L'esperienza di Ristretti Orizzonti raccontata dal criminologo Adolfo Cerettti Ristretti Orizzonti , 29 giugno 2017 Adolfo Ceretti (Professore Ordinario di Criminologia e di Mediazione reo-vittima - Università di Milano Bicocca) si occupa di giustizia riparativa. È stato definito "il criminologo che non va in televisione", e dimostra una certa riluttanza anche rispetto alle interviste. Ha rilasciato questa dichiarazione. "Ristretti Orizzonti", nella Casa di Reclusione di Padova, è un vero e proprio Osservatorio, presso il quale cooperano 60 persone, tra detenuti e volontari esterni. Oltre a costituire una formidabile banca di dati, informazioni e studi sulla questione carceraria, questo progetto è di per sé parte fondamentale di quel mondo che non si arrende all’idea che il carcere debba essere pura e semplice incapacitazione. Da oltre 10 anni frequento regolarmente la Redazione, e coadiuvo Ornella Favero anche nella conduzione del Convegno annuale che Lei organizza in tema di giustizia. Conosco personalmente tutti i detenuti che giorno per giorno svolgono, con Ornella, il prezioso cammino di auto-riflessione sul proprio passato, sul proprio presente e sul proprio futuro, spesso a diretto contatto con alcune vittime di reati gravi. Con molti redattori di "Ristretti" ho un rapporto epistolare. Attraverso questa corrispondenza ho compreso - se ancora ce ne fosse bisogno - che se sussiste una possibilità che la loro esistenza non evapori di nuovo verso condotte devianti, una volta terminata la vita carceraria, ciò è dovuto al fatto che la loro pena non trascorra invano. In estrema sintesi, ciò vuol dire essere quotidianamente a contatto con un pensiero attivo, profondo e creativo. Un pensiero che va continuamente alimentato. La ricchezza dell’esperienza significa anche possibilità di ricaduta delle persone, nelle trappole naturali che segnano i percorsi tortuosi di chi ha vissuto comportamenti, e talvolta anche educazione, devianti. Le ricadute fanno parte delle storie delle persone, anche non detenute, e le risalite dai burroni e dalle trappole del percorso sono gradini verso equilibri più profondamente vissuti. Ritengo, nel pieno rispetto delle indagini in corso, che non si possa coprire di fango "Ristretti" e Ornella Favero, e tutto il prodigarsi di altre meritorie iniziative dentro al carcere Due palazzi di Padova. Sotto la lente d’ingrandimento vi è anche il lavoro della Cooperativa Giotto, che da anni confeziona dolci prelibati e apprezzati da tutti - in primo luogo addirittura da Papa Francesco. Attaccare queste esperienze significa minare la speranza di avere un carcere più umano, più ottemperante all’articolo 27 della Costituzione, alla normativa e allo spirito dell’Europa, e perdere una grande chance per sperare che la vita di molte persone possa ancora essere chiamata come tale. "I suicidi in carcere sono una sconfitta per tutti" di Gigliola Alfaro ancoraonline.it , 29 giugno 2017 Intervista a Don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri. Sono 23 i suicidi avvenuti in carcere nel 2017, secondo il dossier di Ristretti Orizzonti, "Morire di carcere", aggiornato al 21 giugno. Ultimo, nel momento in cui scriviamo e di cui la cronaca ha dato ampiamente riscontro, quello di Marco Prato, finito in cella per l’omicidio di Luca Varani. Nel 2016 sono stati, sempre secondo il rapporto, 45. "Quando un detenuto si suicida vuol dire che non ha trovato un motivo di speranza, è una sconfitta per tutti", dice a don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Don Grimaldi, sono alti i numeri dei detenuti che si suicidano. Nella sua esperienza quali sono i fattori di maggiore rischio? Oltre alle fragilità individuali, i suicidi sono anche legati agli ambienti dove i detenuti sono ristretti. Ci sono dei penitenziari che non sono adatti per accogliere persone con problematiche psicologiche e psichiatriche. Avvengono più suicidi in quelle strutture più abbandonate a se stesse per certi aspetti. Oggi si parla molto di sicurezza, ma come viene realizzata? Per mancanza di personale, tante volte non si riescono a organizzare nelle carceri attività che aiuterebbero a sostenere i detenuti. E sempre per poco personale, risulta difficile un controllo adeguato delle persone con patologie particolari o che vivono momenti difficili. In cella Prato ha lasciato un messaggio per spiegare il gesto: "Non ce la faccio a reggere l’assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente"… Nel suo caso c’è stata una forte pressione mediatica che Prato non è riuscito a sopportare. Anche i media hanno delle responsabilità. Tante volte c’è un accanimento perché certi delitti fanno scalpore e aumentano le vendite di giornali e l’audience delle trasmissioni televisive. Bisognerebbe avere il coraggio di fare silenzio in questi drammi. Le persone più fragili non reggono tutto ciò. Quanto può aiutare il volontariato per casi difficili? In tanti istituti c’è una bella presenza di volontari, ma in altri si fa fatica a farli entrare, benché svolgano attività a costo zero. A volte per motivi di sicurezza o per mancanza di personale, la presenza del volontariato rischia di essere mal sopportata. Certo, non dobbiamo considerare i volontari come supplenti del personale carente. Sono presenza viva di Chiesa all’interno delle carceri, e, in collaborazione con i cappellani, possono fare molto per i detenuti. Ma è raro che il volontario possa incontrare detenuti considerati difficili, perché di solito sono in isolamento.Eppure, anche il detenuto più pericoloso, se non ha dei supporti e stimoli, è maggiormente a rischio suicidio. Quando un carcerato si ammazza è una sconfitta dello Stato, ma anche della comunità? Penso proprio di sì. Quando una persona si toglie la vita, vuol dire che non ha trovato intorno a sé una speranza, non è stato aiutato a vedere oltre. Stato e comunità fanno quello che possono, non dobbiamo colpevolizzare alcuno: i motivi dei suicidi sono diversi. Ci sono persone che non riescono a sopportare il peso di una condanna a trent’anni, c’è una mancanza di speranza dentro. I cappellani e i volontari che portano il Vangelo nelle carceri danno un grande aiuto per far ritrovare la speranza. Quando avvengono i suicidi, ognuno di noi si sente un po’ sconfitto, pensando che avrebbe potuto fare di più. Cosa si può fare per evitare questa perdita di speranza? Nelle carceri dove c’è un’attenzione maggiore e una direzione un po’ più aperta, si vive meglio. Da un punto di vita spirituale, quando un cappellano o un volontario entra nel carcere proponendo un percorso di fede attraverso il Vangelo, l’ascolto della Parola, i Sacramenti, aiuta il detenuto a non perdere la speranza, perché c’è qualcuno che gli è vicino, non lo giudica, lo accoglie. Come si potrebbe tutelare meglio la dignità della persona ristretta? L’ordinamento penitenziario ha compiuto e continua a compiere degli sforzi per migliorare le condizioni dei detenuti, ma il vero modo per dare dignità è offrire lavoro all’interno delle strutture. Un altro problema è la mancanza di risorse: la realtà del carcere è lo specchio, amplificato, della società, dove ci sono tanti tagli. Basti pensare all’assistenza sanitaria: in carcere difficilmente riesce ad andare uno specialista o comunque sono lunghissimi i tempi per una vista. C’è il rischio di non poter aiutare adeguatamente anche detenuti con patologie gravi. Cosa può fare la Chiesa? La Chiesa sta facendo molto per il carcere grazie a Papa Francesco che ha sollevato la riflessione su questi problemi anche con le sue frequenti visite a penitenziari. Ora tocca a noi accogliere la sua voce e la sua sollecitazione. Il carcere in una diocesi deve essere considerato come una vera e propria parrocchia. È bello quando i vescovi organizzano attività all’interno del carcere, in prima persona, attraverso la Caritas o associazioni. Inoltre, invito i vescovi a inviare nelle carceri cappellani, maturi umanamente e spiritualmente, né anziani né giovanissimi, ma ancora nel pieno delle energie e con un’attenzione spiccata per gli ultimi. Nella mia esperienza - sono stato 23 anni cappellano a Secondigliano, il carcere mi ha aiutato molto. Nelle carceri ci sono tanti immigrati di altre fedi: che rapporto s’instaura? Il cappellano è un punto di riferimento per tutti, anche per i non cattolici e i non cristiani. Tante volte noi cappellani quando vediamo detenuti islamici o di altre confessioni cristiane, ci attiviamo affinché anche i loro pastori di culto possano entrare nelle carceri. "Il 41 bis va abolito perché lede la dignità del detenuto" di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 29 giugno 2017 Intervista a Maria Brucale, penalista e membro del direttivo di Nessuno Tocchi Caino. "Le vicende di Provenzano prima e di Riina oggi sono simili a quelle di tanti detenuti ai quali va garantito il rispetto della legge, perché così e non con la vendetta lo stato esprime il suo potere". L’inchiesta del Dubbio sul 41 bis si conclude con l’intervista dell’avvocato penalista Maria Brucale, membro del direttivo di Nessuno tocchi Caino ed esperta delle problematiche della carcerazione dura. Qual è la sua opinione sul 41 bis? Secondo lei andrebbe abolito, oppure attenuato? Io sono per l’abolizione del regime detentivo differenziato. È nato nel 1992 per rispondere a una situazione di emergenza, quella determinata dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Già allora era chiaro che lo speciale regime privativo nel derogare, per una categoria di carcerati, al normale trattamento intramurario, fosse incostituzionale tanto che si dispose una durata limitata della norma che lo prevedeva. E, tuttavia, a colpi di rinnovate emergenze si è giunti all’attuale situazione. È chiaro che in alcuni casi, in virtù della gravità del reato commesso, sia necessario predisporre particolari cautele ma, a ben vedere, è ciò che ordinariamente accade nella assegnazione a specifici circuiti delle persone che accedono agli istituti di pena. L’ordinamento penitenziario è - coerentemente con l’art. 27 della Costituzione - interamente orientato alla rieducazione del ristretto e a un trattamento intramurario individualizzato, il più possibile rispondente alla personalità del soggetto. Basta soffermarsi su tale aspetto per rendersi conto della vistosa incostituzionalità di un regime che sospende per tempi indefiniti l’accesso del ristretto alla rieducazione. Ci sono persone detenute in regime differenziato fin dal tempo dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario; 25 anni di carcere duro che isola dagli affetti e costringe in ambiti asfittici ogni anelito di vita emotiva e creativa. Si tratta di carcerazioni punitive sottratte per legge alla finalità cui ogni pena deve tendere, la restituzione dell’individuo alla società. Su Il Dubbio il Dap ha annunciato la prossima emanazione di una circolare relativa al 41 bis. Ci è stato spiegato che sarà volta soprattutto a uniformare le regole. Soddisfatta? La circolare relativa al 41 bis era già menzionata nella relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2016. Risultava già elaborata e trasmessa al Capo di gabinetto per la condivisione. Tale circolare, si legge nella relazione: "si prefigge di raggiungere una piena funzionalità del regime nel corretto bilanciamento degli interessi connessi alla sicurezza penitenziaria e alla dignità del detenuto, titolare di diritti soggettivi che non devono venire meno per effetto della sottoposizione al regime speciale, con l’esclusione di ogni disposizione che possa essere interpretata come inutilmente afflittiva. L’uniformità di metodo, oltre a implementare le buone prassi già attuate nel rispetto dei diritti inviolabili dei detenuti, consentirà di fornire risposte univoche alle richieste di intervento della magistratura di Sorveglianza". Certamente, la vocazione manifestata dal provvedimento è positiva e sembra prendere le mosse da una onesta constatazione: oggi il regime di 41 bis lede la dignità del detenuto attraverso varie forme di limitazione che nulla hanno a che vedere con la tutela della sicurezza. È indubbiamente un primo passo e, tuttavia, mi sembra assai presto per manifestare soddisfazione. L’esperienza, soprattutto quella recente degli Stati Generali sull’esecuzione penale, ci ha insegnato che i buoni propositi nella direzione dello Stato di Diritto fanno molta fatica a farsi strada nelle maglie di un tessuto sociale giustizialista, carcero-centrico e retributivo. Va anche detto che in alcuni casi la legge che disciplina il 41 bis lascia spazi di interpretazione costituzionalmente orientata ed è nell’ambito di tali spazi che particolari situazioni soggettive hanno trovato tutela da parte di alcuni luminosi magistrati di sorveglianza. Ciò ha generato alcuni aspetti di difformità tra i diversi istituti di pena. Credo, però, che si debba fare attenzione anche al concetto di uniformità del trattamento che sembra anteticamente contrapposto a quello di individualizzazione. A volte, invece, è proprio la norma a prevedere sbarramenti o vessazioni che non hanno correlazione alcuna con l’ottica di prevenzione del crimine e in tali casi un intervento di adattamento per mano dell’amministrazione penitenziaria è ovviamente precluso. Allora servirebbe una presa di coscienza del legislatore, o della Corte Costituzionale adita. Tra le righe della menzionata relazione di fine anno del 2016, si legge un altro dato caratterizzante: nel corso del 2016, i decreti che disponevano il 41 bis annullati sono stati 6, mentre quelli revocati a seguito di intrapresa attività di collaborazione sono stati 11. Tale indicazione chiarisce, ove ce ne fosse bisogno, la natura autentica delle carcerazioni esasperatamente afflittive quale strumento di persuasione coatta alla collaborazione con la giustizia Lei è stata uno degli avvocati di Bernardo Provenzano e si è battuta per fargli ottenere la revoca del 41 bis viste le sue condizioni psicofisiche. La battaglia l’avete persa e lui è morto nell’ospedale milanese di San Paolo in regime di 41 bis. Ora si parla di Totò Riina, secondo lei il caso è comparabile con quello precedente? Quella battaglia l’ha persa lo Stato di Diritto. Provenzano è morto in 41 bis perché rappresentava un simbolo del male. E il medesimo vessillo appartiene a Salvatore Riina. Qui è la similitudine tra le due situazioni. Entrambi icone dell’antistato. Entrambi reclusi mentre la vecchiaia e la malattia li rendono muti e inermi. Per il resto la loro situazione è identica a quella di quanti, detenuti, sono custoditi dallo Stato che deve garantire loro il rispetto della legge, quella stessa legge che hanno calpestato e vilipeso perché è nella legge e non nella vendetta che lo Stato esprime il suo potere e si rende riconoscibile. Eppure il clamore che ha fatto seguito alla sentenza della Cassazione che ha annullato la decisione con cui il Tribunale di Bologna aveva negato a Riina il differimento della pena per la gravità delle sue condizioni di salute, dimostrano che la gente vuole vendetta, un cadavere su cui sputare e un mostro da additare, la legge del taglione, morte con morte, orrore con orrore. Il Diritto, però, è un’altra cosa. La Cassazione ha solo esercitato il suo potere di controllo sul rigore motivazionale di un provvedimento che incide sui diritti della persona. Ma temo che la serenità di giudizio del tribunale competente sia già stata compromessa dal feroce tumulto di popolo. L’inchiesta del Dubbio ha affrontato anche la vicenda nota come "Protocollo Farfalla", un’operazione di intelligence volta a scoprire se dietro le proteste dei detenuti e associazioni o movimenti politici garantisti ci fosse un consolidamento tra la criminalità organizzata e il mondo della società civile che si batte per i diritti. Pensa che possa ritornare quel clima di sospetto? Temo che quel clima di sospetto non si sia mai sopito e che la criminalizzazione delle battaglie di Diritto scomode sia un facile approdo per chi non vuole farsene carico. Sono battaglie di civiltà che richiedono un altissimo senso di rispetto per le Istituzioni, abnegazione, rigore morale, coraggio. Sembra un richiamo alla cristianità, ma quanto è più semplice difendere il cittadino per bene? La persona specchiata, socialmente apprezzata? Quando Abele muore, che faranno i genitori di Caino, figlio assassino rimasto in vita? Gli strapperanno il cuore dal petto o cercheranno di recuperarlo? Ciò che si deve comprendere è che i diritti inalienabili appartengono a qualunque uomo nella stessa misura e che c’è una linea dell’invalicabile che non può essere mai oltrepassata, pena la confusione tra lo Stato e il criminale. Solo la comprensione autentica di questa premessa consente di eliminare quell’alone fuligginoso che viene impresso addosso a chi tutela i diritti delle persone che hanno commesso reati. Carcere e dipendenze: allo studio un protocollo per favorire le misure alternative di Teresa Valiani Redattore Sociale , 29 giugno 2017 Il documento accorcia le distanze tra la magistratura di sorveglianza e i servizi per le dipendenze patologiche ed è stato proposto da Federserd. Ancora troppo alto il numero dei detenuti tossicodipendenti. "C’è bisogno di avvicinare i linguaggi, i mezzi, i metodi e la formazione professionale". Un protocollo operativo nazionale che accorci le distanze tra i Serd (servizi per le dipendenze patologiche) e la magistratura di sorveglianza chiamata a valutare le richieste di misure alternative nei confronti dei detenuti con problemi di dipendenza. Un "ponte di mediazione culturale che contribuisca ad avvicinare i linguaggi, i mezzi, i metodi e la formazione professionale", favorendo l’accesso alle misure di comunità a scopo terapeutico. È quello che arriva da FeDerSerD, la Federazione italiana degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze, che proprio in queste ore ha inviato il documento all’attenzione del Conams, il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. "L’idea - ha spiegato Gianna Sacchini (direttivo FeDerSerD,) presentando il protocollo nel corso del convegno ‘L’esecuzione penale esterna per i consumatori di sostanze, autori di reato: come cambiare il paradigmà - nasce da una constatazione largamente condivisa: il procedimento propedeutico per la concessione dell’affidamento in prova in casi particolari è, nella legge e nella prassi, insoddisfacente. Per questo abbiamo provato ad intervenire sulle carenze collegate al percorso che accompagna l’affidamento terapeutico. Il processo di formazione degli elementi di conoscenza da offrire al giudice è estremamente disomogeneo e questo determina l’inaccettabile conseguenza che, a parità di situazione oggettiva del richiedente, l’esito del giudizio varia sensibilmente a seconda del Servizio competente ad istruire e del magistrato competente a decidere". L’obiettivo è comune e riguarda il corretto svolgimento del procedimento attraverso cui applicare l’affidamento terapeutico e appare "estremamente importante - ha sottolineato Sacchini - provare insieme, pur se con angolazioni, sensibilità professionali e prospettazioni diverse, ad analizzare la situazione attuale, a identificare le criticità e ad elaborare una metodologia che ne consenta il superamento o, almeno, un significativo contenimento. Il protocollo che abbiamo elaborato va esattamente in questa direzione e vuole perseguire proprio questo obiettivo strategico". Gli operatori auspicano da un lato uno stesso rigore nelle procedure e nella metodologia seguita dai Servizi nel predisporre i documenti che devono essere presentati al giudice, e dall’altro, "una maggiore uniformità e prevedibilità decisionale da parte della magistratura di sorveglianza che, verosimilmente, si sentirebbe impegnata a tenere nella dovuta considerazione gli allegati prodotti secondo contenuti e modalità che ha concorso ad elaborare". Il protocollo ha cercato di individuare, nei passaggi operativi fondamentali, canoni più appropriati e standardizzati, per ridurre sensibilmente la disparità dei criteri e delle modalità adottate per predisporre la documentazione e, quindi, favorire l’accesso all’affidamento terapeutico ogni volta che ne sussistono i presupposti. Un obiettivo, quest’ultimo, che può sembrare scontato ma che nella realtà non trova sempre riscontro. Nonostante le leggi siano a favore della cura piuttosto che della restrizione della libertà personale, resta significativo il numero dei tossicodipendenti condannati a pena definitiva e che non usufruisce della misura alternativa a scopo terapeutico, nonostante sia in possesso dei requisiti previsti. "E proprio questo obiettivo - è stato sottolineato durante l’incontro - suggerisce una preziosa indicazione: i criteri procedurali non devono essere soltanto uniformi, appropriati e attendibili, ma dovrebbero essere concepiti in funzione dei parametri normativi che guidano la decisione del giudice. Accade infatti più di quanto non si pensi, che gli elementi prodotti dai Servizi non sono ritenuti sufficienti per le valutazioni a cui il giudice è chiamato. È il caso della "non strumentalità" della richiesta da parte del detenuto, dell’attualità della dipendenza e dell’idoneità del programma terapeutico a fini di recupero e di prevenzione". La proposta di protocollo, sostenuta sin dall’inizio dal presidente di FeDerSerD, Fausto D’Egidio, è stata trasmessa al Conams per le valutazioni e "l’auspicata condivisione". "Abbiamo molto polimorfismo nei Serd e nelle magistrature di sorveglianza dei vari territori - spiega il presidente Fausto D’Egidio - e il nostro obiettivo, senza avere alcuna velleità di suggerire o attendere modifiche legislative, è quello di fare in modo che ci sia una omogeneità di offerta di informazioni alla magistratura di sorveglianza, rispondente anche ai bisogni di chi ha una lettura diversa di questo problema. La necessità è diventata stringente con l’impegno che, con fatica, la nostra nazione riesce ad assolvere rispetto all’Europa e che riguarda il carico di detenuti nelle carceri. L’impegno dello Stato italiano è liberare quanto più possibile le carceri dai tossicodipendenti, il nostro obiettivo è che sia quanto più possibile garantita la possibilità di cura ai pazienti tossicodipendenti che, spesso, sono ristretti per reati commessi sotto l’effetto o per il bisogno di procurarsi la droga. La legislazione c’è, ma i protocolli devono servire per garantire quanto più possibile cure sicure ai pazienti. Ci sono spinte a volte anche estreme in una direzione o nell’altra: chi li vorrebbe tutti in carcere e chi vorrebbe che lo stigma "tossicodipendente" fosse una patente di pirandelliana memoria per evitare il carcere. La spinta forte è rendere quanto più di qualità e professionale la collaborazione che i Serd possono dare ai tribunali di sorveglianza". A processo dopo vent’anni: che giustizia è? di Valter Vecellio L’Indro , 29 giugno 2017 In galera perché non c’è il braccialetto. Situazione grave ma non seria. Italia, patria del diritto, osserva Leonardo Sciascia; ma anche la sua bara. Come insegnano tutti i manuali di diritto e di giurisprudenza, la giustizia, per essere tale, occorre sia imparziale; non soggetta agli umori del singolo, della massa, o del momento. Una legge deve essere comprensibile anche a chi non è un esperto del settore; la pena non necessariamente deve essere severa, ma deve essere, necessariamente certa; la celebrazione del processo deve avvenire in tempi ragionevolmente certi, non biblici. Lo ricorda, lo prescrive proprio un italiano, una di quelle persone di cui l’Italia deve essere fiera, quel Cesare Beccaria, uomo del Settecento, considerato tra i massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, autore di quel "Dei delitti e delle pene" che tra i testi più influenti della storia del diritto penale, un testo che ha tra l’altro ispirato i padri fondatori degli Stati Uniti d’America nella stesura di parte della Costituzione di quel paese. Perché questo richiamo, esplicito, a uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale? Perché con quel "Dei delitti e delle pene" l’Italia è, appunto, la patria del diritto. Con storie come quella che si racconta ora, ne è la bara. Occorre fare uno sforzo di memoria, e andare al 9 maggio 1997, vent’anni fa. Quel 9 maggio, all’alba, i carabinieri del Reparto Operativo Speciale arrestato nove attivisti di un ridicolo movimento separatista veneto battezzato "I serenissimi". I nove la notte dell’8 maggio entrano in piazza San Marco a Venezia, sono sbarcati dal traghetto con un autocarro camuffato da blindato, detto "Tanko". In quel carro armato rudimentale avevano anche montato un cannoncino da 12millimetri. Se in grado o no di funzionare, non si sa; e neppure importa saperlo, qui; perché non è questo il problema. Sgomberata la piazza, entra in campo la giustizia; o meglio: la magistratura. Devono andare a giudizio, i nove occupanti, e altri 39 secessionisti, individuati come complici a vario titolo. All’inizio si parte con l’associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Il giudice per l’udienza preliminare però derubrica il reato ad associazione sovversiva. La procura chiede il rinvio a giudizio di 34 persone, e il proscioglimento di 13; il Gip decide che tutti e 48 vanno processati. Meglio fare un passo indietro. Molti passi indietro: fino all’aprile del 2014, quando su ordine della procura di Brescia vengono arrestati 24 secessionisti veneti, bresciani e sardi. Sono accusati di aver "promosso, costituito, organizzato e finanziato" l’associazione L’alleanza, per occupare piazza San Marco a Venezia, a bordo del Tanko realizzato all’interno di un capannone nel padovano. È l’occupazione di cui si parlava prima, quella di vent’anni fa. Quindici anni, prima di arrivare all’arresto dei 24; indagini, è da credere, accuratissime. Uno di quelli finiti nei guai, un bresciano che si chiama Michele Cattaneo (accusato della costruzione del cannoncino), chiede il rito abbreviato. Così tornerà davanti al Gip il prossimo 14 luglio. Gli altri rinviati a giudizio (tra loro l’ex sottosegretario agli Affari Esteri del primo governo Berlusconi, Franco Rocchetta; e uno dei protagonisti dell’occupazione di piazza San Marco, Flavio Conti) si sono visti fissare la prima udienza davanti alla corte d’Assise il prossimo 31 ottobre. Pensate di aver letto male? Meglio ripetere: "l’occupazione" di piazza San Marco a Venezia è dell’8 maggio 1997. All’alba dl 9 maggio la piazza viene "liberata". Nell’aprile 2014 vengono arrestati 24 "secessionisti’" Il Giudice per l’Udienza Preliminare decide di mandarne a processo 48. Per via del rito abbreviato uno sarà processato il prossimo 14 luglio; gli altri - prima udienza - il 31 ottobre. Andatelo a raccontare a Beccaria. Su tutti i giornali la storia di Domenico Diele, l’attore che drogato, privo della patente, a bordo di un’automobile priva di assicurazione, ha ucciso investendola, una donna sbalzandola dal suo scooter. Per Diele sono stati disposti gli arresti domiciliari, e però rimane in carcere perché manca il cosiddetto "braccialetto elettronico". Come? In carcere perché non c’è il "braccialetto elettronico"? La cosa ha fatto notizia. Che la cosa faccia notizia, e la faccia solo perché vede coinvolto un attore (peraltro non si sta parlando di un Marcello Mastroianni o di Alberto Sordi), è la cifra di quello che sono e possono essere giornali e giornalisti. Ha ragione il segretario del Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria Donato Capece: "Non c’era bisogno della mancata scarcerazione di un detenuto eccellente per sapere che le dotazioni dei braccialetti per il controllo dei detenuti ammessi ai domiciliari, costati allo Stato fino ad oggi 173 milioni di euro, è largamente insufficiente rispetto alle reali necessità". La cosa, osserva Capece, è nota e denunciata da tempo: "Ma se riguarda la mancata scarcerazione di migliaia di "poveracci" e di "signor nessuno" la cosa non fa notizia. Il paradosso più evidente è che i Ministeri di Giustizia e Interno hanno speso milioni di euro in 10 anni per pochissimi braccialetti, mentre ora che ve n’é una primaria necessità, con la messa in prova ed il potenziamento del ricorso alla misure alternative alla detenzione non ne sono stati acquistati a sufficienza. E le carceri restano piene di persone che invece potrebbero da subito scontare la pena sul territorio". E viene in mente Ennio Flaiano: "Situazione grave, ma non seria". Così come è la legge sul reato di tortura non ci piace di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio , 29 giugno 2017 Il nostro Paese si appresta a varare una norma che non contempla il reato di tortura come chiaramente descritto e sancito dal diritto internazionale. L’impegno nei confronti dell’Onu di 28 anni fa non può essere considerato soddisfatto. Il flusso incessante di richiami che provengono all’Italia dagli organismi sovranazionali, in primis il Consiglio d’Europa, con le sentenze della Corte Europea per i diritti umani sul caso Cestaro e più di recente sui risarcimenti dovuti dall’Italia per i fatti della Diaz, le raccomandazioni del Comitato europeo Prevenzione Tortura e del Comitato dei Ministri, fino alla lettera inviata dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks ai Presidenti di Camera e Senato in merito alle criticità per la formulazione del reato di tortura che si sta introducendo, senza dimenticare il Comitato Onu sui diritti umani con il suo Rapporto sull’Italia dello scorso mese di marzo, sono a questo punto eloquenti di una violazione sistematica da parte dell’Italia di precisi standard e obblighi internazionali. Perché quando ci si impegna, come l’Italia si è obbligata a fare 28 anni fa ratificando la Convenzione Onu contro la tortura, ad introdurre il reato di tortura e, poi, omette di farlo per oltre un quarto di secolo, allora, diventa uno Stato tecnicamente fuori legge, con ciò perdendo autorevolezza, prestigio e credibilità agli occhi della comunità internazionale. Quando poi il nostro Paese si appresta a varare una legge che non contempla il reato di tortura come chiaramente descritto e sancito dal diritto internazionale, l’impegno nei confronti dell’Onu di 28 anni fa non può essere considerato serio e pienamente soddisfatto. Il testo che sta andando al voto alla Camera non è il reato di tortura come previsto dalla Convenzione Onu, secondo la quale "il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona…". Chiaro, semplice. Invece, secondo la versione italiana, la tortura non è un reato specifico, chiaramente riferito, come stabilisce la Convenzione Onu, alle violenze "inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale", ma un reato comune, commesso da chiunque, un pubblico ufficiale come un privato cittadino, un agente di polizia come un affiliato alla mafia. Non basta poi un singolo atto di inflizione di sofferenza per poter parlare di tortura, perché ci devono essere "più condotte". Quanto alle torture psicologiche, i traumi psichici dovranno essere verificabili, come se la sofferenza mentale fosse una tumefazione fisica, col suo bel livido viola evidente a tutti! Però, questo Stato, che difetta di autorevolezza agli occhi del mondo, cerca di riguadagnarla in modo autoritario, mostrando la faccia feroce perché se poi dovesse derivare volontariamente la morte, infligge l’ergastolo! Infine il "tana libera tutti", perché non si può parlare di tortura "nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti", né si trova nella legge un riferimento al fatto che le sofferenze siano "segnatamente volte ad ottenere informazioni o confessioni" come si legge nella Convenzione Onu. Non mi stupisce se penso che nel nostro Paese esiste quella forma di "tortura democratica" che, insieme all’ergastolo ostativo, è il 41- bis rispetto al quale il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha ritenuto, di fronte alla giustificazione delle autorità italiane che la particolare afflittività è necessaria per contrastare la criminalità organizzata e proteggere la società, che fosse poco convincente e che si potesse ritenere invece che l’obiettivo di fondo fosse "piuttosto quello di utilizzare le ulteriori restrizioni come strumento per aumentare la pressione sui prigionieri in questione, al fine di indurli a collaborare con la giustizia" in contrasto con il dettato costituzionale e gli obblighi internazionalmente sottoscritti. Si può anche fingere di non vedere, di non sapere ma c’è chi comunque ci guarda e ci osserva e queste sono le organizzazioni sovranazionali a cui come Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino continueremo a rivolgerci. Sento già il governo spiegare a Strasburgo come a Ginevra che "Ecco, abbiamo provveduto ad introdurre il reato di tortura!". Lì però ci saremo anche noi, a spiegare che quello introdotto non è il reato di tortura. Lo faremo in sede di Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa quando valuterà la posizione del Governo sui casi oggetto delle sentenze della Cedu e lo faremo al Comitato Onu contro la Tortura dove l’Italia sarà esaminata il prossimo novembre. *Presidenza Partito Radicale e Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell’Italia Nuovo codice antimafia, l’ira dei penalisti di Andrea Bassi Il Mattino , 29 giugno 2017 Oggi forse il sì, contestate le norme sul sequestro. Stretta sugli amministratori giudiziari. I penalisti salgono sulle barricate. Nel giorno in cui in Senato il nuovo codice antimafia fa un altro passo verso la sua approvazione finale, il presidente dell’Unione delle camere penali, Beniamino Migliucci, ha parlato di un "atto di arroganza politica senza precedenti". Una riforma con un’impronta "inquisitoria e autoritaria". A rassicurare i penalisti non sono bastate le modifiche apportate al testo ieri dai relatori Giorgio Pagliari e Giuseppe Lumia. Con un emendamento approvato dall’aula, è stato ristretto il campo delle misure che consentono di sequestrare preventivamente tutti i beni, e che il codice uscito dalla Camera allargava indiscriminatamente dai reati di mafia a quelli contro la pubblica amministrazione, dalla corruzione alla concussione, passando per il peculato La norma riscritta da Pagliari e Lumia stabilisce che il sequestro dei beni può scattare solo nel caso in cui ci sia anche un’associazione a delinquere. "In questo modo", spiega Pagliari, "abbiamo eliminato l’uso indiscriminato dei sequestri evitando il rischio di una paralisi della stessa macchina della giustizia". In realtà, sostiene Forza Italia, cambia poco. Lo stesso Pagliari ha fatto riferimento alle parole pronunciate dal direttore dell’antimafia Franco Roberti. Anche quest’ultimo si era detto contrario all’allargamento indiscriminato dei reati che fanno scattare le misure patrimoniali perché, aveva spiegato che in realtà la corruzione, la concussione e le altre condotte illecite sono già oggetto di misure di prevenzione quando sono condotte ‘abituali’ e il sospettato ha una sproporzione tra il suo reddito ed il patrimonio. Ed in effetti negli ultimi anni le misure di prevenzione sono state applicate anche ai reati legati all’evasione fiscale. Una prospettiva che ha fatto dire ieri in aula al senatore forzista, Giacomo Caliendo, che se tutto è mafia nulla rischia di essere mafia. I penalisti sono preoccupati anche di un altro aspetto. Che il procedimento di prevenzione è un "sottosistema sfornito delle minime garanzie: il bassissimo standard probatorio richiesto al fine dell’applicazione delle misure", oltre a non consentire nessuna "possibilità di controllo da parte di un giudice terzo" e non avere nemmeno dei limiti di durata. Insomma, basta che una persona in base a solo prove indiziarie venga ritenuta socialmente pericolosa e che abbia un patrimonio che non riesce a giustificare, e sarà possibile per i magistrati privarlo di tutti i suoi beni. Un’azione che può essere esercitata anche a prescindere da quella penale. Un tipo di misura che sempre più è applicata al mondo dell’imprenditoria e delle imprese. Oggi, come hanno dimostrato dei recentissimi dati elaborati da Infocamere, ci sono quasi 18 mila imprese sequestrate, che nel loro complesso fatturano 21 miliardi di euro e danno lavoro a 250 mila persone, facendo della "Tribunale Spa" una tra le primissime imprese del Paese. Per i penalisti "simili strumenti repressivi di cui si chiede il rafforzamento, rappresentano un concreto pericolo di consegnare definitivamente la vita dei cittadini e l’economia del Paese nelle mani di pochi magistrati". Il provvedimento, che dovrebbe essere licenziato oggi dall’aula del Senato per tornare alla Camera per la terza lettura, introduce anche una stretta sugli amministratori giudiziari, i professionisti chiamati dai giudici ad amministrare le imprese sotto sequestro. All’articolo 13, quello nel quale erano state inserite le cosiddette "norme anti Saguto", dal nome del magistrato palermitano che aveva affidato decine di incarichi di amministratore allo stesso professionista, è passato un emendamento a firma del senatore M5S, Maurizio Buccarella che prevede che l’amministratore giudiziario dei beni confiscati non possa essere legato da rapporti economici, familiari o professionali con il magistrato che conferisce l’incarico. Depenalizzare il reato di stalking è un errore imperdonabile di Alessandra Pigliaru Il Manifesto , 29 giugno 2017 Infuriano le polemiche per la depenalizzazione del reato di stalking. Taddei (Cgil), Ocmin (Cisl) e Menelao (Uil): "senza il consenso della vittima, l’imputato potrà estinguere il reato pagando una somma se il giudice la riterrà congrua, versandola anche a rate". Il 14 giugno, nell’ambito della legge di riforma del codice penale, è stato approvato anche un nuovo articolo, il 162 ter che in buona sostanza prevedrebbe l’estinzione dei reati a seguito di condotte riparatorie. A innescare una furiosa polemica - da ieri montata tra quotidiani online, social e comunicati stampa - è che tra i reati estinguibili ci sarebbe anche lo stalking. La protesta è stata avviata da Loredana Taddei, responsabile nazionale delle Politiche di Genere della Cgil, Liliana Ocmin, responsabile del coordinamento nazionale donne Cisl e Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto della Uil, secondo cui "senza il consenso della vittima, l’imputato potrà estinguere il reato pagando una somma se il giudice la riterrà congrua, versandola anche a rate". Non si è fatta attendere la replica di Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera: "qui siamo quasi al procurato allarme, si fanno girare notizie prive di reale fondamento". Durissima anche nei confronti di Cecilia Guerra, capogruppo di Articolo Uno - Movimento Democratico e Progressista al Senato, che ha espresso nettamente la sua posizione in merito: "si tratta di un errore, bisogna ammetterlo e porvi rimedio". La denuncia lanciata da parte dei sindacati "non è una bufala", come precisano Taddei, Ocmin e Menelao, si avverte invece "la necessità di una maggiore cura e attenzione nel formulare norme che attengono alla sfera della tutela delle donne vittime di stalking". Rilanciano anche i deputati di Mdp, Roberta Agostini e Danilo Leva: "per questa ragione non abbiamo votato il ddl penale caratterizzato da eccessive distorsioni". Nessun dubbio anche per la presidente del Telefono Rosa Nazionale, Gabriella Carnieri Moscatelli, per cui è stato commesso un errore clamoroso che non si può essere disposte a sopportare. "La legge del 15.10.2013 n. 119 (legge sul femminicidio) - prosegue la presidente - ha precisato che per il reato di stalking la remissione della querela può essere "soltanto processuale". Questo significa che la querela non è irrevocabile e che può essere rimessa dinanzi al giudice. Quindi l’art. 162 ter introdotto nel nuovo codice penale è assolutamente applicabile al reato di stalking, per cui è necessaria la querela". Dinanzi a questa grave "svista" si sentano chiamati a risponderne i responsabili. Con risposte serie, quanto l’esistenza in pericolo di tante - sempre troppe - donne. Orfani di femminicidio, quando una legge giusta si incaglia al Senato di Goffredo Buccini Corriere della Sera , 29 giugno 2017 Ci sono buone leggi che fanno litigare, e si capisce, per il fardello ideologico che si tirano dietro: fresco esempio è lo ius soli. Ma ce ne sono altre che, in apparenza, dovrebbero correre verso l’approvazione su un’autostrada di consensi. È il caso della nuova normativa sugli orfani di femminicidio (in media ogni tre giorni viene uccisa una donna in Italia). In dieci anni sono stati 1.600, secondo uno studio di Anna Costanza Baldry, i bimbi e i ragazzi ai quali un crimine domestico ha strappato la mamma. Orfani due volte, quando il carnefice è il loro papà. In un colpo senza genitori, si trovano privi di protezione economica o giuridica, persi in un limbo di arida burocrazia e dolorosi sentimenti. La legge (civilissima) che dovrebbe tutelarli, garantendo tra l’altro gratuito patrocinio, risarcimento e assistenza a vari livelli, ed evitando loro il rischio di vedersi contendere l’eredità della mamma dal suo assassino, è stata approvata alla Camera, ma è ferma alla commissione Giustizia del Senato (domani saranno quattro mesi). Diciamolo: in buona compagnia. Almeno una dozzina di provvedimenti sulla giustizia licenziati da Montecitorio sono dispersi a Palazzo Madama. Certo, lì la maggioranza è più ballerina. Certo, il recente impegno sul codice Antimafia dev’essere stato pesante. Tuttavia qualche distonia non va esclusa se, due mesi fa, alcuni parlamentari hanno indetto persino una conferenza stampa per "fare pressione" e disincagliare la legge. Forse la previsione dell’ergastolo per l’assassino del coniuge (finora escluso dal codice quasi con un riflesso del vecchio delitto d’onore...) ha fatto scattare a sinistra inconfessabili divisioni tra garantisti e giustizialisti? Monica Cirinnà, relatrice Pd del provvedimento, giura di no. E assicura che la prossima settimana la legge, incardinata, passerà senza andare in Aula, all’unanimità, direttamente in Commissione (in veste deliberante). Qualche collega più cauto mormora un "ci stiamo lavorando". Come dire: adelante con juicio. Una formula sempreverde. "Noi costretti in tribunale gratis". Salta il rimborso dei praticanti di Nadia Ferrigo La Stampa , 29 giugno 2017 Previsti solo 400 euro al mese. Per 1.300 tirocinanti saltano pure quelli. Per i malanni della giustizia italiana, stretta tra carenza cronica di organico e lo smaltimento di circa tre milioni e mezzo di fascicoli di arretrato, i tirocinanti sono una risorsa preziosa. Peccato però non valga il contrario: per migliaia di giovani laureati a pieni voti, diciotto mesi negli uffici giudiziari italiani sono un’esperienza formativa straordinaria, ma a perdere. Di ricevere uno stipendio, neanche a parlarne. Ma c’è di peggio: a sorpresa è saltata pure la borsa di studio. Il tirocinio in tribunale è una delle possibili strade, con la scuola di specializzazione e il titolo di avvocato, per sostenere il concorso di magistratura: si tratta di affiancare un giudice per 18 mesi, assistere alle udienze e aiutarlo nella stesura dei provvedimenti. Sulla carta, i tirocini previsti dal cosiddetto Decreto del Fare del 2013 hanno l’obiettivo di "migliorare l’efficienza del sistema giudiziario" e sono destinati ai laureati con meno di 30 anni e un voto di laurea superiore a 105. In pratica, da lunedì al venerdì e per un minimo di sei ore al giorno, il piccolo esercito di tirocinanti aiuta ad alleggerire la mole di lavoro dei giudici. Nel 2015 il ministero della Giustizia decise di prevedere un rimborso spese di 400 euro al mese, da distribuire sulla base del reddito delle famiglie, stanziando un fondo di 8 milioni di euro. Anche se con grande ritardo, oltre 1500 volenterosi, cioè tutti i tirocinanti, sono stati rimborsati. Portare gli aspiranti magistrati nei tribunali italiani si è rivelato un’idea azzeccata, tanto che nel 2016 le richieste di tirocini da parte dei tribunali italiani sono più che raddoppiate. Ma le risorse per pagare le borse di studio sono rimaste le stesse. Così la settimana scorsa 1.300 dei 4mila volenterosi hanno scoperto che dal ministero non riceveranno nemmeno un euro, perché esclusi dalla graduatoria stilata sul reddito delle famiglie. "Ad aprile ho concluso i diciotto mesi, mi aspettavo circa 7mila euro, ma alla fine ne ho ricevuti solo 1200 per il 2015 - racconta Elena Cante, 27 anni, barese laureata a pieni voti alla Cattolica di Milano. A luglio tenterò il concorso di magistratura, ho svolto il tirocinio in contemporanea con la scuola di specializzazione. Tutto a spese della mia famiglia, e ritengo sia una grave ingiustizia: siamo trattati come studenti, anche se non lo siamo più da un pezzo". La graduatoria pubblicata la settimana scorsa ha escluso poco meno della metà dei partecipanti sulla base dell’Isee, calcolato per le prestazioni erogate per il diritto allo studio universitario. Nessuno di loro però è uno studente, tanto è vero che per il fisco la borsa è equiparata alle retribuzioni da lavoro dipendente. Per protestare, i ragazzi hanno creato un gruppo su Facebook e scritto una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando. "È assurdo che lo Stato, che impone ai liberi professionisti e alle aziende di retribuire i propri stagisti, anche solo sotto forma di rimborso spese, sia il primo a non rispettare i suoi obblighi - scrivono i giovani e beffati tirocinanti. Le nostre proposte sono tre: un ulteriore stanziamento dei fondi, una redistribuzione delle risorse o l’accesso a numero chiuso, anche se andrebbe contro l’interesse di tutti. Lo chiediamo perché il lavoro è lavoro, e va pagato". "Non si tratta di una sorprendente vicenda isolata commenta Claudio Riccio, esponente del comitato nazionale di Sinistra italiana, che ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda. Dai volontari dell’Expo agli scontrinisti della Biblioteca nazionale di Roma, c’è un’intera generazione a cui viene chiesto di lavorare grati in nome dell’esperienza, del sacrificio e di un rigo in più sul curriculum". "Non ci sono orari prestabiliti, non dobbiamo timbrare il cartellino, tanto per capirci - racconta Daniele Labianca, 25 anni, tra i tirocinanti senza rimborso del tribunale di Foggia -. Anche lavorando come praticante avvocato la storia è la stessa: la regola in Italia è il praticantato gratuito. Per chi cambia città, ci sono pure le spese di vitto e alloggio, sempre e solo a carico dei genitori. Anche se sei laureato bene e m tempo, preparato e disposto a sacrificarti, dopo la laurea in giurisprudenza soldi non se ne vedono mai". Auto-riciclaggio, resta la confisca obbligatoria di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore , 29 giugno 2017 Pubblicato nella "Gazzetta Ufficiale" di ieri un avviso di rettifica che reintroduce la confisca obbligatoria anche in caso di auto-riciclaggio nel decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 90 sull’attuazione della direttiva (Ue) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/Ce e attuazione del regolamento (Ue) n. 2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento (Ce) n. 1781/2006. Il Dlgs 90/2017 - pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" Serie generale n.140 del 19 giugno 2017 - Supplemento ordinario n. 28 - entra in vigore il 4 luglio 2017. Pertanto il Governo si è tempestivamente attivato per correggere l’articolo 72 comma 4 del provvedimento che riportava la precedente versione dell’articolo 648-quater del Codice penale sulla confisca, prima dell’introduzione del reato di auto-riciclaggio. La versione dell’articolo 648 quater del Codice penale era stata infatti modificata dalla legge sul rientro dei capitali (legge 186/14) con decorrenza 2015 che aveva introdotto la nuova figura di reato di auto-riciclaggio (applicabile anche ai reati tributari), integrando le fattispecie di confisca obbligatoria e per equivalente anche in caso di condanna per il reato di auto-riciclaggio previsto dal nuovo articolo 648 1 ter del Codice penale. Gli effetti dell’entrata in vigore del nuovo decreto sulla normativa antiriciclaggio senza la tempestiva correzione sarebbero stati l’abolizione della confisca per l’auto-riciclaggio per il principio del favor rei. Continuerà, quindi, ad essere possibile nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti anche per il delitto di auto-riciclaggio oltre che per quello di riciclaggio e per quello di utilizzo di beni od altra utilità di provenienza illecita auto-riclaggio la confisca obbligatoria dei beni che ne costituiscono il prodotto o il profitto di tali delitti, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Inoltre nel caso in cui non sia possibile procedere alla confisca il giudice potrà ancora ordinare la confisca delle somme di denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali i colpevoli hanno la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato. Evidentemente l’abrogazione derivante da un mero errore materiale consistente nel non aver riportato la versione vigente dell’articolo 648 quater del Codice penale sarebbe stato comunque da considerarsi un eccesso di delega che il Governo non aveva ricevuto dal Parlamento e quindi una interpretazione costituzionalmente orientata potrebbe essere a favore della validità della correzione. Tuttavia, si potrebbe obiettare che trattandosi di materie come quelle del favor rei costituzionalmente garantite (all’articolo 25 comma 2 Costituzione e 2 del Codice penale) ma anche dalla Cedu (articolo 7) potrebbe essere non sufficiente una correzione di un errore materiale ma dovrebbe emanarsi un atto avente efficacia normativa per evitare che si possa comunque invocare il principio che il Giudice debba applicare la norma penale più favorevole al reo. Cassazione, nessun risarcimento per Raffaele Sollecito La Stampa , 29 giugno 2017 Non avrà l’indennizzo per i quattro anni di custodia cautelare trascorsi in carcere quando era accusato, insieme ad Amanda Knox, dell’omicidio di Meredith Kercher. Raffaele Sollecito non avrà l’indennizzo per i quattro anni di custodia cautelare trascorsi in carcere quando era accusato, insieme ad Amanda Knox, dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel 2007. Lo ha deciso la Cassazione che ha respinto il reclamo di Sollecito per avere 500 mila euro di risarcimento per quella che a suo dire è stata una "ingiusta detenzione". Sollecito considera "inspiegabile" la decisione della Cassazione. Lo ha detto parlando con il suo difensore, l’avvocato Giulia Bongiorno. "Se ancora non trovo un lavoro - ha sottolineato - è per quanto mi è successo. Sto ancora subendo le conseguenze degli anni passati in carcere da innocente e non capisco perché questo non venga compreso". "Coerentemente con la decisione della stessa Cassazione che, quando ha assolto Raffaele e Amanda aveva parlato di gravi contraddizioni, ci si attendeva un minimo di risarcimento quindi è ovvio che questa decisione ci sembra un po’ contraddittoria" specifica il legale. "Questo ovviamente non scalfisce l’assoluzione di Raffaele e posso affermare che non finisce qui, intendo andare avanti in sede europea perché mi sembrerebbe il riconoscimento dell’ingiustizia detenzione i sembrerebbe il giusto epilogo", conclude Bongiorno. Se lo Stato vuole fare morire Dell’Utri dietro le sbarre di Annalisa Chirico Il Giornale , 29 giugno 2017 La partita tra colpevolisti e innocentisti è chiusa, Marcello Dell’Utri sconta una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza discussa, ma la giustizia umana ha deciso. Si pone invece la prepotente urgenza di salvare una vita umana, quella di un signore 76enne gravemente malato le cui cartelle cliniche gridano vendetta contro una burocrazia togata che si mostra sfacciatamente indifferente alle ragioni dell’umana pietà. "Mio marito non può aspettare. Passano i giorni e aumenta il rischio di un omicidio di Stato", dichiara al Giornale la moglie Miranda. L’ex senatore azzurro è ricoverato nel reparto infermeria del carcere di Rebibbia, le sue condizioni gli precludono il ritorno in una cella ordinaria. Non è un capriccio degli avvocati, la gravità della situazione è stata messa nero su bianco dal medico del carcere che, in una relazione del 10 maggio scorso, ha descritto un quadro clinico grave per le pluri-patologie diagnosticate, tanto da definirlo "non compatibile" con il regime carcerario. Una presa di posizione adesso ribadita dal Garante nazionale dei detenuti che, al termine di una visita presso il penitenziario romano, ha espresso "seria preoccupazione per le condizioni evidenziate, anche in atti documentali", auspicando che "ogni decisione in merito al suo caso da parte della magistratura di sorveglianza non vada al di là di tempi ragionevoli, al fine di tutelare, qualunque sia la forma che verrà decisa, la sua salute che referti medici riportano come particolarmente critica. Si auspica inoltre che la decisione non sarà dilazionata e che saranno debitamente acquisiti tutti gli elementi dell’indagine sanitaria svolta, per una valutazione completa che certamente non si limiterà a mere sintesi conclusive". Almeno due fatti recenti confermano la colpevole negligenza dei magistrati in un caso che coinvolge un uomo anziano affetto da "cardiopatia ischemica cronica" e ininterrottamente detenuto dal 13 giugno 2014. Lo scorso anno Dell’Utri è dichiarato "compatibile" dal tribunale di sorveglianza di Roma sulla base di una perizia sbagliata. In particolare, il perito definisce erroneamente la cardiopatia a rischio intermedio, omettendo di prendere visione dell’esame strumentale su supporto informatico, pur in presenza di una "discrepanza" tra le indagini cliniche a sua disposizione. Tale omissione viene denunciata alle autorità disciplinari competenti. La valutazione "ottimistica" del quadro clinico viene poi ribaltata sia dai consulenti della difesa che dal medico del carcere il quale, come si è detto, stabilisce la "non compatibilità" con la detenzione carceraria. Inspiegabilmente il magistrato di sorveglianza, anziché uniformarsi al parere medico, rigetta l’istanza presentata dai legali che chiedono la fissazione urgente di un’udienza per far valere le proprie ragioni davanti a un tribunale. L’udienza viene fissata per il prossimo 21 settembre. Avete capito bene: c’è un detenuto che per i medici rischia di morire dietro le sbarre, ma per i giudici può attendere altri quattro mesi. La morte bussa sempre due volte. Emilia-Romagna: il Garante dei diritti dei detenuti incontra la ministra dell’Istruzione di Cristian Casali cronacabianca.eu , 29 giugno 2017 "Impegno congiunto su istruzione e formazione in carcere". Al vertice anche il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, il Garante dei diritti dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini, e Alessandro Albano per l’Ufficio del Garante nazionale. Il Garante dei diritti dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Marcello Marighelli, e il suo omologo di Firenze, Eros Cruccolini, oltre ad Alessandro Albano, per l’Ufficio del garante nazionale, hanno visto a Roma la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, e il sottosegretario Gabriele Toccafondi. Un incontro per verificare lo stato di attuazione del protocollo tra Miur e ministero della Giustizia del 29 maggio 2016 sul "Programma speciale per l’istruzione e la formazione negli istituti penitenziari e nei servizi minorili della giustizia". Marighelli, Cruccolini e Albano hanno chiesto ai due rappresentanti del Governo un impegno sul tema della scuola e della cultura in carcere, come strumento per contenere il rischio di recidiva, prevedendo anche una maggior diffusione di laboratori didattici e tecnici e la possibilità di collegamenti telematici con l’università e gli istituti scolastici esterni. Inoltre, hanno richiesto l’attivazione di "misure di sistema" per l’istruzione e la formazione professionale in carcere, per consentire ai detenuti di usufruire, nella vita sociale e lavorativa, delle competenze acquisite e soluzioni organizzative che superino l’attuale "concorrenza" tra scuola e lavoro, oltre a misure di sostegno finanziario per chi studia. Infine, hanno rilevato la necessità di non sospendere nel periodo estivo l’attività scolastica in carcere. I tre hanno anche sollevato la questione dei troppi trasferimenti, un problema nella gestione, da parte dei detenuti, dei percorsi di studio. La ministra dell’Istruzione e il sottosegretario hanno riconosciuto l’importante ruolo ricoperto dai garanti nel processo di riconoscimento del diritto all’istruzione e alla formazione dei detenuti. "Su tutti i temi portati all’attenzione del Governo - hanno dichiarato Marighelli e Cruccolini - abbiamo ricevuto ascolto e interesse, confidiamo nello sviluppo di un proficuo rapporto tra istituti di garanzia e istruzione". Cosenza: agente di Polizia penitenziaria 53enne uccide la moglie e poi si spara Corriere del Mezzogiorno , 29 giugno 2017 Il fatto è accaduto in una casa di Montalto Uffugo. A dare l’allarme la figlia 18enne che si trovava nell’abitazione. Alla base forse una lite tra i coniugi. Un agente della polizia penitenziaria, di 53 anni, ha ucciso con la propria pistola d’ordinanza la moglie di 48 anni e si è poi suicidato, sparandosi con la stessa arma. Il fatto è accaduto nell’abitazione della coppia, a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza. In casa c’era anche la figlia diciottenne dei due, che è rimasta illesa. È stata proprio lei ad avvertire i carabinieri del fatto che il padre, Giovanni Petrasso aveva ucciso la madre Maria Grazia Russo. La dinamica - Al momento del gesto la ragazza era in un’altra stanza della casa. Richiamata dai tre colpi sparati dal padre con la propria pistola d’ordinanza, quando è entrata nella stanza la giovane ha visto i corpi senza vita dei genitori riversi sul pavimento ed ha chiamato i carabinieri ed il 118. Un’altra figlia più grande della coppia vive fuori dalla Calabria per motivi di studio. I motivi - Stando alle prime indagini dei carabinieri della compagnia di Rende Maria Grazia Russo accusava il marito di tradirla. Per questo tra i due c’erano liti frequenti l’ultima delle quali è avvenuta proprio mercoledì mattina. Dalle indagini è stato appurato inoltre che quando la figlia diciottenne della coppia ha sentito gli spari e si è precipitata in bagno, la madre era stata appena uccisa ed il padre era in piedi accanto al box doccia con la pistola in mano. L’uomo ha chiesto alla figlia di andare nella sua stanza, invito che la ragazza, in stato di choc, ha accolto. Poco dopo Petrasso si è puntato la pistola d’ordinanza alla tempia ed ha fatto fuoco. Quando sul posto sono arrivati i carabinieri ed il 118, Petrasso era ancora vivo, ma è morto pochi minuti dopo. Milano: muore suicida agente di Polizia penitenziaria 45enne, originario del salentino lecceprima.it , 29 giugno 2017 "Un altro poliziotto penitenziario si è suicidato oggi. Si tratta di un assistente capo di 45 anni in servizio alla casa circondariale di Opera e impiegato al Nucleo traduzioni e piantonamenti di Milano". A dare la triste notizia, Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Si è tolto la vita poco fa a Milano con l’arma di ordinanza. L’uomo, originario di Calimera, più di vent’anni di servizio nella polizia penitenziaria, divorziato, persona seria e apparentemente tranquilla - prosegue Capece, è stato trovato nel primo pomeriggio di oggi nel garage di casa". Le stress causa di tante tragedie? - "Due casi di suicidio, uno pure aggravato da un omicidio, sono sconvolgenti", aggiunge il leader del sindacato. "Tragedie che, ogni volta che si ripetono, determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo?". Capece sottolinea che "allo stato non è possibile dire quali siano state le ragioni che hanno portato l’uomo a questo tragico gesto, e quindi non sappiamo se possano eventualmente esseri anche ragioni professionali". "Certo è - aggiunge - che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese mentre il fenomeno, colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette "professioni di aiuto", dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni di stress alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza". "Il riferimento - prosegue - è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere". "L’amministrazione penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà", conclude Capece. "Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti". Palermo: "Cotti in fragranza" compie un anno, successo per i biscotti dei giovani detenuti di Serena Termini Redattore Sociale , 29 giugno 2017 Bilancio positivo per il laboratorio di prodotti da forno nato all’interno dell’Istituto penale per i minorenni "Malaspina" di Palermo: oltre 13 mila pacchi di biscotti venduti, per un totale di circa 4 mila chilogrammi di prodotto, distribuiti in oltre 50 punti vendita. "Una sperimentazione unica nel suo genere". Grande successo, dopo un anno di vita per "Cotti in Fragranza", il laboratorio di prodotti da forno nato all’interno dell’Istituto Penale per i Minorenni "Malaspina" di Palermo, gestito dalla cooperativa Rigenerazioni onlus e promosso dallo stesso Istituto Penale per i Minorenni, dall’associazione Centro Studi Don Calabria e dalla fondazione Don Zeno. Un bilancio più che positivo: oltre 13 mila pacchi di biscotti venduti, per un totale di circa 4 mila chilogrammi di prodotto, distribuiti in oltre 50 punti vendita. Fra un mese dovrebbe aggiungersi come grande catena di distribuzione nazionale anche la Coop. Il laboratorio si trova all’interno del carcere ma fuori dall’area detentiva e questo permette di potere dare anche una continuità esterna al progetto. Per festeggiare il primo compleanno il laboratorio ha aperto le sue porte per raccontare le iniziative che hanno segnato il percorso di questa impresa sociale in cui sono impegnati 3 giovani reclusi, tra i 20 e i 23 anni, più un altro giovane che dovrebbe rientrare dopo la scarcerazione e altri due ragazzi che presto si aggiungeranno per la messa alla prova. L’obiettivo è quello di fornire uno strumento di inclusione sociale per i giovani detenuti attraverso il loro completo coinvolgimento in tutte le scelte imprenditoriali. I ragazzi nella produzione dei biscotti sono coadiuvati dallo chef Nicola Cinà un infortunato Inail e dal tirocinante dell’istituto alberghiero con disabilità da lavoro Salvo Campanella. "Il legame con questi ragazzi - dice Nicola Cinà - è cresciuto davvero molto. Lavorare 8 ore con loro è appassionante e ormai per me sono come dei figli. Hanno tanta voglia di imparare e sono diventati molto bravi". "Avevamo l’ambizione di essere una start-up a vocazione sociale e ci siano riusciti. La nostra originalità sta anche nell’avere una metodologia partecipativa - racconta con soddisfazione Nadia Lodato, una delle due responsabili del progetto - basata sull’etica della responsabilità in cui tutti ci siamo spogliati nei nostri ruoli per potere lavorare insieme. Abbiamo aperto la nostra distribuzione locale con le piccole botteghe biologiche e solidali. Siamo cresciuti, con costanza e determinazione. Grazie al sostegno di Legacoop è arrivata la grande distribuzione con il Centro Olimpo e con Conad, e in particolare tramite Conad Giaconia la distribuzione territoriale si è estesa ad altre province siciliane, fino a Caltanissetta. Distribuiscono il nostro prodotto anche i gruppi Prezzemolo e Vitale, Colleverde e Ard". "Ai due frollini già in commercio si aggiungeranno presto i Coccitacca al cioccolato di Modica e arancia per completare la linea agli agrumi e i Picciottelli, biscotti salati con erbe aromatiche, ideali per il momento dell’aperitivo - continua Lucia Lauro, coordinatrice del progetto -. I protagonisti veri sono i nostri ragazzi che sono stati sempre all’altezza del loro compito mostrando dedizione e buone capacità. Adesso stiamo inoltre lavorando alla realizzazione di un nucleo operativo fuori dal carcere, all’interno di casa San Francesco, dove Cotti in Fragranza trasferirà l’attività di packaging e l’organizzazione dei catering. Nonostante sia molto importante essere dentro il complesso Malaspina, vogliamo anche che i ragazzi, una volta fuoriusciti dalle mura detentive, vivano fuori la loro condizione di persone libere con il distacco da quel luogo in cui hanno vissuto la loro pena. Da qui la scelta di fare un passo in avanti, perché è importante avere il pensiero ad un futuro fuori. Un pensiero di libertà che ci può aiutare nelle fatiche del quotidiano". "Si tratta di una sperimentazione unica nel suo genere: diversamente dalle esperienze del passato perché nata e gestita direttamente all’interno di una struttura penitenziaria - ha dichiarato la direttrice dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Palermo Rosalba Salierno -. È senz’altro frutto del lavoro sinergico tra pubblico e un privato sociale che ha promosso in maniera lungimirante un nuovo modello di imprenditorialità sociale. In questo modo siamo nella perfetta linea di sviluppo auspicata dal welfare in cui si devono offrire nuove opportunità di inclusone sociale che partono proprio dal lavoro". "Sono particolarmente contento di poter festeggiare questo primo anniversario di Cotti in Fragranza ha detto Michelangelo Capitano direttore dell’istituto Malspina - che è un progetto che sta crescendo molto bene: è un successo che ha superato le mie aspettative. Il ringraziamento va a tutti quelli che hanno creduto con tenacia e passione che il progetto potesse andare avanti anche in una realtà così complessa come il carcere". Tra le collaborazioni di co-marketing che sono state attivate nel corso dell’anno, c’è quella con la cantina Tenute Orestiadi, che ha abbinato al frollino Buonicuore il proprio zibibbo Pacenzia, portando questo interessante binomio al Prowein di Düsseldorf e al Vinitaly di Verona col pay-off "Ci vuole Pacenzia per giudicarli tutti". Inoltre con la ong Tulime onlus è nato un altro co-marketing che permetterà di aggiungere i biscotti in alcuni cestiti prodotti in Tanzania che verranno proposti come bomboniere solidali. Monza: lavoro per i detenuti, quando il carcere offre la possibilità di una seconda vita Di Filippo Panza mbnews.it , 29 giugno 2017 Tutti meritano una seconda possibilità. A parole ne siamo convinti. Ma, se si tratta di mostrare un’apertura nei confronti di chi è finito in carcere per espiare la propria pena, non sempre mettiamo in pratica questo principio. Spesso, per paura, pregiudizio e diffidenza, emarginiamo i detenuti. Anche quando sono usciti di galera e cercano di rifarsi una vita. Si crea una sorta di muro impenetrabile tra noi, le cosiddette persone "civili" e gli ex carcerati. Con la conseguenza che chi è stato in prigione finisce per tornarci. Un circolo vizioso che a Monza si sta cercando faticosamente di interrompere. Con un progetto ambizioso. Che punta all’inserimento lavorativo dei detenuti come occasione di recupero sociale. E può contare sull’impegno di molti soggetti istituzionali e professionali. Dalla Casa Circondariale alla Camera penale all’Ordine degli avvocati e a quello dei commercialisti, dalla magistratura all’Ufficio esecuzioni penali e al Comune. Fino alle associazioni imprenditoriali, Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza, Camera di Commercio e all’Afol (Agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro). Coinvolti naturalmente anche gli stessi carcerati, per il momento una trentina. Attori con ruoli diversi, ma tutti intorno ad uno stesso tavolo. E con un unico obiettivo: convincere le aziende ad assumere i detenuti. "Siamo partiti nei primi mesi del 2016 con un dialogo tra i vari operatori della giustizia e i carcerati - spiega Fabio Fontanesi, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Monza - abbiamo messo in scena una rappresentazione teatrale e come interpreti c’erano, oltre ai detenuti, anche magistrati ed avvocati. Poi abbiamo realizzato un cineforum su temi come razzismo e lavoro - continua - il progetto è da implementare, vogliamo aprire le porte del carcere e sensibilizzare tutti sul recupero sociale e lavorativo dei detenuti". Recuperare alla società chi è stato in galera è molto più di un atto di solidarietà. È un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che parla esplicitamente di "rieducazione del condannato". "Il lavoro è lo strumento principe per ridare dignità alla persona detenuta perché gli consente di mettersi alla prova, di tornare sul territorio a testa alta e dimostrare a se stessi e agli altri che c’è stato il cambiamento - afferma Maria Pitaniello, direttrice della Casa Circondariale di Monza - tutti dobbiamo sentirci parte di questo percorso di redenzione sociale e, per questo, il mio appello si rivolge soprattutto al mondo imprenditoriale perché diano ai detenuti la possibilità di lavorare". Da anni l’istituto di pena del capoluogo brianzolo, che ospita 660 carcerati, cerca di dare la speranza di una nuova vita fuori dalle sbarre. Con laboratori produttivi ed artistico-teatrali, realizzati grazie agli educatori e agli operatori del mondo sociale, dell’associazionismo e del volontariato. "Nel corso degli anni ci siamo occupati soprattutto della lavanderia interna al carcere di Monza, che lavora in particolare su commesse esterne e del laboratorio di assemblaggio del legno, che dal 2003 ha impiegato 3 detenuti" spiega Marco Brivio, responsabile della Coop. Sociale 2000. Le attività svolte da chi, per i reati commessi, è privato della libertà personale, sono di varia natura. "Siamo partiti come operatori per il reimpiego di apparecchiature elettroniche usate - afferma Alberto Biella, responsabile della Coop. Sociale "Re Tech Life onlus" - ora impieghiamo i detenuti anche nel trattamento dei rifiuti elettronici, nella distruzione certificata dei dati sensibili e nell’installazione dei software". La possibilità di dare lavoro ai carcerati passa naturalmente per la fase della formazione e dell’istruzione. Per un imprenditore scegliere questi ‘particolari’ dipendenti non significa sacrificare il principio del profitto. Anzi, oltre all’utilità sociale, ci sono vantaggi economici. "C’è un credito d’imposta di 520 euro al mese per ogni detenuto assunto e mandato all’esterno del carcere e di 320 euro per lavoratori in semi-libertà - spiega Daniele Trezzi, Presidente dell’Ordine dei Consulenti del lavoro di Monza e Brianza - inoltre c’è uno sgravio contributivo pari al 95 per cento per attività all’interno del carcere". Gli obblighi per chi assume carcerati sono davvero pochi. E non riguardano le dimensioni dell’azienda datrice di lavoro. "C’è da stipulare una Convenzione con la Casa Circondariale e una serie di scadenze temporali da assolvere - afferma Federico Ratti, presidente dell’Ordine dei commercialisti di Monza - il credito d’imposta ha un budget annuo di 10 milioni di euro". Il progetto dedicato al lavoro dei detenuti, che è stato presentato allo Sporting Club di Monza alla presenza anche di Giovanna Vilasi, Prefetto di Monza e Brianza, Laura Cosentini, Presidente del Tribunale di Monza, Manuela Massenza, Sostituto Procuratore della Repubblica di Monza, Avio Giacovelli, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Monza, è ancora in fase embrionale. "Sicuramente c’è da combattere con una naturale diffidenza e mancanza di fiducia della società nei confronti dei carcerati - afferma Emanuele Mancini, magistrato della sezione penale del Tribunale di Monza - mi auguro che il tavolo tecnico porti a risultati concreti in tempi quanto mai brevi". Il prossimo passo potrebbe essere quello di formalizzare un protocollo operativo nel tentativo di fare reti tra i diversi soggetti coinvolti nell’iniziativa. Anche gli enti pubblici dovranno fare la loro parte. Tra questi il Comune di Monza. Che si dichiara pronto a recitare un ruolo da protagonista. "Sono sindaco di Monza da pochi giorni - afferma il neo primo cittadino, Dario Allevi, alla sua prima uscita pubblica dopo l’elezione - garantisco il mio impegno sul tema sin da ora. Tra il 2009 e il 2013, quando ero alla guida della Provincia di Monza e Brianza, è stata aperta la Biblioteca nel carcere di Monza ed avviato un bando, purtroppo andato deserto, con risorse per le aziende che assumevano ex detenuti - continua - ho sempre pensato che il carcere fosse il 56esimo Comune della Provincia brianzola". Un positivo rapporto di collaborazione deve partire anche dal riconoscimento dell’importanza della Casa Circondariale e dei suoi abitanti. Alba (Cn): il Garante al Ministro "sovraffollamento e lavori di ripristino in ritardo" lettera21.org , 29 giugno 2017 Il Garante Regionale e del Comune di Alba delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, segnalano le criticità della Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba, al Ministro Orlando. L’Istituto di Alba, ha ripreso la "propria operatività", dopo la sospensione delle attività, nei primi giorni di gennaio del 2016, causata da un’epidemia di legionellosi ed il conseguente trasferimento ad altre carceri delle persone che vi erano ristrette. Da poco più di tre settimane le persone recluse sono "ospitate" presso una palazzina restaurata e ristrutturata nel 2014, in grado di ospitare 32 persone private della libertà. In realtà ad oggi sono 48 le persone detenute presso la Casa di Reclusione, numero che determina un tasso di sovraffollamento dell’Istituto albese pari al 150%. Una criticità che compromette la stessa fruizione degli spazi, limitando altresì socialità ed attività. Una situazione di fatto che preoccupava sia Alessandro Prandi - Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Alba - sia gli stessi detenuti ed il personale della custodia, già dal 14 giugno. Data della visita del Garante comunale, prima dell’arrivo di 20 nuovi giunti che hanno appunto portato il numero complessivo dei detenuti a 48, e che veniva puntualmente segnalata al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Questo in sintesi la premessa contenuta nella lettera inviata da Bruno Mellano - Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - e Alessandro Prandi al Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, in cui si chiede da una parte un’attenzione "all’opportunità di un utilizzo più avveduto dei posti letto, resi disponibili dai parziali interventi di ripristino di una palazzina". Dall’altra l’urgenza di "conoscere i tempi e le modalità dei previsti lavori di risistemazione dell’intero impianto idraulico dell’Istituto per i quali sono stati messi a disposizione 2 milioni di euro nel bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per il triennio 2016 - 2018". Sollecitando e ricordando in questo modo il crono-programma "promesso" dallo stesso Ministro il 17 maggio durante un question-time alla Camera da parte del deputato Mariano Rabino sul carcere di Alba. Un timesheet quanto mai utile e necessario in questo momento sia per capire la volontà e i tempi di eventuali altre riaperture parziali, in modo da decongestionare l’utilizzo degli spazi attuali, sia per diminuire la tensione all’interno dell’Istituto. Padova: falsi certificati di agli agenti dei Due Palazzi, condannato medico del carcere di Alice Ferretti Il Mattino di Padova , 29 giugno 2017 Un anno e due mesi al dottor Guido Carpanè. Rinviati a giudizio Paolo Lo Conti e Angelo Tedesca. Agenti penitenziari spesso malati e per troppo tempo. Addirittura 100 giorni di malattia in un anno. Condannato con rito abbreviato alla pena di 1 anno e 2 mesi il medico del carcere Due Palazzi di Padova Guido Carpené, 58 anni, originario di Selvazzano. Rinviati a giudizio Paolo Lo Conti, 42 anni, originario di Lecce, anche lui medico del Due Palazzi, e l’agente di polizia penitenziaria Angelo Tedesca. Lo ha deciso il gup Domenica Gambardella durante l’udienza preliminare. I tre dovevano rispondere dell’accusa di truffa aggravata e violazione della legge speciale sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. I due medici, insieme ad altri due colleghi coinvolti nell’inchiesta (Bernardo Savona, 58 di Selvazzano e Maria Luisa Braga, 60 anni, anche lei di Selvazzano), avrebbero staccato con troppa facilità certificati di malattia a diciassette guardie del penitenziario Due Palazzi, anche queste coinvolte nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal pm Sergio Dini. Insomma certificati medici di malattia fasulli quasi su ordinazione. Il procedimento penale è nato nell’ambito della più ampia indagine sul "carcere colabrodo" che, nel luglio 2014, aveva portato a una quindicina di arresti tra agenti di polizia penitenziaria, detenuti (a costoro fu notificata in carcere l’ordinanza di custodia cautelare), alcuni familiari e un avvocato. In alcune celle erano stati trovati cellulari, sim card, palmari, ma anche droga. Il primo filone d’indagine si concluse con diverse condanne. Dalla stessa inchiesta però derivarono anche altri filoni. Uno di questi è proprio quello che ha coinvolto i medici Carpené e Lo Conti, insieme agli altri due colleghi, e diciassette agenti di polizia penitenziaria. Tutto era partito grazie ad alcune intercettazioni telefoniche, oltre alle indagini sul personale in servizio. Un esempio per tutti? Un agente, al telefono con un collega, gli aveva consigliato come giustificare la sua assenza dal lavoro. "Devi rivolgerti a quel medico", gli aveva suggerito, sottolineando che spiegandogli la situazione non ci sarebbe stato problema ad avere un certificato da spedire alla direzione del carcere. Il caso più clamoroso era stato quello che aveva coinvolto una guardia che nel 2012 aveva presentato 75 certificati da gennaio a dicembre, molti da un giorno, alcuni da due, per problemi più diversi, dalla dissenteria alla cefalea, dalla lombalgia alla faringite. All’epoca aveva 48 anni ed una salute all’apparenza molto cagionevole. Insomma il risultato era stato che troppi agenti erano spesso malati e per troppo tempo. Alcuni erano arrivati addirittura ad avere 100 giorni di malattia in un anno, spesso oltretutto vicini a domeniche o a giorni festivi. Guardie penitenziarie sane, ma in malattia: condannato il primo medico compiacente (Il Gazzettino) Qualche agente del penitenziario di via Due Palazzi ha goduto più di cento giorni di malattia in un anno. Altri, a ruota, dopo aver presentato il certificato medico gareggiavano in vari sport. E c’è chi, addirittura, era riuscito ad avviare un’autofficina in Puglia, dove si era recato in famiglia a trascorrere il periodo di malattia. Gli imputati sono diciassette agenti di polizia penitenziaria del carcere cittadino. E con loro quattro medici di base padovani che, secondo il pubblico ministero Sergio Dini, non lesinavano favori ad alcuni agenti, anche se non erano loro pazienti. Ieri il giudice dell’udienza preliminare Domenica Gambardella ha condannato il primo medico con il rito abbreviato. Si tratta di Guido Carpenè di Selvazzano. Con lo sconto previsto dal rito speciale è stato condannato a un anno e due mesi di reclusione, con la sospensione della pena. Il giudice ha rinviato a giudizio l’agente Angelo Telesca, già condannato nell’ambito dell’inchiesta sul "carcere colabrodo", dove entrava di tutto, dalla droga ai cellulari. A giudizio anche il medico Paolo Loconti, che da Padova si è trasferito in Puglia dove, secondo l’accusa, continuava a firmare i certificati di malattia degli agenti padovani. Per tutti le accuse sono di truffa aggravata e violazione della legge speciale sull’ordinamento del lavoro del pubblico ufficiale. A condanna definitiva l’agente si trova una "pena" amministrativa durissima. Mentre il medico rischia, addirittura, la radiazione dall’Albo. Nel fascicolo dell’inchiesta del pubblico ministero Dini ci sono quattro medici e diciassette agenti. Oltre agli imputati di ieri, il giudice dell’udienza preliminare, Margherita Brunello, ha rinviato a giudizio la dottoressa Maria Luisa Braga di Selvazzano e l’agente Roberto Di Profio, già condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione nell’inchiesta "carcere colabrodo". Finti certificati al Due Palazzi, condannato un altro medico, di Angela Tisbe Ciociola (Corriere Veneto) Decine e decine di certificati medici falsi, creati ad arte per prolungare le ferie o per ritagliarsi qualche giorno di riposo. Un "favore" chiesto e concesso che è costato caro a 17 agenti penitenziari e a tre medici del Due Palazzi, tutti indagati o a processo. Tra questi, ieri, sono sfilati, davanti al giudice Domenica Gambardella, Guido Carpenè, medico cinquantanovenne di Selvazzano, il collega Paolo Lo Conti, 41 anni, domiciliato in provincia di Lecce, e l’agente Angelo Telesca. Per il primo, giudicato in abbreviato, il gup ha stabilito una condanna a un anno e due mesi. Telesca e Lo Conti, invece, sono stati rinviati a giudizio e dovranno affrontare il processo. L’accusa per tutti loro, così come per gli altri poliziotti coinvolti nella vicenda e arrivati a diversi step del procedimento, è la stessa: truffa aggravata e violazione della legge speciale sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, quel "decreto Brunetta" che regola le malattie e l’assenteismo dei dipendenti statali. L’inchiesta, condotta dal sostituto procuratore Sergio Dini ed esplosa nel marzo del 2015, nasce da una costola dell’indagine che aveva fatto luce sul traffico di telefonini e droga tra le varie celle del Due Palazzi un commercio avviato con la connivenza prima e poi con un ruolo di primo piano delle stesse guardie, e che aveva portato all’arresto di diversi poliziotti. Una volta aperto il tappo a quello che si è rivelato essere un vaso di Pandora, gli inquirenti hanno scoperto un malcostume diffuso tra gli agenti penitenziari e portato avanti con l’aiuto dei medici: quello di usufruire di malattie e assenze, spesso vicine ai giorni di vacanza o alle ferie canoniche. Lombalgia, cervicalgia, cefalea, faringite, epigastralgia, dissenteria: il carnet di malattie tra le quali scegliere di volta in volta era ampio e variegato. Enorme il monte ore di malattia accumulato grazie al benestare dei dottori: alcuni degli agenti che hanno fatto ricorso a questo sistema, infatti, erano riusciti anche a stare lontano dal lavoro per quattro mesi l’anno. Così, incrociando la documentazione trovata negli studi dei medici coinvolti con i dati della squadra mobile che indagava sulla vicenda, si è riuscito a portare alla luce il trucchetto messo in piedi per poter godere di giorni di vacanza in più. Si tratta, questa, dell’ennesima tegola caduta dal già pericolante Due Palazzi, coinvolto prima nell’inchiesta sui telefoni e, negli ultimi mesi, nell’indagine che vede l’ex direttore del Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, accusato di falso in atto pubblico. Secondo quanto emerso dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, infatti, Pirruccio avrebbe firmato il "declassamento" di alcuni detenuti per evitare che, una volta venuta meno al Due Palazzi la qualifica di carcere di massima sicurezza, questi dovessero lasciare Padova. Una decisione che, sottolinea il Dap, sarebbe dovuta all’intervento e alle pressioni di Nicola Boscoletto e Ornella Favero, rispettivamente responsabile della cooperativa di pasticceria Giotto e di Ristretti Orizzonti. San Gimignano (Si): andare a scuola dietro le sbarre, la maturità dei detenuti di Valeria Strambi La Repubblica , 29 giugno 2017 Uomini che hanno sbagliato, che hanno perso quasi ogni contatto con il mondo esterno, ma che ritrovano nella scuola una ragione per guardare avanti. Sono parole di speranza quelle racchiuse nei temi scritti dai detenuti della casa di reclusione di Ranza (San Gimignano), che in questi giorni stanno affrontando l’esame di maturità. Iscritti all’indirizzo "Amministrazione, finanza e marketing" dell’istituto Roncalli, hanno incontrato insegnanti che sono diventati la loro finestra oltre le sbarre. "Una mattina uno studente mi si è avvicinato e mi ha detto quanto fosse importante per lui avere la possibilità di prendere quel diploma che aveva sempre sognato - racconta Giada Da Frassini, insegnante d’italiano e storia - da lì l’idea di far scrivere a lui e ai compagni delle altre classi un compito che toccasse l’argomento della scuola in carcere". C’è chi l’ha definita "qualcosa di grandioso", un modo per tornare a sentirsi "liberi", e chi l’ha paragonata a un libro "iniziato con trepidazione e concluso con consapevolezza". Quello di quest’anno era il primo incarico per la professoressa Da Frassini, 31 anni: "Quando ho saputo di aver ottenuto una supplenza in una realtà carceraria ero titubante. Ho scelto di non dire niente ai miei studenti fino all’ultimo giorno. Ho trovato persone complesse, ma eccezionali nel loro impegno. La vittoria più grande è che nessuno si sia perso per strada e che tutti loro, oggi, possano sostenere la maturità". Con la scuola ci hanno dato una seconda occasione La scuola in carcere è un qualcosa di straordinario. Ognuno di noi detenuti per un lungo tempo dopo l’arresto deve concentrare la mente sulla propria vicenda giudiziaria: codici, cavilli, testimonianze, le accuse, la difesa e infine la condanna. Il colpo è duro e segna immediatamente te e i tuoi cari. Passano gli anni, si succedono gli appelli, gli avvocati, i luoghi, i volti, e il tempo inesorabilmente si dilata. Un tempo statico, fermo, silenzioso. La condanna definitiva come un macigno spazza momentaneamente via ogni prospettiva. Pensi che dall’altra parte delle sbarre la vita continua in maniera vorticosa. Ti guardi intorno e c’è davvero poco da fare: leggi qualche libro, scrivi lettere perché è bene non perdere confidenza con la scrittura, ti improvvisi cuoco, prepari dolci. Cerchi in maniera incessante distrazioni ma i giorni non passano mai comunque. Poi all’improvviso ti viene proposto d’iscriverti a scuola e nonostante le moltissime perplessità decidi di provarci. Perché no? Dopo le prime frasi di circostanza mi viene chiesto da dove voglio ricominciare. Gran bella domanda. Io avrei dovuto prendere il diploma di ragioniere 40 anni fa, ma ho preferito dare la precedenza all’obbligo di leva, tanto "il diploma lo prendo quando voglio" e così non l’ho più preso. Quindi sì, voglio ricominciare da me. Il primo professore che ho conosciuto è quello di economia aziendale, che mi ha motivato dicendomi che stavo facendo la scelta giusta. Insieme a lui la prof di matematica, donna pacata e gentile. Poi gli insegnanti di inglese e francese, dall’infinita pazienza. E ancora la prof di diritto, con una gran voglia di regalarci una buona preparazione nella sua materia e la giovane prof di italiano e storia, che spiega con accuratezza e cerca spesso il confronto con noi. Ogni mattina queste persone arrivano qui per insegnare, portare una parola, un sorriso a chi è come me. Vorrei potervi raccontare di come uomini che hanno affrontato processi importanti, che hanno l’ergastolo o un fine pena, si stanno preparando all’esame di maturità. Sembra si tratti del processo dei processi, del processo della vita. Credo che chiunque, dopo anni dietro le sbarre, non sia più la stessa persona ma credo anche che la scuola possa offrirci un reale secondo tempo. Il giudizio dell’insegnante: è stato lui a prendermi da parte e a dirmi "Prof, perché non ci fa scrivere cosa significa fare scuola in carcere?". Sempre disponibile a dare una mano ai compagni, vuole scrivere un libro. Un sorriso per affrontare l’esame di maturità e dopo voglio la laurea In questo periodo della mia vita, durante l’esperienza all’interno del carcere di San Gimignano, ho avuto la fortuna di poter andare a scuola. Ora che sto per affacciarmi agli esami di maturità è tempo di bilanci ed il mio è un bilancio molto positivo. Fin dal primo anno ho avuto come compagni del mio lungo tragitto persone che mi hanno accolto con calore e disponibilità. Dal primo istante in cui mi sono seduto a un banco ho conosciuto uomini e donne che mi hanno donato un po’ di se stesse. Spesso la scuola ha avuto un ruolo diverso da quello che ci si aspetterebbe, spesso la scuola ci ha permesso ed offerto l’opportunità di andare oltre la classica didattica. Non ho mai avuto nessun problema nelle ore di scuola e per questo devo ringraziare i miei insegnanti che negli anni mi sono stati vicini, tutti fondamentali per la mia formazione e per la mia crescita personale. Al quinto anno mi rendo conto di essere pronto a intraprendere in maniera molto motivata una nuova affascinante avventura: l’Università. Il giudizio dell’insegnante: la prima parte dell’anno l’ha trascorsa facendo dei temi sgrammaticati perché l’italiano non è la sua lingua madre. Quando ha detto che in inglese si sentiva più a suo agio, ha iniziato a scrivere e tradurre e da allora non si è più fermato. Ha sempre sopperito alle sue difficoltà con tanta tenacia e un sorriso a 32 denti. I prof mi hanno insegnato che la conoscenza si trova anche oltre i libri Tante volte mi sono chiesto: che cos’è la scuola? A che cosa serve studiare? Lo studio nella vita è realmente utile? Mi sono risposto che imparare è importante ma che molto più importante è l’uso che si fa di quello che abbiamo imparato. Credo che il problema degli altri sia uguale al nostro e credo sia necessario imparare ad uscirne tutti insieme. Si impara a vivere, a confrontarsi e a confrontare le proprie opinioni, a capire le diversità degli altri, ad esercitare la giustizia. La scuola è una bellissima esperienza dal punto di vista intellettivo e umano. Ho molto ammirato e apprezzato tutti i miei insegnanti che sono stati perfettamente in grado di inserirsi in un contesto fuori dall’ordinario. Tutti quei professori che ogni santo giorno hanno fatto anche molti chilometri per raggiungere proprio noi, senza farsi fermare da niente. Persone dalla grande capacità di ascolto, sempre pronte a insegnarci che la conoscenza, se si vuole, la si può trovare oltre i libri. Il mio anno lo paragonerei a un bel libro, iniziato con trepidazione e chiuso con profitto, con soddisfazione e maggiore consapevolezza. Il giudizio dell’insegnante: è uno degli studenti che ha avuto i trascorsi più pesanti nell’altra sua vita. A più di 50 anni ha scoperto una grande passione che coltiva con tanto amore: la pittura. Un giorno mi ha detto che grazie alla scuola ha trovato la forza di rimettersi in gioco. Per noi andare in classe è stato come prendere una boccata d’aria fresca Personalmente credo che l’aspetto formativo sia alla base del ruolo giocato dalla scuola nel contesto carcerario. Se la conoscenza e la didattica danno una forte crescita culturale, la formazione che ne deriva è senza dubbio superiore. Formare un uomo e la sua conoscenza è però un percorso molto profondo che incide nei suoi comportamenti di tutti i giorni, delineandone i gesti ed il suo essere. In questi anni ho potuto imparare questo e molto altro attraverso il grande e paziente lavoro di tutti i miei professori. Scuola e studio sono qualcosa di grandioso, ci fanno conoscere e diventare uomini liberi, indipendenti, capaci di intendere e di volere. La scuola in carcere è una boccata d’aria fresca. Non tutti i giorni, però, sono uguali e vi garantisco che serve una motivazione davvero forte per arrivare fino al diploma. Grazie infinite ai miei insegnanti del quinto anno che mi hanno seguito e supportato in questo percorso scolastico evitando che mi perdessi. Il giudizio dell’insegnante: Questo giovane, poco più che trentenne, ha trascorso un intero anno a scrivere i temi in stampatello perché non sapeva scrivere in altri modi. A fine anno, il suo regalo per me, è stato consegnarmi un tema "in corsivo". Di lui ammiro la voglia di non arrendersi e i progetti per il futuro. All’inizio ero diffidente poi ho capito che dovevo impegnarmi al massimo Sono arrivato nella scuola del carcere di San Gimignano dopo quattro lunghi anni a Sollicciano, a Firenze, dove le lezioni erano impostate in maniera totalmente diversa, addirittura le si frequentava al pomeriggio e per più ore. Inizialmente ero un po’ diffidente rispetto a questa nuova realtà, ma trovando grande disponibilità e voglia di fare da parte di tutti i miei insegnanti, ho deciso che era arrivato il momento di impegnarmi al massimo. Ora sto finalmente per diplomarmi, indirizzo "Amministrazione, finanza e marketing", chissà che mi possa anche tornare davvero utile. La scuola in carcere è spesso un modo per staccare la testa, è una bella fonte di distrazione. Sono arrivato all’esame di maturità e ogni volta che mi rendo conto che mi sto preoccupando, che ho dei dubbi e che penso di non essere all’altezza, mi rassicuro pensando che insieme ai miei professori, specialmente quest’anno, ho lavorato talmente con tanta attenzione e dedizione che non posso non farcela. Io ce la faccio. Il giudizio dell’insegnante: lui lo ricordo come un ragazzone molto chiuso e diffidente. La prima volta che ci siamo visti in classe a fatica mi guardava, non si capiva se ero più io o lui a essere intimorito. Dopo pochi mesi mi ha ripagato con gli occhi che gli brillavano e con la mano sempre alzata per fare domande. Firenze: omaggio a Nicola Zuppa, la sua scuola ha cambiato il carcere di Piero Meucci stamptoscana.it , 29 giugno 2017 Tanta gente nella grande aula teatro del carcere di Sollicciano. Tanti ragazzi, insegnanti e adulti che hanno partecipato a un progetto che permette un confronto fra studenti liberi e studenti reclusi e che ora tutti assieme ascoltano il concerto dell’Orkestra ristretta dei detenuti che conoscono, amano la musica o comunque la considerano un momento importante per alleviare la loro vita di reclusi. Quest’anno però manca qualcuno. C’è un particolare tipo di percezione dell’assenza soprattutto nelle comunità che le circostanze rendono umanamente intense, dove si creano corrispondenze e affetti duraturi. Non detti, per convenzione o per pudore, ma più forti di qualunque regola o condizione imposta dall’esterno. Manca Nicola Zuppa, coordinatore del gruppo di insegnanti che hanno scelto la scuola del carcere. Il 16 settembre 2016 Nicola è stato sconfitto dalla malattia che lo aveva colpito da un anno lasciando la moglie Simona e le figlie Alice e Agnese. Una battaglia affrontata anche con leggerezza, come riesce a fare chi è stato a contatto con la sofferenza e ha maturato una serena consapevolezza della fragilità dell’esistenza. Bisogna dare parole a quella assenza. È un compito importante ricordare una persona che rappresenta quel mondo di impegno e dedizione verso gli altri, così poco visibile, ma che è la vera indistruttibile eredità per chi rimane. Invitato come ogni anno dagli insegnanti del carcere a tenere conversazioni sul giornalismo, ho accolto il desiderio degli studenti di parlare di quella persona che per più di dieci anni è stata interlocutrice di una modesta attività di volontariato. Frammenti di testimonianze colti al volo nelle aule di scuola, a cominciare da quella a lui intitolata il 16 dicembre 2016, e nei corridoi del carcere. Qualcuno non ha nascosto la sua commozione. Daniel bibliotecario, e poi Giovanni, Fiorenzo, Riccardo, Arcangelo e i detenuti della tredicesima sezione "protetta" dove ha insegnato, e Alessandro, Yu Wen, Andrea, Francesco e Daniele del "Solliccianino", la Casa circondariale a custodia attenuata "Mario Gozzini". Poi i suoi colleghi Claudio Pedron, Paola Trotter, Patrizia De Majo, Fulvia Poli e i suoi referenti come Margherita Michelini la direttrice del Mario Gozzini e Giorgio Sapuppo, il comandante delle guardie di quell’istituto. Le loro parole scolpiscono una personalità capace di modificare la routine del carcere con un’incessante attività di dialogo e mediazione con le autorità carcerarie e una disponibilità totale. Insegnante e animatore, un po’ amico e un po’ psicologo, pur restando rigorosamente nei limiti di un’istituzione di pena rigida e totalizzante. Nicola aveva scelto a 24 anni di svolgere la sua missione di insegnante nel 1978 in quella che allora si chiamava Prigione scuola, l’istituto penale minorile di via Ghibellina, a due passi dal Tribunale per i Minorenni allora presieduto da Gian Paolo Meucci. In questo istituto e nel riformatorio mise progressivamente a fuoco una capacità di rapporto fuori del comune: "Partendo per esempio dal calco, con lui i ragazzi parlavano di cose che non riuscivano a dire con lo psicologo o l’educatore", dice De Majo. Il calcio gli era utile per entrare in relazione anche con gli adulti quando nel 1987 fu assegnato dal CPIA di Firenze come insegnante di ruolo al nuovo carcere di Sollicciano, che nel 1983 era diventato il principale istituto di detenzione della città. Un mezzo per conoscere le persone, capirne i punti deboli e le sfumature del carattere. Tutti ricordano che a nessuno chiedeva mai perché erano in carcere. Partiva dal rapporto personale per costruire nell’aula percorsi di istruzione non convenzionali in grado di catturare l’attenzione dei potenziali studenti, e "fare uscire di cella quante più persone possibile": la lettura del quotidiano, il gioco didattico. Persino le carte da gioco diventavano un veicolo per imparare a seguire le regole, a tenere a freno l’emotività, a capire strategie e scaltrezze dei rapporti umani. Non è facile, soprattutto quando le circostanze favoriscono l’aggressività e il rifiuto. Nicola era riuscito a conquistare il loro rispetto. Sapeva ascoltare e andare il più possibile incontro ai desideri dei suoi studenti: chi chiedeva la storia, chi la musica, chi l’astronomia e chi anche lo yoga, l’inglese o la capoeira. Insieme ai suoi colleghi e a rappresentanti degli studenti aveva creato il CIC, Centro informazione e consulenza, che selezionava i vari argomenti per l’anno in corso. Da lì partivano le idee e le intuizioni alcune già messe alla prova con i ragazzi del minorile. Come il teatro: con una parodia sulle favole aveva coinvolto detenuti e agenti di custodia, per realizzare tutto ciò che serve per un allestimento scenico. Cominciarono ad aprirsi le porte del carcere a professionisti, operatori di vari settori, intellettuali, medici, tutti coloro che potevano dare risposte alle domande de suoi allievi e accrescerne la capacità di attenzione, condizione per raggiungere il suo obbiettivo: "La tipicità della scuola in carcere deve essere una forza riconosciuta". Ed ecco le uscite sempre più frequenti, l’ospitalità alle scuole (il progetto si chiama "Il carcere a scuola, la scuola in carcere"), i tornei di calcio: "È riuscito persino a far venire in giorno di festa il comandante delle guardie per rendere possibile la disputa di una partita di calcio". Otteneva tutto ciò prima di tutto grazie a una straordinaria capacità di mediazione con la burocrazia carceraria tutt’altro che predisposta agli esperimenti e ai mutamenti della prassi. "Riusciva a spianare la strada, a tenere i rapporti con gli agenti e con gli educatori, a superare gli ostacoli in tempi rapidi", dice Paola Trotter. Così negli anni la scuola del carcere è cambiata. "Ti insegnava un modo di vivere e di affrontare la vita", "Ho ritrovato me stesso", "Ci ha aiutato a vivere qui dentro", "Ci ha insegnato ad analizzare le cose e a trovare un modo per risolvere i problemi", "sentivo che non mi giudicava e mi ha spronato a studiare", "Quattro ore a scuola fuori dagli schemi", "Era una figura maschile con la quale ti puoi rapportare": sono i ricordi indelebili dei suoi studenti. Loro rimpiangono con commozione i momenti della giornata quando arrivava Nicola e d’improvviso l’umore cambiava e il peso del carcere diventava un po’ più sopportabile. La sua presenza ora è un ritratto dipinto da uno di loro appeso al muro in una sala di ritrovo. Ma chi è rimasto sa bene che sulla strada tracciata da Nicola non si può tornare indietro. Napoli: madri in carcere, studi e progetti contro l’emarginazione sociale di Nello Lauro Il Mattino , 29 giugno 2017 Maternità e detenzione, un ossimoro sociale destinato però ad esistere. In Italia la carcerazione femminile è una delle emergenze del sistema penitenziario. La detenuta è spesso sola ed emarginata, se poi in carcere ci va una madre l’emergenza diventa disagio. Da questi presupposti nasce il progetto "Le detenute madri e nuovi rapporti con la struttura carceraria alla luce della legislazione italiana ed europea" realizzati da Claudia Ardolino e promosso dalla Scuola bruniana Fondazione forense di Nola che verrà presentato a Sant’Anastasia domani, 29 giugno dalle 16, presso il Granstudio. Attualmente in Italia sono 8 i penitenziari femminili e sono 52 le sezioni delle carceri maschili destinati alle donne. La platea carceraria femminile si compone nel 50-60% dei casi dei figli delle carcerate che, secondo quanto stabilisce l’attuale normativa, devono vivere con le mamme fino al compimento del terzo anno (sei anni in caso di permanenza negli Istituti di custodia attenuata, che al momento esistono solo in poche realtà). Ma cosa accade prima e dopo il distacco? E cosa si può fare per venire incontro alle esigenze dei minori e delle loro genitrici? "Un tema complesso e delicato - spiega la criminologa Mariarosaria Alfieriche ha partecipato al progetto -, che coinvolge i piccoli e le donne, sia italiane che straniere. Ritengo che sia necessario e doveroso un impiego di più professionalità per seguire attentamente e in modo costante sia l’evoluzione carceraria della donna sia quella del bambino, ma soprattutto bisognerebbe seguire entrambi nel percorso post detenzione". Alla presentazione parteciperanno il direttore generale della scuola bruniana Giuseppe Boccia, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Nola Francesco Urraro, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Ottavio Lucarelli ed il sindaco di Sant’Anastasia Raffaele Abete, il magistrato Monica Amirante, l’avvocato Giuseppe Guida presidente della Camera penale di Nola, l’ordinario di diritto penale della Federico II Vincenzo Maiello, l’autrice del progetto Claudia Ardolino, la criminologa Caterina De Falco. Salerno: dal carcere di Fuorni allo stadio Arechi, per un nuovo campo di calcio di Enzo Negri La Città , 29 giugno 2017 Detenuti e rappresentanti del Comune si sono sfidati a calcio. L’obiettivo è il rifacimento del manto erboso del carcere. È lungo meno di 5 chilometri, il percorso che porta ad un sogno, quello dei detenuti del carcere di Salerno che potrebbero ritrovarsi a giocare una partita vera, allo stadio Arechi. È questo il progetto che la direzione del carcere di Salerno e il Comune stanno portando aventi, con lo scopo di raccogliere fondi per la ristrutturazione del campo di calcio della casa circondariale, ridotto molto male. Per un primo intervento, ci vorrebbero circa 7000 euro. Il passo iniziale, è stato fatto ieri mattina, proprio sul campo, dove, nell’ambito del progetto sportivo Coni "Sport in Carcere", si sono affrontate due squadre di calcio, una formata dai detenuti, allenati da Mimmo Viscido, istruttore Coni, l’altra da assessori e consiglieri comunali. Naturalmente, le difficoltà che si incontrano per realizzare il sogno per giocare una partita all’Arechi, ci sono, ma sia la direzione della struttura sia l’Aasessore alle Pari Opportunità, Gaetana Falcone, non sono spaventati dall’iter burocratico che bisognerà intraprendere. "Questa partita è la prima pietra di un progetto che vorremmo realizzare"; così, l’assessore Falcone, che continua: "per realizzarlo, ovviamente, avremo bisogno di tutte le autorizzazioni necessarie, ma noi vogliamo fortemente che il campo di calcio della casa circondariale di Salerno venga rifatto; ne hanno bisogno i ragazzi che ogni giorno lo calpestano, per passare qualche momento di serenità; il sogno è quello di portare questi ragazzi all’esterno e di giocare allo stadio Arechi davanti ad un grande pubblico. Sarebbe un modo splendido per raccogliere fondi per il rifacimento del campo". Sinergia perfetta, quindi, tra Comune di Salerno e direzione del carcere, guidato da Stefano Martone. "Purtroppo - ammette Martone - la difficoltà nella manutenzione è evidente, ma cerchiamo fondi per riportare agli antichi splendori il nostro campo". Il direttore non vuole sentire parlare di difficoltà burocratiche e, mostrando grande ottimismo, conclude: "Nessuna difficoltà; è solo un discorso di organizzazione e di previsione; tutto si può mettere in cantiere per realizzare questa idea gradita sia ai detenuti sia all’amministrazione penitenziaria". Per la cronaca: la partita è terminata con il successo dei detenuti, che hanno "asfaltato" i consiglieri per 8 a 2. Migranti. Come si salva la solidarietà di Mario Calabresi La Repubblica , 29 giugno 2017 La parola "Solidarietà" può ancora essere pronunciata e poi messa in atto o, come temeva Stefano Rodotà nel suo ultimo libro - che ci è sembrato necessario ristampare e troverete in edicola domani - è destinata ad essere proscritta e condannata? È ancora possibile parlare di inclusione, accoglienza e integrazione senza essere tacitati e spazzati via dal disagio e dalle paure dei cittadini e da chi cavalca questi sentimenti? Una strada esiste, ma è un passaggio stretto, necessario, anzi indispensabile per non tradire la nostra tradizione civile e insieme la nostra tenuta democratica. Questa strada ha bisogno di parole chiare e ha una scadenza assai ravvicinata: oggi. Al vertice europeo di Berlino il premier italiano si presenta accompagnato da 22 navi che stanno per sbarcare sulle nostre coste 12.500 migranti recuperati al largo della Libia. È un punto limite, lo ha sottolineato ieri il presidente Mattarella: "Se il fenomeno dei flussi continuasse con questi numeri la situazione diventerebbe ingestibile anche per un Paese grande e aperto come il nostro ". Il Capo dello Stato ha sottolineato la necessità di trovare il modo di bilanciare i principi di accoglienza con i diritti della nostra popolazione: "il fenomeno va governato assicurando contemporaneamente la sicurezza dei cittadini". Ma l’Italia da sola non può farlo. E la geografia non può scaricare tutto il peso sul Paese più vicino alle coste africane. L’Europa che si mobilitò nella primavera dello scorso anno per chiudere la rotta balcanica, che portava il flusso di profughi e migranti verso la Germania e il Nord, mettendo a disposizione della Turchia tre miliardi di euro, oggi appare vaga e assente. Il nuovo presidente francese Macron, che solo una settimana fa si dimostrava solidale con un’Italia "lasciata troppo sola", ieri ci ha rispedito indietro un centinaio di ragazzi che avevano osato varcare la frontiera di Ventimiglia. Il nostro Paese, istituzioni e cittadini insieme, si è mostrato fino ad oggi paziente, preparato e dignitoso. Il nostro Paese non ha tradito le leggi del mare e le regole non scritte della salvezza e dell’accoglienza e non può e non deve cambiare rotta. Ciò che deve necessariamente e urgentemente cambiare è il contesto in cui ci muoviamo. Prima che questa diventi un’estate di emergenza, di rissa tra sindaci e prefetti, di scontro tra comuni o regioni limitrofe, di barricate di cittadini inferociti e di perdita di razionalità, l’intera Europa deve fare la sua parte. Stabilendo regole chiare valide per tutti i Paesi e investendo economicamente nell’assistenza (a partire da un reale contributo finanziario per dare sollievo soprattutto ai comuni, su cui ricade il peso principale della gestione dei nuovi arrivati) e nel tentativo indispensabile di governo dei flussi migratori. Vanno combattute le organizzazioni di trafficanti di uomini e finanziati campi di accoglienza gestiti dall’Unhcr in Libia e nei Paesi in cui si snoda la tratta di uomini e donne, a partire da Ciad e Niger. Luoghi dove valutare chi ha il diritto d’asilo e far partire i rimpatri assistiti, prima che comincino le marce nel deserto e le traversate per mare. Perché questa non diventi un’operazione repressiva deve nascere un piano concreto di sostegno allo sviluppo dei Paesi d’origine, che assicuri una speranza di miglioramento di vita. Ma non basta stanziare soldi, bisogna seguire passo passo le iniziative per impedire che i fondi europei ingrassino solo la corruzione di potentati e funzionari. Solo così potremo continuare a parlare di solidarietà e di inclusione, solo mostrando ai cittadini di comprendere le loro paure potremo continuare a sostenere la necessità di integrare i bambini che nascono in Italia da genitori stranieri. Quella legge sullo ius soli in discussione in Parlamento e per la quale ci siamo mobilitati da settimane. Chi vive regolarmente nel nostro Paese e qui studia e cresce deve avere la certezza di un percorso futuro, non deve sentirsi emarginato o rifiutato, ne va dell’avvenire dell’Italia e anche della sua sicurezza. Solidarietà e integrazione sono valori troppo preziosi e vitali per perderli o dismetterli, dobbiamo salvarli e perché ciò possa accadere è necessario alzare la voce - prerogativa che non andrebbe lasciata solo a populisti e xenofobi - e questo lo dobbiamo fare subito. Questa mattina. Migranti. Il dibattito sullo ius soli tra demagogia e realismo di Astolfo Di Amato Il Dubbio , 29 giugno 2017 L’approccio giusto è quello che non si limiti a declamare, ma affermi nel concreto la prevalenza dei valori della cultura occidentale ed espressi nella nostra costituzione. Il tema dello ius soli divide, ancora una volta, gli italiani in buoni e cattivi, in persone preoccupate per la sicurezza del Paese e in persone del tutto indifferenti alla sua sicurezza. Tra i due gruppi non vi è comunicazione. Come, purtroppo, ormai quasi sempre avviene quando bisogna discutere del futuro del Paese. È un risultato, questo, dovuto alla sempre più radicata incapacità di comprendere le ragioni degli altri. Coloro che sostengono la necessità di introdurre in Italia lo ius soli evocano l’immagine delle migliaia di bambini nati e cresciuti in Italia, che parlano la lingua italiana, che sono tifosi delle squadre cittadine e che, perciò, è contro natura continuare a considerare degli estranei, degli stranieri. È facile, perciò, considerare, in questa prospettiva, delle persone di animo cattivo coloro che si oppongono al riconoscimento del diritto di essere cittadino italiano a questi bambini. È una posizione che, per quanto suggestiva, è del tutto insoddisfacente nella misura in cui non fa i conti con la realtà e l’esperienza. Il fallimento del multiculturalismo, che si è dovuto registrare in tutti i Paesi europei, ha messo in evidenza un dato, che è stato troppo a lungo sottovalutato. Le comunità straniere, che si sono insediate nei Paesi che hanno fatto del multiculturalismo la loro bandiera, hanno finito per essere segnate dalla presenza di aree del Paese caratterizzate da una sorta di extraterritorialità. La cronaca dei sanguinosi attentati che si sono verificati negli ultimi anni in varie città d’Europa ha, tra le altre cose, messo in rilievo che numerosi sono i quartieri delle grandi metropoli ormai governati dalla sharia. Quartieri, perciò, nei quali non è applicata la legge dello Stato. Una extraterritorialità di fatto che si caratterizza soprattutto per una distanza culturale da quelli che sono i valori fondamentali dello Stato, quale si è andato formando nella storia dell’Europa occidentale. È chiaro, allora, che il tema dello ius soli va considerato nella prospettiva della necessità di non consentire più il formarsi di queste bolle di extraterritorialità. La soluzione, come appare subito evidente, non può certo essere quella dell’esame dell’esistenza di un Dna laico e democratico. Quando si parla di ius soli una ipotesi del genere è addirittura ridicola, atteso che la sostanza dello ius soli sta appunto nell’attribuire la cittadinanza all’atto stesso della nascita e perciò senza alcuna possibilità di verifica della esistenza di un Dna laico e democratico. Ed allora, appare evidente che intanto può aver senso una campagna per l’affermazione, senza se e senza ma, dello ius soli in quanto sia accompagnata dalla determinazione ferma e senza cedimenti di non consentire la costituzione di bolle di extraterritorialità. Laddove queste esistessero nulla potrebbe impedire che i nuovi nati italiani si formino e si sviluppino in quelle bolle, portando con sé tutti quei germi di ostilità contro la cultura occidentale, che i quartieri soggetti alla legge della sharia hanno sin ora espresso. Dunque, l’unico approccio che può legittimare lo ius soli è un approccio il quale non si limiti a declamare, ma affermi nel concreto e senza cedimenti la prevalenza dei valori e dei principi contenuti nella cultura occidentale ed espressi, per quanto riguarda l’Italia, dalla Costituzione. Per fare degli esempi, non ha senso lo ius soli rispetto a famiglie caratterizzate dalla poligamia e dalla mortificazione della donna. Chiudere gli occhi di fronte a fenomeni del genere ha fatto sinora comodo, perché ha consentito di evitare tensioni. Ma, oggi, che il problema delle bolle culturali, che fanno riferimento all’islam radicale, è esploso in tutta la sua gravità, non è più possibile chiudere gli occhi. Lo ius soli diventa, perciò, legittimo solo nella prospettiva di una ferma reazione a queste situazioni. Migranti. L’Italia sfida l’Europa: "porti chiusi alle navi delle Ong straniere" di Carlo Lania Il Manifesto , 29 giugno 2017 Gentiloni minaccia l’Unione europea sull’emergenza migranti. Ma Bruxelles frena: "Sbarchi regolati dal diritto internazionale". Porti italiani chiusi alle navi delle Ong straniere cariche di migranti. L’ipotesi è stata prospettata ieri al commissario Ue per l’Immigrazione Dimitri Avramopoulos dall’ambasciatore italiano a Bruxelles Maurizio Massari. Una decisione che il governo ha preso dopo che dal Viminale sono arrivati i dati relativi agli sbarchi - 70.380 migranti arrivati dal primo gennaio al 27 giugno, il 14,42% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno - ma che non può non risentire anche dell’esito della tornata elettorale di domenica che ha fortemente penalizzato il Pd. "La gente è esasperata", aveva detto martedì sera Matteo Renzi, lasciando intuire la svolta. Che puntualmente è arrivata. "Chiediamo alla Ue, e ad alcuni paesi europei, che la smettano di girare la faccia dall’altra parte perché questo non è più sostenibile", ha spiegato ieri il premier Paolo Gentiloni. La decisione di cambiare atteggiamento con i partner europei è stata presa nel vertice che si è tenuto due sere fa a Palazzo Chigi tra il premier - che in precedenza ne aveva parlato con il presidente della repubblica Mattarella - e il ministro degli Interni Minniti, e successivamente comunicata all’ambasciatore Massari. Dietro la minaccia di chiusura dei porti c’è anche la delusione incassata da Gentiloni all’ultimo consiglio europeo della scorsa settimana dove, di fronte alla sua richiesta di poter far sbarcare i migranti in altri paesi dell’Unione in modo da alleggerire il carico dell’Italia, il premier aveva ricevuto tanta solidarietà ma nessun impegno concreto. Neanche dal presidente francese Macron e dalla cancelliera Merkel, i leader "amici" che pure avevano promesso per l’ennesima volta di non lasciare sola l’Italia. Da qui la scelta di forzare la mano, concordata anche con il segretario del Pd che ieri ha fatto sapere di essere d’accordo con il governo. "Il nostro è un appello all’Europa - spiega il viceministro degli Esteri Mario Giro, alla quale chiediamo di andare oltre Dublino perché stiamo attraversando una situazione di emergenza che si risolve solo con la condivisione europea e con il trattenimento dei migranti nei paesi di origine". Va detto che l’eventuale blocco dei porti non scatterebbe subito. Le navi delle Ong straniere che in queste ore si trovano in mare dopo aver effettuato i soccorsi potranno sbarcare i migranti come sempre. In futuro si vedrà, così come il governo non esclude di poter ampliare il blocco anche alle navi di Frontex e a quelle della missione europea Sophia impegnate nel Mediterraneo centrale. Sempre ammesso che la minaccia sia davvero realizzabile. Le operazioni di soccorso in mare dipendono infatti dal dispositivo Maritime rescue coordination centre (Mrcc) coordinato a Roma dalla Guardia costiera che decide quale nave deve intervenire in caso di necessità e in quale porto dirigersi successivamente. Il tutto in base a precise regole fissate dalla convenzione internazionale di Amburgo del 1979 che stabiliscono, tra l’altro che ogni salvataggio in mare si concluda nel porto non solo più vicino, ma anche più sicuro. Dove per sicurezza si intende la certezza che i migranti l’incolumità dei migranti sia garantita (il che, per capirsi, dovrebbe escludere la Libia con la quale invece si continuano a fare accordi). Eventuali modifiche, ammesso che siano possibili, non potrebbero essere immediate. Non a caso ieri, insieme alla scontata solidarietà di Avramopoulos che ha promesso un aumento dei finanziamenti, dalla Commissione Ue è arrivato anche un esplicito invito all’Italia a rallentare con iniziative unilaterali. E così se da una parte la portavoce della Commissione europea Natasha Bertaud ha ricordato che per quanto riguarda le missioni europee le regole operative in base alle quali operano possono essere modificate solo all’unanimità dagli stati membri che vi partecipano, dall’altra - ha aggiunto Bertaud - "la questione degli sbarchi è regolata dalla legge internazionale. La Commissione Ue tuttavia ritiene opportuno che qualsiasi cambiamento nelle politiche sia prima discusso e comunicato nel modo giusto, così da dare alle Ong l’opportunità di prepararsi". E lo stesso Avramopoulos ha poi rinviato tutto al vertice informale dei ministri degli interni Ue che si terrà la prossima settimana a Tallin, in Estonia. Un modo per prendere ancora una volta tempo, in attesa di vedere se l’Italia avrà davvero il coraggio di chiudere o meno i suoi porti. L’Italia e i migranti. La fermezza è inevitabile di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera , 29 giugno 2017 Centinaia di migliaia di stranieri che vengono accolti nel nostro Paese senza alcuna speranza di futuro, sempre più spesso destinati a perdersi visto che non hanno possibilità di ottenere l’asilo politico. E dunque è con questa realtà che adesso bisogna confrontarsi. La scelta italiana di mettere in mora l’Unione Europea ipotizzando il divieto di attracco per le navi straniere cariche di migranti, segna certamente un deciso cambio di strategia. È la linea della fermezza che finora non si era mai riusciti a percorrere. Ma nell’ultima settimana qualcosa di nuovo è successo e il governo guidato da Paolo Gentiloni ha evidentemente avuto la percezione che la situazione potesse davvero degenerare. Come ha chiarito il ministro dell’Interno Marco Minniti, mai prima d’ora era infatti accaduto che arrivassero in appena tre giorni 11,500 migranti. Mai erano state avvistate in mare 22 navi dirette nei porti italiani. E dunque il titolare del Viminale ha chiarito di fronte al consiglio dei ministri che senza una presa di posizione forte, il rischio di un’invasione impossibile da gestire, può diventare concreto. L’iniziativa del governo è condivisa dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha definito molto difficile la situazione che il nostro Paese deve affrontare. In pochi mesi le imbarcazioni delle organizzazioni non governative si sono moltiplicate. Giorno dopo giorno è aumentato il numero delle associazioni che hanno come obiettivo primario il salvataggio dei migranti. È un’opera meritoria che deve essere appoggiata e sostenuta anche economicamente. Ma che deve essere soprattutto governata. E invece per mesi l’Italia ha assistito impotente mentre queste navi si posizionavano in acque internazionali e attendevano l’arrivo di gommoni e pescherecci da cui trasbordare uomini, donne e bambini da trasferire nel nostro Paese. Ha subito la loro attività anziché guidarla. I risultati sono ormai evidenti: ci sono centinaia di migliaia di stranieri che vengono accolti nel nostro Paese senza alcuna speranza di futuro, sempre più spesso destinati a perdersi visto che non hanno possibilità di ottenere l’asilo politico. E dunque è con questa realtà che adesso bisogna confrontarsi. Anche tenendo conto che nonostante le promesse di reale cooperazione, l’Unione Europea si è limitata a mettere a disposizione una parte dei finanziamenti, pur nella consapevolezza che l’emergenza non si può affrontare soltanto con i soldi. Nei mesi scorsi ci si è illusi che l’accordo siglato con la Libia potesse risolvere ogni problema. In realtà, dopo il patto stretto a febbraio dal premier Gentiloni, è apparso chiaro che il presidente Fayez al-Serraj non aveva il pieno controllo del Paese e dunque non era in grado di garantire una lotta efficace contro i clan che organizzano le partenze. Il ministro Minniti continua la sua trattativa con le tribù del sud che certamente potrà portare risultati, ma i tempi non sono brevi e invece è diventato urgente intervenire. L’ipotesi di vietare l’ingresso in porto alle navi straniere è una mossa che può rivelarsi vincente. Un deterrente efficace. Anche perché, se davvero la soluzione per salvare le persone che si affidano agli scafisti è quella di andare a prenderli quasi sotto costa, molto più utile sarebbe la creazione di corridoi umanitari gestiti insieme da quegli stessi Stati che concedono la loro bandiera alle navi delle Ong. Una grande operazione internazionale che garantisca un futuro a chi non ha niente da perdere. L’alternativa è quella di intervenire direttamente nei Paesi d’origine creando campi di accoglienza e affidando alle organizzazioni che si muovono sotto l’egida dell’Onu le procedure per i richiedenti asilo. Un impegno che l’Unione Europea aveva preso, ma che finora non è riuscita a concretizzare stretta tra i veti incrociati di chi si oppone a politiche di accoglienza, ma anche di chi non ritiene di dover fornire alcun contributo neppure dal punto di vista economico. In attesa che da Bruxelles arrivi una reazione alla mossa italiana, sarà interessante vedere che cosa accadrà nel nostro Paese. Anche tenendo conto che quello dell’immigrazione è sempre stato un tema da campagna elettorale. Ieri, la maggior parte dei partiti ha espresso un plauso alla decisione presa dall’esecutivo ma non è escluso che di fronte alla direttiva, comincerebbero le polemiche e i distinguo. È un rischio che non si dovrebbe correre. Di fronte a una presa di posizione così forte è necessario essere uniti. A meno che non si pensi che il problema dei migranti debba essere sfruttato soltanto a fini propagandistici. Migranti. Msf: "Si vuole lasciarli sulle navi? Gli obblighi internazionali sono precisi" di Rachele Gonnelli Il Manifesto , 29 giugno 2017 Intervista a Michele Trainiti, di Medici Senza Frontiere: le partenze aumentano perché i trafficanti quest’anno sono più organizzati. "È vero che c’è un sensibile aumento delle persone che si imbarcano dalla Libia, lo vediamo ogni giorno e era previsto, ma non è possibile non salvarli, ci sono obblighi internazionali precisi". Michele Trainiti è il coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso della nave Prudence di Msf, Medici Senza Frontiere. State vivendo un’emergenza sbarchi? Sì, numeri importanti. Del resto le stesse Nazioni Unite hanno segnalato da tempo che ci sono 250 mila persone nei centri di detenzione libici pronte a partire verso l’Europa. Se l’Italia chiudesse i porti all’attracco delle navi delle ong, cosa succederebbe? Non abbiamo nessun tipo di comunicazione in questo senso, solo notizie rilanciate dai giornali, niente di concreto. Chiudere i porti sarebbe una non soluzione perché cosa potremmo fare? lasciare le persone sulle navi? e poi? Sono anni che aspettiamo una iniziativa dell’Unione europea per la ricerca e il soccorso delle persone in mare, un meccanismo ufficiale dedicato. Invece di fronte a un flusso storico, alla chiusura di altre rotte e alla mancanza di alternative di arrivo legale, ci sono sempre più partenze su questa che è la tratta più pericolosa di tutte del Mediterraneo centrale. Perché sempre più migranti in arrivo dalle coste libiche? Sono aumentati i fattori che li spingono, come dice l’Oim? I "push factors" sono a monte, sono ciò che li spinge ad abbandonare le proprie case, e sono sicuramente aumentati perché nessuno lo fa volentieri. Poi ci sono le condizioni in Libia, agghiaccianti, le loro testimonianze e i rapporti delle organizzazioni internazionali parlano di torture efferate nei centri di detenzione dove i migranti sono lasciati anche senza acqua potabile e senza servizi igienici, di mercati di schiavi nelle piazze dei paesi della costa, di persone rapite per chiedere un riscatto ai genitori…La situazione è sicuramente molto peggiorata rispetto all’anno scorso. Ancora peggiore? Sì, confrontando i racconti delle violenze subite dai migranti salvati l’anno scorso con quelli di quest’anno, la percezione è netta: le condizioni, sia per strada che nei centri di detenzione, si sono ulteriormente deteriorate. Per questo partono in numero maggiore? I grandi numeri di quest’anno dipendono dalla capacità organizzativa dei trafficanti in Libia, che evidentemente sono cresciute perché non è mica uno scherzo mettere in acqua ogni giorno 2mila gommoni. Si deve contare che molti di quelli che siamo riusciti a salvare sono in così cattive condizioni perché sono al secondo o al terzo tentativo, in precedenza sono stati intercettati e riportati a terra dalla Guardia costiera libica e una volta ritornati in Libia venduti come schiavi, ricattati e torturati in modo sempre più agghiacciante. Sarebbe inaccettabile per noi riportali lì. E se venisse dirottato il flusso in altri porti più vicini rispetto all’Italia? C’è un obbligo internazionale al soccorso dei naufraghi in base alle convenzioni Sar e Solas che non può essere disatteso. Le stesse convenzioni impongono di portarli nel porto "sicuro" più vicino. La Tunisia non garantisce il diritto alla richiesta di asilo, quindi può essere considerata un porto sicuro per i naufraghi di uno yacht ma non di una imbarcazione di profughi. L’Algeria è troppo lontana, la Francia lo è più dell’Italia, la Spagna è più vicina solo per i naufragi a largo del Marocco. E se in Libia si verificasse davvero una riconciliazione nazionale tra i governi di Tripoli e di Baida? Se anche fosse, e per ora l’Oim parla di violazioni incredibili di diritti umani, la Libia dovrebbe ancora ratificare le convenzioni Sar e Solas. Altra cosa è l’attività della Guardia costiera libica nelle sue acque nazionali e in quelle contigue, dove può liberamente intercettare e riportare indietro i barconi, come fa. I libici che l’Italia aiuta regalando motovedette e addestrandoli possono fare questo? Certo, anche nell’incidente del 10 maggio, quando la nave dell’ong SeaWatch fu quasi speronata, non c’era nessun rapporto gerarchico tra i libici e la Guardia costiera italiana che coordina i soccorsi internazionali. La Guardia costiera italiana non ci ha mai chiesto di collaborare con i libici né può chiederci di consegnare le persone a loro, è solo tenuta ad avvertirli per primi delle operazioni di soccorso. Ma la clausola del divieto di respingimento a mare è valida solo per i paesi terzi come il nostro rispetto ai migranti in fuga dalla Libia. Certo, resta il dilemma degli aiuti dati a chi non è in condizioni di assicurare il rispetto dei diritti umani. Un bel dilemma per l’Italia. Migranti. La paura aiuta i terroristi di Franco Roberti Il Fatto Quotidiano , 29 giugno 2017 Pubblichiamo ampi stralci del testo che ieri sera il procuratore nazionale Antimafia ha letto alla Milanesiana Letteratura Musica Cinema e Scienza 2017, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Il fenomeno migratorio è strettamente legato agli squilibri economici e alle situazioni di instabilità politica che caratterizzano diversi Paesi dell’area africana e asiatica. Tali situazioni sono state alimentate da conflitti etnici e religiosi, sfociati anche in guerre civili e terrorismo, provocando flussi migratori senza precedenti verso il continente europeo. Le diffidenze e le paure verso gli immigrati crescono in contemporanea con gli attacchi terroristici in Europa. Un italiano su tre è convinto che l’immigrazione sia un problema. Uno su due ha un giudizio negativo sulla religione musulmana e cerca di non avere rapporti con persone provenienti dai Paesi islamici. Il tema del l’accoglienza e de ll ‘ integrazione dei migranti non si può affrontare soltanto con le regole della giustizia e della sicurezza. La Repubblica italiana riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Non del cittadino soltanto. Ma dell’uomo. E in quei diritti inviolabili c’è la vita e ci sono le libertà, compresa quella di sfuggire alle guerre e alla fame, di cercarsi una vita migliore lontano dalla propria terra di origine. Se questi uomini, queste donne, questi bambini vogliono venire da noi, dobbiamo pretendere che tutti i Paesi dell’Unione collaborino con noi per accogliere quegli esseri umani in condizioni di sicurezza e di rispetto delle regole. L’accoglienza è un dovere comune. È vero, i barconi vengono usati, in alcuni casi, dai terroristi per arrivare in Europa con un’identità sicura. Alcuni degli attentatori di Parigi, i tre che avevano il compito di fare una strage allo Stade de France, erano siriani arrivati sotto falsa identità. Anche Anis Amri era arrivato con un barcone in Italia e qui aveva iniziato un percorso di radicalizzazione che lo avrebbe portato a compiere la strage di Natale a Berlino. Per evitare che accada ancora, l’Europa deve organizzare migliori controlli e una legislazione seria che permetta espulsioni mirate. Non è difficile individuare documenti falsi. Chi cerca di entrare in Europa taroccando la propria identità, quando invece con il proprio nome e cognome avrebbe libertà di accesso, non sta scappando da una guerra. Ma ha intenzione di nascondere qualcosa. L’articolo 10 della nostra Costituzione prescrive che lo straniero, al quale sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione, ha diritto d’asilo nel nostro Paese. Una bella sfida lanciata dai nostri Padri costituenti! Per attuare questo principio, sono fondamentali le procedure e i tempi d’attesa per i richiedenti asilo. Che superano l’anno, in alcuni casi i due anni. Un processo che danneggia i migranti e, soprattutto, lo Stato che spende per la loro accoglienza circa 40 euro al giorno: soldi che non finiscono nelle tasche dei migranti, a cui ne vanno solo due al giorno. Ma alle società che gestiscono l’accoglienza, alcune volte gestite da lestofanti se non direttamente dalla criminalità organizzata. Lasciando i migranti per mesi in quelle strutture, ci si espone a un rischio criminale molto alto. Terroristico, perché diventano prede eccellenti per le associazioni che vogliono reclutare. Ma anche per la criminalità mafiosa, che sfrutta i più giovani come manovalanza. Assicurare procedure efficienti e ridurre i tempi di attesa, dunque, è una priorità. Come lo è punire le singole responsabilità. Ma non si può leggere l’immigrazione come causa unica dell’ingresso dei terroristi in Europa. Al contrario, ci troviamo sempre più frequentemente di fronte a casi di jihadisti "fatti in casa", immigrati di seconda generazione che sono europei a tutti gli effetti. Ma non integrati. Ci sono pulsioni radicali che trovano nell’Islam una sorta di vestito, una giustificazione. Ci sono cause politiche, culturali, oltreché religiose, a indurre questi giovani europei a questa scelta. Sono le disuguaglianze sociali la prima causa dell’emarginazione ed è nell’emarginazione e nella mancata integrazione che si infila il terrorismo. Il sistema assomiglia a quanto fanno le mafie: cosa propongono ai giovani, indigeni e immigrati? Un valore, magari negativo, però un valore. Un significato, magari negativo, però un significato. Di fronte a vite senza senso, la criminalità organizzata e il terrorismo di matrice islamista promettono aperture, opportunità. Servirebbe un progetto europeo per offrire agli immigrati, specialmente ai giovani, percorsi alternativi di lavoro e di integrazione culturale. L’opportunità di dare un senso alla propria esistenza. E per noi di cominciare a liberarci dalle nostre paure. Droghe. Nell’armadio o in cantina è tutta erba di casa mia di Rory Cappelli La Repubblica , 29 giugno 2017 Boom delle coltivazioni fai-da-te: dal disoccupato al tassista che arrotonda fino all’imprenditore che trasforma l’agenzia di viaggi in una serra hi-tech. È l’ultima moda in fatto di droga: la coltivazione fai-da-te. In salotto, nell’armadio, in cantina, persino in un’agenzia di viaggi e in un tantino più ovvio vivaio, in tutta Roma da mesi è un fiorire di arresti di improvvisati agricoltori. Complice la crisi economica, persino una 64enne, arrestata il 5 maggio, ha pensato bene di arrotondare le proprie entrate così. L’ultimo arresto risale a ieri quando a Ladispoli i carabinieri di Civitavecchia hanno trovato in casa di un 26enne incensurato 6 piante di marijuana alte un metro. Il 3 febbraio ad Amelia un 60enne romano s’era costruito una serra con assi e telo di plastica riscaldandola con il calore portato dal tubo che era collegato ad una vecchia stufa a legna in ghisa. Lì dentro coltivava la sua bella piantagione di marijuana e aveva già seccato due chili di erba. Altro arresto il 7 febbraio di un 36enne romano: casa sua era un crocevia di ragazzi che andavano a rifornirsi per lo sballo serale. E così il blitz dei carabinieri di Albano Laziale: piante alte un metro e mezzo e lampade fluorescenti per favorirne la crescita. Sempre il 7 febbraio è stato trovato di via Ostiense un laboratorio chimico-botanico: un trentenne coltivava sotto una tenda da campeggio e aveva lampade Hps per la fioritura delle piante indoor e un essiccatoio. Il 4 marzo a finire arrestati due residenti nel Reatino che vendevano la loro merce al mercato rionale Trionfale, soprattutto agli studenti del quartiere capitolino. Nella loro abitazione di Pozzaglia Sabina è stata trovata una vera e propria serra, con impianto idroponico. Il 5 aprile un’altra coltivazione illegale di marijuana, nella casa di via Andrea Doria di un romano 38enne: piante cresciute in un guardaroba in plastica, rivestito con carta stagnola, con annesso tubo per l’aerazione e con tanto di lampada alogena. Il 2 maggio è stata la volta di un pensionato di 61 anni di San Basilio: anche qui l’immancabile serra con impianto per l’irrigazione e ventilatori e 14 piante di marijuana per un peso di 5 chili. Il 7 maggio a finire nei guai un tassista e sua moglie: i carabinieri di Tor Sapienza sono arrivati nell’abitazione di via del Maggiolino, di proprietà del 42enne, dove sono state trovate 6 piantine di marijuana all’interno di una serra indoor allestita in una camera, completa di pareti rifrangenti, lampade alogene, sistema d’irrigazione temporizzato, ventilatori e concimi. E poi c’è l’agenzia di viaggi utilizzata come serra per coltivare la marijuana: nel seminterrato infatti c’erano lampade, aeratori, umidificatori, apparecchiature per misurare il ph dell’acqua e per fare il sottovuoto, condizionatori e cronotermostati e 31 piante di marijuana di un metro e mezzo di altezza, oltre a 30 piante a casa, in camera da letto. Il 4 giugno è stata la volta di un vivaista di professione che nel giardino della sua abitazione, in zona Massimina, aveva coltivato 14 piante di marijuana. Trovare semi non è poi così difficile, come hanno dimostrato i radicali che qualche giorno fa - il 17 giugno - hanno aperto un banchino in San Lorenzo distribuendo bustine di semi coltivabili. "Abbiamo anche tenuto un corso di coltivazione diretta di marijuana", spiega il segretario romano dei radicali, Riccardo Magi. "Tra l’altro la coltivazione è considerata più grave della vendita e la pena arriva fino a 6 anni di reclusione". "Difficile trovare i semi?" continua. "Assolutamente no. Si comprano online oppure nei Grow Shop: perché non è illegale vendere, cedere o regalare i semi. Il reato è coltivarli. E non solo coltivarli, ma coltivare la qualità giusta", spiega Magi. "Cioè quella con una certa percentuale di principio attivo". Un’altra contraddizione del nostro ordinamento: pene più severe per chi coltiva, nessun problema per chi vende i semi. C’è anche da considerare che tra chi finisce in carcere, quasi una persona su due varca la soglia per droga: vale a dire che il 43,26% dei detenuti in Italia è in galera per violazione della legge sulle droghe. E questa, si può dire, è soltanto la punta dell’iceberg: per uno preso altre decine rimangono nell’ombra. E chissà quanti di questi coltivatori diretti. Russia. Rientrano in Italia i cinque attivisti fermati dalla polizia di Eleonora Martini Il Manifesto , 29 giugno 2017 La delegazione composta da Arcigay, Antigone e A Buon Diritto è stata trattenuta in caserma per nove ore. Martedì, la polizia russa aveva fatto irruzione nella sede della Ong ospitante dove era appena iniziata una riunione sulla prevenzione della tortura. È previsto per questa mattina, il rientro dei cinque attivisti facenti parte della delegazione di Antigone che martedì sono stati fermati dalla polizia russa, interrogati e sottoposti a più di nove ore di fermo amministrativo a Nižnij Novgorod, nella Russia europea centrale. Stanno "tutti bene" e sono stati "trattati con rispetto", il presidente nazionale dell’Arcigay, Flavio Romani, la direttrice dell’associazione A Buon Diritto, Valentina Calderone, e i dirigenti di Antigone, Alessio Scandurra, Grazia Parisi e Michele Miravalle. Sono stati rilasciati martedì notte, dopo l’intervento della Farnesina e del consolato italiano, e dietro pagamento di una piccola multa comminata per aver violato le norme sull’ingresso nel Paese, secondo le accuse della polizia russa che ha fatto irruzione nella sede dell’associazione "Committee Against Torture" dove era appena cominciata una riunione organizzata dall’Ong russa "Man and Law", partner di Antigone in un progetto di scambio sui diritti umani, le carceri e la prevenzione della tortura. Proprio nell’ambito di questo progetto, alcuni mesi fa erano venuti in Italia una delegazione della rete Eu-Russian civil society forum che riunisce diverse associazioni russe. "La polizia - racconta Valentina Calderone mentre è in viaggio con i suoi compagni verso Mosca - ci ha mostrato un foglio con la denuncia di un cittadino che diceva che in tal ora e in tal posto avremmo svolto un’attività diversa rispetto a quella del visto turistico che avevamo. Ma non è così: quando abbiamo richiesto il visto, abbiamo detto il motivo del viaggio, dettagliando i posti dove saremmo andati e le persone che avremmo incontrato. Ci hanno tenuto nella sede per due ore, poi hanno compilato un verbale che non abbiamo firmato e ci hanno portato all’ufficio immigrazione, contestandoci l’illecito". Una vicenda che, come commenta Calderone, "dimostra come questo sia un momento particolarmente difficile per chi in Russia si occupa di diritti umani. Eravamo ad un incontro con persone che hanno una attività riconosciuta e il fatto che venga osteggiato lo scambio con altri Paesi fa capire quanto sia difficile per loro lavorare. Siamo solidali con loro e speriamo di avere altre occasioni di scambio". Medio Oriente. La battaglia su Al-Jazeera, fra libertà di stampa e fake news di Giordano Stabile La Stampa , 29 giugno 2017 Il fronte più acceso fra il Qatar e gli ex alleati del Golfo resta quello Al-Jazeera. La tv satellitare panaraba, fondata dall’ex emiro Hamad nel 1996, è stata l’arma decisiva per espandere l’influenza dell’emirato nel mondo arabo ma anche un megafono odiatissimo sia dai nemici sciiti che dalle monarchie sunnite ostili ai Fratelli musulmani, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. La richiesta di chiusura, uno dei 13 punti dell’ultimatum lanciato da Riad a Doha, è certo un attacco alla libertà di informazione, ma va anche detto che il Qatar ha usato la tv spesso come puro strumento di propaganda, a volte con notizie distorte o false. La richiesta di un "raid" sulla sede - Le ultime rivelazioni di WikiLeaks danno la misura dell’ostilità dei dirigenti emiratini. Documenti classificati del gennaio 2003 svelano gli scambi di opinioni fra l’ambasciatore Richard Haass, l’ambasciatrice Marcelle M. Wahba e il principe ereditario degli Emirati, oltreché capo della Forze armate, Muhammad Bin Zayid Al-Nahyan (abbreviato come Mbz). Il principe ammette di aver suggerito al generale Tommy Franks, all’inizio dell’intervento americano in Afghanistan, di "bombardare il quartier generale" dell’emittente, per evitare una campagna mediatica contraria alla guerra contro i Taleban e Al-Qaeda, e che l’allora emiro del Qatar Hamad se ne era lamentato in un colloquio con suo padre. Mbz aveva anche suggerito a Franks di non portare giornalisti al seguito delle truppe per evitare che parlassero delle vittime civili nel conflitto. Lo stesso problema si poneva nel 2003, alla vigilia della guerra per rovesciare Saddam Hussein, con le masse arabe sunnite pronte a scendere in piazza a difesa del raiss e contro "l’imperialismo americano". In un altro incontro con Haass, Mbz dà indicazioni su come contenere la rabbia dell’opinione pubblica araba in vista dell’attacco, e fra i suggerimenti c’è quello di "limitare" i reportage di Al-Jazeera e di fare pressione sul governo del Qatar per un uso moderato dell’emittente. Primavere e propaganda - Arabia Saudita ed Emirati si trovano invece spiazzati otto anni più tardi, all’inizio delle Primavere arabe. È Al-Jazeera, che dispone di una rete capillare di corrispondenti e troupe di inviati di guerra di alto livello, a dettare l’agenda ai media, in piena sintonia con le sollevazioni popolari contro i rais. Accanto ai reportage accurati c’è però un uso spregiudicato della propaganda. Il 21 agosto del 2011 la tv trasmette immagini, "in diretta dalla Piazza verde di Tripoli", della folla che reclama la fine del regime di Muammar Gheddafi e l’esilio del dittatore. Incredibile, visto il controllo ancora ferreo del regime sulla capitale. E infatti, si scoprirà più tardi, quell’angolo della Piazza verde è stato ricostruito in uno studio di Doha e la manifestazione messa in scena a migliaia di chilometri di distanza. Le fosse comuni a Tripoli - Ma il caso più clamoroso è quello delle "fosse comuni sulle spiagge di Tripoli". L’emittente di Doha è la prima a rilanciarlo dopo la pubblicazione sul Web di un video di una Ong umanitaria, alla metà del febbraio 2011. In realtà il video risale al 2010 e non documenta "fosse comuni" ma normali sepolture, una accanto all’altra, nel cimitero di Sidi Hamed, in prossimità della spiaggia vicino al quartiere residenziale di Gargaresh. L’effetto della notizia delle fosse comuni, nelle quali sarebbero state sepolte addirittura "diecimila" vittime della repressione di Gheddafi, è però deflagrante. È uno dei motivi che spingono la Nato a intervenire per fermare le colonne dei mercenari del raiss in marcia verso Bengasi, nel timore che la riconquista della città ribelle - dove Al-Jazeera ha allestito in tempo record una sede attrezzatissima - finisca in un "bagno di sangue". La reazione del regime non si fa attente, e il 13 marzo il cameraman Ali Hassan Al Jaber viene ucciso in un agguato sulla strada fra Adjabiya e Bengasi dai sicari del dittatore. In Libia la stessa tv Al-Arabiya, legata alla casa dei Saud, e le reti occidentali, sono sulla linea di Al-Jazeera. Ma con l’involuzione delle primavere arabe verso guerre civili dominate dai jihadisti i rapporti cambiano. Al-Jazeera si trova sempre più isolata nel sostenere le insurrezioni armate. Riad e Abu Dhabi cominciano a temere il contagio anche in casa propria e cambiano linea a partire dall’Egitto, fino ad appoggiare la destituzione del presidente islamista Mohammed Morsi da parte del generale Abdel Fatah al-Sisi, che diventerà uno dei più implacabili nemici dell’emittente qatarina, il primo a sospendere le trasmissioni nel suo Paese e ad arrestare i suoi reporter. La "conquista" di Damasco - In Siria Al-Jazeera continua a sostenere la rivolta contro Bashar al-Assad. Nel novembre del 2011 arriva però un’altra "fake news". La tv annuncia che i ribelli si sono impadroniti del "centro di Damasco" e hanno colpito e distrutto "con tre razzi" la sede del partito del rais, il Baath, uno dei luoghi più protetti e fortificati della capitale. Compaiono anche immagini di un edificio in fiamme. Ma non è quello del Baath e in realtà i ribelli sono ancora nei sobborghi della città, e ai margini della città vecchia, nel quartiere di Jobar. La notizia, "pompata" all’inverosimile, serviva forse a scatenare un’insurrezione generale ma il colpo non riesce mentre la credibilità dell’emittente continua a essere erosa. Fino all’assalto finale di questi giorni da parte degli ex alleati, fratelli-coltelli, del Golfo. India. La protesta delle donne con la maschera da mucca di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera , 29 giugno 2017 In India può capitare di vedere in giro donne che indossano una maschera da mucca. A lanciare l’idea, che ha fatto il giro del Paese scatenando le ire dei nazionalisti, è stato un giovane fotografo di 23 anni Sujatro Ghosh: "Mi inquieta il fatto che nel mio Paese le mucche siano considerate più importanti di una donna, ci vuole di più a una vittima di stupro ad ottenere giustizia che a una mucca visto che molti indù la considerano un animale sacro" ha detto Ghosh alla Bbc che ha deciso di raccontare la sua storia. In India viene denunciato uno stupro ogni 15 minuti e ci sono stati fatti di cronaca che hanno indignato il mondo come quello di NIrbahaya, la giovane di 21 anni violentata e uccisa su un bus a New Delhi nel 2012. Uno dei suoi stupratori è uscito dal carcere pochi mesi fa. "Ci vogliono anni perché si svolga un processo per femminicidio e il colpevole sia punito - dice Ghosh - mentre se una mucca viene assassinata i gruppi estremisti indù uccidono o picchiano a sangue chiunque sia sospettato". Il progetto di Ghosh è una forma di protesta contro questa ingiustizia e anche un monito a guardarsi dalla crescita dei vigilantes indù che hanno preso sempre più piede dopo la vittoria, tre anni fa, del Bharatiya Janata Party, guidato dal primo ministro Narendra Modi. L’idea gli è venuta circa un mese fa quando ha cominciato a scattare fotografie ogni giorno di donne con indosso la maschera da mucca davanti alle loro case, su una barca, su un treno perché "sono vulnerabili ovunque in questo Paese". Quando ha pubblicato il progetto su Instagram, due settimane fa, il successo è stato subito enorme. Ma la reazione dei nazionalisti non ha tardato ad arrivare. Alcune persone hanno addirittura chiamato la polizia asserendo che il fotografo stava fomentando la folla e chiedendone l’arresto. "Su Internet hanno minacciato me e le mie modelle. Hanno detto che avrebbero dovuto ucciderci e dare la nostra carne in pasto a una giornalista e a una scrittrice disprezzate dai nazionalisti". Nigeria. Shell accusata di complicità per esecuzione di prigionieri politici Askanews , 29 giugno 2017 Amnesty International ha sempre considerato Ken Saro-Wiwa e Barinem Kiobel prigionieri di coscienza, arrestati e poi uccisi a causa delle loro idee pacifiche. Almeno due testimoni dell’accusa dichiararono di essere stati pagati per incriminare gli imputati, che la corruzione era avvenuta alla presenza di un legale della Shell e che la compagnia petrolifera aveva loro offerto un lavoro. La Shell ha sempre smentito queste circostanze. Molti degli Ogoni arrestati per il sospetto di aver preso parte all’uccisione dei quattro capi furono sottoposti a maltrattamenti e torture durante la detenzione. Persino dopo l’apertura del processo, il comandante militare responsabile della loro prigionia si limitò a consentire colloqui tra i detenuti e i loro avvocati solo previo assenso e con la sua presenza. I parenti denunciarono di aver subito aggressioni da parte dei soldati nel tentativo d’incontrare i detenuti. Esther Kiobel ha denunciato che in occasione di una visita al marito venne aggredita da un comandante militare e trascorse due settimane in cella. Tra il 30 e il 31 ottobre 1995 i nove ogoni vennero giudicati colpevoli e condannati a morte. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani dichiararono che si era trattato di un processo politico e di parte. Un penalista britannico che assistette al processo disse: "Il tribunale prima ha deciso il verdetto e poi ha cercato qualche argomento per giustificarlo". Il 10 novembre i nove prigionieri vennero impiccati e i loro corpi vennero gettati in una fossa comune. "Esther Kiobel ha vissuto nell’ombra di questa ingiustizia per oltre 20 anni ma si è sempre opposta ai tentativi della Shell di zittirla. Oggi la sua voce si eleva a nome di così tante altre persone le cui vite sono state devastate dall’industria del petrolio in Nigeria", ha dichiarato Channa Samkalden, avvocata di Esther Kiobel. "La posta in gioco non potrebbe essere più alta. Questo caso giudiziario potrebbe porre fine a decenni d’impunità della Shell, in cui nome è diventato sinonimo di come le grandi compagnie possano violare i diritti umani senza timore di subire ripercussioni", ha proseguito Samkalden.