Orlando annuncia investimenti. La Cgil denuncia l’evasione degli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2017 Secondo il Sindacato tra maggio 2007 e maggio 2017 il numero è diminuito di circa 4.700 unità. Investimenti per 249,8 milioni di euro a favore della Polizia Penitenziaria. È la quota di finanziamenti che il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al ministero dell’Economia che sia ripartita per il periodo 2017-2030, come previsto dalla legge di stabilità 2016. Risorse ingenti, spiega via Arenula in una nota, che saranno destinate alla realizzazione di un programma pluriennale di interventi per l’acquisto e l’ammodernamento dei mezzi strumentali in dotazione al Corpo. Sarà progressivamente svecchiato e potenziato il parco auto per il trasporto dei detenuti, con l’acquisizione di 1.200 nuovi mezzi di trasporto e verranno ammodernati e aggiornati i sistemi di controllo di persone e cose, con l’acquisto di 300 apparati per la ricerca di telefoni cellulari, 3.500 metal detector portatili e 500 apparati RX per il controllo dei pacchi destinati ai detenuti. Inoltre, saranno acquistati 190 apparati e sistemi di videosorveglianza, anti-scavalcamento e anti-intrusione dei muri perimetrali degli istituti penitenziari di grandi e medie dimensioni e verrà rinnovato il parco automezzi della Polizia Penitenziaria con 150 veicoli per il trasporto collettivo del personale, nonché furgoni per il trasporto delle unità cinofile in forza al Corpo. La notizia arriva proprio mentre secondo la Fp Cgil Polizia Penitenziaria, alla luce di un report condotto su numeri emersi dal confronto col Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, emergerebbe come in dieci anni, dal 2007 al 2017, sia crollato il numero di agenti nelle carceri per oltre 8.500 in meno. Una flessione che per la Fp Cgil sarebbe legata soprattutto allo spostamento di molti poliziotti penitenziari dagli istituti penitenziari verso gli uffici amministrativi, portando il totale di poliziotti penitenziari nelle carceri a circa 33mila addetti rispetto agli oltre 41mila del 2007. Il sindacato parla di una vera e propria "evasione" degli agenti penitenziari dalla "cella" alla "scrivania". Una fotografia che ha indotto la Fp Cgil Polizia Penitenziaria a proclamare "lo stato di agitazione del personale e a chiedere il rientro immediato negli istituti penitenziari dei poliziotti in esubero nelle sedi amministrative prima del piano ferie". Ma qual è il numero reale del personale penitenziario distaccato? Hanno una utilità? Il nostro sistema penitenziario non è composto solo dalle carceri, ma anche da altre sedi, uffici, servizi e funzioni non direttamente collegate alla vita detentiva. Uffici e servizi che però sono indispensabili per il funzionamento dell’intero sistema penitenziario e quindi necessita di personale. Secondo una circolare del nove maggio scorso reperibile sul sito della Uil-Pa Polizia penitenziaria si legge che 376 agenti penitenziari lavorano presso enti esterni, così suddivisi: 234 negli uffici giudiziari, 11 nella Dia, 38 nel ministero dell’Interno, 3 in quello dell’Economia e finanze, 85 nel ministero della Giustizia e 5 in enti vari. Poi ci sono altre 17 persone che lavorano presso enti esterni in comando. A questi poi va sommato - non abbiamo dati certi - il personale della polizia penitenziaria che opera presso altre sedi diverse dagli istituti penitenziari come le scuole, provveditorati, magazzini vestiario, Dap, Gom (gruppo operativo mobile) e Uspev, l’ufficio per la sicurezza personale e per la vigilanza. Garante nazionale dei detenuti: "con il Dap intraprese azioni per risolvere criticità" Adnkronos, 2 giugno 2017 Chiusura della sezione per detenuti omosessuali del carcere di Gorizia e trasformazione in reparto circondariale ordinario, sospensione di ogni assegnazione alla sezione di osservazione psichiatrica della Casa circondariale "Panzera" di Reggio Calabria, utilizzo della piscina per la terapia riabilitativa del carcere di Catanzaro anche per pazienti esterni inviati dall’Azienda sanitaria provinciale, attivazione della palestra della Casa di reclusione di Oristano finora utilizzata come magazzino, l’avvio dei lavori di ristrutturazione del reparto G9 della Casa circondariale Rebibbia Nuovo complesso di Roma. Per queste azioni, intraprese dal Dap, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute esprime "soddisfazione": il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha avviato tali lavori dopo il tavolo di confronto periodico sulle criticità individuate dal Garante stesso. La cooperazione tra Istituzioni dello Stato - sottolinea il garante - si fonda sulla comune volontà di innalzare il livello della tutela dei diritti delle persone private della libertà e ristrette negli Istituti di pena nel rispetto delle norme nazionali e sovranazionali. Proprio in questa prospettiva, il garante per i detenuti sta proseguendo un’attività di monitoraggio e vigilanza sui luoghi di privazione della libertà. Nei primi mesi del 2017 sono stati visitati in Campania 6 istituti penitenziari per adulti, il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, 2 istituti penali per minori, due centri di prima accoglienza per minori, una comunità per minori, una comunità terapeutica-riabilitativa per adulti, 2 residenze per misure di sicurezza (Rems), 3 reparti detentivi ospedalieri, le camere di sicurezza di 3 questure, 2 comandi dei Carabinieri e un’unità operativa per la tutela delle emergenze sociali e dei minori della polizia municipale, una casa di accoglienza per madri detenute della Caritas. Inoltre sono state visitate la Casa circondariale dell’Aquila, il reparto Sestante della Casa circondariale Lorusso-Cotugno di Torino e il servizio di assistenza intensiva del carcere di San Vittore. Illegittima difesa di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 2 giugno 2017 Quanti sanno che nel recente dibattito sulla riforma della legittima difesa sono venute alla luce preoccupazioni e motivazioni che, lungi dall’essere dell’ultima ora, tendono di tanto in tanto a essere riproposte a partire dal tardo Ottocento? Se ne ha, in realtà, una puntuale conferma se si ripercorre l’evoluzione storica dell’istituto della legittima difesa nel progressivo passaggio dalla cultura liberale che dette vita al codice Zanardelli del 1889 (primo codice penale dell’Italia unita) alla successiva cultura conservatrice-autoritaria che nei primi del Novecento sostanzialmente anticipò l’ideologia penale fascista e, infine, al codice Rocco varato dal regime mussoliniano (com’è noto, codice tuttora vigente e sottoposto a ripetute potature, modifiche e aggiunte in chiave prima di "defascistizzazione" e poi di adeguamento all’evoluzione dei tempi, che l’hanno peraltro reso sempre più somigliante a un vestito d’Arlecchino!). In questo passaggio storico si è assistito, sia sul piano del dibattito teorico sia su quello dei mutamenti normativi, a una tendenza volta ad ampliare i presupposti della impunità del cittadino che si autodifende da aggressioni altrui, e ciò sotto una duplice angolazione visuale. Da un lato, riconoscendo - così come ha fatto esplicitamente il codice Rocco all’art. 52 - che l’autodifesa è legittima non solo per proteggere la propria vita e incolumità personale (cosi come si limitava, tendenzialmente, a stabilire il precedente codice liberale Zanardelli), ma un qualsiasi "diritto", e dunque anche i beni patrimoniali di cui si sia proprietari, la cosiddetta "roba". Dall’altro, non mancando di prendere in considerazione circostanze peculiari di maggiore vulnerabilità della persona aggredita, come ad esempio l’essere sorpresi da un ladro dentro casa o l’essere minacciati da un rapinatore di notte e in luogo solitario, tali da poter far apparire a maggior ragione necessitato, e dunque giustificato persino l’impiego di un’arma letale per difendere la propria incolumità o la roba. Ora, questa esplicitazione di situazioni di minorata difesa è stata peraltro tradotta in legge non già in epoca fascista, bensì assai più tardi con la discutibilissima riforma di ispirazione populista varata nel febbraio 2006 sotto il terzo governo berlusconiano. Come si ricorderà, in tale occasione si levarono non poche voci critiche a contestare la effettiva necessità di aggiungere, nel testo originario dell’art. 52 del codice penale, l’autonoma e più specifica ipotesi della cosiddetta legittima difesa "domiciliare", connotata da una presunzione legislativa di proporzione tra aggressione e difesa nei casi - appunto - in cui la prima si verifichi all’interno di un appartamento o di altro luogo chiuso. La maggior parte dei tecnici infatti, oltre a denunciare il rischio che la suddetta riforma veicolasse il fuorviante messaggio di una "licenza di uccidere" i ladri di appartamento o i rapinatori di negozi, mise subito in evidenza la scarsa chiarezza della nuova norma e la sua conseguente inidoneità a indicare al cittadino precise modalità di legittima condotta autodifensiva. In effetti, il discorso si ripropone pressoché invariato ai nostri giorni, ma con una differenza non secondaria: a proporre in chiave populista un allargamento ulteriore dei confini della legittima difesa è oggi una maggioranza politica non di centrodestra, ma di centrosinistra (sia pure allargato). Il che non può non fare pensare, anche perché le motivazioni sottostanti all’odierno proposito di riforma finiscono col riecheggiare preoccupazioni di stampo politicamente conservatore, se non autoritario tout court. A cominciare - rileverei - dalla proposta che sia lo Stato a farsi carico delle spese processuali, compreso il compenso per gli avvocati, degli imputati cui venga infine giudiziariamente riconosciuto di aver agito in legittima difesa. Al di là di buone intenzioni per dir così solidaristiche, a ben vedere sembrerebbe in questo modo implicitamente profilarsi una concezione del cittadino che si autodifende quale una sorta di organo investito della funzione di contrastare la criminalità per delega da parte di uno Stato impossibilitato a intervenire in modo efficace e tempestivo: trattandosi di una specie di delega al privato del dovere statale di tutelare la sicurezza, ecco che finisce con l’apparire un ingiustificato e penoso incomodo che debba subire un accertamento giudiziario anche chi abbia agito al solo scopo di difendersi! Sennonché, un dato in proposito è davvero sorprendente. Cioè sorprende non poco che questo tipo di concezione della legittima difesa la troviamo esplicitamente teorizzata da un celebre campione dell’illiberalismo penale forcaiolo come il giurista Vicenzo Manzini, il quale in un emblematico scritto del 1911 si spinse sino a proporre "una speciale procedura istruttoria" per i casi di reazione autodifensiva; e ciò, non a caso, nel quadro di una rinnovata visione della legittima difesa come dovere del cittadino "galantuomo" tenuto, in sostituzione dell’autorità statale, a contrapporsi ai "malfattori" quali nemici della società degli onesti: per cui l’eventuale uso delle armi contro i delinquenti aggressori "non solo rappresenta l’esercizio di una facoltà, ma anche l’adempimento d’un dovere sociale, quale è certamente quello di contribuire a rintuzzare la temerarietà e la protervia dei malviventi, a intimidire e disperdere la malavita". Si potrà obiettare che l’ispirazione politica delle attuali proposte di riforma non è del tutto assimilabile al populismo penale di marca dichiaratamente autoritaria di cui era figlia una legittima difesa concepita come sopra. È vero. Ma è altrettanto vero che, allorché un legislatore si preoccupa di assecondare aspettative popolari di più ampi spazi di autodifesa, anche con ricorso alle armi, in funzione sedativa di crescenti ansie per paventate minacce criminali (per di più, soggettivamente sovrastimate rispetto al rischio oggettivo), è in ogni caso implicito questo tipo di messaggio: che la legge cioè avalla la contrapposizione aprioristica tra i cittadini buoni e onesti, autorizzati senz’altro a sparare anche per difendere soltanto la roba, e i delinquenti malvagi e pericolosi, da combattere come nemici della società privi di diritti, come "non persone" cui la vita può essere tolta senza scrupoli. Cosa potrebbe esserci di più populistico-razzistico di una simile contrapposizione ideologica, decisamente incompatibile - fino a prova contraria - con la cultura penale che dovrebbe essere propria in particolare di un partito (teoricamente) progressista come il Pd? Al di là del preoccupante sfondo ideologico, risultano per giunta confuse e pasticciate le formule normative già approvate dalla Camera dei deputati, rispetto alle quali la stessa pur brutta riforma del 2006 rischia di apparire un buon manufatto legislativo. Il perseguito allargamento dei confini della difesa legittima infatti include non solo la reazione ad un’aggressione commessa "in tempo di notte" (nozione così indeterminata, questa, da concedere al giudice una eccessiva latitudine interpretativa), ma altresì "la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi con violenza alle persone o alle cose ovvero con minaccia o con inganno". È appena il caso di rilevare criticamente che l’equiparazione tra violenza alle "persone" e violenza alle "cose" risulta ingiustificata dal punto di vista del rango dei beni aggrediti; e, inoltre, non è per nulla chiaro il significato della menzione della "minaccia" in alternativa alla violenza (se "violenza" è da intendere in senso letterale, cioè come violenza già consumata, siamo allora fuori dai confini della legittima difesa; se "minaccia" va invece intesa come violenza potenziale, allora è più corretto limitarsi a parlare di minaccia senza fare riferimento alla violenza!). Non appare, infine, condivisibile neppure la proposta iniziale del Pd che si limitava a modificare la disciplina del cosiddetto "eccesso colposo" (art. 59, ult. comma, del codice penale), escludendo la responsabilità a titolo di colpa per i casi in cui l’eccesso di autodifesa derivi da un "grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione". È forse superfluo rilevare che uno stato di turbamento psicologico è scontato in pressoché ogni persona che incorre nel pericolo di essere aggredita; specificare che deve trattarsi, ai fini dell’impunità, di un turbamento "grave" a ben vedere non è risolutivo: si pretende che il magistrato si atteggi a psicologo o, piuttosto, si vuole che sia un perito a verificare il livello di gravità dello stato di alterazione psicologica di chi si lascia andare a forme spropositate di reazione? È un sintomo molto preoccupante di degrado democratico il semplice sospetto che proposte così poco felici di allargamento della legittima difesa possano essere motivate, al di là della scadente cultura penale anche delle attuali forze di governo, dalla contingente tentazione di lucrare consenso elettorale strumentalizzando per l’ennesima volta la legge penale quale ansiolitico collettivo a modico prezzo: e ciò a costo di assecondare, anche da parte di settori politici che dovrebbero esserne in teoria immuni, pulsioni populiste (se non proprio "plebeiste") incompatibili con una democrazia costituzionale degna di questo nome. Quale che ne sia l’ispirazione politica, è comunque certo che le modifiche ormai passate al vaglio del Senato meritano per le ragioni già accennate una radicale bocciatura anche sotto l’aspetto tecnico-giuridico. È in proposito, dunque, auspicabile che la futura discussione parlamentare (ammesso che vi sarà interesse politico a svolgerla davvero, non potendosi escludere che la progettata riforma sia destinata ad abortire) tenga nel dovuto conto il punto di vista fortemente critico manifestato da una fonte particolarmente qualificata quale il Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che in un apposito comunicato dello scorso 6 maggio ha indirizzato alle forze politiche un monito che vale la pena riportare tra virgolette: "A preoccupare non sono solo le gravi incongruenze e contraddizioni del testo che, se approvato, costituirebbero fonte di disorientamento per la giurisprudenza e, ancor prima, per i consociati (…); ancor più preoccupanti sono le linee di politica criminale sottese al dibattito parlamentare (…). Il rischio è di giungere ad un testo che conduca ad esiti incompatibili con uno Stato di diritto". Anche se non è la prima volta che la dottrina specialistica boccia senza appello la politica penale concepita dai partiti di governo, il fatto che ciò avvenga pure a proposito di un istituto cruciale come la legittima difesa non può non indurre a un sovrappiù di prudenza prima di varare modifiche affrettate o poco ponderate. La "sicurezza" a 5 Stelle di Giuliano Santoro Il Manifesto, 2 giugno 2017 Dai corsi per i privati all’accorpamento di tutte le forze di polizia, gli iscritti votano il programma. Nonostante le divisioni interne sulla legge elettorale, le manovre di avvicinamento al governo del Movimento 5 Stelle passano anche per la questione della "sicurezza", tema che da queste parti ha sempre rappresentato un elemento identitario. Non è un caso che l’attivismo di questi mesi di Davide Casaleggio e di alcuni maggiorenti grillini presso aziende e organizzazioni di categoria, abbia un precedente proprio nel ciclo di incontri che Luigi Di Maio e Gianroberto Casaleggio tennero con funzionari di polizia e sindacati delle forze dell’ordine. Della materia, inoltre, si occupa dall’inizio della legislatura il parlamentare salernitano Angelo Tofalo. Ingegnere idraulico con la passione del calcio, Tofalo è arrivato alla Camera e poi finito nel Copasir. Di recente è stato oggetto di accuse per essersi fidato di una donna finita sotto processo per traffico d’armi: era uno dei suoi contatti per le complicate faccende libiche. Adesso la sicurezza arriva alla piattaforma Rousseau, dalla quale sono state poste le consuete domande (da accogliere o rigettare) agli utenti iscritti. Al di là dei temi specifici, ciò che pare interessante in termini di relazioni privilegiate e indice di attenzione verso determinati mondi, si trova nella serie di contributi che il blog di Grillo ha ospitato per istruire gli iscritti. Un intervento intitolato "La sicurezza partecipata" porta la firma di Umberto Saccone, che dopo una lunga carriera nei Carabinieri e nel Sismi è stato direttore della Security dell’Eni. Saccone cita come esempio di "sicurezza partecipata" la città di Los Angeles, non esattamente un posto tranquillissimo: "A Los Angeles, modello di smart city, i dati che arrivano dai vari dipartimenti, dal trasporto pubblico alla polizia fino alla raccolta di rifiuti e ai vigili del fuoco, sono in un solo luogo", spiega. La gestione efficiente dei servizi, sostiene ancora Saccone, è data dall’analisi aggregata dei dati: "questo accade anche nei progetti di crime mapping, in cui le amministrazioni locali svolgono un’opera di vera e propria mappatura del crimine, in modo da analizzare e identificare le zone urbane maggiormente a rischio, al fine di prevenire fenomeni di criminalità attraverso l’adozione di misure di sicurezza". Dove starebbe la "partecipazione"? L’idea di Saccone ricorda un po’ le ronde di cittadini: si propongono "modelli di monitoraggio informale e coordinato del territorio, ad esempio attraverso corsi finalizzati a fornire una formazione adeguata ai privati, anche grazie all’aiuto di ex poliziotti o ex carabinieri". C’è spazio poi per la privatizzazione della sicurezza. "Da un lato i tagli alla spesa pubblica inducono le amministrazioni centrali e locali a contrarre i servizi prestati ai cittadini e a esternalizzare alcune funzioni - spiega ancora Saccone -, dall’altro lato cresce la domanda di sicurezza privata presso le aziende e il terziario". Sul blog, più di 8mila utenti (su 20mila votanti e oltre 100mila iscritti) attribuiscono alla "sicurezza partecipata" il compito di "disciplinare forme di cooperazione tra pubblico e privato nello scambio di dati informatici". Una domanda formulata in modo un po’ capzioso chiedeva di scegliere tra garanzia della sicurezza e tutela della privacy. Ha vinto la prima opzione, con 12mila voti contro 7 mila. Del resto, era stato chiamato l’ex ispettore capo Renato Scalia ad avvisare del pericolo che la privacy possa essere utilizzata "come grimaldello" per mettere vincoli alla videosorveglianza e alle intercettazioni. Gli iscritti hanno approvato anche la proposta di accorpamento totale di tutte le forze di polizia. Quanto alle sorti della polizia locale, si è arrivati a una gaffe istituzionale: a spiegare il quesito sull’allargamento del raggio d’azione alle zone metropolitane è arrivato Diego Porta, il capo dei "pizzardoni" romani. Legalità e coesione sociale, l’appello di Mattarella di Umberto Rosso La Repubblica, 2 giugno 2017 "Femminicidio, omofobia e bullismo piaghe intollerabili". Il Capo dello Stato invia una lettera ai prefetti in occasione della Festa della Repubblica. Una "ferita inferta al cuore al paese" quella del terremoto che ha colpito l’Italia centrale, ma con una "difficile gestione dell’emergenza sismica". Sergio Mattarella invia una lettera ai prefetti per la festa della Repubblica, che si apre nel pomeriggio con il ricevimento alle autorità nei giardini del Colle, e lancia un richiamo sui ritardi nella ricostruzione. Riportare a nuova vita le aree devastate "è una priorità nazionale che non può conoscere arretramenti" avverte il presidente della Repubblica. E proprio tutti i sindaci delle cittadine colpite dal terremoto, a cominciare da quello di Amatrice, saranno gli ospiti d’onore del consueto "party" che dalle sette di oggi pomeriggio vedrà radunati nei giardini del Quirinale tutti i big dei partiti, i vertici delle istituzioni, i capitani d’industria, ma appunto anche i rappresentanti "dal basso" dell’Italia, dai primi cittadini alla società civile. È la "cifra" che il capo dello Stato ha voluto dare a queste celebrazioni del 2 giugno. Anche nella tradizionale parata ai Fori di domani mattina, marceranno in prima fila i sindaci giunti da tante città del nostro paese, e la sfilata sarà così un po’ meno militare e un po’ più "social". Nel pomeriggio del 2 giugno poi l’apertura dei giardini del Colle al pubblico, dalle 15 alle 19, con il bagno di folla del presidente della Repubblica che saluterà i cittadini (niente incontro con i giornalisti però, che era una consuetudine invece del presidente Napolitano). Le proteste delle zone terremotate sui ritardi dunque trovano ascolto al Quirinale. "La difficile gestione dell’emergenza sismica ha evidenziato - scrive Mattarella - la necessità che la collaborazione fra i livelli di governo sia sempre operosa e solidale, e lo stesso spirito deve accompagnare le azioni volte alla ricostruzione di quelle aree". E bisogna "preservare al meglio l’assetto dei nostri territori", e a mantenere "vigile ed efficiente" il sistema di protezione civile. Ma nel suo messaggio ai prefetti il capo dello Stato torna anche su altri nodi, indica una agenda di priorità, mentre non vi è alcun riferimento alla questione della riforma elettorale in dirittura di arrivo, e alle preoccupazioni di Mattarella sulla tenuta della maggioranza per il braccio di ferri fra Renzi e Alfano e sull’approvazione della legge di bilancio messa a rischio da eventuali elezioni anticipate. Nel pomeriggio al ricevimento ci saranno l’uno accanto all’altro molti dei protagonisti dello scontro politico. Il messaggio del capo dello Stato ha un filo conduttore unico: la grande attenzione alla "coesione sociale e all’uguaglianza", perché le condizioni di difficoltà, di esclusione, di emarginazione da un lato e la corruzione e il malaffare dall’altro, sono le cause che innescano la frantumazione. Insiste perciò nel sollecitare l’accoglienza ai migranti, "integrazione complessa ma indispensabile" spiega, rispondendo così indirettamente anche a chi (come ad esempio Salvini) ha polemizzato con le posizioni sempre sostenute dal Colle in tema di immigrazione. I prefetti si prodigano nel favorire il dialogo con le comunità locali, per "promuovere le condizioni di una convivenza serena e rispettosa della legalità e della dignità umana". Rispetto delle leggi che torna nelle parole del presidente contro la corruzione e l’evasione fiscale. Criminalità e mazzette truccano anche la concorrenza e le regole del mercato, spingono gli imprenditori onesti a lasciare il nostro paese. Da qui il richiamo del capo dello Stato. "Le azioni a difesa della legalità nelle attività economiche varranno anche a rafforzare la volontà di quegli imprenditori che, non rinunciando al loro futuro in Italia, contribuiscono alla ripresa economica e occupazionale del paese". Garantire "la coesione sociale e istituzionale e la sicurezza dei cittadini", preservare le istituzioni "da ingerenze criminali" per riaffermare il principio di uguaglianza, chiede il presidente. Anche contro "le intollerabili piaghe del femminicidio, della violenza di genere, del bullismo", che possono essere contrastate non soltanto attraverso l’impiego degli strumenti di prevenzione previsti per legge, ma anche con iniziative di educazione e sensibilizzazione. "Il bene della sicurezza, talvolta percepito come minacciato, appartiene a tutti, e tutti abbiamo il dovere di contribuirvi con comportamenti orientati alla legalità e all’interesse generale". Nel pomeriggio, prima del ricevimento nei giardini, l’incontro di Mattarella con gli ambasciatori, sempre nell’ambito della ricorrenza del 2 giugno, ai quali parlerà della nostra politica estera. La terapia illusoria dei magistrati che entrano in politica di Francesco Verderami Corriere della Sera, 2 giugno 2017 Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione Nel 1994 ci provò Silvio Berlusconi con Antonio Di Pietro, nel 1996 ci riuscì Romano Prodi sempre con Di Pietro, e ancora tre anni fa Matteo Renzi si presentò al Quirinale con una lista di ministri in cui c’era Nicola Gratteri come Guardasigilli. L’uso politico del magistrato è un rito antico, si rinnova dai tempi di Tangentopoli: per i leader della Seconda Repubblica farsi affiancare da una toga è stata finora una forma di garanzia offerta alla pubblica opinione, la rappresentazione di una rottura rispetto al passato e alle sue pratiche. È allora singolare che i grillini - interpreti del nuovo - perpetuino una vecchia e frusta cerimonia: offrire posti di governo a esponenti della magistratura non è un segno di diversità ma un gesto di continuità. Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione: non si chiedono voti per governare la cosa pubblica cercando una patria potestà per gestirla. Ha ragione quindi Piercamillo Davigo quando teorizza (e pratica) la separazione delle carriere tra politici e magistrati, al contrario di quanto teorizza (e sembra voler praticare) il suo collega Antonino Di Matteo. Peraltro, con questo approccio alla questione, l’ex pm di Mani pulite contribuisce a rompere una crosta di ipocrisia, l’idea cioè che la presenza delle toghe assicuri pulizia nel Palazzo. Anche perché il tasso di magistrati nelle istituzioni è oggi elevatissimo: sono dappertutto. Ci sono magistrati che scrivono leggi nei ministeri e magistrati che disfano leggi fuori dai ministeri, ci sono magistrati tra le cariche istituzionali e magistrati che indossano la fascia tricolore da sindaco nelle stesse città dove - fino al giorno prima - avevano vestito i panni del procuratore. Una volta le toghe in politica erano un’eccezione, e anche se oggi sono diventate una regola i problemi del Paese sono rimasti gli stessi: il debito pubblico, la disoccupazione e pure la corruzione. Serve un programma per risolverli, non farsi accompagnare da papà. Pm in politica: la dura legge del flop di Luca Rocca Il Tempo, 2 giugno 2017 Il salto dalle aule di giustizia a quelle del Parlamento non paga. Pochi successi, tanti fallimenti e la maggioranza di loro dimenticati dalla storia. Mentre si attende di capire se il pm di Palermo Nino Di Matteo andrà a fare il ministro in un eventuale governo guidato dal MoVimento 5 Stelle, in molti si interrogano sulle parole dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo: "I magistrati - ha affermato - non sono capaci di fare politica". Dargli torto appare difficile, e la storia delle toghe scese in campo sta lì a dimostrare che quando i pm mollano la loro carriera per entrare nei Palazzi del potere, raramente lasciano il segno. La stragrande maggioranza di loro, in effetti, cade nel più assoluto dimenticatoio, mentre altri hanno, diciamo così, scarsissima fortuna. Prendiamo l’ex pm palermitano Antonio Ingroia. Quando si tolse la toga per fondare un partito, "Rivoluzione civile", e candidarsi come premier, il popolo italiano lo bocciò clamorosamente riservandogli il 2 per cento dei consensi. Prima di lui intraprese quasi lo stesso percorso il simbolo di Mani Pulite Antonio Di Pietro, che se pure divenne due volte ministro, da politico incappò in più di un’inchiesta giudiziaria (sempre prosciolto) per poi scomparire dalla scena per riduzione della sua "Italia dei Valori" ai minimi termini elettorali. Altra toga prestata alla politica è Luigi De Magistris. L’attuale sindaco di Napoli sbaragliò sì ogni avversario con le sue sole forze, ma della "rivoluzione arancione" promessa non si vede neppure l’ombra (mentre nessuno ricorda più che fu anche deputato europeo). Più indietro nel tempo, è inevitabile imbattersi nel nome di Oscar Luigi Scalfaro. Un nome che quasi tutti ignoravano fino al 1992, anno in cui, dopo essere stato eletto presidente della Camera, il parlamento, subito dopo la strage di Capaci, lo elesse Capo dello Stato (con il contributo del leader radicale Marco Pannella, che di quella scelta si pentì moltissimo). Di Scalfaro, oggi, rimane più che altro il ricordo del suo viscerale antiberlusconismo. Tornando ai nostri giorni, è impossibile non citare il governatore della Puglia Michele Emiliano, che pochi mesi fa sfidò Matteo Renzi alle primarie del Pd con scarso successo, mentre poco prima s’intestò la battaglia contro il gasdotto Tap, perdendo pure quella. Altro magistrato prestato alla politica è l’attuale presidente del Senato Pietro Grasso, che fu giudice a latere del maxi-processo contro la mafia. Definire un flop la sua esperienza politica apparirebbe eccessivo, non fosse altro per la sua sobrietà che, paragonata alle criticabilissime posizioni della dirimpettaia presidente della Camera Laura Boldrini, ne fa un accettabile uomo delle Istituzioni. Fra l’altro, c’è chi non esclude che un’eventuale "grande coalizione" fra Pd e Forza Italia possa avere proprio Grasso come presidente del Consiglio. Da decenni in politica è Anna Finocchiaro. Spesso si è parlato di lei come possibile prima donna a conquistare il Quirinale. Una chimera rimasta sempre tale. È a Luciano Violante, invece, che l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga affibbiò l’epiteto "piccolo Vishinsky" (dal nome dell’esecutore delle "purghe" staliniane). I suoi anni nel Palazzo, in effetti, vennero contrassegnati da un sincero giustizialismo (e dalla scelta di portare in Commissione antimafia il pentito Tommaso Buscetta). Poi ci sono quei magistrati, tuttora in politica, di cui tutti ricordano il nome ma nessuno gli obiettivi politici raggiunti. Donatella Ferranti, ad esempio, impegnata in una riforma della giustizia che probabilmente non sarà mai approvata; oppure Felice Casson, ma anche Doris Lo Moro, ex sindaco di Lamezia Terme passata dal Pd all’Mdp di Pier Luigi Bersani. Per non parlare di quelli che, l’elenco è lunghissimo, hanno attraversato la scena politica per poi scomparire senza colpo ferire: Silvia Della Monica, Gianfranco Amendola, Gianrico Carofiglio, Alberto Maritati, Lorenzo Nicastro, Lanfranco Tenaglia, Federico Palomba, Carlo Palermo e Salvatore Senese, Antonio Soda, Giovanni Kessler, Roberto Centaro, Pasquale Giuliano, Paolo Andrea Taviano, Roberto Mazziotta, Daniela Melchiorre, Caterina Chinnici, Ettore Leotta e Giuseppe Narducci. Ci sono, poi, quei magistrati rimasti noti (nel bene e nel male) per il lavoro svolto con la toga addosso ma "bocciati" per quanto realizzato nella loro avventura politica: Ferdinando Imposimato, ad esempio, che si occupò del rapimento di Aldo Moro e dell’attentato a Giovanni Paolo II; l’amico di Falcone Giuseppe Ayala; l’altro simbolo di Mani Pulite Gerardo D’Ambrosio; Enrico Ferri, noto solo per il limite dei 110 km/h in autostrada; ma anche Libero Mancuso, Giacomo Caliendo, Tiziana Parenti. Toga scesa in campo è pure Alfonso Sabella, che fu assessore nella fallimentare giunta romana di Ignazio Marino, e anche Massimo Russo, ex assessore regionale in Sicilia. Senza dimenticare Giovanni Ferrara (che da pm chiese e ottenne l’archiviazione per Gianfranco Fini nella vicenda della casa di Montecarlo, ora di nuovo al centro di una delicata inchiesta). E alzi la mano chi si ricorda dell’esperienza politica di Carlo Casini, che fu anche presidente del Movimento per la vita. Melchiorre Cirami viene rammentato solo per la legge sul legittimo sospetto che porta il suo nome; Franco Frattini per la sua attività (da molti giudicata discutibile) come ministro degli Esteri; Francesco Nitto Palma per la sua indiscutibile fedeltà a Berlusconi da ministro della Giustizia; Stefano D’Ambruoso per la sua azione legislativa contro l’estremismo islamico; Cosimo Ferri come tenace sottosegretario alla Giustizia. Tirando le somme, dunque, forse Davigo non ha tutti i torti. "Giornali, rispettate i segreti d’indagine". Lo chiede l’Europa di Errico Novi Il Dubbio, 2 giugno 2017 Clamorosa sentenza dei giudici di Strasburgo: "chi pubblica atti segreti va punito". La libertà di stampa non può tutto. Non può schiacciare anche il diritto a un giusto processo. E le rivelazioni di atti d’indagine, udite udite, compromettono quel diritto perché alterano la serena valutazione del giudice. Non è la tesi di un saggio del professor Giorgio Spangher, tra i pochi accademici italiani che si battano come leoni per le garanzie della difesa. No: è roba che viene dalla mitica Europa. Dalla Corte dei Diritti dell’uomo. Che ha risolto così il contenzioso tra un giornale, Le Point, e due famosi francesi che citarono in altrettanti giudizi quel settimanale per via della pubblicazione di semplici "estratti" di deposizioni fatte agli inquirenti. Si tratta della donna più ricca d’Oltralpe, Liliane Bettencourt, e dell’amico che, secondo la figlia di lei, avrebbe circonvenuto l’ereditiera dell’impero L’Oreal, il fotograto François-Marie Barnier. Le Point, il direttore e l’autore dei due articoli contestati furono condannati a risarcire in tutto 16mila euro. Si sono rivolti ai giudici di Strasburgo. E hanno perso Secondo la sentenza, il giornale, il suo direttore e l’articolista non possono richiamarsi a una presunta onnipotenza del diritto a informare i cittadini. Ci sono anche altre leggi da rispettare. Una, che per la Corte europea è decisiva, risale addirittura al 29 luglio del 1881. Stabilisce che (almeno in Francia…) la "pubblicazione di informazioni confidenziali" è illecita. Chi se ne infischia è condannato. E quelle informazioni confidenziali, in Italia diremmo "fughe di notizie", sono impubblicabili "comunque siano state ottenute". La pronuncia è stata emessa all’unanimità. I giudici di Strasburgo hanno ritenuto "non lesive della libertà di stampa" le condanne inflitte dalla giustizia francese al settimanale per gli articoli in cui furono rivelate, tra fine 2009 e inizio 2010, alcune dichiarazioni rese dalla Bettencourt agli inquirenti durante le indagini sulla causa per circonvenzione incapace che la donna avrebbe subito dall’amico fotografo. La vicenda è celebre Oltralpe: Lilliane elargì all’amico Barnier regali per qualcosa come un miliardo di euro. Ma a poter cambiare il verso su giustizia e fughe di notizie non è tanto la verità sulle generose donazioni, quanto i motivi per i quali la Corte europea ritiene giusto punire la pubblicazione degli atti d’indagine: "La condanna alla testata, al suo direttore e al giornalista autore degli articoli", spiega la sentenza, "ha avuto l’obiettivo di proteggere il diritto a un equo processo" e la "presunzione d’innocenza". Non solo, perché, vista la complessa sequenza tra le due cause promosse da Bettencourt e Barnier contro il giornale e l’unitaria pronuncia di Strasburgo, viene di fatto sancito anche l’obbligo di tutelare la privacy "delle persone coinvolte nel caso", che hanno "diritto alla buona amministrazione della giustizia". In estrema sintesi, vuol dire che non solo il giornale ha sbagliato a pubblicare le indiscrezioni sulle indagini, ma anche che, chiunque sia stato a farle uscire dagli uffici giudiziari, costui ha sbagliato. Ha compromesso il diritto del cittadino a un servizio giustizia efficiente e leale. È una specie di rivoluzione. Lo è soprattutto la parte che riguarda il diritto di Barnier ad avere un "giusto processo", e in particolare l’idea che, secondo la Corte per i Diritti dell’uomo, tale diritto sia stato compromesso proprio dalla indebita pubblicazione di fatti attinenti al segreto. Il passaggio cruciale è dunque nella causa che Barnier intentò a Le Point per i due articoli (usciti il 10 dicembre 2009 e il 4 febbraio 2010): secondo lo scrittore-fotografo, il settimanale aveva leso il diritto al giusto processo perché dare pubblicità alle dichiarazioni rese agli inquirenti da Lilliane avrebbe potuto influenzare i giudici, nel procedimento avviato dalle denunce della figlia dell’ereditiera, Françoise Bettencourt. E secondo i togati di Strasburgo è vero: far trapelare indiscrezioni sulle indagini può alterare l’imparzialità dei magistrati giudicanti. Precisamente, si legge nella sentenza Cedu, gli articoli, che "puntavano alla colpevolezza" del presunto profittatore Barnier, "hanno rischiato di influenzare pesantemente il resto della procedura e di avere ripercussioni su testimoni e giudici". Signori ci siamo. Piercamillo Davigo ha torto. Ancora l’altro ieri al convegno cinquestelle ha detto che "è assurda la previsione del nostro sistema per cui il giudice non deve sapere di che si tratta, e le prove, per questo, vanno prodotte ex novo davanti a lui". No no, la Corte europea smentisce alla grande l’ex presidente Anm: se il giudice sa già tutto prima, il giusto processo non c’è più. Chiaro, chiarissimo. Ne esce alla grande il principio che l’avvocatura difende con tenacia da una vita: quello della necessaria "verginità cognitiva" del magistrato giudicante. In realtà è tutto scritto nell’articolo 111 della Costituzione e nel Codice di rito. Ma visto che il principio vacilla può darsi che l’inaspettata sentenza Cedu convinca finalmente gli scettici. Giusto per la cronaca, le parti - cioè il giornale, il direttore e l’articolista - hanno tre mesi per chiedere la revisione del giudizio europeo. Altrimenti il principio sarà sancito una volta per sempre. In Europa. Quindi anche in Italia. A meno che i Cinque Stelle non ci trascinino via anche alla giurisdizione di Strasburgo. Giudice blocca il concorso per assistenti giudiziari: illegittimo bando per soli italiani di Franca Selvatici La Repubblica, 2 giugno 2017 La sentenza dà ragione a una giovane albanese laureata in giurisprudenza all’università del capoluogo toscano e impone al ministero di ammettere con riserva i cittadini comunitari e gli extracomunitari con permesso di soggiorno lungo o status di rifugiato. L’Avvocatura dello Stato presenta reclamo. Il bando di concorso del Ministero della Giustizia per 800 posti di assistente giudiziario riservati ai soli cittadini italiani è incompatibile con il diritto comunitario. Lo ha stabilito il giudice del lavoro di Firenze Stefania Carlucci, che ha ordinato al ministero di ammettere con riserva al concorso i cittadini comunitari e gli extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno lungo o dello status di rifugiato che hanno presentato domanda e di sospendere la procedura concorsuale in modo da permettere a tutti gli stranieri in possesso dei requisiti richiesti di essere rimessi in termini per poter partecipare con riserva al concorso. L’ordinanza è del 27 maggio. La notizia si è diffusa in queste ore e suscita sconcerto e preoccupazione fra le migliaia di iscritti al concorso che temono un rinvio sine die delle prove, già molto tormentate per errori nei quesiti della preselezione. Peraltro la giovane donna albanese che ha vinto il ricorso aveva cercato di evitare problemi ai concorrenti. Laureata in giurisprudenza all’università di Firenze, in possesso di un permesso di soggiorno lungo, sostenuta dall’Associazione L’Altro Diritto presieduta dal professor Emilio Santoro e del cui comitato scientifico faceva parte il compianto giudice Alessandro Margara, padre della riforma penitenziaria ed ex ministro della Giustizia, nel dicembre scorso aveva inviato una diffida al ministero per la rimozione della clausola del bando di concorso che riserva gli 800 posti ai soli cittadini italiani. Una clausola ritenuta discriminatoria. Bastava riaprire il bando agli aspiranti stranieri. Ma il ministero non ha risposto. Solo allora - sempre sostenuta dalla Associazione L’Altro diritto e assistita dagli avvocati Alida Surace e Silvia Ventura - la giovane giurista albanese ha promosso un ricorso cautelare di fronte al giudice del lavoro di Firenze, chiedendo la rimozione in via d’urgenza della lamentata discriminazione, individuale e collettiva, per motivi di nazionalità. Il Trattato di funzionamento dell’Unione Europea riserva gli impieghi nella pubblica amministrazione ai cittadini dei singoli Stati membri, quale sola eccezione alla abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità. Ma la Corte di Giustizia europea ha ristretto - sentenza dopo sentenza - la portata applicativa della esclusione degli stranieri dalle pubbliche amministrazioni. E oggi in Italia il Testo unico sul pubblico impiego, modificato nel 2013 per adempiere agli obblighi europei, riserva ai cittadini italiani l’ammissione ai soli concorsi per mansioni che implichino "l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri" o che attengano "alla tutela dell’interesse nazionale". Se ne è discusso di recente a proposito dei direttori stranieri dei musei italiani. L’ordinanza del giudice di Firenze ripercorre le sentenze della Corte Europea che hanno ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l’accesso a posti di lavoro che, pur collegati all’esercizio di pubblici poteri, consistono però soltanto in attività ausiliarie o preparatorie, o che, pur in contatto anche regolare e organico con autorità amministrative o giudiziarie, ne lascino inalterati i poteri di valutazione e di decisione. Il giudice di Firenze afferma che occorra valutare in concreto se un posto all’interno della pubblica amministrazione costituisca o meno esercizio di pubblici poteri e ritiene di poterlo escludere per le mansioni di assistente giudiziario. Per questo ha giudicato discriminatoria, e come tale illegittima, la clausola del bando di concorso del ministero della Giustizia che lo riserva ai soli cittadini italiani. L’Avvocatura dello Stato ha già presentato reclamo contro la sospensione della procedura concorsuale. Il ministero, al quale abbiamo chiesto se intenda resistere fino all’ultimo grado di giudizio o riaprire il bando, non ha inviato risposta. Mandato d’arresto europeo: no allo sciopero del difensore quando si decide sulla consegna di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2017 Corte di cassazione - Sentenza 27482/2017. L’avvocato non può scioperare, quando c’è l’udienza in cui si decide sulla consegna di un soggetto nell’ambito del mandato d’arresto europeo. Il divieto vale anche se la persona richiesta non è sottoposta a misure cautelari. La Cassazione (sentenza 27482), colma una lacuna del Codice di autoregolamentazione degli avvocati che, nell’elencare le procedure urgenti, non considera quella relativa all’udienza camerale in cui si scioglie "la riserva" sulla consegna allo Stato richiedente (Legge 69 del 2005). Una "svista" che il giudice può colmare in via interpretativa considerati i valori costituzionali in gioco. Le Sezioni unite (sentenza 40187/2014) hanno chiarito che le disposizioni del Codice, pur rientrando tra le norme di legge, possono essere interpretate dal giudice in modo conforme ai valori costituzionali. Coerenti con questa linea, le Sezioni unite hanno considerato corrette le "integrazioni" fatte dalla Suprema corte che ha esteso, a situazioni non previste dal Codice, il divieto di astensione. L’articolo 4 del Codice comprende un ampio catalogo di attività processuali accomunate dall’urgenza: dalle udienze per le misure cautelari alla perquisizione, dalla convalida del fermo, ai processi a rischio di prescrizione. Facendo leva sull’urgenza la Cassazione ha inserito nella nozione di udienze penali relative alle misure cautelari, anche quelle che riguardano misure cautelari reali e quelle non applicate. Ora è il turno della Decisione quadro 2002/584/Gai, attuata con la legge 69 del 2005. Una norma finalizzata a tagliare i tempi delle procedure di consegna, per soddisfare esigenze di giustizia sovranazionali e garantire un’efficace collaborazione tra Stati membri, oltre che per tutelare diritti e libertà individuali con rapide decisioni sulle domande. L’esigenza di celerità è stata sottolineata in più punti della Decisione quadro, in particolare dell’articolo 17 secondo il quale "un mandato d’arresto europeo deve essere trattato ed eseguito con la massima urgenza". Sui termini fissati dall’articolo 17 è intervenuta anche la Corte Ue, che ha considerato in contrasto con la norma un sistema che consenta lo sforamento dei tempi: indipendentemente dal fatto che la persona richiesta sia in libera o meno. E il legislatore italiano si è messo in regola, puntando sui tempi contratti per tutto il procedimento: i tempi per la fase del ricorso in Cassazione sono addirittura più brevi di quelli fissati dall’articolo 311 del codice di rito contro le decisioni che dispongono le misure cautelari. Per questo è possibile - anche attraverso un adeguamento della ratio della norma primaria (legge 146/1990) sull’astensione dal lavoro per i servizi pubblici essenziali - affermare che il procedimento sulla decisione di consegna inibisce al difensore il diritto ad ottenere dal giudice il rinvio dell’udienza. Valutabile la revoca del porto d’armi per il condannato anche se riabilitato di Selena Pascasi Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2017 Tar Trento - Sentenza 1 febbraio 2017, n. 31. Non è automatica, ma valutabile, la revoca del porto d’armi per il condannato riabilitato. A pesare sul piatto della bilancia, infatti, non è solo la condanna penale, ma anche ogni altro elemento che abbia indotto il giudice a sostituire la reclusione con la pena pecuniaria o che, al contrario, abbia escluso la tenuità del fatto per commissione di un reato ostativo al rilascio o al mantenimento della licenza. Lo precisa il Tar di Trento, con sentenza 31 del primo febbraio 2017. A portare in giudizio il Ministero dell’Interno, è un uomo che - appresa la decisione del Questore di respingere la sua domanda di rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia - chiede al tribunale amministrativo di annullare il provvedimento. La decisione, in realtà, era stata assunta a seguito del decreto penale di condanna, ormai esecutivo, emesso dal Gip, per il tentato furto aggravato commesso dall’uomo. Reato ostativo - ai sensi dell’art. 43, comma 1 lett. a, del T.u.l.p.s. (Testo Unico Leggi Pubblica Sicurezza, R.D. 773/31) - alla concessione o al rinnovo della licenza di porto d’armi. Scelta contestata dall’interessato che, tramite il suo legale, denuncia l’eccesso di potere e l’illegittimità della decisione. Secondo l’avvocato, difatti, il provvedimento non poteva basarsi unicamente sul carattere ostativo che l’Amministrazione ricollega, automaticamente, alle sentenze di condanna riportate per determinati reati indicati nel Testo. Rilievo supportato, peraltro, dalle più recenti pronunce in materia, improntate ad una lettura costituzionalmente orientata della norma. Tesi, quella consolidatasi, che subordina - si legge nel ricorso - il provvedimento di diniego del porto d’armi ad una congrua motivazione da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, tenuta a valutare una serie di circostanze soggettive e oggettive. Tra queste, il periodo di tempo trascorso dalla condanna, la successiva condotta del soggetto e l’eventuale intervenuta riabilitazione. Il Ministero difende la correttezza del rifiuto - automatico per reati ostativi alla licenza, come quello commesso dal ricorrente - ma il Tar non concorda e annulla il provvedimento impugnato. L’atto con cui l’autorità di pubblica sicurezza respinge la domanda di rinnovo del porto d’armi, nonostante il lungo periodo trascorso dalla condanna dell’istante, nel frattempo riabilitatosi, non è legittimo così come emesso. L’effetto preclusivo, vincolante ed automatico delle condanne penali indicate nell’art. 43 Tulps, viene parzialmente meno - spiegano i giudici amministrativi - intervenuta la riabilitazione. O meglio, ciò che cade è l’automatismo tra norma e diniego: la condanna, seppur remota e superata dalla riabilitazione, rileva, ma da sola non è sufficiente a precludere il permesso, esigendosi una valutazione complessiva di elementi e circostanze, anche non penali, o dell’intrinseca gravità del reato (Consiglio di Stato 1072/15). Ma il Tribunale di Trento (sentenze 155 e 156/16) aveva già puntato il dito contro l’arbitrarietà di automatismi basati su presunzioni assolute di pericolosità avulse da dati reali che, invece, potrebbero remare contro la presunzione stessa. Annullato, così, il provvedimento contestato dal cacciatore, incensurato, riabilitato e, in fin dei conti, condannato a mera pena pecuniaria. Per chi spaccia vicino all’università niente arresto perché manca l’aggravante di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 1° giugno 2017 n. 27458. Lo spaccio nelle vicinanze dell’università non integra la circostanza aggravante che legittima l’arresto e la detenzione in carcere. Al più resta l’obbligo di firma. Questo in estrema sintesi l’importante principio contenuto nella sentenza della Cassazione n. 27458/2017. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui uno straniero era stato colto in flagrante a cedere 1,75 grammi di cocaina. Nella richiesta di convalida dell’arresto facoltativo in flagranza il pm ha contestato il reato ex articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990 aggravato dalla circostanza prevista dall’articolo 80, comma 1, lettera g) del medesimo Dpr, perché la cessione era avvenuta in prossimità dell’area universitaria. All’udienza di convalida il gip, esclusa la sussistenza della circostanza aggravante contestata, non ha convalidato l’arresto ritenendo che la misura non fosse giustificata né dalla gravità del fatto né dalla pericolosità del soggetto, disponendo la misura della presentazione presso la polizia giudiziaria e l’immediata liberazione dell’arrestato. Contro la decisione ha proposto ricorso il pm. Nell’appello il magistrato ha evidenziato che le aree universitarie anche se non rientravano nel concetto di scuola, tuttavia potevano coincidere con la categoria di comunità giovanile che per l’appunto nel reato di spaccio rappresenta una circostanza aggravante. In seconda battuta - era stato evidenziato - come l’imputato già in passato avesse commesso reato analogo tale quindi da integrare una pericolosità sociale. Il verdetto della Cassazione - La Cassazione ha respinto le richieste del pm in funzione delle considerazioni effettuate dal gip. Secondo quest’ultimo, infatti, la categoria di scuola è differente dall’istituzione università in funzione di quanto previsto dall’articolo 33 della Costituzione che si riferisce sempre separatamente alla scuola e all’istituzione universitaria, escludendo perciò che l’università possa rientrare nella categoria normativa delle scuole di ogni ordine e grado. Una lettura strictu sensu dunque. Lettura che deve avere lo stesso tenore anche riguardo alle comunità giovanili. L’università, infatti, non può essere considerata una comunità giovanile in quanto quest’ultima coincide con un’area in cui i componenti siano presenti in forma non occasionale in determinati luoghi. In definitiva la Cassazione ha ritenuto che l’aggravante si applica solo quando l’attività di spaccio avvenga nelle immediate vicinanze di strutture assolutamente tipizzate quali per l’appunto scuole, caserme, comunità giovanili, carceri, ospedali e strutture per la cura dei tossicodipendenti. Ora nella vicenda in questione all’imputato era stata contestata una condotta in "prossimità" dell’area università. Prossimità che è stato inteso in senso molto ampio, facendo riferimento, in maniera generale e aspecifica alla zona universitaria che nel centro di Bologna (ma anche in altre città) occupa interi quartieri. Cosa si intende per prossimità - La nozione di prossimità - sottolinea la Corte - deve essere intesa come contiguità fisica e posizionamento topografico dell’agente dedito allo spaccio in un luogo che consente l’immediato accesso alle droghe alle persone che lo frequentano. In conclusione respinta la richiesta del pm e rigettato il ricorso. Niente revocazione per il giudizio amministrativo in contrasto con sentenza della Cedu Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2017 Corte costituzionale - Sentenza 26 maggio 2017 n. 123. La Corte costituzionale non amplia i casi di revocazione in presenza di un giudicato amministrativo contrastante con una sopravvenuta sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con la sentenza 123/2017 precisa che "è infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo". Con un’articolata decisione i giudici della corte costituzionale ricostruiscono la giurisprudenza europea in materia che se nel caso di giustizia penale ha di fatto reso "obbligatoria" la revocazione del giudicato. Revocazione che è attuata dal nostro ordinamento con l’introduzione nell’articolo 630 del codice di procedura penale di specifica ipotesi di revisione della sentenza passata in giudicato. Mentre i giudici della consulta precisano che "nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco". Un invito che stato accolto da circa la metà degli Stati del Consiglio d’Europa, tra i quali la Germania, la Spagna e la Francia. E i giudici della Consulta, pur respingendo la questione di legittimità costituzionale, invitano il legislatore a farsi carico del problema. "Nel nostro ordinamento - precisano - la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore". Friuli V.G.: "Io, Garante dei detenuti, chiedo un’opportunità per farli tornare tra noi" di Monika Pascolo Messaggero Veneto, 2 giugno 2017 Il vincitore del Campiello: "Togliamoli dal vuoto, formiamoli" I problemi degli istituti: male Pordenone, benissimo Tolmezzo. Lui è uno di quelli che ce l’hanno fatta. Uno che è stato "dall’altra parte", toccando con mano "quanto poco di diritti delle persone private della libertà personale" ci sia nelle carceri. "In regione, così come in ogni parte d’Italia". Pino Roveredo, oggi scrittore - già vincitore del premio Campiello - e operatore sociale, in carcere ci è entrato già a 17 anni, per scontare il tentato di furto di un’automobile. E torna dentro ancora oggi. Per osservare, parlare con i detenuti e capire come si possa migliorare la vita "dentro". È infatti il garante per le persone private della libertà personale in Friuli Venezia Giulia, ed è l’unico "in Europa a farlo da ex detenuto. Per me un motivo di orgoglio", sottolinea. Ma cosa vede oltre le sbarre? "Vedo sovraffollamento e carenza di personale. E tanto vuoto, che non fa che aumentare la rabbia di chi attende per anni di conoscere la propria pena". Un "vuoto" che si può riempire, ne è certo Roveredo. Che rilancia quanto sta dicendo ormai da mesi. "Quell’attesa senza fare niente può diventare qualcosa di diverso. Studio, laboratori per imparare un mestiere che serve poi quando si esce e ci si deve reinserire in una società che mai più ti leverà di dosso il marchio del carcerato". E non serve guardare troppo lontano, indica, per capire di cosa si tratti. "A Tolmezzo abbiamo un carcere di massima sicurezza e chi è lì ci rimane a vita. Ma è uno dei migliori in regione, grazie alla direttrice Silvia Della Branca. Straordinaria, e sono gli stessi detenuti a dirlo, perché consente molte opportunità nella formazione e nella socialità". Per contro, afferma senza troppi giri di parole, "il carcere di Pordenone continua a essere la vergogna della regione e della città. Un ex castello in condizioni disumane, assolutamente contrarie ai diritti della Corte Europea, con spazi ridottissimi in cui non c’è possibilità di socialità". Guardando a Gorizia, l’istituto penitenziario "è piccolo e sempre in fase di ristrutturazione. Ospita anche la sezione dei detenuti omosessuali, due o tre, che per ragioni di sicurezza legate alla loro incolumità, vivono completamente isolati". A Trieste, dove c’è l’unica sezione femminile della regione con una trentina di detenute, e a Udine, le situazioni sono simili. "Sempre al limite del sovraffollamento. Si cerca di fare il possibile nella misura dell’organigramma. Senza una massiccia presenza di agenti non è possibile attuare progetti o laboratori". Ostacoli che paiono insormontabili, dunque. Ma qualcosa si potrà pur fare? "Certo, istituzionalizzare le proposte". Ma Roveredo, ammette: "Ci si trova a fare i conti con l’indifferenza dei politici. Lo dico in maniera esplicita: paga di più fare i furtaioli, paga meno occuparsi delle carceri". E assicura: "Non smetterò di dire che questi progetti rappresentano una chance per chi esce di prigione e consentono di rendere più dignitoso il periodo di detenzione. Oltre a essere un ritorno per la società". Sì, perché "ogni carcerato costa giornalmente alla collettività 150 euro. Sarebbe un risparmio riuscire a recuperare queste persone, invece che vederle tornare dentro". E non lo dice solo il garante. Lo dicono i dati: "Circa il 70% del popolo carcerario torna a delinquere quando ha trascorso anni dietro le sbarre senza fare niente. E con questa percentuale di recidiva il carcere è un’istituzione illegale, che non rispetta la propria funzione. Ma accade anche che questo numero diventi lo 0,01%. A Padova, a esempio, nel cui carcere da anni vengono organizzati i famosi laboratori di pasticceria". Un miracolo? "Certo - ammette Roveredo -. Non tutti hanno la fortuna che ho avuto io. Ho cominciato a fare lo scrittore in carcere, componendo le lettere per i famigliari dei detenuti in cambio di sigarette. E ho fumato davvero tanto in quel periodo!". Varese: Paola Macchi (M5S) "questo è il carcere del più fatiscente della Lombardia" varesenews.it, 2 giugno 2017 Duro affondo della consigliera regionale del Movimento 5 Stelle che invita Maroni: "Faccia una visita a queste carceri dimenticate nella sua città, ma non una visita ufficiale, ci vada a sorpresa e giudichi lui". "Come figura istituzionale facente parte della Commissione Carceri trovo doveroso andare a visitare le carceri anche in forma non ufficiale, quindi questa settimana mi sono recata al carcere di Varese per vedere cosa si stava facendo per questa struttura vecchissima che avevamo già visitato un paio di volte con la Commissione", così Paola Macchi, consigliere regionale del M5S Lombardia. La visita segue una risoluzione dalla Commissione, approvata in consiglio, che invitava la Giunta regionale ad attivarsi celermente presso il Ministero di Giustizia, affinché quest’ultimo, entro centottanta giorni dall’approvazione del presente provvedimento, proceda allo sblocco della situazione di inerzia in merito alla dismissione per consentire alla Casa circondariale di Varese di essere destinataria di risorse finanziarie da utilizzare per la riqualificazione e per l’ampliamento; a individuare, anche mediante una efficace collaborazione tra le istituzioni locali e Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria regionale, le soluzioni più idonee, orientate alla riqualificazione e all’ampliamento strutturale della Casa circondariale, al fine di garantire ai detenuti spazi adeguati e attrezzati per il recupero del loro benessere psico sociale e per favorirne il reinserimento nella comunità civile; a ricercare comunque una soluzione definitiva presso il Ministero della Giustizia, anche alternativa alla riqualificazione esistente, mediante l’individuazione di una area da destinare alla realizzazione di una nuova casa circondariale e alle relative risorse finanziarie per la costruzione dell’opera; e successivamente a riferire alla commissione. "Non si è più saputo nulla sull’ampliamento - dichiara Macchi - ma sono stati stanziati 50.000 euro per il rifacimento del piano terra e si attendono conferme per altri 100.000 euro per il rifacimento del primo e secondo piano. Tutti i lavori sono fatti in economia, utilizzando cioè manodopera interna, i detenuti stessi, che vengono pagati per questi lavori così da poter non solo impiegare le giornate lunghe della detenzione ma guadagnare anche qualcosa da poter magari mandare a casa. I lavori stanno proseguendo, rendendo decenti i servizi delle celle che prima non lo erano, bonificando i muri spesso intrisi di acqua e muffa a causa delle perdite delle tubazioni e rifacendo impianti di riscaldamento vetusti che negli scorsi inverni hanno lasciato al freddo i detenuti anche per settimane. Il carcere ha più di 100 anni, è in una struttura antica e non solo manca di spazi decenti per le attività comuni e per la palestra ma ha una cucina e un passeggio esterno che definire vergognosi è poco". E aggiunge: "Ho chiesto se l’ATS avesse visitato la cucina, e ho fatto anche un accesso agli atti per avere i verbali dell’ATS a riguardo, perché non è accettabile che una cosiddetta società civile permetta delle condizioni strutturali e di attrezzatura così devastate come quelle che ho visto. Per non parlare poi dei passeggi, nemmeno un filo di verde, un misero quadrato di asfalto sotto il sole con un servizio che non si può definire tale, e un unico rubinetto per rinfrescarsi che perde copiosamente ed è pieno di muffa e muschio tutt’intorno. C’è da chiedersi innanzitutto perché in tutti questi anni non si sia mai fatto nulla per questo carcere, sicuramente il più fatiscente e trascurato della Lombardia, collocato nel centro di Varese, che ospita attualmente una settantina di detenuti e una guarnigione sottodimensionata di altrettanti poliziotti penitenziari costretti spesso a turni lunghissimi per supplire alla mancanza di personale. In seconda battuta perché, visto questo iniziale, ben misero stanziamento per una parziale ristrutturazione, la direzione e il provveditorato non abbiano chiesto più fondi per intervenire anche sulla cucina e i passeggi. Ricordiamo che l’art. 27 della Costituzione dispone che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato anche perché altrimenti davvero si rischiano recidive a go go". "E a questo punto invito il Presidente Maroni ad andare a fare una visita a queste carceri dimenticate nella sua città, ma non una visita ufficiale, di spolvero, ci vada a sorpresa e giudichi lui se quanto vede può essere accettabile in una città dove si spendono tanti soldi pubblici ma solo per il salotto buono", conclude la consigliere regionale del M5S. Bolzano: nuovo carcere, fondi sbloccati e cantiere vicino di Silvia Fabbi Corriere dell’Alto Adige, 2 giugno 2017 Finanziamento da 25 milioni inserito nella "manovrina". Alfreider: "Grande sollievo". Il merito è di un ordine del giorno del governo collegato alla "manovrina" al voto del Parlamento in queste ore. È così che il deputato Svp Daniel Alfreider è riuscito a ottenere l’inserimento dei 25 milioni necessari a sbloccare il cantiere del nuovo carcere. Ieri i primi incontri tecnici nei ministeri. "Entro l’autunno il cantiere potrà partire" chiarisce Alfreider. Lo stallo sul nuovo carcere di Bolzano sembra finalmente finito. Il finanziamento da 25 milioni di euro necessario a far scattare la firma dell’appalto all’aggiudicataria Condotte e l’avvio del cantiere è stato inserito nella "manovrina" in queste ore al vaglio del Parlamento. Nonostante il thrilling fino all’ultimo sui numeri della fiducia al Senato, la strada per il provvedimento relativo al nuovo carcere di Bolzano ha la strada spianata. Il finanziamento della struttura è stato infatti inserito in forma di ordine del giorno del governo: il testo è stato votato e ha avuto parere positivo. Diventerà così esecutivo, ovviamente se il governo otterrà la fiducia. Con esso Roma si impegna a effettuare la modifica tecnico-amministrativa necessaria a stanziare i 25 milioni di euro di finanziamento per la struttura. "Si tratta in realtà di una semplice partita di giro, dal momento che quei soldi alla fine li dobbiamo mettere noi. Però era necessario creare la gabbia formale in cui inserire il finanziamento. Si tratta di un ottimo risultato, frutto di un lavoro di squadra durato diverso tempo e che ha visto la collaborazione fattiva di tutte le parti in causa, in primis il vice ministro all’Economia Enrico Morando che molto si è speso affinché il progetto potesse vedere la luce" spiega il deputato Svp Daniel Alfreider, che ieri a Roma ha già iniziato, insieme al segretario generale della Provincia Eros Magnago, i primi incontri tecnici ai ministeri delle Infrastrutture e dell’Economia per concretizzare al più presto un progetto bloccato ormai da troppo tempo. "È un grande sollievo, un peso che si toglie, finalmente" commenta Alfreider, che plaude al lavoro di squadra che "lavorando giorno e notte per quasi due settimane ha consentito di raggiungere questo risultato". La soddisfazione di Alfreider è palpabile: "Finalmente siamo pronti a partire con un progetto che tutti in Italia riconoscono come un progetto grandemente innovativo e pionieristico. Il cantiere potrebbe partire entro l’estate, già in autunno si potrebbe posare la prima pietra". Soddisfatto anche il senatore Karl Zeller, anch’egli da tempo impegnato dietro le quinte per portare a compimento la firma dell’accordo. "Un grande merito va dato al collega Alfreider, che con il suo impegno ha reso possibile l’inserimento di questo ordine del giorno nella manovra" chiarisce il senatore. Napoli: pestaggi nella "cella zero" di Poggioreale, chiesto giudizio per 12 agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2017 Rinviati a giudizio 12 agenti penitenziari su presunti pestaggi ai danni di detenuti avvenuti nella cosiddetta "cella zero" nel carcere di Poggioreale. Tutti dovranno rispondere di abuso di autorità contro detenuti, in quattro casi anche di lesioni, in due casi di sequestro di persona e in un caso di maltrattamento. La richiesta trasmessa all’ufficio Gip, è stata firmata dai sostituti della procura di Napoli Giuseppina Loreto e Valentina Rametta, titolari dell’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. L’accusa nei loro riguardi, derivante dai racconti di sei detenuti, è di percosse ai danni degli ospiti della struttura penitenziaria che risalgono al periodo compreso fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2014. In particolar modo era emersa - grazie ad un servizio esclusivo di Fanpage a firma di Gaia Bozza - l’esistenza della famigerata "cella zero", ovvero senza arredi e soprattutto senza area di videosorveglianza. Lì, secondo le denunce, i detenuti venivano rinchiusi e torturati e subivano calci e pugni tali da perforare i timpani. I titolari dell’inchiesta giudiziaria avevano tra le mani altre testimonianze come quella di un recluso che aveva affermato di essere stato picchiato mentre rientrava in cella poco dopo un’udienza di consiglio di disciplina e di essere stato anche scaraventato giù dalla sedia a rotelle che utilizzava per problemi di salute. Un altro testimone, affetto da epilessia, ha detto di essere stato chiuso nelle docce, percosso e poi costretto a sottoscrivere una dichiarazione nella quale attestava di essersi procurato accidentalmente la ferita all’arcata sopraccigliare. Storie di questo tipo, però, accadevano fin dagli anni 80. Erano gli anni della faida interna della criminalità organizzata campana. Una guerra tra la "nuova camorra organizzata" di Raffaele Cutolo e la "nuova famiglia" che si combatteva anche all’interno delle carceri. Per salvaguardare la propria incolumità, ogni detenuto, anche chi non era affiliato, doveva proteggersi con la pistola e fare da sentinella armata all’interno del proprio padiglione. Per far fronte a tutto ciò, lo Stato faceva intervenire il corpo speciale della polizia penitenziaria utilizzando metodi che ricordano molto da vicino la tortura. Save the Children: 168 milioni di minori a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa di Francesca Paci La Stampa, 2 giugno 2017 L’ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza. Majerah ha diciassette anni e dal 2017 è coniugata con un uomo che ne ha ventisette. Quando il padre concordò il suo futuro lei frequentava l’ottavo grado della scuola dove era un’alunna modello e sognava di diventare un dottore capace di aiutare le donne del villaggio precluse dall’assistenza sanitaria. Adesso il marito, un negoziante della periferia di Kabul, vuole risposarsi liberandosi di lei perché l’accusa di non riuscire a diventare mamma e, picchiandola come ha già fatto più volte, le ha dato due mesi di tempo prima di ripudiarla. "Non ho mai chiesto ai miei genitori di comprarmi vestiti o portarmi al parco, tutto quello che volevo era studiare e diventare un giorno dottore" racconta la ragazzina che non c’è più. Majerah è una delle migliaia di bambine che ogni giorno, a getto continuo, vengono dare in sposa a pretendenti dell’età dei padri o talvolta dei nonni: una ogni 7 secondi, secondo l’ultimo rapporto di Save the Children "Infanzia rubata" pubblicato proprio in queste ore. Senza istruzione, sfruttati, uccisi - Majerah e le altre sono un tassello del puzzle composto da "Infanzia rubata", che compone il quadro di un mondo a tinte foschissime: un bambino su 6 non ha accesso all’educazione (263 milioni non vanno a scuola), 168 milioni sono coinvolti nel lavoro minorile, oltre 16 mila minori di 5 anni muoiono ogni giorno per malattie facilmente curabili come polmonite o diarrea, 156 milioni hanno problemi di crescita legati alla malnutrizione. E poi ce ne sono 28 milioni in fuga da guerre e persecuzioni (la Siria ma non solo), 75 mila uccisi violentemente nel solo 2015 (più di 200 al giorno), un esercito di piccolissime spose che ogni 2 secondi mettono al mondo un neonato (15 milioni ogni anno). Maglia nera dell’infanzia rubata Niger, poi Angola e Mali - Nell’indice globale dell’infanzia negata, il primo del genere, Save the Children stila la classifica dei peggiori paesi in cui essere bambini: al primo posto c’è il Niger seguito da Angola, Mali, Repubblica Centrafricana, Somalia. La maglia rosa va alla classifica c’è la Norvegia, società modello. L’Italia è in buona posizione, migliore della Germania e del Belgio ma peggiore di Olanda, Svezia, Portogallo, Irlanda e Islanda. "Protezione ed educazione per tutti entro il 2030" - "È inaccettabile che nel 2017 milioni di bambini continuino ad essere privati della propria infanzia e del loro diritto di essere al sicuro" dice il Direttore Generale di Save the Children Valerio Neri. Qualcosa è stato fatto, ma non basta: "Nel 2015, i leader mondiali si sono impegnati a garantire a tutti i bambini, entro il 2030, il diritto alla salute, alla protezione e all’educazione, a prescindere da chi siano e dove vivano. Si tratta indubbiamente di un obiettivo molto ambizioso ma che deve essere raggiunto, i governi dovranno impegnarsi per assicurare a tutti i bambini l’infanzia che meritano". Le spose bambine - Majerah ha raggiunto una consapevolezza pagata con la propria vita: "Mi ero sempre concentrata sugli studi indipendentemente dalle difficoltà quotidiane, le mie sorelle sono tutte più piccole di me, non ho mai avuto la possibilità di godermi l’infanzia sono stata forzata troppo presto a entrare nell’età adulta". Quindici milioni di ragazze l’anno si maritano come lei quando sono ancora sui banchi di scuola. I giochi - quando c’erano - s’interrompono senza appello, i doveri si moltiplicano nell’assenza totale dei diritti, l’orizzonte si frantuma sulle pareti di una casa-prigione. Le spose bambine sono il paradigma di una società che non si limita a perdere l’età dell’innocenza ma la violenta. Lo sappiamo, lo leggiamo, avviene drammaticamente in costante diretta alla luce del sole. Blue Whale, cosa è e cosa (non) sappiamo davvero finora di Rosita Rijtano La Repubblica, 2 giugno 2017 È quasi psicosi sulla "sfida" che spingerebbe gli adolescenti all’autolesionismo. Nonostante numerose segnalazioni, l’esistenza del fenomeno in Italia non è - al momento - verificata. Ma non è escluso che, proprio sull’onda dell’emulazione, online ci siano o possano nascere gruppi di istigatori, per cui è utile prestare attenzione. Anche sui media. Blue Whale, la sfida social che spingerebbe i ragazzi ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, fino al suicidio. Sono decine le segnalazioni di casi sospetti arrivati alla Polizia postale, e altrettanti i messaggi di allerta inviati su WhatsApp, anche da parte di genitori preoccupati. È quasi una psicosi collettiva. Eppure la storia ha molti punti non verificati, e altri impossibili da verificare. Ecco un riassunto di cosa sappiamo con certezza e cosa no. In che cosa consiste. Innanzitutto capiamo cos’è. È stato inopportunamente chiamato gioco e consisterebbe nel compiere una serie di gesti al limite, come camminare sull’orlo dei binari, da immortalare e condividere online. L’ultima prova è togliersi la vita. Si verrebbe ingaggiati tramite social network: Instagram, WhatsApp, Facebook, chat. Ad orchestrare le operazioni, quello che è stato definito "curatore": sarebbe lui a guidare i ragazzi psicologicamente vulnerabili prova dopo prova, dopo averli convinti di possedere informazioni che possono far male alla loro famiglia. Chi partecipa alla sfida si provocherebbe, prima di tutto, dei tagli alle braccia e pubblicherebbe post contrassegnati dall’hashtag #f57. Le origini. Il primo a riportare la vicenda è stato Novaya Gazeta, il quotidiano di Mosca fondato da Anna Politkovskaja, giornalista investigativa uccisa nel 2006. In un’inchiesta pubblicata a maggio dello scorso anno, il giornale collega almeno 80 delle 130 morti avvenute in Russia tra il novembre 2015 e l’aprile 2016 a delle comunità virtuali su VKontakte, l’equivalente di Facebook in Russia, dove i ragazzi verrebbero istigati a togliersi la vita. Il lavoro è stato duramente criticato e un’altra investigazione condotta da Radio Free Europe dice: nessuna connessione provata tra i suicidi e le chat. Tra l’altro, è da notare che si parla di generici "gruppi della morte": alcuni hanno preso a simbolo le farfalle, altri le balene. Quindi il nome Blue Whale (tradotto come balena blu o azzurra) è, in realtà, una montatura mediatica. Perché Blue Whale? Per via dell’abitudine delle balene a spiaggiarsi e morire, senza motivo. I protagonisti. C’è da dire che i gruppi, tuttavia, sembrano esistere come riporta anche il sito di fact checking Snopes. La loro comparsa è successiva al suicidio di una ragazza, Rina, diventata una sorta di figura simbolo di un culto non meglio identificato. E l’unico che risulta incriminato per via delle chat è uno dei primi amministratori: il 21enne Phillip Budeikin, noto come "lis" ("volpe") che, al momento, pare incarcerato in Russia. Secondo gli inquirenti di San Pietroburgo, avrebbe istigato al suicidio 15 teenager in 10 diverse regioni russe tra il dicembre 2013 e il maggio 2016. Il processo, però, è ancora in corso. Inoltre, se da un lato lui sembra confermare l’accusa vantandosi di aver contribuito a eliminare della "spazzatura biologica" in un’intervista che risale al novembre 2016, dall’altro c’è da considerare quanto dice More Kitov, creatore su VKontakte della comunità "Sea of Whales": parlando al sito Lenta.ru, Kitov sostiene che l’amministratore della comunità #f57, cioè Phillip, voleva solo accrescere il numero di membri della propria pagina per attirare pubblicità usando una storia popolare tra i ragazzi e lanciando il mito di Rina. "Questa storia - conclude Snopes - è stata ripresa inspiegabilmente dai giornali mesi dopo, ma rimaniamo non in grado di verificarla". Come mai tutto nasce in Russia? Per capire le origini della storia, può essere utile partire da alcuni fatti. Il primo è che di hashtag associati alle "chat suicide" sui social russi ne appaiono almeno 4mila al giorno, dicono le stime diffuse il 20 gennaio scorso dal Rotsit, il Centro pubblico russo sulle tecnologie internet. Il secondo: il numero di minori che decidono di togliersi la vita in Russia è uno dei più alti al mondo. Con 720 vittime nel 2016, secondo i dati presentati alla Duma: tre volte sopra la media europea. Ma, stando a quanto annota La Stampa, i dati non risultano in aumento per via di questi gruppi online e il tasso di ragazzi che si tolgono la vita è molto più alto nelle città di provincia, poco digitalizzate. Situazione in Italia. A portare il fenomeno all’attenzione del pubblico italiano è stata la trasmissione televisiva Le Iene che ha raccolto le testimonianze di quattro mamme russe di ex "giocatori". Il servizio apre legando al "Blue Whale", presentato come il tremendo gioco social del suicidio, la morte di un giovane livornese: si è ucciso a 15 anni, lanciandosi da un grattacielo. Secondo la Polizia postale non risulta alcun collegamento. Sono, invece, al vaglio circa una cinquantina di casi sospetti in varie regioni. Come ha detto a Repubblica una fonte della Postale, non ci sono prove per stabilire se si tratta di un fenomeno emulativo o se dietro questi episodi ci sia una mente criminale che spinge i giovani al suicidio. Solo l’analisi dei computer dei ragazzi, attualmente in corso, potrà chiarire questi aspetti. Non è escluso che online ci siano gruppi che istigano all’autolesionismo e al suicidio, nati anche per via del clamore mediatico, per cui è utile prestare attenzione. Ma l’esistenza di un "gioco" strutturato di nome Blue Whale nato in Russia e dietro il quale ci sarebbe, per di più, una mente criminale non è - al momento - verificata. Perché i Paesi Bassi sono costretti a chiudere le loro carceri tpi.it, 2 giugno 2017 La mancanza di criminali ha portato alla chiusura di 19 prigioni olandesi. A settembre 2016 era stato richiesto l’invio di 240 carcerati norvegesi per tenerle aperte. Nel 2013, sono state chiuse 19 carceri olandesi per mancanza di criminali. Ora, come riportato dal quotidiano olandese De Telegraaf, altre cinque rischiano di dover chiudere prima dell’estate. Mentre tali chiusure comporteranno una perdita di circa duemila posti di lavoro, di questi solo 700 saranno riconvertiti in altre mansioni. Il fenomeno di queste chiusure segue di pari passo il tasso di criminalità nei Paesi Bassi, in costante riduzione dal 2004. Lo scorso settembre, a causa della mancanza di detenuti, è stato richiesto l’invio di 240 carcerati dalla Norvegia per tenere aperte le strutture. Tuttavia, come riporta il De Telegraaf, il Ministro della Giustizia Ard van der Steur ha annunciato al parlamento che i costi per mantenere semivuote le prigioni è proibitivo per il paese. Il motivo per il quale la criminalità è così bassa è dovuto, in larga misura, alle tolleranti leggi sulla droga, che si focalizzano sulla riabilitazione prevista dopo la pena grazie a un braccialetto elettronico che permette al pregiudicato di rientrare a lavoro. Secondo uno studio pubblicato nel 2008, tale sistema di monitoraggio, attaccato alla caviglia, se paragonato ai tradizionali sistemi di detenzione, ha dimezzato il tasso di recidività. Invece di passare del tempo in cella, gravando sulla spesa pubblica, ai detenuti viene data la possibilità di contribuire allo sviluppo della società. Queste misure vanno a sommarsi a uno scarso tasso di incarcerazione: nonostante i Paesi Bassi abbiano una popolazione di circa 17 milioni di persone, solo 11.600 persone si trovano attualmente in galera. Ciò significa 69 detenuti ogni centomila persone. Al contrario, gli Stati Uniti presentano un tasso di 716 detenuti ogni centomila persone, il più alto al mondo. Dovuto, per la maggior parte, alla mancanza di un vero e proprio servizio di riabilitazione sociale per i detenuti che finiscono di scontare la pena. Senza una rete di protezione che permetta loro di riprendere una vita normale, molti tornano a commettere crimini. Francia. Manifestazioni vietate con la scusa del terrorismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 giugno 2017 In nome della lotta al terrorismo il governo francese ha adottato centinaia di provvedimenti ingiustificati allo scopo di limitare la libertà di movimento e il diritto di manifestazione pacifica. L’accusa è contenuta in un rapporto di Amnesty International, che conferma come in Francia - così come in modo ancora più evidente in Turchia - gli obiettivi dello stato d’emergenza diventino altri e l’applicazione delle sue norme si presti all’abuso. Lo stato d’emergenza, introdotto il giorno dopo i terribili attacchi di Parigi del 13 novembre 2015, è stato rinnovato cinque volte. Il nuovo presidente Macron ha annunciato che chiederà al parlamento di prorogarlo per la sesta volta. Lo stato d’emergenza autorizza i prefetti a vietare lo svolgimento di raduni come misura precauzionale per motivi, estremamente ampi e non meglio definiti, di "minaccia all’ordine pubblico". Ecco il risultato: tra novembre 2015 e il 5 maggio 2017 le autorità hanno fatto ricorso ai poteri d’emergenza per vietare 155 manifestazioni, senza contare decine di altre occasioni in cui sono state applicate le leggi ordinarie. Nello stesso periodo sono state presi 639 provvedimenti per impedire a singole persone di partecipare a manifestazioni. Attenzione: 574 di essi hanno riguardato proteste contro la riforma del lavoro. Queste limitazioni violano il principio del diritto internazionale secondo il quale una manifestazione dovrebbe essere considerata pacifica a meno che le autorità non siano in grado di dimostrare il contrario. Le manifestazioni vengono viste come una potenziale minaccia anziché un diritto fondamentale. Anche se alcuni dei partecipanti alle manifestazioni hanno preso parte ad azioni violente, centinaia se non migliaia di manifestanti hanno subito le conseguenze dell’operato delle forze di sicurezza, che hanno fatto largo uso di manganelli, proiettili di gomma e gas lacrimogeni. I Medici di strada, un movimento informale di prestatori dei primi soccorsi, stima che solo a Parigi un migliaio di manifestanti siano stati feriti dagli agenti di polizia durante le proteste contro la riforma del lavoro. Sfidando le limitazioni dello stato d’emergenza, molti continuano comunque a manifestare, fronteggiati da un ampio dispiego di forze di sicurezza. Questo fa venire qualche dubbio sulla sincerità delle affermazioni delle autorità francesi, secondo le quali non vi sono risorse sufficienti per controllare l’ordine pubblico e la priorità va data al contrasto delle minacce di attacchi violenti. Turchia. L’ultimo grido di Ayse: "siamo artisti della libertà" di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 2 giugno 2017 Il sacrificio dell’attivista e combattente turca uccisa dall’Isis in Siria. Cappuccio rosso è morta. Non è una favola, ma la conclusione della storia di Ayse Deniz Karacagil, turca di 24 anni che ha trovato la morte in Siria, nei dintorni di Raqqa. La sua parabola ha avuto maggior risalto sui media italiani rispetto ad altre perché è stata raccontata da Zerocalcare nella sua graphic novel, Kobane calling. È stato lo stesso fumettista romano a scriverne su Facebook, riprendendo la notizia che circolava da martedì sera sui canali della controinformazione curda. "È sempre antipatico - scriveva Zerocalcare - puntare i riflettori su una persona specifica, in una guerra dove la gente muore ogni giorno e non se la incula nessuno". La fama di Ayse aveva valicato i confini della Turchia per quanto le era capitato nel 2013. Insieme ad altre migliaia di persone - giovani e meno giovani, turchi ma non solo, uomini e donne - Ayse aveva partecipato alle proteste di Gezi Park, uno spazio di verde pubblico nel quartiere di Taksim, a Istanbul, che il governo turco voleva convertire in un centro commerciale. Per settimane gli attivisti avevano occupato il parco giorno e notte, resistendo alle cariche della polizia e dell’esercito e guadagnandosi il supporto di molte persone all’estero. Gezi Park non è stata una battaglia vinta, tanto che adesso il governo di Erdogan ci sta costruendo una caserma militare. È stata però un riflettore importante sulla natura del potere in Turchia degli ultimi anni: violento e improntato al business più di ogni altra cosa. Le proteste di Gezi Park non finirono con lo sgombero degli occupanti. Nelle settimane a seguire la polizia turca ha ricercato e arrestato molti dei giovani protagonisti di quella rivolta. La stragrande maggioranza dei fermati ha ricevuto condanne di due o tre anni, ma non Ayse. A lei il governo ha riservato un trattamento speciale: 103 anni di galera per "favoreggiamento del terrorismo". Ayse infatti, che al tempo era una studentessa di 20 anni, è stata accusata di essere vicina al PKK, il partito dei lavoratori curdi, nemico numero uno di Ankara e iscritto nella lista internazionali dei gruppi terroristici. Questo perché la ragazza era solita indossare un foulard rosso sui capelli, simbolo inequivocabile - secondo i suoi persecutori turchi - della sua militanza politica fra i "comunisti" del PKK. Arrestata e incarcerata ad Antalya, Ayse ha diviso per mesi la cella con alcuni guerriglieri curdi, ha imparato la loro lingua e condiviso le loro idee politiche. Una volta dimessa in attesa del processo, Ayse ha scelto di non aspettare la sentenza e di non darsi alla fuga in giro per il mondo, ma di "andare in montagna" che in Turchia significa aderire al movimento di liberazione curdo. "Cara mamma, ti voglio tanto bene. Non essere triste per me, io sono un’artista della libertà" ha detto Ayse alla mamma annunciandole il suo passaggio alla lotta armata. Lo ha raccontato nel giugno 2014 la stessa madre di Ayse, accusando il governo turco di averle "fatto perdere" la figlia: "Le persone vogliono crearsi la propria giustizia in questo Paese, dove giustizia non c’è". Ayse, Cappuccio rosso, ha quindi intrapreso la strada classica di chi si unisce alla guerriglia, nel suo caso all’interno del MLKP (partito comunista marxista leninista): una formazione ideologica e militare di qualche mese e poi a combattere. È allora che Zerocalcare ha incontrato Ayse, sulle montagne del Qandil, base del PKK nel Kurdistan iracheno. Da là Ayse, preso il nome di battaglia di Destan, è partita per Kobane per partecipare alla resistenza dei curdi contro l’Isis. Con lo scoppio della guerra siriana infatti molti soldati del PKK stanno combattendo a fianco delle formazioni curdo- siriane delle YPG (miste uomini e donne) e YPJ (solo donne). Così dopo Kobane, Cappuccio rosso stava combattendo per liberare Raqqa dai jihadisti del cosiddetto Stato Islamico. È là, nel corso dell’offensiva che si pone l’obiettivo di liberare la città nei prossimi mesi, che Ayse ha trovato la morte, la mattina del 29 giugno. "Dopo la vittoria contro l’Isis a Kobane, Ayse aveva capito quanto è bello vivere al tempo della rivoluzione. Adesso lei è diventata immortale" scrivono i compagni dell’International Freedom Battalion di cui Cappuccio rosso faceva parte. Coloro che combattevano con lei la ricordano come una ragazza sempre felice e sorridente e, dedicandole una poesia, citano le sue parole: "Il governo turco ha paura del sole e della luce, come i vampire. Ma noi non siamo vampiri, noi amiamo il sole e la luce. È per questo che ci vogliono tenere al buio". Sud Africa. Viaggio tra giovanissimi detenuti a Bonnytoun, il carcere dei ragazzini di Valentina Ciaccio L’Osservatore Romano, 2 giugno 2017 Furti, spaccio di droga e omicidi: per questi reati si trovano nel carcere minorile di Bonnytoun a Kraaifontein, a circa 40 minuti da Città del Capo. Sono tutti giovanissimi, dai 12 ai 18 anni, detenuti in una prigione nel bel mezzo di una landa desolata. Ci uniamo a un gruppo di ragazzi, sono volontari della Project Abroad, una delle prime organizzazioni a livello internazionale che lavora per garantire esperienze di volontariato in Africa, America latina ed Est Europa. Da Cape Town, ogni settimana vanno a fare delle lezioni ai ragazzi su vari argomenti nel tentativo di aiutarli a inserirsi nella società una volta che saranno rilasciati. Passiamo per una strada che costeggia la città, ettari di terreni di baracche circondano Città del Capo. Percorriamo chilometri ai cui lati nascono le Townschip: un ammasso di casupole dove vivono solo persone di colore. È la povertà assoluta. Non c’è nulla, regnano la malavita e il degrado. Milioni di persone vivono così. Non c’è più l’apartheid oggi, ma la strada per i diritti di tutti è ancora lunga. Arriviamo all’entrata del carcere. Una volta dentro Mentre il responsabile comincia a spiegare di cosa si parlerà, tutti si mettono seduti: 20 ragazzini, tutti di colore, con addosso pantaloncini, maglietta e infradito; c’è chi ha lo sguardo strafottente, chi è attento e curioso, chi prende in giro, chi è silenzioso. Ce ne è uno che più ci colpisce. Sembra davvero piccolo, da una delle guardie veniamo a sapere che ha 12 anni. Gli sorridiamo e lui ricambia il nostro saluto con un gesto della mano. Accanto a noi c’è uno dei responsabili della prigione: ci guarda triste e ci dice che quel bambino è in carcere perché ha ucciso un poliziotto. Spacciava e nel tentativo di fuggire alle guardie, ne ha uccisa una.