prostatici. Da mio marito Angelo non si è mai presentato alcun Garante, nessuna autorità competente ha mai denunciato la causa-effetto della sua inumana detenzione, nessuna coscienza illuminata ha mai pronunciato una parola: anzi, il pm che firmò il suo ordine di cattura è stato promosso al Csm, e soprattutto nessuna figura istituzionale ha mai chiesto scusa per quella morte annunciata, per quella inchiesta penale dalla quale lui è uscito in un silenzio imbarazzante, senza un processo, senza una condanna, però cadavere. La mia non è una voce vedovile che lamenta un’ingiustizia subita e una morte evitabile, ma è quella di un ex parlamentare che ha cognizione di causa, che ha visitato le carceri italiane e verificato con i propri occhi la precaria situazione sanitaria di molte di queste che ho raccontato in un libro "Detenuti" (ed. Sperling & Kupfer), nel quale ho denunciato le evidenze cliniche di molti dei loro inquilini, alcuni dei quali erano talmente gravi che in quelle celle sono poco dopo deceduti. La mia speranza è quella che ne venga evitata un’altra, di morte, che si tratti di Marcello Dell’Utri o di chiunque altro sia nelle stesse fragili condizioni, e la cui vita è custodita nelle mani dello Stato e affidata in quelle della Giustizia, due istituzioni del nostro Paese che dovrebbero tutelare i loro cittadini detenuti, qualunque sia il crimine commesso, assicurare loro dignità e diritti e almeno uno straccio di garanzia di vita e non di morte. Nella partecipata il project manager come pubblico ufficiale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 28 giugno 2017 n. 31676. Il project manager di una società partecipata risponde dei reati propri del pubblico ufficiale e/o dell’incaricato di pubblico servizio. A determinare la sussistenza del reato proprio non è tanto la qualifica formale ma piuttosto le funzioni espletate nel ruolo e, anche, quelle svolte all’interno della squadra incaricata di realizzare le opere previste dall’appalto. La Quinta penale della cassazione -sentenza 31676/17, depositata ieri - entra nel delicato e talvolta grigio rapporto tra impresa pubblica e privata, decidendo sull’impugnazione dell’ordinanza cautelare relativa a un gruppo di indagati dell’inchiesta sui lavori ai terminal dell’aeroporto di Malpensa. In particolare il ricorso analizzato dalla Quinta riguarda il project manager e assistente alla direzione lavori delle opere, a cui la Procura prima e il Gip di Milano poi hanno riconosciuto la qualifica di pubblico ufficiale per applicare le misure cautelari. Secondo i difensori dell’indagato - contrattualmente un semplice "quadro" di un’impresa partecipata da Fnm - mancano i presupposti per riconoscere, in capo alla persona in questione, i poteri di manifestazione della volontà della Pa e anche quelli certificativi è autoritativi, avendo il tribunale inoltre ignorato l’effettivo ruolo di "tecnico di supporto", cioè con mansioni esclusivamente esecutive, ricoperto del project manager. La Corte ha invece avallato l’operato del Gip, valutando anche il versante oggettivo (cioè societario) in cui sarebbero maturati i reati contestati (corruzione, oltre a varie ipotesi di illeciti legati dalla associazione per delinquere). Innanzitutto la Quinta giustifica la natura di enti pubblici di Ferrovie Nord e Nord Ing. (un braccio operativo del gruppo) nella lettura del dlgs163/2006 (l’abrogato codice degli appalti, articolo 3, "qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale") ma più avanti contestualizza anche le specifiche mansioni svolte dall’indagato "in qualità di importante collaboratore della squadra di direzione lavori".Proprio in questo contesto, scrive la Corte, "il tribunale ha ravvisato lo svolgimento di una pubblica funzione", in quanto all’indagato erano di fatto riconosciuti poteri deliberativi e certificativi per conto dell’autorità pubblica. In questo specifico ambito, argomenta il relatore, è possibile qualificare l’attività contestata come funzione pubblica, e non pubblico servizio. L’aspetto fattuale nell’inquadramento giuridico dei comportamenti è più rilevante di quello puramente formale, continua la Quinta penale, perché "pur rivestendo formalmente un ruolo subordinato rispetto a quello dell’ingegnere direttore dei lavori, l’indagato era in realtà il vero referente di (…) per la progettazione esecutiva, e in tale veste ne ha seguito ogni fase anche antecedente e successiva all’aggiudicazione del subappalto". Processo da rifare se la condanna in appello arriva dopo l’assoluzione senza risentire i testi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2017 Corte europea dei diritti dell’Uomo - Sezione I - Ricorso 29 giugno 2017 n. 63446. Se i giudici di appello ribaltano il verdetto di assoluzione stabilito in primo grado e condannano l’imputato senza aver sentito nuovamente i testi, centrali per la nuova decisione, è certa la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto a un processo equo. A commetterla, questa volta, è stata l’Italia condannata ieri da Strasburgo per violazione dell’articolo 6 (ricorso n. 63446/13). La Corte europea, poi, non solo ha deciso un indennizzo alla parte lesa, vittima di un processo non equo, ma ha anche indicato come misura individuale la riapertura della procedura o l’avvio di un nuovo processo. A rivolgersi a Strasburgo un cittadino italiano che, dopo essere stato assolto in primo grado dall’accusa di estorsione e possesso di esplosivo, era stato condannato in appello. I giudici di secondo grado avevano ritenuto attendibili i testi che, invece, i colleghi del tribunale avevano ritenuto non credibili perché le deposizioni erano state imprecise, illogiche e incoerenti. La Corte di appello di Palermo, poi, aveva ribaltato l’assoluzione senza sentire nuovamente i testi, ma basandosi sulle trascrizioni contenute nel fascicolo. Di qui l’azione a Strasburgo che ha dato ragione al ricorrente. È vero - osserva la Corte europea - che le modalità di applicazione dell’articolo 6 nel procedimento di appello dipendono dalle caratteristiche e dalle funzioni del procedimento interno, ma se i giudici di secondo grado sono chiamati a decidere sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, non possono decidere, per motivi di equità del processo, "senza una valutazione diretta dei mezzi di prova". Questo non era avvenuto perché la Corte di appello si era pronunciata su una questione fattuale, ossia la credibilità delle deposizioni, senza sentire direttamente i testimoni pur valutandoli in modo opposto rispetto ai giudici del tribunale. Un iter contrario all’articolo 6 perché, osserva la Corte, la valutazione della credibilità dei testi è una procedura complessa che non può essere eseguita "con la semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni già rese e trascritte in un verbale". Anche la Corte di cassazione, sezioni unite, d’altra parte, con la sentenza n. 27620/2016 ha chiesto che, in caso di diversa valutazione dell’attendibilità dei testi, i giudici di appello rinnovino l’istruzione dibattimentale. Accertata la violazione, la Corte ha imposto all’Italia di versare 6.500 euro per danni non patrimoniali. Ma questo non basta perché, per Strasburgo, non è possibile lasciare in piedi gli effetti di processi svolti in violazione delle regole sull’equo processo. Così, lo Stato dovrebbe celebrare un nuovo processo o riaprire la procedura. Ma c’è un ostacolo perché in Italia, a differenza di altri Stati, manca questa possibilità in caso di condanne arrivate da Strasburgo. Toscana: in Consiglio regionale giornata dedicata ai diritti dei detenuti gonews.it, 30 giugno 2017 Oggi, venerdì 30 giugno, a palazzo del Pegaso, giornata dedicata ai diritti dei detenuti. Futuro del garante regionale dei diritti dei detenuti e ruolo di soggetti del terzo settore che operano in carcere e si impegnano nella promozione di percorsi di reinserimento di persone detenute, ex detenute o sottoposte a misura alternativa. Di questo si parlerà domani, venerdì 30 giugno, nell’auditorium del Consiglio regionale (via Cavour 4) con un doppio appuntamento: alle 10.30 "Gli Stati particolari del carcere in Toscana" e alle 15 "Il terzo settore nelle carceri in Toscana". Alla luce dell’approvazione da parte della Camera dei Deputati della legge delega sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario, sarà affrontato il tema delle riforme fondamentali anche sulla scorta del lavoro degli Stati Generali. Occorrerà individuare i modi per essere incisivi nella predisposizione dei decreti delegati che il Governo dovrà presentare al Parlamento. Inoltre, a partire dalle indicazioni della relazione annuale del Garante regionale Franco Corleone, approvata dal Consiglio regionale, sarà valutato il lavoro di traduzione concreta dei punti del Patto per la Riforma, sottoscritto lo scorso anno con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, al fine di migliorare la qualità delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri. L’altro punto di discussione riguarderà la risoluzione approvata in aula, con la quale il Consiglio si impegna ad elaborare una normativa, attraverso l’Ufficio di Presidenza, per una figura di garanzia unica dei diritti della persona. Il nuovo organismo comprende difesa civica, difesa dei diritti dei minori e dei detenuti. Alla discussione partecipano, oltre a Corleone, il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone. La giornata di lavoro proseguirà nel pomeriggio, con una riflessione sul ruolo e l’impegno delle organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, fondazioni ed enti no-profit che in Toscana operano in carcere per la promozione dei percorsi di reinserimento delle persone detenute, ex detenute o sottoposte a misura alternativa. Nell’ambito del seminario sarà presentata e discussa la ricerca realizzata dal centro sociale evangelico di Firenze, in collaborazione con il Garante e con la Fondazione Giovanni Michelucci. Il monitoraggio e la ricerca, oltre ad aver censito i soggetti attivi in Toscana e analizzato i vari progetti sviluppati, hanno dato vita ad un data base consultabile ed aggiornabile su piattaforma on-line dedicata. Abruzzo: Garante dei detenuti, Bracco (Si), lancia appello per nomina di Rita Bernardini abruzzo24ore.tv, 30 giugno 2017 "Il Consiglio regionale dell’Abruzzo adempia ai propri doveri, metta la parola fine a ben due anni di stallo ed elegga Garante dei detenuti una persona con uno straordinario senso dello Stato e altamente competente come Rita Bernardini". Con queste parole il consigliere di Sinistra Italiana Leandro Bracco è tornato a occuparsi della spinosa questione dell’elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Questione che pare essere finita in una strada senza uscita. "L’ultima, eclatante iniziativa di cui Bernardini stessa è stata protagonista - commenta Bracco - è sfociata, dopo quasi un mese di sciopero della fame per protestare contro le condizioni dei detenuti nel nostro Paese, in un malore cardiaco a causa del quale la 64enne leader dei Radicali si trova tuttora ricoverata in ospedale. Si tratta dell’ennesimo tassello che dimostra il notevolissimo spessore umano e la sensibilità verso gli ultimi di cui la candidata proposta dal compianto Marco Pannella si fa portatrice". "In qualsiasi paese del mondo - precisa il consigliere regionale - una donna che arriva a mettere a repentaglio la propria vita per i diritti dei detenuti sarebbe accolta con i tappeti rossi nel momento in cui si candidasse a Garante; eppure in Abruzzo, dopo circa due anni, ancora non si riesce ad assistere a un gesto di responsabilità da parte di maggioranza e opposizioni che si concretizzi in un voto che la legge istituiva del Garante medesimo impone essere di almeno i 2/3 e cioè 21 consiglieri sui 31 complessivi. Nei mesi scorsi - prosegue l’esponente di Sinistra Italiana - la maggioranza di centrosinistra (composta da 18 membri), o per via di assenze o a causa di frizioni interne, non è mai riuscita a essere compatta al proprio interno con la conseguenza che al massimo 15 dei suoi 18 consiglieri hanno votato per Rita Bernardini". "Mi permetto di rivolgere un appello ai 7 consiglieri che costituiscono il centrodestra - sottolinea Bracco - verso alcuni dei quali, in questi tre anni di consiliatura, ho maturato sentimenti di stima e apprezzamento per la propria competenza, passione legislativa e precisione: votiamo Rita Bernardini e così facendo daremo finalmente un po’ di lustro alla nostra martoriata regione. Mettiamo per una volta da parte la provenienza partitica e diamo la precedenza e premiamo la preparazione e lo spessore etico e politico". "Ribadisco per l’ennesima volta il mio sostegno e il voto a Bernardini e mi appello al Consiglio regionale nella sua interezza - conclude Leandro Bracco - affinché si mettano da parte i giochetti di palazzo al fine di dotare il sistema giudiziario abruzzese di una figura fondamentale quale è il Garante dei detenuti". Terni: colloqui dei detenuti col Garante, semplificate le regole umbria24.it, 30 giugno 2017 Il magistrato di sorveglianza di Terni, Fabio Gianfilippi, con un’ordinanza elimina il computo degli incontri da quelli concessi coi familiari e via pure al vetro divisorio e al controllo auditivo. Ora è più semplice per i detenuti avere un colloquio con il loro Garante. Interviene sulle modalità con cui l’Amministrazione penitenziaria regola i colloqui, l’ordinanza depositata mercoledì dal magistrato di sorveglianza di Terni, Fabio Gianfilippi, che ha disposto sia consentito al detenuto che lo richiede di poter avere colloqui con il Garante "in stanze senza vetro divisorio e senza controllo auditivo e senza che - è l’altro elemento di rilievo - gli incontri in questione siano computati nel numero massimo consentitogli con i familiari e terze persone". A darne notizia è direttamente il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, che aveva fatto ricorso contro la circolare con cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria parificando i colloqui con i Garanti a quelli con i familiari e con altre persone, limitandoli alle condizioni imposte per loro sia nel numero che nelle modalità di svolgimento: "Mi era accaduto una prima volta a Spoleto - ha raccontato Anastasia - che un detenuto in regime di 41bis, avendo fatto colloquio con me, non avesse poi potuto incontrare la moglie perché, secondo la vecchia circolare, aveva esaurito il numero dei colloqui a lui consentiti nel corso del mese". Semplificate regole per i colloqui dei detenuti col Garante Ma gli episodi si erano ripetuti anche nella casa di reclusione di Sabbione: "A Terni infatti un altro detenuto - prosegue il Garante - rinuncia a fare un colloquio per non perdere quell’unico incontro mensile con i familiari". Ora l’ordinanza del magistrato di sorveglianza cambia le regole specie per i detenuti di 41bis che possono incontrare il Garante senza vetro, controlli auditivi e soprattutto non computando gli incontri col Garante in quelli a disposizione mensilmente a ogni detenuto. In questo senso è inevitabilmente forte la soddisfazione di Anastasia: "Si tratta di una decisione importante che disapplica le disposizioni di quella vecchia circolare, spero ora che l’Amministrazione penitenziaria provveda a darne esecuzione all’ordinanza rivedendo quella vecchia circolare alla luce dei poteri attribuiti ai Garanti regionali dalle norme di legge e alle argomentazioni del giudice di Terni". Parma: carcere più umano grazie al volontariato, accordo con associazioni parmapress24.it, 30 giugno 2017 Detenuti cuochi per la Festa Multiculturale, pet teraphy e partite di calcetto. Si iniziano a raccogliere i frutti del progetto "Volo Diritto", finanziato dalla Fondazione Cariparma e gestito da Forum Solidarietà, il Centro di Servizi al Volontariato di Parma. Promosso dal Garante dei diritti dei detenuti, dalla direzione degli II.PP. di Parma, dal Comune di Parma e dalla Conferenza Nazionale Volontariato Penitenziario, il progetto ha dedicato un semestre allo studio dei bisogni dei detenuti attraverso confronti con il volontariato penitenziario, i volontari di associazioni che hanno manifestato interesse ad intervenire in ambito penale e comuni cittadini. A guidare i lavori il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Parma, Roberto Cavalieri, la coordinatrice del progetto, Roberta Colombini, e la formatrice Maria Grazia Ollari, che hanno promosso incontri aperti sul tema del carcere, oltre a curare un costante confronto con il direttore del carcere, Carlo Berdini, e la responsabile dell’area pedagogica, Anna Marchesini. I risultati ottenuti ad oggi sono l’adesione di 12 associazioni di varia natura, volontariato, promozione sociale, sportivo-dilettantistico, culturale (Centro Interculturale di Parma, Voce Nuova Tunisia, Amici d’Africa, Cani in famiglia, UISP, Polisportiva Gioco, ANMIC, Voglia di leggere "Ines Martorano", Forum Cultura, Coro "Renata Tebaldi", Scacchistica Parmense, Bocciofila Audace, Avvocato di Strada Onlus Sportello di Parma), disponibili a condurre interventi a favore dei detenuti nel campo ad esempio della pet therapy, dello sport per detenuti normodotati e detenuti disabili, del gioco degli scacchi e delle bocce, di attività culturali sotto diverse forme. In tutto sono circa una quarantina i volontari coinvolti. I diversi servizi e progetti hanno avuto avvio nel mese di maggio con la pet therapy condotta da Paolo Lanna dell’Associazione "Cani in famiglia" a favore di detenuti che sono seguiti dagli operatori che si dedicano al monitoraggio della prevenzione del rischio suicidario. Venerdì 30 giugno invece la rassegna della Festa Multiculturale apre una intera giornata del suo programma ai detenuti del penitenziario della città. Si realizzerà una partita di calcio fra detenuti ed una rappresentanza di volontari delle Associazioni Voce Nuova Tunisia, Amici d’Africa, Uisp e Ciac, mentre nel reparto della media sicurezza il Centro Interculturale di Parma preparerà insieme ad un gruppo di detenuti il cous cous da servire a tutti coloro che hanno partecipato alla giornata, detenuti ed esterni; nel dopo pranzo, un cantante magrebino accompagnato da una danzatrice terrà, per la prima volta nella storia del carcere di Parma, un concerto di musica araba. Per l’autunno prossimo sarà realizzato un convegno su volontariato e giustizia e prenderanno il via anche le operazioni di intervento di singoli volontari che saranno impegnati in interventi di supporto individuale ai detenuti attraverso colloqui di sostegno. Grosseto: "Primi passi in libertà", progetto Caritas per reinserimento degli ex detenuti toscanaoggi.it, 30 giugno 2017 A Grosseto ci sono già 50 persone che usufruiscono presso la Caritas di misure alternative alla pena. Adesso il servizio di aiuto a chi esce dal carcere si amplia con un progetto di più ampio respiro, presentato oggi e finanziato con i fondi dell’8xmille. Si chiama "Primi passi in libertà" il nuovo progetto che la Caritas diocesana di Grosseto lancia sul territorio con il duplice intento di tenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica sulla funzione di recupero della pena detentiva e, con essa, richiamare - secondo l’invito fatto da papa Francesco nell’anno giubilare da pochi mesi concluso - il rapporto tra giustizia e misericordia. Esse "non sono due aspetti in contrasto tra loro, ma due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore" (dalla bolla di indizione del Giubileo, Misericordiae Vultus, n. 20) Il progetto è stato illustrato questa mattina nel corso di una conferenza stampa presso l’aula formativa dell’associazione L’Altra Città. Sono intervenuti: don Enzo Capitani, direttore di Caritas diocesana e cappellano della casa circondariale di Grosseto; Maria Cristina Morrone, direttrice della casa circondariale di Grosseto e della casa di reclusione di San Gimignano; Massimiliano Tulipano, operatore Caritas che coordina il progetto; Gino Paolini, da 38 anni educatore nelle carceri, attualmente in servizio presso la struttura di Carrara e due volte a settimana a Grosseto; rappresentanti di alcune delle associazioni partners del percorso. Il progetto è finanziato da Caritas nazionale attraverso i fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, ed è promosso e coordinato da Caritas diocesana, avvalendosi della collaborazione dell’associazione "AmiCainoAbele", del consorzio Co.Inteso, del Ceis e dell’agenzia formativa L’Altra Città. "Primi passi in libertà" rientra in un più ampio percorso avviato da Caritas nazionale, che nei mesi scorsi si è interrogata sul tema del carcere e di come alleggerire i penitenziari dando più spazio alle pene alternative alla detenzione. "A nostra volta - spiega don Enzo Capitani, direttore di Caritas diocesana e cappellano presso la casa circondariale di Grosseto - nell’Anno giubilare della misericordia abbiamo avviato un percorso di riflessione pubblica sulla giustizia, che si è concretizzato in una serie di incontri, che si sono conclusi proprio alla vigilia del Giubileo dei carcerati e che abbiamo ritenuto dovessero sfociare in un progetto che desse concretezza alle riflessioni raccolte nell’Anno Santo della misericordia". Caritas diocesana ha, così, elaborato un percorso che è stato presentato a Caritas nazionale e che è stato ritenuto meritevole di finanziamento. Obiettivo del progetto "Primi passi in libertà" è quello di accompagnare coloro che stanno scontando una pena detentiva verso l’uscita dal carcere, attraverso percorsi di formazione in campo lavorativo e favorendo il ricorso, da parte dei detenuti meritevoli, di permessi premio, che a volte non sono goduti perché essi non sanno dove andare. - A chi si rivolge. Il progetto, pertanto, si rivolge a detenuti presso la casa circondariale di Grosseto, a detenuti in uscita dal carcere, alle persone che usufruiscono di pene alternative alla detenzione e ai rispettivi familiari. - Dove. Caritas ha creato uno sportello in via Alfieri 11 (primo piano), a Grosseto, aperto il martedì e il venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 17 (email: areacarcere@caritasgrosseto.org; telefono 320-9781765) dove gli operatori incaricati, attraverso appositi colloqui individuali, orientano e aiutano coloro che, uscendo dal carcere, spesso non hanno punti di riferimento, ma anche per essere di sostegno ai familiari nei rapporti col tribunale, con i legali ecc. Lo sportello entrerà a regime a partire dal 7 luglio prossimo. Già attualmente circa 50 persone usufruiscono, presso la sede di Caritas, di misure alternative (c’è chi fa volontariato a corredo di una pena, altri sono in affidamento in prova, altri ancora prestano la loro opera come forma di restituzione alla collettività degli effetti negativi del male provocato). Questo progetto punta ad implementare ulteriormente questo percorso, dando vita ad una rete sul territorio, che vedrà - ad esempio - volontari di Ceis e di "AmiCainoAbele" occuparsi dei colloqui in carcere e allo sportello, mentre gli operatori dell’agenzia formativa L’Altra Città si occuperanno specificamente dell’orientamento e di percorsi formativi volti all’inserimento lavorativo dei beneficiari, mentre, infine, il consorzio Co.Inteso mette a disposizione le proprie cooperative socie per l’attivazione di tirocini. Caritas, inoltre, mette a disposizione anche il proprio centro di sostegno psicologico, avviato alcuni mesi fa, come ulteriore mezzo di aiuto. Il progetto, infine, mira anche ad attività di supporto ai detenuti privi di riferimenti abitativi per beneficiare degli arresti domiciliari e per la fruizione di permessi premio e/o licenze, mettendo a disposizione un alloggio per l’accoglienza, nonché per i familiari di persone detenute. "Ringrazio la Caritas diocesana e don Enzo Capitani in modo particolare - ha commentato la direttrice della casa circondariale Maria Cristina Morrone - per questo progetto. Si tratta di un grosso obiettivo raggiunto: dare ai detenuti che escono in libertà o perché usufruiscono di permessi premio o di misure alternative, un appoggio concreto, frutto di un percorso di ascolto e di cammino al loro fianco". Don Enzo Capitani ha concluso con un appello alla politica: "Se a Grosseto deve esserci un carcere, per favore iniziamo a parlare di una struttura nuova; quella di via Saffi non è più dignitosa". Palermo: la rivoluzione del carcere Pagliarelli, il parlatorio è un giardino di Claudia Brunetto La Repubblica, 30 giugno 2017 Da oggi incontreranno i loro papà, detenuti al Pagliarelli, in un’area verde con tavoli, seggioloni, gazebo di legno e tutto intorno un grande giardino. Due sorelline di sei e otto anni hanno seguito i lavori dai racconti del genitore e adesso non vedono l’ora di vedere quello che Giuseppe insieme con altri undici compagni ha realizzato in qualche mese di lavoro. "Potrò parlare con le mie bambine fuori dalle mura della sala colloqui - dice Giuseppe - senza sentire il rumore delle chiavi che girano nella toppa alle mie spalle. Abbiamo realizzato l’area verde per i nostri figli. Perché vogliamo incontrarli in un clima sereno e vederli sorridere". "Familandia", così si chiama l’area verde, si inaugura oggi con due turni di colloqui. I primi saranno proprio i detenuti che l’hanno realizzata, grazie ai fondi della Cassa delle ammende. Muratori, idraulici, giardinieri, elettricisti che fanno parte del gruppo di 360 detenuti- lavoratori del Pagliarelli. L’idea del progetto è della direttrice Francesca Vazzana. "Verrà la mia nipotina di 8 anni - dice il detenuto Luigi. E tornerà tutte le settimane. La incontrerò in un’atmosfera completamente diversa. Adesso sono felice". Giorgio, invece, aspetterà il nipotino Pietro di quattro anni. Presto nell’area verde arriveranno anche i giochi. Alcuni ci sono già in un’altra zona del Pagliarelli dedicata ai bambini più piccoli che d’inverno vengono accolti anche nella ludoteca sempre per limitare l’impatto con la struttura del carcere. "La realizzazione dell’area verde - dice Rosaria Puleo, capo area giuridico-pedagogica del Pagliarelli - ha coniugato l’importanza dell’aspetto affettivo e relazionale dei detenuti con le loro famiglie con l’importanza del lavoro in carcere". I bambini che entrano ogni giorno al Pagliarelli per incontrare i genitori sono tantissimi. Il 90 per cento dei 1400 detenuti ha figli minorenni. La stessa cosa accade nelle altre carceri siciliane. Ecco perché da 14 anni l’associazione "Bambini senza sbarre" è impegnata a livello nazionale per tutelare i figli delle persone detenute durante gli incontri in carcere. L’associazione anche in Sicilia controlla le carceri sia per i servizi a favore di bambini - ludoteche, aree gioco, spazi verdi - ma anche per il sostegno fornito a genitori detenuti e figli. "Lo sforzo - dice la presidente Lia Sacerdote - è fare superare a questi bambini il trauma e il "segreto" di avere un genitore detenuto. Spesso vengono emarginati per questo, invece devono essere bambini liberi come tutti gli altri". Al carcere Ucciardone, diretto da Rita Barbera, questo sforzo va avanti da tempo. La prima area verde è nata dieci anni fa e anche la ludoteca. Le sale dei colloqui sono tutte colorate con murales alle pareti. Anche ieri mattina i detenuti giocavano con i loro bambini all’ombra delle palme. "Offrire una qualità di vita più dignitosa ai detenuti - dice Nunzio Brugognone, capo area educativa dell’Ucciardone - è essenziale per migliorare la vita in carcere per tutti, anche per noi operatori. Nel momento in cui giocano con i loro bambini i detenuti riflettono su quello che hanno fatto, non certo quando sono rinchiusi. Non dimenticherò mai quella volta che un detenuto chiese il permesso di presentarsi al colloquio nell’area verde vestito da cuoco. Aveva detto al figlio che lavorava qui come cuoco. Quando il bambino l’ha visto è rimasto senza parole. Ci siamo commossi tutti". Perugia: un ergastolano tra i bambini, "volontariato come riscatto" di Nuccio Molino lasicilia.it, 30 giugno 2017 È la storia di Carmelo Musumeci, 62 anni di Aci Sant’Antonio, che dopo 25 anni di ergastolo ostativo, si trova adesso in regime di semi libertà. "Dopo avere aiutato gli altri il carcere mi fa meno paura". Da ergastolano a volontario al servizio di bambini e minori portatori di handicap a Bevagna (Perugia) in una struttura familiare della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. È la storia di Carmelo Musumeci, un detenuto originario di Aci Sant’Antonio, nel Catanese, che dopo un quarto di secolo vissuto dietro le sbarre delle carceri di mezza Italia, ha radicalmente cambiato vita e ora offre il suo impegno per sostenere la riabilitazione psico-motoria di giovanissimi affetti da menomazioni gravi, aiutandoli nello studio e nelle attività ricreative. Ma in questi lunghissimi 25 anni di ergastolo ostativo, cioè senza mai un giorno di permesso, Carmelo Musumeci che ora ha 62 anni è profondamente cambiato. Dal carcere - dove entrò il 21 ottobre 1991 con la licenza elementare - è uscito a gennaio scorso per la concessione della semilibertà (alla sera rientra nel carcere di Perugia) da laureato in Giurisprudenza e in Filosofia. Il nome di Carmelo Musumeci evoca la feroce lotta fra bande criminali che negli anni ‘80 del secolo scorso insanguinò la Versilia, in Toscana. C’erano in ballo il controllo dello spaccio, della prostituzione, delle bische clandestine. Dopo l’arresto, il maxi processo e le durissime condanne a lui e ai suoi sodali e, infine, la detenzione a vita: fine pena 31.12. 9999, cioè mai. Per cinque anni è stato sottoposto al regime del 41 bis, il cosiddetto "carcere duro" e per 18 mesi ha anche vissuto in isolamento diurno. Da sei mesi, per lui, emigrato dalla Sicilia con la sua famiglia oltre cinquanta anni fa, il cambio di rotta e l’azione quotidiana di volontario in una piccola struttura di accoglienza in un ex convento in Umbria. "Nella Casa famiglia - racconta Musumeci che della Sicilia conserva i ricordi dell’infanzia - quando mi occupo dei bambini disabili penso che questo sia il modo migliore per continuare a scontare la pena e ripagare, almeno in parte, la società del male che ho fatto. Alla sera, quando rientro in cella, l’inferno del carcere mi fa meno paura e tutto per me, sembra avere riconquistato un senso che prima non aveva perché ho finalmente contatti con il prossimo che ha bisogno e a cui posso dare qualcosa". L’ergastolano, con una punta di orgoglio, racconta quando si improvvisò portavoce di quei detenuti senza fine pena che egli stesso definisce "uomini ombra": dieci anni fa mentre faceva lo sciopero della fame, propose a Don Benzi di appoggiare la sua lotta per dare speranza e dignità a questi individui che per la società perbenista non esistono più: "Si fece nostro compagno di viaggio - racconta Carmelo Musumeci - aprendo in me un’autostrada interiore. Quando ti considerano un mostro, dopo un po’ cominci a crederci anche tu. Lo pensi e ti comporti da mostro. Lui si mise dalla nostra parte. Dalla parte dei mafiosi e degli ergastolani. Incredibile. Mi ricordò Gesù che si schierava con gli ultimi, con chi nessuno voleva più vedere. Iniziò per me una specie di rivoluzione. Presi coraggio e iniziai a scrivere e a comunicare la condizione di disperazione degli ergastolani". Carmelo Musumeci, ormai da parecchi anni intrattiene frequenti contatti coi media, scrive libri e cura un blog che promuove una costante campagna contro il "fine pena mai", per l’abolire l’ergastolo e accendere i riflettori sugli istituti di pena come luogo di esclusione e di annullamento della persona: "Lo Stato deve aiutarti a cambiare, offrendoti gli strumenti per diventare una persona migliore, facendoti scontare una pena che sia utile alla società e non stando passivamente dietro le mura di un carcere. Se uno diventa buono, cambia e combatte con se stesso e i suoi errori. E allora si trasforma davvero in un sovversivo". Un sovversivo alla maniera di don Oreste Benzi, infaticabile apostolo della carità. Cagliari: Doddore Meloni sempre più grave, lascia la cella ed è ricoverato in ospedale La Nuova Sardegna, 30 giugno 2017 Il leader indipendentista trasferito dal carcere di Uta al Santissima Trinità. Dopo due mesi di digiuno le sue condizioni non permettevano più la detenzione. Si aggravano le condizioni dell’indipendentista Doddore Meloni, detenuto nel carcere di Uta e in sciopero della fame da circa 50 giorni. L’uomo, 74 anni, è stato trasferito al pronto soccorso dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari "dove già avantieri era stato sottoposto a diversi esami". La comunicazione del trasferimento è arrivata da Maria Grazia Caligaris, presidentessa dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e sempre in prima linea per i diritti dei detenuti, che si augura che Meloni "possa essere ricoverato e accetti le cure". "La decisione assunta dal coordinatore sanitario della casa circondariale di Cagliari- Uta, Antonio Piras - sottolinea ancora Maria Grazia Caligaris - è mirata a garantire al paziente una situazione più consona che possa rispondere alle esigenze di una persona provata dal lungo digiuno e dalla scarsità d’acqua assunta in questi due mesi. La grave instabilità statico-dinamica e il rischio di compromissione della funzionalità renale, nonché le condizioni psicologiche dell’uomo, hanno destato preoccupazione nel medico che ha assunto personalmente l’iniziativa. Ora non resta che attendere la decisione dei medici del Pronto soccorso". Il caso dell’indipendentista, in carcere per reati fiscali e rinviato a giudizio a Brescia per aver partecipato all’organizzato dell’occupazione di piazza San Marco a Venezia, è stato sollevato più volte in Sardegna: ieri se ne è occupato anche il Consiglio regionale che ha approvato una mozione. E sempre ieri il deputato Michele Piras (Art.1-Mdp) ha scritto al Presidente della Repubblica chiedendo un "atto di clemenza". Per Doddore, che ha abbondantemente superato la settantina, si è mosso anche l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio. Messina: concluso il laboratorio teatrale riservato ai detenuti di Alta Sicurezza pippogaliponews.it, 30 giugno 2017 Si è conclusa, dopo cinque mesi di intensa attività, la prima parte del laboratorio teatrale riservato ai detenuti di Alta Sicurezza della Casa circondariale di Messina. Il laboratorio al quale hanno partecipato una decina di detenuti è stato tenuto dalla Compagnia del "Piccolo Teatro Blu" degli attori Cristina Capodicasa, Gerardo Fiorenzano e Giuseppe Capodicasa, e promosso dal Centro Prima Accoglienza Savio. È il secondo anno che il Cepas porta il Teatro in carcere, grazie a questa Compagnia. Da parte degli ospiti dell’Istituto di Pena c’è stata, anche questa volta, un’adesione compatta e convinta. La recitazione è stata, per gli aspiranti attori, un momento formativo, educativo, culturale e di crescita in senso lato. Il far parte (anche se tra le sbarre) di una mini compagnia teatrale ha significato per i partecipanti al corso impegno, disciplina, cura di se, aspetti relazionali e riscatto personale. Gli aspiranti attori hanno così provato sentimenti ed emozioni che all’interno di un carcere ognuno sente moltiplicati al cubo. Peppe, Antonio Luciano, Vito, Teodoro e tutti gli altri hanno potuto dimenticare in quelle ore d’incontro fatte di passione, entusiasmo e coinvolgimento, i loro pur grandi problemi e hanno potuto superare, grazie alla recitazione, anche le "crisi" della loro vita di reclusi volando così con pensieri e spirito oltre le sbarre. Parallelamente a questo laboratorio si è concluso anche un altro "Progetto sulla Genitorialità" promosso dal Centro prima accoglienza Savio. Questa iniziativa è stata seguita dalla professoressa Lalla Lombardi, vicepresidente Cepas e dalla pedagogista Rosa Maria Guarino. L’obiettivo di questo progetto sulla Genitorialità è stato quello di cercare di rinsaldare i legami familiari puntando sull’importanza della funzione paterna messa in discussione dalla "assenza" dovuto alla reclusione. Queste due iniziative, non prive di difficoltà, sono state seguite e incoraggiate dal presidente del Cepas, don Umberto Romeo e dal presidente del Tribunale di Sorveglianza, dott. Nicola Mazzamuto. Importante è stata l’attenzione del direttore dell’Istituto di pena dott. Calogero Tessitore e della dott. Antonella Machì, comandante della Polizia Penitenziaria. Cosenza: il Prefetto Gianfranco Tomao coinvolto nel progetto "Liberi di Leggere" calabrianews24.it, 30 giugno 2017 Ci sarà anche il contributo del Prefetto di Cosenza, Gianfranco Tomao, nel libro che raccoglierà i racconti dei detenuti delle case circondariali di Cosenza e Paola. Tomao ha accettato l’invito del presidente di LiberaMente, Francesco Cosentini a prendere parte, attivamente, al progetto "Liberi di leggere" promosso dall’associazione e finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il progetto coinvolge ben 40 detenuti, 16 di Paola e 24 di Cosenza in un corso di scrittura creativa tenuto dalla giornalista e scrittrice Rosalba Baldino. A ricevere Cosentini e Baldino, ieri mattina, in Prefettura, lo stesso Tomao e il capo di gabinetto, Eufemia Tarsia. L’iniziativa, che ha preso il via nel mese di novembre dello scorso anno, si chiuderà a settembre con la pubblicazione di un volume, esperimento di scrittura collettiva in grado di far incontrare i "dentro" e i "fuori". Il Prefetto non è il solo ad aver assicurato l’adesione al progetto. Nel libro ci saranno, infatti, interventi e contributi di rappresentanti delle istituzioni, della cultura e del giornalismo. Oltre al corso il progetto prevede la gestione della biblioteca all’interno del carcere di Cosenza e il coinvolgimento dei cittadini tramite la possibilità di lasciare un "libro sospeso" per i detenuti. La biblioteca ospita attualmente più di 2500 volumi. Liberi di Leggere ha come obiettivo il sostegno di percorsi di inclusione e reinserimento sociale dei detenuti usando come strumento privilegiato la lettura. Palermo: all’Ucciardone una lavanderia industriale, detenuti al lavoro palermotoday.it, 30 giugno 2017 Grazie all’accordo con due importanti aziende private, entrerà in funzione all’interno del penitenziario anche una linea di imbottigliamento di prodotti chimici. Il lavoro come prima forma di riscatto da un passato sbagliato. Grazie all’accordo con due importanti aziende private, entreranno a breve in funzione all’interno del penitenziario una lavanderia industriale e una linea di imbottigliamento di prodotti chimici, con l’obiettivo di facilitare il percorso rieducativo dei detenuti. Un iter già avviato negli scorsi anni con l’apertura di un pastificio e di una sartoria nei locali dell’Istituto. A presentare il progetto, Vincenzo Figuccia di Forza Italia e la direttrice del carcere, Rita Barbera. Insieme a loro i responsabili delle aziende Papalini Spa, azienda marchigiana già operante in Sicilia, e la Intrachimica di Ragusa. Nella fase iniziale del progetto saranno coinvolti circa dieci detenuti-lavoratori. Il lavoro sarà svolto all’interno del carcere, in locali precedentemente utilizzati come magazzini, messi a disposizione in comodato d’uso gratuito dall’Ucciardone. "Il concretizzarsi di un progetto tanto significativo riempie di gioia e soddisfazione tutti coloro che in questi mesi si sono impegnati per la sua realizzazione - dice Figuccia. Ritengo si tratti di un esempio di collaborazione virtuosa tra Stato e privato dall’elevato valore sociale". Treviso: consegnati i diplomi ai detenuti del carcere di Santa Bona di Isabella Loschi oggitreviso.it, 30 giugno 2017 Con 120 frequentanti su 180 detenuti, la scuola della Casa circondariale di Santa Bona è una delle più frequentate d’Italia. La Casa circondariale di Treviso è la realtà veneta con il numero più alto di detenuti, escluso il Due Palazzi di Padova, che hanno deciso di intraprendete un’attività scolastica. Su180 ospiti della struttura, ben 120 sono impegnati in attività scolastiche, seguiti da 8 insegnanti, dentro il carcere di Santa Bona. E ieri si è svolta la cerimonia di chiusura dell’anno scolastico, nel corso della quale sono stati consegnati i diplomi e attestati e sono stati presentati i lavori prodotti dai detenuti durante le attività didattiche promosse dal Cpia (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) "Alberto Manzi". All’interno del carcere c’è chi segue percorsi di 1° livello finalizzati all’acquisizione delle competenze in uscita dalla scuola primaria; percorsi di scolarizzazione per l’assolvimento dell’obbligo scolastico; corsi di italiano, di lingua straniera, per lo sviluppo di competenze digitali, di scrittura creativa. A queste, si è aggiunto quest’anno - grazie alla collaborazione tra Cpia, Fondazione Benetton e Teatro del Pane, anche il progetto "Le forme del teatro", articolato in quattro spettacoli e due laboratori di formazione per i detenuti e per gli insegnanti del Cpia. L’entusiasmo manifestato dai partecipanti alle attività teatrali spinge a voler proseguire nella strada intrapresa. "È stato solo un inizio - sottolinea Orazio Colosio dirigente del Cpia Manzi - si cercherà di fare in modo che il progetto possa trovare continuità per dare l’occasione, a chi vive lo stato di reclusione, di accedere alla dimensione di libertà mentale e creativa, che permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi e contrasta la sensazione di irriducibile isolamento, promuovendo la cooperazione, la solidarietà e anche lo scambio con il mondo esterno". Napoli: i ragazzi del Cuore Basket giocano con i detenuti di Poggioreale di Walter Medolla Corriere del Mezzogiorno, 30 giugno 2017 Questa volta la solidarietà va a segno in un canestro, con un pallone a spicchi. I neopromossi giocatori del Cuore Napoli Basket, società promossa in serie A2, infatti, hanno fatto visita alla Casa Circondariale di Poggioreale, incontrando alcuni detenuti del padiglione Roma, un’ala molto particolare del carcere napoletano. Accoglie persone con storie di tossicodipendenza, oltre a transessuali e detenuti per reati di tipo sessuale. In questa situazione particolarmente delicata i volontari e gli operatori della cooperativa sociale Era, svolgono una serie di attività, tra cui quelle sportive come la pallacanestro, nell’ambito del progetto "IV Piano", un nome non a caso, visto che le attività riguardano le persone recluse al 4 piano del padiglione Roma. Fino a qualche anno fa questa parte della struttura accoglieva ancora il vecchio nido, un piano praticamente inutilizzato, che solo grazie alla volontà della direzione del carcere è stato recuperato. "Attività come questa servono doppiamente per permettere un processo di riabilitazione e reintegrazione - ha spiegato il direttore del carcere Antonio Fullone-. C’è bisogno di una umanità maggiore e progetti come questo sono strategici. Noi accogliamo detenuti per periodi relativamente brevi e in questo tempo cerchiamo di offrirgli una serie di attività che possano facilitarli una volta fuori da qui". Soddisfatto anche il presidente della Cuore Napoli Basket Ciro Ruggiero che ha accordato massima collaborazione per iniziative del genere e per tutte quelle che possano giovare alla città. "Tirare la palla e fare canestro è una bella soddisfazione- hanno detto alcuni dei detenuti. Queste attività ci aiutano molto e ci danno la possibilità di stare insieme". L’incontro tra i detenuti e gli atleti è culminato in una partitella 3 contro 3 con cambi a rotazione e ha visto coinvolte circa 20 persone del padiglione Roma. Prima del match gli ospiti della Casa Circondariale hanno indossato alcune magliette con il nome del progetto e hanno fatto un po’ di tiri e passaggi con gli atleti della Cuor Napoli Basket. Di rito anche gli autografi che i detenuti si sono fatti lasciare sulle maglie. Quella proposta ieri è solo una delle iniziative proposte nell’ambito del progetto "IV Piano", attivo da oltre due anni grazie all’unità Operativa Complessa Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro, alla Direzione della Casa Circondariale di Poggioreale e alla cooperativa sociale Era del gruppo di imprese sociali Gesco. Migranti. Lo ius soli rafforzerà l’Italia di Gianni Riotta La Stampa, 30 giugno 2017 Se l’Italia del premier Gentiloni approvasse davvero lo ius soli, diritto di cittadinanza per chi nasce in un Paese, entrerebbe a far parte di un club ristretto. Solo in una trentina di nazioni, infatti, si diventa cittadini nascendo entro i confini, tra i maggiori Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Pakistan, mentre in Europa nessuno gode di "ius soli" assoluto, la Francia concede il passaporto ai neonati stranieri, ma con il filtro di varie regole. Anche negli Usa il XIV emendamento alla Costituzione "Tutte le persone nate negli Stati Uniti sono cittadini degli Stati Uniti", fu approvato nel 1868, dopo guerra civile e schiavitù, e con gli stati ex sudisti ad opporsi strenuamente. Le loro argomentazioni, "lo ius soli distruggerà l’anima dell’identità americana", rimandano in modo impressionante l’eco di chi, nel dibattito di oggi, teme che la cittadinanza ai nuovi nati disperda spirito e cultura italiani, da Dante, alla civiltà cattolica, al Rinascimento in un suq orientale. Lo storico Eric Foner riassume bene la questione "Molte cose che crediamo tipiche dell’America - l’amore per la libertà individuale, le opportunità sociali - esistono in altri Paesi. Ma la cittadinanza per diritto di nascita è, con il Canada, pressoché unica nel mondo sviluppato… espressione dell’impegno all’uguaglianza e all’espansione della coscienza nazionale… eredità della lotta titanica… per creare una vera democrazia fondata su principi egualitari…". Sono emigrato per due volte nella vita, dapprima in Italia poi in America, e so per esperienza che immigrazione, integrazione fra culture, razze e religioni, scontro e incontro di identità e civiltà, sono esperienze ardue, campo quotidiano di tragedie e speranze, che nessun dibattito di talk show coglie. Ho due figli americani per "ius soli" e vederli, a casa, a scuola, al lavoro, bilanciare le loro due culture mi ha insegnato, con umiltà, a temere slogan e facili soluzioni. Mio figlio, nel tema di ammissione al college, si definì "Figlio di due immigranti dall’Italia meridionale…che passa la vita a difendere gli Stati Uniti in Europa e l’Europa negli Stati Uniti". Quando era all’asilo il suo panierino con il pranzo "italiano", panino con la frittata o la cotoletta, pasta, insalata, la mela, tornava sempre intatto, e alle nostre rimostranze rispose "I compagni mi prendono in giro, sono l’unico a non avere sandwich con il burro di arachidi o baloney", l’immangiabile mortadella made in Usa. Anni dopo il grande scrittore italo-americano Gay Talese mi raccontò "Capii di essere italiano, diverso dagli altri, a scuola, al primo pranzo al sacco insieme, mia madre mi dava piatti che nessun altro aveva". Tra Gay e mio figlio era passato mezzo secolo, ma la cultura strideva ancora e, credetemi in futuro striderà, perché nessun genitore italiano darà mai "baloney" alle sue creature. Ma la forza dello ius soli - nel quale ho imparato a credere e che, a mio avviso, anche in Italia avrebbe alla lunga benefici effetti - è nell’insegnamento di Foner, la speranza che "essere italiani" non sia marchio di fabbrica esclusivo, ma condivisibile esperienza vitale. Il vignettista Stefano Disegni ha pubblicato una gustosa striscia con la "prova culturale per essere italiani", vale a dire sorpassare male, parcheggiare peggio, suonare il clacson al semaforo, e coglie nel segno, i nuovi cittadini avranno l’intera identità italiana, da parlare la lingua del Petrarca a essere incapaci di fare la fila. La sfida è a noi stessi. Se proviamo a preservare la tradizione che ci lega in una cassaforte legale, la perderemo isterilita, se la scommettiamo nel mondo futuro la integreremo e rafforzeremo. Agli amici cattolici, infine, che temono per i valori cristiani in una Italia con ius soli, va ricordato, con rispetto, che "cattolico" vuol dire, appunto, universale, e dall’universalità da sempre trae radice e vita. Migranti. Senza un piano da presentare all’Europa di Luigi Manconi Il Manifesto, 30 giugno 2017 La proposta di chiudere i porti è un’idea sbagliata, concentrata su una fase circoscritta dei flussi - le partenze dalla Libia e il salvataggio - senza affrontare l’intera questione. Il Ministro dell’Interno Marco Minniti, a mò di sfida (scherzosa ma non troppo) mi dice: "L’altro ieri decine e decine di minori stranieri, che avevano attraversato il confine a Ventimiglia, sono stati respinti in Italia dai gendarmi francesi. Ma non uno di voi ha protestato contro il modernissimo Emmanuel Macron". Detto fatto: che i governi di Francia, Spagna, Inghilterra, Austria - solo per citarne alcuni - si comportino in maniera costantemente conservatrice, spesso ostile e talvolta ignobile nei confronti di profughi e migranti, lo si è detto ripetutamente (su queste colonne, poi). E lo ha ribadito più e più volte, con particolare vigore, Medici Senza Frontiere. Ma da quando in qua le responsabilità altrui meritano di attenuare le nostre? E, di conseguenza, se le più recenti affermazioni del nostro governo ("potrebbe essere difficile permettere futuri sbarchi di migranti nei porti italiani") appaiono tragicamente errate, le gravissime colpe dei governi europei sono appena una attenuante e non certo una giustificazione. D’altra parte, non c’è dubbio che - di fronte a polizie di paesi europei che impediscono alle persone più fragili persino di chiedere protezione - tocchi al nostro governo fare in modo che la volontà politica degli Stati membri si indirizzi verso scelte radicalmente nuove. Scelte consapevoli e condivise, lungimiranti e coraggiose. Ma l’evocazione del blocco nei confronti delle navi mercantili o dirette da Ong che trasportano naufraghi, oltre a non essere praticabile (contravverrebbe a tutte le convenzioni internazionali), risulta totalmente sbagliata. E non solo sbagliata (Avvenire: "Perché non si può e non si deve annunciare ciò che non si può e non si deve fare") ma anche debolissima, in quanto concentrata su una fase circoscritta dei flussi - le partenze dalla Libia e il salvataggio - senza affrontare l’intera questione: a partire dalla consapevolezza che niente e nessuno potrà fermare movimenti umani di tale portata. Al contrario, l’uso dei cosiddetti "strumenti di dissuasione" (muro, filo spinato, motovedette) non portano che a incrementare sofferenza e morte. E a rendere l’Europa più debole e vulnerabile, in quanto disposta a sacrificare garanzie e tutele proprie degli ordinamenti democratici; e ad arretrare sul piano della protezione della dignità della persona. Ma neppure quanto fatto dall’Italia, spesso con eccezionale generosità, può costituire l’unica modalità d’intervento: occorre una soluzione duratura nell’ambito dello spazio del continente europeo e dell’unione politica dell’Europa. Era l’ottobre del 2014 quando, in seguito all’ennesima tragedia nel Mediterraneo, abbiamo presentato un Piano di ammissione umanitaria, frutto del confronto con l’associazionismo, con le organizzazioni internazionali e con alcune delle più alte cariche istituzionali italiane. I punti essenziali erano e sono: l’urgenza di prevenire la terribile sequenza di morti nel Mediterraneo e di garantire viaggi legali e sicuri; e la necessità di distribuire in maniera più equa e razionale l’afflusso di profughi sull’intero territorio europeo. Cuore della proposta, l’individuazione dei beneficiari di protezione internazionale in quei paesi africani e mediorientali dove i movimenti dei fuggiaschi si addensano, attraverso un sistema di presidi coordinato a livello europeo e assicurato dalle grandi organizzazioni umanitarie, che accolgano chi si rifugia in quei territori. Successivamente, si dovrà garantire il trasferimento dal presidio internazionale allo Stato di destinazione, dove poter formalizzare la richiesta d’asilo, fissando quote eque di accoglienza per ciascuna nazione. Reperire i fondi per l’attuazione di un simile progetto non è certo un’impresa impossibile per l’Unione. (Leggere, poi, sulla prima pagina del Corriere della Sera la dettagliata riproposizione di questo Piano, non so dire se induca maggiore soddisfazione per un consenso tanto autorevole o più amara frustrazione per il tanto tempo buttato via). La leva su cui esercitare la pressione politica da parte del nostro Paese è una sola, ed è molto solida: l’Italia è il quinto contributore netto dell’Unione europea e solo una parte di quanto versato - negli ultimi sette anni, circa 73 su 111 miliardi di euro - ritorna nel nostro Paese. È arrivato dunque il momento di esigere che il principio di solidarietà tra gli Stati venga attuato concretamente proprio alla luce di queste cifre. Perché, in quanto principale frontiera esterna dell’Unione, non lavorare per destinare quella parte eccedente la parità dello scambio tra dare e avere per l’attuazione di una politica interamente destinata all’accoglienza di migranti e profughi? Certo, a molti potrà apparire questa una proposta avventurista, scarsamente praticabile e inconciliabile con il realismo politico. Ma davvero si può credere che il blocco dei porti nei confronti di navi straniere cariche di donne, uomini e bambini che fuggono da guerra e miseria sia un provvedimento meno avventurista e più realistico? Migranti. Ecco perché è illegittimo riportarli in Libia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2017 La polemica sulle Ong e le regole internazionali. La convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare indica l’attracco delle navi di soccorso nel porto più sicuro e non in quello più vicino. Se l’Europa cede all’avvertimento del governo in merito alla stretta contro le Ong, si prospetta il serio rischio che gli immigrati vengano dirottati verso porti non sicuri. Nel frattempo potrebbero salvarsi solo due organizzazioni non governative. Si tratterebbero della Vos Prudence di Medici senza Frontriere e la Vos Hestia di Save the Children, le quali potrebbero continuare a salvare vite umane nel Mediterraneo e portare gli immigrati in Italia. Il resto delle ong, in tutto una decina, potrebbero essere dirottate verso altri porti non italiani. Eppure, secondo l’ultimo rapporto della guardia costiera, arriva la conferma che circa il 40% dei soccorsi in mare viene effettuato proprio dalle navi Ong: su 12.590 migranti salvati, 5.015 sono stati tratti in salvo dalle Organizzazioni non governative e ben 3.523 da navi commerciali (pescherecci, mercantili), che sommati fanno circa il 68% dei soccorsi effettuati nel Mediterraneo. Nel 2016, stando al rapporto della Guardia Costiera Italiana, le Ong hanno recuperato complessivamente 46.796 migranti, più del doppio di quanti ne avevano soccorsi l’anno precedente (20.063). E nei primi 4 mesi del 2017 hanno salvato 12.646 persone, il 35% del totale. Il resto degli interventi sono stati fatti da mercantili (16%), Guardia Costiera italiana (29%), Marina Militare (4%), Frontex (7%) e Eunavformed (9%). Ma perché le Ong considerano l’Italia come porto sicuro, mente il ministro Marco Minniti vorrebbe che gli immigrati venissero sbarcati in altre nazioni? In realtà la convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che attribuisce al Paese che coordina le operazioni di soccorso la responsabilità di individuare il porto di sbarco, parla di place of safety, cioè di porto più sicuro e non di quello più vicino. In parole semplici dice che molto più della vicinanza geografica, conta la sicurezza che il luogo può garantire alle persone tratte in salvo, con una particolare attenzione alla condizione giuridica di queste ultime e in particolare alla possibilità che manifestino l’intenzione di richiedere asilo. Ecco perché sarebbe illegittimo riportare dei richiedenti asilo che scappano dalla Libia in Libia. Ma anche in Tunisia, ritenuta da entrambi i nostri interlocutori un porto non sicuro, come d’altra parte riporta anche la Farnesina, attraverso il sito viaggiaresicuri.it: "Negli ultimi due anni, dopo gli attacchi terroristici del 2015 a danno di turisti occidentali nel Museo del Bardo a Tunisi e in una spiaggia di Sousse - Port El Kantaoui, le autorità tunisine hanno adottato nuove misure antiterroristiche nella capitale e nel resto del Paese. Le forze armate e di polizia presidiano i siti sensibili. Lo stato di emergenza decretato nel 2015 è stato prorogato in varie occasioni e da ultimo rinnovato fino al 16 maggio 2017. Le principali arterie stradali nel Paese e nella capitale sono soggette ad un’elevata sorveglianza, anche attraverso posti di blocco, da parte di personale in divisa ed in borghese al quale è opportuno prestare la massima collaborazione. Sono frequenti le operazioni di polizia finalizzate allo smantellamento di cellule terroristiche e alla requisizione di armi. Ciononostante la Tunisia resta esposta al rischio terrorismo". Un paese non esattamente sicuro per chi, magari, scappa dalle persecuzioni di cellule terroristiche in patria. C’è chi parla di far sbarcare gli immigrati a Malta anziché in Sicilia. Anche qui occorre fare chiarezza. Nonostante sia uno stato autonomo, Malta non ha la conformazione geografica per accogliere 40mila persone all’anno. In breve tempo l’isola, che è poco più grande di Lampedusa, andrebbe evacuata. Malta, inoltre, non ha aderito ai protocolli aggiuntivi legati alle convenzioni internazionali sui soccorsi in mare, quindi il suo ruolo è prettamente strategico, come centrale operativa di sicurezza e non come luogo di accoglienza. Cosa accadrà se l’Europa dovesse cedere alle richieste dell’Italia. Lo spiega a Repubblica l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione: "È improbabile che i paesi forti d’Europa vorranno supplire al ruolo dell’Italia nell’accoglienza, più probabilmente ci sarà il tentativo di dichiarare come porti sicuri altri paesi del Mediterraneo come l’Egitto, la Tunisia e magari in prospettiva la Libia -, che oggi le Ong non considerano tali perché lì i migranti spesso vengono detenuti e torturati". Sempre secondo l’avvocato Fachile "il rischio è di creare navi fantasma che navigano per giorni nel Mediterraneo senza sapere dove approdare, portando a bordo una grande quantità di persone spesso in condizioni precarie e con malattie, mettendo a rischio la loro vita". Migranti. Slitta (ancora) la riforma di Dublino di Marco Bresolin La Stampa, 30 giugno 2017 A dicembre i leader europei avevano preso un appuntamento al Consiglio: trovare un accordo entro il mese di giugno per riformare il diritto d’asilo. Ma il primo semestre, guidato da Malta, se n’è andato senza lasciare risultati tangibili. Il problema è che un’intesa non arriverà nemmeno entro la fine di quest’anno. Bisognerà dunque attendere almeno fino al 2018. "Abbiamo consultato quasi tutti gli Stati membri, ne restano solo un paio, e abbiamo realizzato che non c’è la possibilità di chiudere la riforma di Dublino entro la fine di quest’anno". La conferma arriva da Klen Jaarats, direttore per gli affari Ue dell’Estonia e sherpa del governo al tavolo delle trattative. Non un parere qualsiasi, visto che a guidare il secondo semestre Ue del 2017 sarà proprio l’esecutivo di Tallin. L’Estonia, che dovrà "dare le carte" durante i lavori in Consiglio, in questa veste ha il potere di indirizzare le discussioni e dunque fare pressioni (o meno) su una determinata riforma. Ma il dossier migratorio non è considerato una priorità per il Paese baltico, che punta invece a fare passi avanti sugli aspetti legati alla digitalizzazione dell’Ue e alla cyber-sicurezza. "Ci sono ancora elezioni in vari Paesi da qui alla fine dell’anno - prosegue Jaarats, ma questo non vuol dire che rimarremo fermi. Sulla redistribuzione dei richiedenti asilo non c’è accordo, però possiamo far avanzare la discussione su altri aspetti, come i rimpatri, il controllo delle frontiere e la dimensione esterna dell’immigrazione". Il problema, però, è che per vedere una riforma completa del diritto d’asilo bisognerà attendere ancora. Mancano il consenso e la volontà politica di premere sull’acceleratore. Un corposo nucleo di Stati ha trovato un’intesa su un modello che prevede un sistema di quote di richiedenti asilo da assegnare alle varie capitali una volta superata una certa soglia di arrivi in un Paese. Con una sorta di "rimborso" per gli Stati che accolgono i rifugiati e una "penale" per quelli che si rifiutano di rispettare le proprie quote. Ma l’Italia contesta l’assenza di automatismo e i Paesi dell’Est - per ragioni opposte - fanno resistenza. È stallo totale, perché non sembrano esserci margini per avvicinare le parti in causa. L’Ungheria, per esempio, andrà al voto ad aprile del prossimo anno e il premier Viktor Orban vuole giocare tutta la campagna elettorale sul fronte immigrazione: impossibile un passo indietro. Al tempo stesso tra novembre e dicembre dovrebbe arrivare la sentenza della Corte di Giustizia sul ricorso presentato proprio da Ungheria e Slovacchia, contro il piano di redistribuzione dei migranti. È probabile che i giudici diano torto ai due Paesi di Visegrad, ma in attesa della sentenza sarà difficile fare progressi nella discussione. E così un altro anno si concluderà con un nulla di fatto. Russia. La nostra missione interrotta: un avvertimento di Putin alle Ong dei diritti umani di Alessio Scandurra, Grazia Parisi, Michele Miravalle, Flavio Romani, Valentina Calderone Il Manifesto, 30 giugno 2017 Gli attivisti di Antigone, Arcigay e A Buon Diritto rentrati in Italia raccontano l’operazione muscolare della polizia per interrompere i rapporti dei militanti russi con l’Europa. Nella sede del Commitee Against Torture avevamo da pochi minuti iniziato a discutere di quanto fosse difficile essere attivisti per i diritti umani a Nižnij Novgorod. In quella regione, a 400 km da Mosca, la polizia ha fama di essere repressiva e poco conciliante. Proprio in quel momento quattro agenti irrompevano nella stanza e, presentando una fantomatica lettera di denuncia di un cittadino russo che segnalava "sospette presenze di stranieri" sul loro territorio, ci poneva in stato di fermo e invitava a seguirli in commissariato. Ne sono seguite 10 ore di interrogatori e frenetici contatti con l’Ambasciata italiana a Mosca. Anche grazie al supporto degli attivisti russi che hanno preso le nostre difese, il fermo si è concluso verso la mezzanotte con una multa di pochi rubli. Ma lo scopo dell’operazione muscolare, probabilmente pianificata con un certo anticipo (il controllo è stato svolto da funzionari venuti con un pulmino che aveva esattamente i posti necessari per portarci alla stazione di polizia, raggiunti in pochi minuti da una cortese e competente interprete), non era accertare la nostra presunta violazione delle regole di ingresso in Russia, avvenuta nei fatti su suggerimento e d’accordo con la stessa autorità consolare russa. Le vittime di questo incidente insomma non siamo stati solo noi, ma quelle organizzazioni della società civile che non a caso ci sono state vicine in quelle ore. Dal 2015 Antigone fa parte dell’EU-Russia Civil Society Forum, una piattaforma internazionale nata per favorire i rapporti tra le organizzazioni della società civile di Russia ed Europa. In questo ambito abbiamo stretto contatti soprattutto con organizzazioni che in Russia, come Antigone in Italia, svolgono attività di monitoraggio dei luoghi di detenzione. Colleghi russi sono venuti in Italia nel luglio del 2016, per conoscere il nostro lavoro, e ci hanno invitato in Russia per fare lo stesso. Dal 25 al 28 giugno, in quanto attivisti di Antigone, A buon diritto ed Arcigay abbiamo svolto una visita in Russia per incontrare alcune organizzazioni della società civile e conoscere meglio il loro lavoro. La missione si è conclusa con l’irruzione della polizia e il nostro fermo. Ora, a mente fredda, smaltito lo stress e archiviata l’amarezza per aver dovuto bruscamente interrompere la nostra missione in Russia, ai fatti occorre dare la corretta interpretazione. Da qualche anno l’entusiasmo per la cultura dei diritti umani che aveva travolto la Russia dopo la caduta del regime sovietico è decisamente venuta meno. In particolare dal secondo mandato di Putin (2004), ed ancor più col suo ritorno alla presidenza nel 2012, sono state introdotte molte misure che limitano i diritti fondamentali. Tra queste probabilmente quella dagli effetti più capillari è stata la legge sui cosiddetti foreign agent, che ha equiparato le Ong che ricevono finanziamenti dall’estero, inclusa la Commissione Europea o le grandi fondazioni che sostengono i diritti umani in tutto il mondo, ad agenti che operano per lo straniero, imponendo per loro innumerevoli vincoli e restrizioni. Il risultato è stato una maggiore dipendenza delle Ong dai finanziamenti governativi, e dunque una loro minore indipendenza, ma anche un loro crescente isolamento dal resto della società civile occidentale, soprattutto europea. I difensori dei diritti umani in Russia sono sotto assedio. Ostacolati da misure burocratiche asfissianti e pretestuose, in un contesto in cui il controllo governativo dei media è sempre più pervasivo ed i giornalisti indipendenti rischiano letteralmente la vita, si trovano a combattere contro una situazione in cui le violazioni dei diritti umani sono massicce e tutt’altro che in calo. In questo contesto è fondamentale per la società civile russa sentire l’attenzione, il sostegno e la vicinanza dell’Europa, e sono questo sostegno e questa vicinanza che attraverso di noi si sono voluti colpire. Da oggi le Ong italiane ed europee devono sapere che durante le loro visite di scambio in Russia qualcosa potrebbe anche non andare come previsto. Messaggio ricevuto. Dal canto nostro noi ricordiamo a tutti che la Russia è un Paese straordinario, pieno di persone che conducono battaglie coraggiose per l’avanzamento di una cultura dei diritti umani che non è né nostra né loro, ma che probabilmente rappresenta il patrimonio più prezioso che lo scorso secolo ha lasciato a tutti noi. A quelle persone va anzitutto il nostro affetto ed il nostro ringraziamento per le loro battaglie, che sono anche le nostre. E la promessa che il nostro sostegno e la nostra vicinanza non verranno mai meno. *attivisti di Antigone, Arcigay e A buon diritto Bangladesh. La strage dimenticata di Maurizio Tortorella Panorama, 30 giugno 2017 Un anno fa a Dacca un gruppo di fanatici ha massacrato 20 ostaggi in nome della guerra santa. Tra di loro c’erano nove italiani in trasferta di lavoro. I loro parenti chiedono informazioni. E vorrebbero riavere qualche oggetto personale. Ma parlano al vento. Un totale di 27 morti: i 20 ostaggi uccisi dal commando jihadista, più due agenti di polizia e cinque dei sei (o forse sette) terroristi. È questo il bilancio finale della strage di Dacca, capitale del Bangladesh, avvenuta esattamente un anno fa e oggi vergognosamente dimenticata. Nove di quei 20 innocenti erano italiani, tutti lì per lavoro: imprenditori e dipendenti che il fato, intorno alle 21 di quel maledetto 1 luglio 2016, aveva riunito allo Holey artisan bakery, ristorante di un quartiere residenziale poco distante dalla nostra ambasciata (foto). Altri 13 ostaggi erano stati liberati dalle forze armate bengalesi nel blitz scattato con molto ritardo, alcune ore dopo l’attacco, mentre un altro presunto membro del commando era stato catturato in agosto. I terroristi erano entrati nel locale lanciando granate e avevano sequestrato tutti i presenti. A quel punto, avevano selezionato i non islamici e poi avevano infierito su di loro straziandone i corpi. L’obiettivo era uccidere lentamente, mutilando con il machete e con altre armi da taglio, senza mai infliggere il colpo di grazia. I terroristi erano tutti bengalesi ventenni, colti e appartenenti alla classe media. Tra loro anche il figlio di un importante esponente dell’Awami league, la Lega popolare bengalese, cioè il partito al governo. Forse anche per quel motivo, il ministero degli Interni di Dacca aveva negato ogni collegamento con l’Isis, malgrado le esplicite rivendicazioni dell’attentato. Il 6 giugno Graziella Riboli ha riavuto indietro la borsa e il portafoglio di sua sorella Maria. "Mi sarebbe piaciuto ricevere anche il cellulare" dice con un filo di voce "perché magari avrei potuto trovarci le sue ultime foto. Non so proprio perché non ce lo abbiano restituito. Però non mi lamento: dopo tutto, io ho avuto fortuna. Tra di noi c’è chi non ha mai riavuto nulla". Graziella non piange nemmeno di fronte all’ultimo sfregio, a questa nuova offesa alla memoria; e tira avanti malgrado il terribile lutto che ha subìto. Pensa alla marcia che l’1 luglio, primo anniversario della strage che le ha strappato Maria, vedrà tanta gente camminare per i sentieri della Val Cavallina, la verde valle del fiume Cherio che scorre ai piedi delle Alpi Orobie, nella Bergamasca. E sorride, quando dice: "Mia sorella aveva solo 33 anni, era una ragazza piena di vita e di calore e adorava quei posti. La ricorderemo così". Come Graziella, nessuno dei familiari delle nove vittime dimenticate di Dacca, in Bangladesh, ha un atteggiamento polemico, recriminatorio, o aggressivo. Ed è l’aspetto insieme più commovente e dignitoso di queste famiglie, tutte segnate dal dolore. Perché da un anno esatto, a parte qualche rara cerimonia ufficiale peraltro inevitabile, come l’arrivo a Ciampino delle bare scaricate da un Boeing 767 dell’Aeronautica alla presenza del presidente della Repubblica, lo Stato per loro non ha fatto molto. Eppure la strage dei nove italiani di Dacca, torturati e sgozzati uno dopo l’altro in un ristorante da un commando dell’Isis, in una folle notte di sangue a 9 mila chilometri da casa, resta un momento terribile per il Paese. Nella nostra storia recente, a parte l’orrore di Nassirya con i suoi 19 soldati uccisi, non ci sono altre carneficine di paragonabile violenza. Ma su Dacca è caduta una spessa coltre di silenzio. E da allora nove famiglie vivono senza notizie certe sull’inchiesta, senza percepire alcuna pressione delle nostre istituzioni sulle autorità bengalesi perché sia fatta luce su quei poveri morti. Sono sole, le nove famiglie, e non avvertono alcuna partecipazione alla loro sofferenza. Nessuno espone cartelli gialli su Comuni e Municipi, chiedendo una verità per i morti di Dacca. "Io non voglio fare polemica" sussurra Massimo Cappelli, pensionato di Vedano al Lambro, vicino a Monza, "perché Giulio Regeni merita il massimo rispetto e il suo è un caso grave, come il nostro. Ma non posso non notare la differenza. Della strage degli italiani nel ristorante di Dacca non si sa nulla. E la nostra ferita è sempre aperta forse anche perché non ne conosciamo nemmeno la dinamica". Il figlio di Massimo, Claudio Cappelli, aveva 45 anni ed era in Bangladesh per lavoro, come piccolo imprenditore dell’abbigliamento. Ha lasciato una bimba, oggi di sette anni. Anche Massimo Cappelli, come Graziella Riboli, non ha mai riottenuto il cellulare del figlio, attraverso il quale i due stavano parlando proprio alle 21 dell’1 luglio 2016. È lì che Massimo ha sentito in diretta l’attacco, e ha compreso che era l’inizio di una terribile agonia: "Il telefono di Claudio è sparito" si limita a dire, ma si capisce che il suo cruccio pesa come una montagna. "Non so nemmeno se a Dacca sia in corso un’inchiesta" aggiunge. "Non sappiamo neppure quanti fossero gli attentatori, ci hanno detto che tra loro c’erano figli di alti gradi dell’esercito, forse anche di qualche politico. Il punto è che noi da qui possiamo fare solo congetture. Non sappiamo davvero nulla". A Roma, in realtà, c’è un magistrato che segue l’inchiesta dalla sponda italiana: è il sostituto procuratore Francesco Scavo. Ha disposto le autopsie. Ora è sicuramente impegnato con complesse rogatorie internazionali. "Con lui abbiamo avuto un incontro, in autunno. Da allora comunichiamo attraverso gli avvocati" dice Cappelli "ma temo abbia problemi di budget". E lei ha mai sentito nessuno dal ministero della Giustizia? "No" è la risposta secca. La solitudine è il tratto comune di tutte le famiglie delle vittime di Dacca. "Se non avessimo scritto continuamente alle varie istituzioni, credo che nessuno si sarebbe ricordato di noi" mormora Cristina Rossi. Cristina è una delle tre sorelle di Cristian Rossi, piccolo imprenditore udinese dell’abbigliamento, partito da Feletto Umberto e morto a 47 anni nella mattanza di Dacca. Cristian ha lasciato due gemelline, oggi hanno 4 anni. Mesi fa Cristina è andata a Dacca a sue spese, con le sue sorelle Gabriella e Daniela: "Volevamo mettere una targa a suo ricordo, da qualche parte. Ma non siamo riuscite a farlo né in ambasciata, perché si dovevano spostare, né altrove. Così l’abbiamo lasciata nel suo ufficio. Oggi stiamo insistendo con il Bangladesh e con il nostro governo perché ci sia un piccolo monumento, un segno, a ricordo delle nostre vittime". Qualche timido segnale d’interesse, qua è là, è arrivato. Lo scorso 9 maggio il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha ricevuto i rappresentanti delle nove famiglie con quelle di altre vittime del terrorismo. "Però nessuno ci aveva chiamato: ci siamo proposti noi" protesta sommessamente Fabio Tondat, operaio, 45 anni. "Siamo arrivati a Roma la mattina con il treno, a nostre spese. Proprio come il 2 novembre, quando siamo andati alla Farnesina per avere informazioni sull’inchiesta: è stata una nostra iniziativa". Marco Tondat, suo fratello, aveva 39 anni quando i terroristi dell’Isis l’hanno sgozzato. Fabio è forte: non fa più nemmeno caso alla freddezza delle istituzioni e trova conforto nella comunità di Cordovado, a pochi chilometri da Udine. "Qui ci sono tutti vicini e l’1 luglio l’auditorium sarà intitolato a Marco" dice. "Mi sconvolge però non sapere ancora nulla. Abbiamo chiesto al ministero degli Esteri, al pm Scavo. Nulla. Sappiamo che, quando è finito il blitz, li hanno portati in una caserma. Ci hanno detto che i cadaveri erano nudi e martoriati. Tutto il resto è nebbia". Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, riceverà le nove famiglie il 13 luglio. Il gesto è stato molto apprezzato, come un’isola nell’oceano dell’abbandono. "Il primo a chiamarci tutti insieme è stato Papa Francesco, l’11 febbraio scorso" ricorda Cappelli. "È stato un incontro confortante". La fede aiuta qualcuno dei familiari. "Dopo quella notte terribile" aggiunge Cappelli "nessuno di noi ha imboccato la strada dell’odio. Oggi chiediamo solo di non essere dimenticati". Che la politica abbia voltato lo sguardo dall’altra parte, però, è innegabile. Proprio come hanno fatto giornali e tv. E nessun attore, nessun cantante ha pensato di chiedere da un palco che venga fatta luce sulla strage dimenticata di Dacca. Potrebbe farlo forse Vasco Rossi nel suo megaconcerto di Modena, visto che si terrà proprio la notte dell’1 luglio. Da Caserta Maria Gaudio, vedova di Vincenzo D’Allestro ucciso a 46 anni, ipotizza che sulla rimozione collettiva possa avere proiettato un’influenza nefasta l’aura di sfruttatori che pare circondare da sempre chi va a fare impresa in Bangladesh. "Ma in molti casi è una mistificazione" aggiunge con durezza. "E poi tra i nostri morti c’è anche chi, come mio marito, non era imprenditore, ma solo il dipendente di una ditta italiana". Anche Maria è lì che aspetta: attende comunicazioni da Roma, e qualche oggetto di suo marito, un ricordo: "Io non ho mai avuto indietro non solo il cellulare, ma nemmeno la fede, i suoi documenti". Per tenersi più unite, le famiglie di Dacca comunicano via WhatsApp: hanno una chat dove fanno girare notizie, foto. Nelle ultime settimane gli scambi hanno riguardato le iniziative per la memoria, in calendario per l’1 luglio: una panca in una chiesa, una mostra, un nuovo libro, un’associazione benefica. Le istituzioni, invece, latitano. Una delegazione della Regione Lombardia volerà a Dacca per tre giorni, a cavallo dell’anniversario. "Nessuno si faceva carico di questa sofferenza e mi pareva ingiusto" dice Marco Tizzoni, consigliere regionale della Lista civica per Roberto Maroni. "Così partiamo io e Simone Codara, il marito di Maria Riboli che ora è anche disoccupato. A Dacca ci troveremo con Gian Galeazzo Boschetti, vedovo di Claudia Maria D’Antona, un’altra delle vittime. Cercheremo di capire qualcosa sulle indagini e porteremo fiori sul luogo della strage. Partiamo a mie spese, però, perché non c’è una legge che preveda aiuti per le vittime del terrorismo. Ma mi pareva impossibile non aiutare Codara. Al mio ritorno, ne ho già parlato con il governatore, in Regione vareremo una norma". E questa, da un anno, è la prima promessa concreta per le nove famiglie dimenticate di Dacca. Marocco. Il Consiglio per i diritti umani indaga su casi abusi a detenuti al Hoceima Nova, 30 giugno 2017 Il Consiglio nazionale per i diritti umani del Marocco ha condotto una serie di indagini sui presunti casi di abusi nei confronti dei detenuti di al Hoceima. Le denunce dei detenuti presentate a seguito delle proteste dei giorni scorsi di al Hoceima sono risultate però infondate: è questa la conclusione del Consiglio nazionale per i diritti umani (Cndh), che ha tenuto, come previsto dalla legge 1.11.del 2011), una serie di incontri e ha reclutato medici esperti per visitare 19 detenuti del carcere di Oukacha a Casablanca e 16 altri detenuti ad al Hoceima. L’indagine ha avuto luogo nel fine settimana scorso sotto la supervisione del professor Hicham Benyaich, patologo e presidente dell’Istituto di Medicina legale dell’ospedale Ibn Rushd di Casablanca e del dottor Abdellah Dami, patologo presso lo stesso istituto. Su richiesta, il leader delle proteste, Nasser Zefzafi, è stato presente a tali incontri e valutazioni.