Giudici critici sul reato di tortura di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2017 Non convince la necessità di più condotte. Difficile che possa cambiare. Ma anche trovare qualcuno che ne sia entusiasta. Al meglio la si sostiene come il male minore. Ieri nell’Aula della Camera è partita la discussione sul reato di tortura. Ed è partita tra le polemiche. Sia dei magistrati sia degli avvocati. A voler tacere delle tensioni in Parlamento. Ieri undici magistrati che, a vario titolo, si sono occupati dei fatti relativi al G8 di Genova hanno scritto una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini. I giudici e pubblici ministeri sottolineano che il testo della legge sarebbe stato inapplicabile ai diversi casi accaduti all’interno della caserma di Bolzaneto ed all’irruzione alla scuola Diaz: tutti fatti definiti torture e trattamenti inumani dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. "Vogliamo richiamare l’attenzione - si legge nella lettera - sulla grave contraddizione che potrebbe crearsi tra concreta applicazione del testo normativo e scopo della legge: adempiere agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali. Le critiche alla legge in discussione ribadite da ultimo in una lettera indirizzata ai parlamentari dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, non ci sembrano frutto di dissertazioni astratte né di speculazioni teoriche perché trovano un concreto riscontro nella nostra diretta esperienza di magistrati". Nel mirino delle toghe finisce quello che da subito, dall’approvazione al Senato, è apparso il punto debole della legge, l’avere subordinato la contestazione del reato, tra l’altro, al verificarsi di una pluralità di condotte. In altre parole: un solo atto di violenza o minaccia non basta per la tortura. E allora i magistrati attaccano: "È infatti indiscutibile che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state realizzate con unica azione mentre il testo in esame alla Camera prevede che per esserci tortura il fatto deve essere commesso mediante più condotte. E ancora, vi è tortura anche se la persona non è privata della propria libertà, come avvenuto nella Diaz, mentre la norma impone la necessità di tale circostanza". E la risposta di Boldrini ricorda che "i due rami del Parlamento hanno dedicato al reato di tortura una approfondita attenzione in questa legislatura, e proprio oggi la questione torna all’esame dell’Aula della Camera. Ancora in questi giorni numerose sono state le prese di posizione, tra gli altri il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, alcuni giuristi, magistrati di Genova che sarà compito dei deputati valutare. In ogni caso mi auguro che entro la fine della legislatura anche il nostro Paese possa colmare questa grave lacuna". Ma forte è stata anche la protesta degli avvocati. Le Camere penali sono scese in piazza per contestare una legge che arriva dopo 30 anni di ritardo e rischia di essere già inefficace, "dovuta a veti incorciati e compromessi, che lascerà impunita un’odiosa condotta che mortifica lo stesso sacrificio della parte sana delle Forze di Polizia". Dall’Aula di Montecitorio, una lancia a favore del provvedimento l’ha spezzata il rapprsentante del Governo, Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia. Per Migliore "Il disegno di legge non è esattamente la legge che avremmo scritto ma ne auspico l’approvazione senza modifiche perché ci sia nel nostro ordinamento un reato di tortura". "L’introduzione del reato - spiega Migliore - è un obbligo a cui non ci richiama solo il presidente della Repubblica ma anche la libera ratifica di un trattato sottoscritto nel 1984. Il testo ha subito molti rimaneggiamenti, troppi e per troppo tempo. È ingiusto ritenere che il testo indebolisca la capacità incriminatrice che il reato comporta. Far tornare il disegno di legge al Senato significa consegnarlo a un rischio di inconcludenza". Ddl Tortura. I magistrati del G8 di Genova: legge inutile di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2017 "Questa legge è inapplicabile ai fatti del G8". "Ci pare si debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della applicazione di quelle convenzioni", scrivono pm e giudici che si sono occupati dei processi sull’irruzione alla scuola Diaz e sui fatti avvenuti alla caserma di Bolzaneto. Una lettera di tre pagine indirizzata direttamente alla presidente della Camera dei Deputati per lanciare l’ennesimo allarme: la nuova legge che introduce il reato di tortura è scritta in modo tale da essere inapplicabile al massimo esempio di tortura di massa avvenuto nel nostro Paese, e cioè il G8 di Genova nel 2001 Nel giorno in cui a Montecitorio approda il ddl licenziato tra le polemiche dal Senato lo scorso 17 maggio, sul tavolo di Laura Boldrini arriva una missiva con undici firme pesanti. Autori di quella lettera, infatti, sono i magistrati, sia inquirenti che giudicanti, titolari dei processi sull’irruzione alla scuola Diaz e sui fatti avvenuti alla caserma di Bolzaneto. "Sentiamo il dovere di richiamare l’attenzione dei deputati impegnati nella discussione del disegno di legge già approvato dal Senato il 17 maggio 2017, del Presidente della Camera e dei Parlamentari tutti sulla grave contraddizione che potrebbe crearsi tra la concreta applicazione del testo normativo su cui si è realizzato un largo accordo politico parlamentare e lo scopo della legge: adempiere finalmente agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali", scrivono giudici e pm facendo più volte riferimento all’ultima sentenza della Corte europea dei diritti umani. Solo quattro giorni fa, infatti, la Cedu ha condannato ancora una volta l’Italia per gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ ordine nella notte tra il 20 e 21 luglio 2001 nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova. A presentare ricorso erano state 42 persone, 29 delle quali hanno ottenuto indennizzi che variano tra i 45 e 55 mila euro. I giudici di Strasburgo hanno anche condannato l’Italia per non aver punito in modo adeguato i responsabili: una sentenza molto simile a quella pronunciata nel 2015 sul caso Cestaro, nella quale si chiedeva al nostro Paese di introdurre il reato di tortura. E proprio del disegno di legge approdato ora a Montecitorio parlava un’altra lettera, arrivata alle autorità italiane la settimana scorsa. A spedirla era stato il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, che ha preso carta e penna per esprimere le sue preoccupazioni sul testo di legge all’esame del Parlamento italiano. Un’iniziativa inedita e per molti versi eccezionale, visto che un commissario del Consiglio d’Europa non si esprime mai sull’attività legislativa degli Stati membri. Lo stesso si può dire per i magistrati di un intero distretto - in questo caso quello di Genova - che molto raramente sono intervenuti in blocco sull’attività parlamentare in corso. Questa volta, invece, a pochi giorni dalla lettera di Muiznieks ecco che giudici e pm hanno scritto alla Boldrini per passare in rassegna i vari punti critici del ddl all’esame del Parlamento. "Le critiche alla legge in discussione - scrivono - ribadite da ultimo in una lettera indirizzata ai parlamentari dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, non ci sembrano frutto di dissertazioni astratte né di speculazioni teoriche perché trovano un concreto e tangibile riscontro nella nostra diretta esperienza di magistrati. È infatti indiscutibile: che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state realizzate con unica azione". La legge in discussione, invece, prevede che per esserci tortura il fatto debba essere "commesso mediante più condotte". Ma non solo. Perché i magistrati fanno notare anche altro. "La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della minorata difesa", scrivono nella loro lettera aperta. In pratica con la legge attualmente in discussione non si potrebbe parlare di tortura per i fatti successivi all’irruzione nella scuola genovese, perché le persone presenti all’interno in quel momento non erano state private della propria libertà. "Se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati - aggiungono poi i magistrati - fosse stata applicata la normativa oggi in discussione non avremmo potuto agevolmente fare ricorso neppure a quella che pare configurarsi come una condotta alternativa: l’agire con crudeltà. Secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali. Si tratta di difficoltà interpretative già da più parti segnalate che è assolutamente necessario evitare in una materia, come quella penale, che è soggetta a stretta interpretazione e non dovrebbe lasciare un così ampio spazio alla discrezionalità giudiziale". Quindi ecco l’amara conclusione: "Ci pare si debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della applicazione di quelle convenzioni. Sarebbe così clamorosamente disattesa anche l’esecuzione delle sentenze di condanna già pronunciate dalla Corte Edu nei confronti dello Stato Italiano". In pratica una legge creata dopo le condanne della Cedu all’Italia per i fatti del G8 di Genova non avrebbe alcuna utilità nei processi gli stessi fatti del G8 di Genova: un vero paradosso. Ucpi: "troppi gli spazi di non punibilità, la legge anti-tortura destinata a fallire" di Isabella Maselli Gazzetta del Mezzogiorno, 27 giugno 2017 Scontare una detenzione in una cella angusta a Bari non è considerato trattamento inumano. Il dato fornito dalla Camera Penale di Bari si ferma al 2016, ma fotografa una situazione di totale rigetto da parte del Tribunale di Sorveglianze dei ricorsi per risarcimento danni presentati da carcerati che lamentavano condizioni degradanti di detenzione. "Diversi detenuti negli anni scorsi hanno denunciato trattamenti degradanti per dimensioni e condizioni delle celle - spiega l’avvocato Filippo Castellaneta, penalista barese e componente dell’osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali Italiane - ma a Bari hanno sempre ottenuto rigetti delle loro richieste risarcitorie". L’occasione per parlarne è proprio la "Giornata internazionale per le vittime delle torture", in contemporanea con la discussione alla Camera del testo di legge già licenziato dal Senato. In tutta Italia le Camere Penali, aderendo all’iniziativa della Ucpi, hanno organizzato manifestazioni di protesta contro questa legge. A Bari i penalisti lo hanno fatto con l’illustrazione delle criticità della normativa cosi come formulata e la distribuzione simbolica di documenti e spillette rosse con la scritta "Mi hanno torturato solo un po’". "Ancora una volta - commenta Gaetano Sassanelli, presidente della Camera Penale di Bari - il legislatore dimostra un orientamento pronto a rifiutare i più elementari principi di umanità". L’Unione delle Camere penali Italiane e intervenuta piu volte per sollecitare l’introduzione del reato di tortura con un testo che fosse conforme alle convenzioni internazionali ed alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle liberta fondamentali, secondo la quale "nessuno può essere sottoposto a torture ne a pene o trattamenti inumani o degradanti". L’iniziale proposta di legge in Italia prevedeva la punizione con la reclusione da 4 a 10 anni per chi, "con violenza o minaccia, ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche". Il testo è stato poi emendato in Senato fino ad una formulazione della norma ritenuta dai penalisti "inadeguata, vaga e generica, crea evidenti spazi di non punibilità e, quindi, destinata alla ineffettività, anche perché punirebbe soltanto condotte reiterate nel tempo". In particolare "sono state introdotte modifiche - spiega una nota dei penalisti baresi - in conseguenza delle quali il reato non sussiste "nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti" e sussiste soltanto se commesso con più condotte". "In un Paese civile - conclude Sassanelli - non è tollerabile lasciare sacche di impunibilità, come questa legge vuol fare". Processo penale. Partecipazione a distanza: violato il diritto di difesa di Salvatore Scuto Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2017 Una delle parti più controverse della riforma penale presentata dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e approvata dal Parlamento è quella che cambia le regole sulla partecipazione al dibattimento a distanza. Le novità, salve alcune eccezioni, saranno operative dopo un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (attesa a giorni) e destano notevoli perplessità. Ricordando come il lungo iter parlamentare della riforma era iniziato con un’etichetta recante l’esplicita intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie difensive, non si nutre alcun timore nel definire questa parte della riforma un vero e proprio ossimoro. A nulla sono valse, purtroppo, le numerose e ripetute grida di allarme provenienti dal mondo dell’accademia e della cultura giuridica, da quello dell’avvocatura segnatamente con la dura, ma inascoltata, presa di posizione dell’Unione camere penali, nei confronti di un intervento riformatore figlio dello stato di gravidanza permanente in cui versa la madre dell’emergenza e della demagogia. Drastico è il colpo inferto alle garanzie e ai diritti difensivi, evidenti le linee di incostituzionalità che attraversano il nuovo impianto dell’istituto. Si tratta di un intervento assai articolato che modifica significativamente la partecipazione a distanza dell’imputato nel procedimento in camera di consiglio (articolo 45-bis delle disposizioni attuative del Codice di procedura penale) nel dibattimento (articolo 146-bis delle disposizioni attuative del Cpp), nel giudizio abbreviato (articolo 134-bis delle disposizioni attuative del Cpp) ed, infine, nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali disciplinato dall’articolo 7 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione del 2011. Si prevede che il detenuto per i delitti di cui agli articoli 51 comma 3 bis e 407 comma 2, lettera a), n. 4 del Codice di procedura penale partecipi a distanza alle udienze dibattimentali dei processi dove sia imputato, anche se relativi a reati per i quali sia in stato di libertà, nonché alle udienze civili e penali nelle quali dovrà essere esaminato come teste. La persona ammessa a programmi o misure di protezione partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata. Al giudice, fatta eccezione per i detenuti sottoposti al regime carcerario dell’articolo 41 bis della legge 354/1975, è discrezionalmente rimessa la decisione circa la presenza alle udienze delle persone che si trovino nelle condizioni già indicate. Sin qui l’intervento riformatore si muove nel solco del rafforzamento del doppio binario conseguendo il non auspicato effetto di comprimere ulteriormente la partecipazione al contraddittorio già fortemente pregiudicata da quanto previsto dall’articolo 190 bis del Cpp. Ma la novella legislativa manifesta tutta la sua natura gravemente demolitiva dei diritti della difesa e delle garanzie dell’imputato nella parte (comma 1-quater) in cui il giudice, con decreto motivato, può disporre la partecipazione a distanza quando sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, anche nei processi celebrati per reati non ascrivibili al catalogo del doppio binario. Stessa sorte spetta alla persona chiamata a testimoniare e che si trovi, a qualunque titolo, in stato di detenzione presso un istituto penitenziario. Sull’altare della celerità e dell’efficienza, veri e propri totem dal momento che non si scorge alcun effettivo risultato in tal direzione che possa essere ricondotto alle nuove previsioni, si sacrifica il diritto di difesa e si immola il valore costituzionale e convenzionale dell’immediatezza (articolo 111 della Costituzione ed articolo 6 della Cedu). L’estensione arbitraria dell’istituto fuori dal perimetro dei reati di eccezionale gravità del doppio binario, non può che porsi in conflitto con le molteplici esigenze di partecipazione che il dibattimento reclama, a più riprese riconosciute dalla Corte Costituzionale, così ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 24, 27, 111 della Costituzione e all’articolo 6 della Cedu. All’avvocatura, quindi, il compito di sollecitare il giudizio di costituzionalità dell’istituto con l’auspicio che la magistratura condivida l’esigenza di tutela dei principi fondamentali del giusto processo. Avvocati, lo sciopero "a singhiozzo" è un escamotage di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2017 Quand’ero procuratore ad Ivrea contestai l’interruzione di pubblico servizio: si astenevano dal penale ma non dal civile. Finora quattro astensioni, dal 20 al 24 marzo, dal 10 al 14 aprile, dal 2 al 5 maggio, dal 22 al 25 maggio. Se le modalità di esecuzione sono rimesse totalmente ai singoli senza coordinamento, la protesta è illegittima. Nei primi Anni 90 ero Procuratore della Repubblica in Ivrea. Nel 1994 (mi pare) ci piombò tra capo e collo uno sciopero degli avvocati. La ragione dello sciopero non me la ricordo; ma il casino che ne risultò sì, benissimo. Processi da rinviare, notifiche da rifare, testimoni imbestialiti, calendari di udienza ingestibili; un incubo. All’epoca la legge 83/2000 non era stata ancora emanata; quindi niente congruo preavviso, ragionevole limite temporale dell’astensione, obbligo di garantire le prestazioni essenziali (processi con detenuti): non si sapeva nemmeno quando avrebbero smesso. POI SCOPRII che alcuni avvocati, che scioperavano coscienziosamente in tutti i processi penali, si guardavano bene dal farlo nei processi civili. Per i non addetti ai lavori, è bene spiegare che l’imputato è contentissimo se il suo difensore sciopera: il processo si rinvia, si perde tempo; ma il cliente che ha citato il suo debitore che gli deve un sacco di soldi non è per niente contento. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso: incriminai tutti gli avvocati scioperanti per interruzione di pubblico servizio; praticamente tutti gli avvocati di Ivrea poiché, per solidarietà e nell’ottica di sollevare un polverone mediatico, anche chi non aveva aderito allo sciopero fu gentilmente invitato a farlo. Naturalmente parlai di questa bomba scoppiata in provincia con molti colleghi di grandi città. Tutti mi dissero che, in base alla legge, avevo ragione; però nessuno seguì il mio esempio. Qualcuno mi disse: vediamo come va a finire. Il Gip accolse la mia richiesta di rinvio a giudizio e una marea di avvocati si trovò imputata avanti al Tribunale. Solo che, pochissimo dopo, la mia domanda di trasferimento a Torino venne accolta: il processo rimase orfano. Naturalmente questa situazione si era verificata per molti altri processi importanti per i quali a me era sembrato giusto chiedere alla Procura Generale "l’applicazione" presso la Procura di Ivrea nei giorni in cui questi erano celebrati: nessuno dei Sostituti ne sapeva niente, sarebbe stato difficile per loro sostenere l’accusa in dibattimento. Le mie richieste erano state regolarmente accolte, accompagnate da grandi elogi: questo è senso del dovere, serietà etc.. Però, quando arrivò il turno del processo a carico degli avvocati, guarda che caso, la Procura Generale non l’accolse. Seppi poi che avvocati importanti avevano segnalo "l’inopportunità della personalizzazione dell’accusa" in quel processo. In quello solo? Mah. Il Tribunale assolse tutti e la cosa finì a tarallucci e vino. Però, poco dopo, arrivò la legge 83/ 2000: gli avvocati possono scioperare ma devono dare avviso, lo possono fare solo per un tempo ragionevole etc. Adesso, gli avvocati italiani stanno scioperando a singhiozzo: qualche giorno oggi, qualche altro un po’ più in là: finora quattro astensioni, dal 20 al 24 marzo, dal 10 al 14 aprile, dal 2 al 5 maggio, dal 22 al 25 maggio. Un casino senza nome: processi che saltano, testimoni incazzati, calendari ingestibili, la solita vecchia storia. E nessuno protesta; nessuno li incrimina, nessuno si chiede almeno: ma si può? Veramente non è vero che nessuno fa niente. La Corte d’Appello di Venezia ha sollevato una questione di illegittimità costituzionale della legge 83/2000 nella parte in cui non prevede che questi scioperi a singhiozzo siano considerati unitariamente dal che conseguirebbe la violazione dell’obbligo di limitare l’astensione a un periodo ragionevole. Difficile prevedere come andrà a finire. È vero però che la stessa Corte, con sentenza 171/96, ha affermato che gli altri valori costituzionali devono contemperarsi con i "diritti fondamentali di azione e di difesa" e con "il buon andamento dell’amministrazione della giustizia". E che la Corte di Cassazione, con sentenza n. 24653/2015, ha dichiarato l’illegittimità dello sciopero le cui modalità di esecuzione siano state rimesse totalmente ai singoli lavoratori interessati, senza una loro predeterminazione e coordinamento. Il che, per via del "singhiozzo", è proprio quello che sta succedendo. Speriamo che la Corte Costituzionale faccia giustizia di questo escamotage para-giuridico. Staiano: "avvocati in sciopero secondo la legge, inutile fare illazioni" di Errico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2017 Scende in campo "Il fatto". Risponde il costituzionalista Sandro Staiano. "Infondato sostenere che le astensioni dalle udienze siano state spezzettate per forzare il limite temporale", dice il professore della "Federico II" dopo l’attacco di Bruno Tinti. "Speriamo che la Corte faccia giustizia". Certo, c’è sempre da augurarselo, di qualunque Corte si tratti almeno in Italia, visto che da noi pena di morte e Corti marziali non sono previste. Il punto è che l’auspicio, con cui Bruno Tinti chiude il suo intervento sul Fatto quotidiano, allude allo sciopero degli avvocati. E in particolare, a un forte, deciso intervento della Corte costituzionale che ne limiti il diritto. Non è certo la prima volta che un commentatore si scaglia contro il diritto di una qualche categoria ad astenersi dal lavoro. Certo però che il duro attacco mosso dall’ex magistrato torinese reca uno spiacevole retrogusto antigarantista. Perché Tinti ben si guarda dal ricordarlo con precisione, ma le quattro astensioni dalle udienze proclamate dall’Unione Camere penali nel periodo compreso tra marzo e maggio scorsi miravano a contestare alcuni aspetti della riforma del processo ritenuti lesivi del diritto di difesa. In particolare: allungamento della prescrizione e estensione del processo a distanza a tutti i detenuti. Si può anche non essere d’accordo sul merito della protesta. Ma il solo sospetto che il giudizio negativo sul diritto di scioperare sia legato all’oggetto del contendere, le garanzie, rende problematico l’attacco apparso sul Fatto. L’ombra che si intravede è quella della critica al garantismo, di un certo diffidare di chi fa "politica" per i diritti degli imputati, della stessa difendibilità di quei diritti. "Certamente un giurista deve sempre guardarsi dai rischi del sostanzialismo giudiziale", commenta il professor Sandro Staiano, professore di Diritto costituzionale della Federico II di Napoli e profondo conoscitore, tra le tante cose, della materia in questione, il diritto di sciopero appunto. Il sostanzialismo di cui lei parla è in pratica una forma di moralismo? È il punto di vista di chi ritiene si debba rendere una giustizia sostanziale a prescindere dalle norme e dai procedimenti. Scusi, "a prescindere" in che senso? Nel senso che le ho enunciato: ritengo che una decisione sia moralmente giusta e penso di poter prescindere dal vincolo giuridico normativo, tanto da tendere a una decisione conforme a quella che ritengo sia la coscienza sociale. E lei nella posizione del dottor Tinti intravede un simile slittamento? Mi permetto solo di far notare come i giudici ben sappiano di doversi sempre guardare dal rischio di interpretare la loro posizione come quella di chi deve rendere giustizia sostanziale al di là delle norme. E che nel caso specifico mi pare assolutamente infondato sostenere che le quattro astensioni dalle udienze proclamate dall’avvocatura penale si collochino al di fuori della legge. Al massimo si può appunto mettere in discussione la legittimità costituzionale della legge che li consente. Dopodiché un magistrato è tenuto ad applicare la norma vigente. Ci spiega nel dettaglio? La norma che integra la disciplina degli scioperi con riferimento agli avvocati è la legge 83 del 2000, che richiama a sua volta il Codice di autoregolamentazione. Quest’ultima è una fonte secondaria di diritto, ma in virtù del rinvio contenuto nella legge 83, vincola comunque i giudici. Ebbene, tale Codice stabilisce al comma 4 dell’articolo 2 la scansione temporale delle astensioni: non si possono superare gli 8 giorni consecutivi domeniche escluse, va comunque proclamato un unico periodo, in un mese la durata massima deve essere sempre di 8 giorni e tra un’astensione e l’altra devono trascorrere almeno 15 giorni. Entro questo quadro gli avvocati possono fare ciò che vogliono. Quindi le astensioni proclamate dall’Ucpi sono effettivamente in linea con la legge? Gliel’ho appena detto. Certamente non possono incorrere in alcuna responsabilità penale. Altra cosa è la legittimità costituzionale. E su questo intravede dubbi? Su questo si pronuncerà la Consulta perché l’eccezione di costituzionalità della disciplina vigente è stata sollevata proprio in seguito alle ultime astensioni proclamate dagli avvocati, e per giunta da due diversi giudici, il Tribunale di Reggio Emilia e la Corte d’appello di Venezia. Tenga conto che sull’intera disciplina ha un peso una sentenza emessa dalla Cassazione nel 2014. Da quale punto di vista? La Cassazione qualifica il diritto dell’avvocato di astenersi dalle udienze come diritto soggettivo, in particolare come legittimo impedimento da cui scaturisce il diritto a ottenere un rinvio. Si fa riferimento all’articolo 18, al diritto di associarsi liberamente anche in campo sindacale, naturalmente in un’esigenza di bilanciamento con l’articolo 24 sul diritto di difesa e la ragionevole durata del processo richiesta dall’articolo 111 della Costituzione. E allora come pronosticare una valutazione sfavorevole agli avvocati da parte della Consulta? Un momento. Nel caso di Reggio Emilia viene messa in dubbio la legittimità della norma secondo cui il giudizio può proseguire qualora l’imputato sia un detenuto e lo consenta espressamente. Tale previsione, secondo il Tribunale, "mette in fibrillazione il rapporto fiduciario tra difensore e assistito", facendo pagare a quest’ultimo la "eventuale compromissione" del rapporto stesso. Adesso, al di là del fatto che nel processo in questione la maggior parte degli imputati è accusata di reati di mafia e che, nei confronti di questi ultimi, si dovrebbe presumere una sostanziale capacità intimidatoria degli avvocati, al di là di questo dicevo sarà la Consulta a valutare il bilanciamento tra diritto al rinvio dell’avvocato e diritto di difesa. A Venezia invece la questione sollevata è più sovrapponibile alle obiezioni proposte dall’articolo sul Fatto quotidiano. Perché si adombra che dietro più scioperi si nasconda, come scrive Tinti, un unico sciopero più lungo del consentito? Secondo l’eccezione sollevata a Venezia le ripetute astensioni, seppur conformi al Codice di autoregolamentazione, comportano una irragionevole durata del processo. La Corte d’appello propone anche un calcolo, secondo cui sarebbero andati in fumo 88 giorni lavorativi, e quindi avanza un dubbio di costituzionalità proprio dell’articolo 2 comma 4 citato sopra. A questo punto bisognerà aspettare la Corte costituzionale, a cui spetta, nel nostro ordinamento, il giudizio sulle leggi. D’accordo professore, deciderà la Consulta anche qui: ma adesso, al di là del merito delle ragioni della protesta, come si fa a dire che le Camere penali hanno scioperato a singhiozzo strumentalmente, per aggirare la normativa? E in effetti dire che l’astensione dalle udienze sia stata frammentata a bella posta è un’illazione. Dai fatti si deve affermare che il procedimento di approvazione è stato temporalmente scandito secondo quanto previsto dalla fonte normativa, cioè dal Codice di autoregolamentazione. Non è che il sospetto di strumentalità sia legato proprio a un retro-pensiero negativo e censorio sul fatto di scioperare contro norme ritenute giustizialiste? Insomma: siamo sempre al garantismo considerato privo di diritto di cittadinanza? Siamo di fronte a questioni particolarmente delicate. Io credo che ci sia un eccesso di funzioni di supplenza richiesto alla Corte costituzionale, questo è sicuro. L’eccesso a mio giudizio è legato a una qualità della legislazione non sempre adeguata, anche nel campo del diritto penale. È per questo che gli interessi in campo finiscono per trovare una composizione fattuale in sede giurisdizionale. Ma, evidentemente, si tratta di una composizione impropria perché dovrebbe essere il legislatore a provvedervi. Caso Consip, i sospetti di dossieraggio e la "guerra" tra servizi segreti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 giugno 2017 Nuove accuse per l’ufficiale del Noe Scafarto, che non risponde ai magistrati e chiede il trasferimento dell’inchiesta a Napoli o a Firenze, per competenza. C’è il sospetto del dossieraggio nell’inchiesta sul capitano del Noe dei carabinieri Gianpaolo Scafarto che indagava sugli appalti Consip, accusato di aver trasmesso notizie riservate a ex colleghi appartenenti ai servizi segreti; una raccolta illecita di dati sul conto di altre persone, anch’esse arruolate nei Servizi. Nel marzo scorso, secondo l’accusa, il capitano ha inviato per posta elettronica a un maresciallo che prima lavorava con lui e in seguito è passato all’Aise (l’agenzia di informazioni per la sicurezza esterna) un’intera informativa destinata alla Procura di Roma un mese prima. Ma in almeno altre due occasioni Scafarto avrebbe fornito a un altro sottufficiale ex Noe, e ora all’Aise, dettagli emersi da pedinamenti, intercettazioni telefoniche e ambientali su frequentazioni e discorsi di Marco Mancini, ex carabiniere poi transitato al Sismi (dove fu coinvolto nel sequestro di Abu Omar) e ora al Dis, l’organismo di coordinamento dei Servizi. Il quale era in contatto con Italo Bocchino, l’ex parlamentare divenuto consigliere dell’imprenditore Alfredo Romeo. Fuga di notizie - Informazioni ininfluenti per le indagini, tanto da non essere riversate nemmeno ai magistrati, passate però ai sottufficiali che probabilmente non erano i destinatari finali. In uno dei messaggi recuperati dai pm di Roma c’è l’annotazione "sempre per il capo", e all’Aise lavorano almeno due ex superiori di Scafarto. Qual è il motivo di questa "fuga di notizie"? E a chi era indirizzata? Quella del "dossieraggio" è al momento solo un’ipotesi degli inquirenti, una congettura senza riscontri. Il capitano Scafarto, convocato ieri in Procura, s’è avvalso della facoltà di non rispondere chiedendo il trasferimento dell’inchiesta a Napoli o a Firenze, per competenza territoriale. Apparati di intelligence - In questo modo il capitano ha evitato di replicare anche alla nuova accusa di "falso": in una delle informative ai pm aveva indicato come sintomo di un "anomalo interessamento dei servizi segreti italiani sul conto di Romeo", le conversazioni tra l’imprenditore e Bocchino su quanto appreso dal generale Ferragina, ex ufficiale della Guardia di Finanza e dei servizi; tuttavia dalle comunicazioni con alcuni suoi sottoposti emergerebbe che "l’agente dei servizi che va a Napoli e contatta Romeo" non era Ferragina bensì un’altra persona, e secondo la Procura gli investigatori del Noe l’avevano ben chiarito a Scafarto. Dopo i finti pedinamenti degli 007, insomma, l’ufficiale avrebbe falsamente indicato ai magistrati un ulteriore coinvolgimento dei servizi segreti, suggestivo quanto inesistente. Proprio mentre lui stesso trasmetteva informazioni segrete ad altri sottufficiali di quegli stessi apparati. Ferrara di nuovo dai pm - Intanto il presidente della Consip Luigi Ferrara, inquisito per "false dichiarazioni ai pm" è tornato dagli stessi pm, accompagnato dall’avvocato Filippo Dinacci, per chiarire il senso delle sue affermazioni su quanto gli disse il comandante dell’Arma Tullio Del Sette (a sua volta indagato, insieme al ministro Lotti e al generale Saltalamacchia) quando gli consigliò di fare attenzione a Romeo: Ferrara non ricorda se il generale gli parlò espressamente di un’indagine in corso, ma lui ebbe quella percezione. Cybercrime, l’unione fa la forza di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 27 giugno 2017 Partenariato pubblico-privato contro il cybercrime; più cooperazione tra istituzioni e imprese, contrasto rafforzato contro i contenuti illegali online. Sono alcune delle direttrici del nuovo Piano nazionale per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31/5/2017. Con il Piano si stabilisce la road-map per l’adozione da parte dei soggetti pubblici e privati in attuazione del dpcm 17/2/2017. Questo decreto ha individuato un Nucleo per la sicurezza cibernetica, protagonista nella gestione di eventuali crisi, nel corso delle quali deve assicurare che le attività di reazione e stabilizzazione di competenza delle diverse amministrazioni ed enti vengano espletate in maniera coordinata. Nel dpcm sono chiamati a fare la loro parte gli operatori privati e cioè quelli che forniscono reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico, gli operatori di servizi essenziali e i fornitori di servizi digitali, quelli che gestiscono infrastrutture critiche di rilievo nazionale ed europeo. Hanno funzione di sentinelle perpetue: devono comunicare ogni significativa violazione della sicurezza o dell’integrità dei propri sistemi informatici, utilizzando canali di trasmissione protetti; devono adottare best practices e misure finalizzate all’obiettivo della sicurezza cibernetica; devono fornire informazioni agli organismi di informazione per la sicurezza e consentire l’accesso ai Security operations center aziendali e ad altri eventuali archivi informatici di specifico interesse ai fini della sicurezza cibernetica; in generale devono collaborare alla gestione delle crisi cibernetiche contribuendo al ripristino della funzionalità dei sistemi e delle reti da essi gestiti. Il Piano 2017 scrive la strategia contro gli attacchi informatici. I punti salienti sono: il potenziamento delle capacità di difesa delle infrastrutture critiche nazionali e degli attori di rilevanza strategica; il miglioramento delle capacità tecnologiche, operative e di analisi degli attori istituzionali interessati; l’incentivazione della cooperazione tra istituzioni e imprese nazionali; la promozione e diffusione della cultura della sicurezza cibernetica; il rafforzamento della cooperazione internazionale in materia di sicurezza cibernetica; il rafforzamento delle capacità di contrasto alle attività e contenuti illegali online. Il documento punta le sue carte sul potenziamento delle strutture nazionali di incident prevention, response e remediation, e il potenziamento delle capacità di intelligence, di polizia e di difesa civile e militare. Inoltre nel Piano nazionale è previsto uno specifico piano d’azione dedicato a un nucleo essenziale di iniziative, cui attribuire carattere di priorità ed urgenza. Le iniziative si propongono di aumentare il coordinamento e l’interazione tra soggetti pubblici, privati e mondo della ricerca sia a accorciare e razionalizzare, rispetto al passato, la "catena di comando" deputata alla gestione delle crisi. Peraltro a sostegno di tutto ciò ci sono anche le risorse economiche (il totale è di 150 mln) destinate a iniziative per rafforzare la prevenzione nel campo della sicurezza informatica e cibernetica nazionale, e in particolare all’assunzione di risorse professionali e alla realizzazione di progetti Ict. Eccezionale impugnabilità dell’atto abnorme che dispone la perquisizione Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2017 Procedimento penale - Mezzi di ricerca della prova - Perquisizioni - Impugnabilità - Esclusione. In base al principio di tassatività delle impugnazioni e degli atti a esse assoggettabili, non è suscettibile di gravame, neppure per motivi di legittimità, né il decreto del Pm che dispone la perquisizione né quello con il quale lo stesso pubblico ministero procede alla convalida laddove il mezzo di ricerca della prova sia stato disposto in caso di urgenza per iniziativa diretta della polizia giudiziaria. Infatti, la perquisizione, sia locale che personale, è un atto privo di contenuti decisori, non apparendo neppure idoneo a mettere in pericolo l’intangibilità della libertà personale: la garanzia del doppio grado di giurisdizione ex articolo 111 della Costituzione copre solo gli atti aventi natura - anche solo sostanziale - di sentenza o quelli che incidono sulla libertà personale del destinatario. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28060. Procedimento penale - Mezzi di ricerca della prova - Perquisizioni - Atto abnorme - Impugnabilità - Ammissione. Il principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione previsto dall’art. 111 Cost. per gli atti aventi contenuto decisorio e per quelli che incidono sulla libertà personale trova un’unica eccezione nell’ipotesi di "atto abnorme". Se è vero che tradizionalmente il concetto di abnormità è riferito esclusivamente ai provvedimenti di natura giurisdizionale (con esclusione, dunque, di quelli del Pm, in quanto atti di parte) è però anche vero che tale criterio non possa non essere applicato in relazione a quei provvedimenti della pubblica accusa che incidono direttamente su diritti costituzionalmente garantiti, quale appunto il diritto alla inviolabilità del domicilio, che altrimenti rimarrebbe senza tutela alcuna laddove risultasse compresso da una iniziativa procedimentale di parte adottata in totale difformità dai canoni di legge. Tale ipotesi eccezionale presenta una chiara finalità di chiusura del sistema, essendo una deroga al principio di tassatività dei mezzi di gravame. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28060. Impugnazioni - Appello - Appello incidentale - Impugnazione di un provvedimento inesistente - Ammissibilità - Esclusione - Differenze con l’atto abnorme - Fattispecie. È inammissibile l’impugnazione proposta contro un provvedimento inesistente, che, in quanto tale, a differenza dell’atto abnorme, il quale conserva pur sempre l’attitudine a dar luogo a preclusioni, è di per sé insuscettibile di gravame. (Fattispecie relativa a ricorso per cassazione della persona offesa avverso un atto, qualificato come decreto di archiviazione, consistente in un modulo in bianco, privo di riferimenti al procedimento e alle parti, della motivazione e della sottoscrizione del giudice, depositato in cancelleria ed erroneamente annotato nel registro informatico come provvedimento conclusivo del procedimento a carico degli indagati). • Corte cassazione, sezione V penale, sentenza 20 febbraio 2017 n. 8055. Impugnazioni - Casi e mezzi (tassatività) - Decreto di perquisizione senza specificazione delle cose da sequestrare - Riesame - Ammissibilità - Esclusione - Sequestro di iniziativa della polizia giudiziaria - Convalida del Pm - Necessità - Impugnazione - Ammissibilità. Non è soggetto a impugnazione il decreto di perquisizione del Pm che rimetta alla discrezionalità degli organi di polizia la individuazione di cose da sottoporre a sequestro, dovendo, in tale ultimo caso, intervenire il decreto di eventuale convalida del sequestro che è il solo provvedimento soggetto a riesame. • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 30 dicembre 2013 n. 51867. Sentenza - Improcedibilità - Richiesta di proscioglimento - Successiva all’attività istruttoria - Impugnazione esperibile - Individuazione - Ragioni. Qualora sia stato richiesto il proscioglimento ex articoli 469e 129 cod. proc. pen. e, successivamente, le parti abbiano compiuto una esauriente attività istruttoria con acquisizione documentale, la sentenza emessa non può fare riferimento alle formule di proscioglimento di cui all’art. 469 cod. proc. pen. ma, pur in presenza di potenziali nullità procedimentali, deve essere qualificata come sentenza pronunziata all’esito del dibattimento e, in caso di condanna, ai sensi degli artt. 533e 535 cod. proc. pen., essa non può essere qualificata come atto abnorme e nei suoi confronti vanno esperiti gli ordinari mezzi di impugnazione. (Nella specie la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso fondato sulla dedotta abnormità del provvedimento impugnato avendo le parti richiesto una sentenza predibattimentale e poi proceduto consensualmente a rituale attività istruttoria dibattimentale). • Corte cassazione, sezione II penale, sentenza 29 aprile 2013 n. 18763. Diritti d’autore online, responsabilità a monte Italia Oggi, 27 giugno 2017 Scacco al cyber-crime che colpisce il copyright. È responsabile per violazione del diritto d’autore il gestore della piattaforma internet di condivisione di opere protette. È quanto deciso dalla seconda sezione della Corte di giustizia dell’Ue, con la sentenza del 14/6/2017 (causa C610/15), che può segnare una svolta contro il caricamento di contenuto illegali online. Questo perché si anticipa la tutela e si mette sul banco degli accusati non chi carica i file, ma chi mette a disposizione la struttura su cui altri caricano dati illeciti. Secondo la Corte di giustizia, in base alla direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione del diritto d’autore e dei diritti connessi rappresenta una comunicazione al pubblico l’adibizione di una piattaforma di condivisione online per la condivisione di file protetti, senza l’autorizzazione del titolare. La direttiva 2001/29/Ce prevede che agli autori è riconosciuto il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente. I giudici europei hanno chiarito che la nozione di "comunicazione al pubblico" comprende la messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi a opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una rete tra utenti (peer-to-peer). Pescara: dieci detenuti in "missione" a Loreto, saranno barellieri Unitalsi Vita, 27 giugno 2017 Grazie al progetto "Oltre le barriere" realizzato dalla sottosezione di Pescara dell’associazione e dalla direzione della locale casa circondariale, i dieci ristretti, con un permesso premio, accompagneranno come volontari i disabili in pellegrinaggio alla Santa Casa. Si chiama "Oltre le barriere" ed è l’iniziativa grazie alla quale dieci detenuti della casa circondariale di Pescara usciranno dal carcere per partecipare a una missione speciale: diventare volontari al pellegrinaggio della sezione Abruzzese dell’UnitaIsi (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) a Loreto. È la prima volta e la loro presenza non sarà simbolica, i dieci detenuti saranno infatti impegnati in tutte le normali attività di assistenza e sostegno alle persone disabili che prenderanno parte al pellegrinaggio alla Santa Casa che è in programma dal 1 al 2 luglio. I dieci volontari speciali avranno diverse mansioni che sono poi quelle tipiche dei "barellieri" e che vanno dalla cucina al settore bagagli, fino alle sale dell’Illirico di Loreto dove saranno ospitate le persone malate e disabili. A organizzare questa iniziativa sono state la sottosezione di Pescara dell’Unitalsi con la direzione della Casa circondariale del capoluogo abruzzese che ha individuato i dieci detenuti in base al loro percorso e alla loro storia giudiziari, sono di età diverse dai 35 ai 55 anni. In una nota si sottolinea che sono stati organizzati due momenti di incontro per preparare i dieci detenuti a questa nuova esperienza: nel primo si è puntato a far conoscere l’Unitalsi, Lourdes e soprattutto Loreto, nel secondo incontro è stato approfondito il significato dell’essere volontario unitalsiano, i servizi che vengono svolti nel corso dei pellegrinaggi oltre che il significato delle celebrazioni cui parteciperanno. Federica Bucci, presidente della sottosezione Unitalsi di Pescara nel sottolineare che "Oltre le barriere" è un’iniziativa "nella quale crediamo profondamente" ricorda che "la sottosezione di Pescara già da un paio d’anni ha avviato una bella collaborazione con il carcere, prima portando pellegrina la Madonna di Lourdes, poi l’anno scorso la Madonnina di Fatima grazie all’amicizia nata con suor Livia, al prezioso lavoro che lei svolge con i detenuti e all’ottimo rapporto che si è instaurato con il direttore del carcere, Franco Pettinelli". Bucci aggiunge poi che proprio grazie a Suor Livia Ciaramella "che sarà presente anche a Loreto come accompagnatrice del gruppo, siamo riusciti a concretizzare il sogno di poter portare alcuni detenuti in Pellegrinaggio e offrire loro la possibilità di essere inseriti tra i volontari unitalsiani per fare un’esperienza di servizio veramente alternativa". Per Alessandra Bascelli presidente della sezione Abruzzese dell’Unitalsi si tratta di "una bellissima iniziativa che auspico possa essere replicata non solo nelle altre sezioni della nostra associazione, ma anche e soprattutto a Lourdes che è il cuore dell’Unitalsi". Da parte sua Federica Caputo, Funzionario Giuridico-Pedagogico della Casa Circondariale di Pescara precisa che "la Casa Circondariale di Pescara incoraggia la partecipazione dei ristretti ad attività di volontariato, specie negli ultimi tempi, considerato che l’Istituto ha accolto diversi progetti di giustizia riparativa, siglando accordi con le associazioni del territorio e gli Enti Locali. Crediamo fermamente che tale partecipazione, oltre a favorire il confronto con la società esterna, possa aiutare il detenuto a rielaborare in senso critico la condotta antigiuridica e ad adottare scelte di vita socialmente accettabili". Caputo aggiunge che "la condivisione del Progetto "Oltre le barriere" nasce dalla volontà di far vivere il momento del pellegrinaggio anche ai detenuti del carcere, persone che difficilmente avrebbero avuto l’occasione di partecipare a un progetto di forte umanità e di servizio come il Pellegrinaggio a Loreto. Il gruppo di detenuti ha accettato con entusiasmo di prendere parte all’attività proposta, tramite la fruizione di un permesso premio, sapendone cogliere il senso profondo sia dal punto di vista spirituale, sia riconoscendo l’importanza del mettersi al servizio degli altri. Il permesso premio, in quest’ottica, può essere considerato come un’attività trattamentale esterna, nella quale non solo si sperimenta il detenuto, ma lo stesso può esercitare un programma di giustizia riparativa importante, affiancandosi agli operatori dell’Unitalsi nell’attività religiosa e di assistenza ai malati", conclude Caputo. Napoli: una settimana nella comunità che cerca di salvare i baby camorristi di Antonio Crispino Corriere della Sera, 27 giugno 2017 "La notte si svegliano con l’incubo di essere uccisi". Dentro il centro all’estrema periferia di Napoli, Scisciano, che accoglie i minori con reati anche molto gravi: dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti. Sono i figli della camorra, generati dal "Sistema". Cioè con i genitori in carcere, ai domiciliari o morti ammazzati. Li cresce ignoranti, senza essere mai andati a scuola, alcuni nemmeno all’asilo nido. In molti non sanno leggere e scrivere. Non sanno parlare in italiano. E anche il loro dialetto è ridotto a espressioni poco più che onomatopeiche. Spacciano, rapinano, sparano, non per esigenze economiche. Non rientrano nell’oleografia del criminale di necessità. Con quei soldi comprano il lusso che altrimenti non potrebbero mai permettersi. Sono i #kidsrichofcamorra. Le T-shirt da 300 euro - Marcelo Burlon è il loro stilista di riferimento. Li vedi tutti vestiti uguali. T-shirt da 300 euro, scarpe da 500. Non solo un vezzo ma una divisa. Si incontrano, si guardano, si riconoscono nel marchio: una croce stilizzata. Che vuol dire potere. Perché se a quindici anni sei riuscito a comprarla allora ce l’hai fatta, sei un pezzo affidabile del "Sistema". Il sabato a ballare al Golden Gate, rigorosamente con il tavolo vip... "come Fabrizio Corona, come i calciatori, come quelli che hanno i soldi", dicono. Buttano via 2-300 euro a sera. Sanno tutto di spaccio, di armi, di rapine, di gerarchie mafiose. Ma non sanno obliterare un biglietto della metro. In comunità - "Quando sono in uscita per seguire qualche corso li dobbiamo accompagnare noi perché c’è il rischio che si perdano. Fuori dal rione non sanno orientarsi. A un ragazzo stiamo insegnando a leggere le lancette dell’orologio. Ad altri, se chiedi quali sono i mesi dell’anno non te li sanno dire" racconta Silvia Ricciardi della comunità per minori Jonathan, che ha mutuato il nome dal gabbiano simbolo dell’abnegazione descritto nel libro di Richard Bach. Silvia è la responsabile di questo centro all’estrema periferia di Napoli, Scisciano, che accoglie i minori con reati anche molto gravi: dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti. Ha la scorza dura di una che ne ha visti tanti di ragazzi così. Non li giudica e non li fa giudicare. Non è un sergente di ferro, non servirebbe. "Se fanno i reati che fanno di certo non hanno paura di me che sono una donna. Tra l’altro la loro concezione della donna è arcaica e non prevede ruoli di comando" dice con realismo. Iniziano da cose semplici. Come apparecchiare la tavola, chiedere "per piacere", impugnare una forchetta, spostare una sedia. Sono maldestri, sembrano vacche nella cristalliera. Non conoscono il valore delle cose, rompono oggetti di continuo. Se si tratta di scarpe, però, sono attentissimi, stanno sempre lì a pulirle, le vogliono bianche immacolate". Principi vaghi - Entrano in comunità che hanno quattordici o quindici anni. E la comunità prima ancora di insegnargli a leggere o scrivere deve fargli da madre e padre. Non possono tenere né soldi né cellulari, se non in orari prestabiliti per chiamare casa. Appena possono riaccenderli è un fiume di notifiche su Facebook, in gran parte di amici del rione. Tutte frasi iperboliche quanto vuote: "Sì, o sang mio", "Fratello mio, senza te siamo tutti senza libertà". E poi enunciazioni di principi vaghi o frasi del film Blow in cui Johnny Depp interpreta un narcotrafficante, il loro preferito assieme al sempreverde Scarface."Entrai con una laurea in Mariujiana e ne uscii con un dottorato in Cocaina"; "…non penso di aver commesso un crimine, anzi. Ho varcato una linea immaginaria con un pacco di piante". È il copia e incolla che si trova sulle bacheche virtuali, tra una foto con le pistole e un’altra con lo spinello in mano. Usano parole per apparire più cattivi, più forti, più duri, più impermeabili ai sentimenti. Ma la notte, in preda agli incubi, svelano la vera natura adolescenziale. Con loro dorme sempre un operatore, Luigi Linguetta. E le sue notti sono sempre più uguali: "Capita spessissimo che li senta gridare nel sonno, come se fossero inseguiti da qualcuno. Gridano ‘Piglia ‘a pistola, piglia ‘a pistolà, rivivono nel subconscio le paure della strada. Ma anche quando parlano normalmente tra loro l’argomento preferito è le armi". Morti ammazzati - Attualmente ci sono quattro ragazzi, il massimo consentito è otto. Da qui è passata tutta la "paranza dei bambini". In primis Emanuele Sibillo, il capo riconosciuto e ammirato. Morto ammazzato a 19 anni sotto una pioggia di tredici proiettili. Ma anche Genny Cesarano, il diciassettenne ucciso alla Sanità in seguito a una "stesa", l’usanza di sparare in aria per marcare il territorio. Poco tempo prima era da Jonathan, in messa alla prova per piccoli reati. La lunghezza della fedina penale la usano come vanto, una patente per pretendere rispetto dagli altri. "Siamo dovuti intervenire quando un ragazzo pretendeva di farsi fare il letto da un suo compagno, alcuni cercano di imporre le regole del clan ma qui non è possibile" spiega Giovanni Salomone, che con Rosalia Esposito completa il team degli operatori sociali. Se il ragazzo non si adegua parte la richiesta al Tribunale di cambiare la messa alla prova in carcere. Non si fanno eccezioni, non si guarda in faccia a nessuno. E quando hanno dovuto fare la stessa cosa con il figlio di un casalese, nel senso di clan dei casalesi, le cose hanno preso subito una brutta piega. "Il casalese" - "Arrivò questo ragazzino accompagnato da un operatore che gli teneva i bagagli. Non si faceva chiamare per nome ma pretendeva che lo si chiamasse "il casalese" - ricostruisce Enzo Morgera, l’altro responsabile di Jonathan -. Gli chiedemmo di togliersi il berretto quando entrava da noi e la risposta fu: "chiariamo una cosa, io non ho paura di nessuno, né della legge, né di voi e né del Padreterno". Il giorno dopo i carabinieri lo vennero a prendere e lo portarono in carcere ma nella stessa settimana l’auto della Comunità venne incendiata. Alle domande si sforzano di non apparire imbarazzati, si muovono in continuazione. La paura più grande è quella di sembrare deboli. Comprensibile, per chi, come Antonio, 17 anni, quinta elementare, era lo spacciatore del clan D’Amico, gruppo egemone nel rione Conocal di Ponticelli, ora scomparso. O per Marco, cresciuto con l’esempio dell’amico capo piazza sotto casa che un poco alla volta l’ha introdotto nel giro. Proprio lui ha una smorfia di vergogna quando deve spiegare cosa faceva con tutti i soldi che guadagnava. "Erano tanti, ma io in tasca non avevo mai un euro. Li spendevo tutti nelle slot machine. Volevo conservarli ma non ci riuscivo, era più forte di me". Da Jonathan non arrivano solo minorenni campani ma anche da altre regioni. "La differenza è abissale con i calabresi" dice Morgera. Le immagini che ha in mente sono quelle di Tiziano, nome di fantasia, rampollo di una delle più potenti famiglie ‘ndraghetiste di Reggio Calabria, un caso di scuola. Per la prima volta un Tribunale decideva di allontanare un minore dalla propria famiglia perché mafiosa. Ma Tiziano, seppure appena quindicenne, aveva ricevuto già il battesimo criminale, le stigmate del capo. Enzo Morgera ce lo mostra in foto sul cellulare. È un ragazzino magrolino, curato, sobrio, il volto glabro, zero tatuaggi. "Parlava in italiano correttamente ed era rispettoso dei ruoli. Mai avremmo immaginato la sua storia", ricorda il responsabile della Comunità. La storia si scoprì quando arrivati a Reggio Calabria trovarono una folla adorante in attesa del rampollo. E lui la spiegò così: "Mi vogliono tutti bene perché mi metto a disposizione". Tra la folla c’era un ragazzo a cui aveva reso giustizia dopo che era stato bersagliato e insultato. Tiziano fece in modo che chi l’aveva offeso non potesse più avere figli. Livorno: da detenuti a viticoltori, a Gorgona il vino che fa bene di Lara Loreti La Repubblica, 27 giugno 2017 Il progetto ha luogo sull’isola-carcere dell’Arcipelago toscano, nella vigna gestita dalla famiglia (e azienda) Frescobaldi e punta a riabilitare i condannati a pene lunghe attraverso il lavoro tra i filari. Chargui e Santo si sono svegliati presto. Lavorare nelle prime ore del mattino è l’ideale, è più fresco e si fatica un po’ meno. Il loro compito per la giornata è pulire, estirpando i rovi, una collinetta incolta proprio al centro di Gorgona, non distante dal porticciolo, dove ogni giorno attracca la vedetta della polizia penitenziaria che vigila sull’isola-carcere dell’Arcipelago toscano. Chargui ha 47 anni ed è tunisino adottato da Napoli, dove vive la sua famiglia, Santo è della Basilicata e di anni ne ha 36: sono due detenuti viticoltori, i più esperti dell’isola, coloro che da più tempo si dedicano alla vigna gestita da Frescobaldi. La famiglia toscana del vino ormai da 6 anni gestisce due ettari e mezzo di terreni demaniali vitati da cui nascono due vini, fatti interamente dai carcerati: il Gorgona bianco (Vermentino e Ansonica) e da quest’anno il Gorgona rosso (Sangiovese). Davanti a sé, Chargui e Santo hanno ancora tanti anni da scontare: a Gorgona arrivano solo detenuti condannati a pene lunghe. Ma lavorare in vigna allevia in parte il peso della libertà negata e soprattutto permette loro di imparare un mestiere. Giorno dopo giorno, si diventa esperti, più sensibili e responsabilizzati. Quella mattina, mentre falci e zappe avanzano tra le erbacce, a un tratto gli stessi detenuti fermano i lavori: tra gli arbusti ormai secchi si intravedono delle foglie verdi a loro familiari. A mani nude, i due si fanno strada nel groviglio, ed ecco spuntare anche un tralcio. Non uno dei tanti già visti, ma più grande, più robusto: siamo di fronte a quel che resta di una vigna storica, che potrebbe avere decenni se non secoli alle spalle. In Gorgona infatti già dall’Ottocento i monaci certosini coltivavano l’uva. E chissà che quelle viti non risalgano proprio quell’epoca. Emozionati, i detenuti danno l’allarme all’agronomo, nonché direttore del progetto Gorgona, Federico Falossi, che a sua volta avvisa il marchese Lamberto Frescobaldi, patron dell’azienda fiorentina. Ora quelle viti saranno oggetto di studio: potrebbero avere qualcosa di importante da raccontare agli addetti ai lavori. Questo è solo uno dei miracoli a cui si può assistere sui due chilometri quadri dell’isola, che si trova a 37 km da Livorno. "Nella mia vita ho fatto gravi errori e sono deluso da me stesso - dice Chargui - ma questa è la mia occasione: mi è stata data fiducia e io sto facendo del mio meglio per dimostrare di meritarmela ed essere all’altezza della situazione. Qui sto imparando un mestiere, quella 2017 è la mia seconda vendemmia. Quando esco dal carcere vorrei lavorare in questo settore". Se Chargui riuscisse a realizzare il suo sogno, non sarebbe il primo: nell’azienda livornese I Vigneti di Nugola del Gruppo Frescobaldi, diretta da Falossi, ci sono già 3-4 ex detenuti che sono stati assunti mentre un altro paio ha trovato lavoro in Nord Italia. "È questo il senso del progetto Gorgona - spiega Lamberto Frescobaldi - dare a queste persone una seconda chance nella vita. Finora, abbiamo assunto oltre cinquanta detenuti a rotazione. Ma chi pensa che questo sia un progetto buonista si sbaglia: qui si lavora sodo, la vigna è fatica, ma i frutti si raccolgono". E Santo è il primo a crederci: "Io ho sempre lavorato nell’agricoltura, anche prima del carcere - dice - e mi sento a mio agio in questo mondo. Sto imparando moltissimo, anno per anno. Un esempio? Ora so come si curano le malattie della vite...". Francesco, napoletano di 30 anni, invece è un muratore e bazzica la vigna solo da pochi mesi: "Ho iniziato da zero - racconta - avere a che fare con la terra mi ha aiutato a sentirmi più responsabile. La mia vita è migliorata: stare all’aria aperta fa la differenza". L’esperienza dei detenuti si riversa nel calice con naturalezza. E i profumi dei vini dell’isola rispecchiano la ricchezza della natura. Gorgona bianco 2016 è un vino delicato e intenso allo stesso tempo: Vermentino (presente al 70 per cento), e Ansonica (30%), regalano un ricco bouquet di profumi floreali e di frutta esotica al naso, grande acidità, sapidità e struttura in bocca. "Un vino che sa di mare, dai sentori di ostrica", come lo ha definito lo chef stellato Luciano Zazzeri, del ristorante La Pineta a Marina di Bibbona (Livorno). Merito dell’ottima esposizione del vigneto, incastonato in un anfiteatro naturale che, come spiega l’enologo della Frescobaldi, Nicolò D’Afflitto, è poco esposto al vento: "Un luogo molto assolato, non stressato dall’umidità, con un terroir arenario perfetto. Ma il segreto del Gorgona è un altro: è l’atmosfera unica che si respira sull’isola, risultato di un lavoro di squadra che non ha paragoni. C’è il carcere con l’amministrazione penitenziaria, ci sono i detenuti e c’è la Frescobaldi: un gruppo solido". E le soddisfazioni arrivano anche dal mercato: solo 4.000 le bottiglie prodotte di Gorgona bianco, ma la distribuzione copre posti chiave al livello mondiale. Dai locali più rinomati della Toscana come l’Enoteca Pinchiorri a Firenze, Romano a Viareggio, Lorenzo a Forte dei Marmi all’enoteca Trimani a Roma fino ai ristoranti stellati nazionali per arrivare all’export, soprattutto negli Usa (Del Posto e Babbo del gruppo Bastianich a New York), Hong Kong e Germania. Affinato in acciaio e lasciato "riposare" per qualche giorno in barrique funzionali al trasporto dall’isola alla terraferma, Gorgona bianco mantiene struttura e acquista carattere con il tempo. "Assaggiatelo tra un decennio, poi se ne riparla", dice D’Afflitto. E l’annata 2017, nonostante la siccità, si prospetta molto interessante. Ne è convinto il direttore del progetto, Falossi: "Sarà una grande annata, il vigneto si presenta benissimo, nonostante l’acqua scarseggi a causa della siccità, ma grazie ai bacini dell’acqua piovana contiamo di colmare questa mancanza. Sono sicuro che al calice il Gorgona 2017 ci delizierà più dei precedenti. Lavorare sull’isola non è facile: il mare crea inevitabilmente una forte distanza da superare, e programmare i viaggi non sempre è agevole. Ma finora è andato sempre tutto liscio: il rapporto con i detenuti e con l’amministrazione penitenziaria è ottimo e consolidato. E il clima di collaborazione aiuta". Al bianco da quest’anno si aggiunge il rosso: per ora 100 per cento Sangiovese, in 600 bottiglie (distribuite in Italia ai clienti più affezionati, come spiega il produttore). Ma dall’anno prossimo sarà realizzato con l’aggiunta di Vermentino rosso, appena piantato sull’isola in un nuovo vigneto vista mare di 3.300 metri quadri. Un vino che Lamberto Frescobaldi ha definito "struggente, con un bel frutto e con sentori marini, adatto all’invecchiamento". Merito dei detenuti, della loro passione e dell’impegno in un lavoro che è fatica ma anche professionalità. "Com’è che si dice? - si domanda il detenuto Francesco - Impara l’arte e mettila da parte". Milano: "Freedhome", il negozio che punta al recupero dei detenuti nonsprecare.it, 27 giugno 2017 Dai dolci della "Banda Biscotti" della casa circondariale di Verbania ai cosmetici che arrivano dalla Giudecca di Venezia. In questo store di Torino si possono trovare gli articoli e i servizi realizzati dalle imprese attive in tutta Italia all’interno del mondo penale. L’obiettivo è sostenere la creazione di lavoro. Un negozio che mette in vendita i prodotti di chi sta provando ad approfittare di una seconda possibilità. È questo "Freedhome", uno spazio espositivo nel centro della città di Torino (precisamente in via Milano 2/C) dove è possibile acquistare articoli e servizi realizzati dalle imprese attive in tutta Italia all’interno del mondo penale. Così tra gli scaffali si possono trovare i "Brutti e Buoni" dei detenuti di Brissogne, i dolci della "Banda Biscotti" della casa circondariale di Verbania, ma anche i cosmetici che arrivano dalla Giudecca di Venezia. L’iniziativa, realizzata grazie all’aiuto del comune di Torino e della Compagnia di San Paolo, e stata resa possibile dal lavoro di un gruppo di detenuti che hanno realizzato i restauri. L’obiettivo degli organizzatori è dare visibilità a determinate iniziative sociali, ma soprattutto di sostenere la creazione di lavoro nell’ottica del recupero sociale dei detenuti. L’economia carceraria in Italia vanta un giro d’affari sui 5-6 milioni di euro e impiega un migliaio di detenuti. Una realtà economica e sociale che necessità posti come Freedhome per crescere in visibilità e soprattutto per avere uno sbocco sul mercato. Il lavoro in carcere, infatti, consente ai detenuti un percorso di crescita in vista della riabilitazione che, per essere piena, non può che passare attraverso l’apprendimento di un lavoro da poter svolgere una volta rintrodotto nella società. Di esempi virtuosi tra i scaffali del negozio di Torino ce ne sono moltissimi e vanno dalle t-shirt che arrivano dal carcere di Torino (Extraliberi) e dal carcere di Genova Marassi, al caffè, le tisane e il thè lavorato dai detenuti di Pozzuoli (Caffè Lazzarelle il nome della cooperativa di lavoro creata nella casa circondariale del Napoletano). Inoltre a breve comincerà un periodo di sperimentazione che consentirà a un ex detenuto di lavorare nello store di Torino. Ma Freedhome non vuole essere solo un negozio, ma piuttosto un laboratorio di idee e progetti per ribadire forte e chiaro che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo efficace un sistema penitenziario in profonda crisi come quello italiano. E quale modo migliore se non partire dalle eccellenze prodotte da chi cerca riscatto? In questo negozio di Torino credono sia la chiave giusta per rianimare vite che troppo spesso vengono dimenticate. Bari: "Imprese e recupero sociale dei detenuti", il workshop in Consiglio regionale consiglio.puglia.it, 27 giugno 2017 Istituzioni e imprese insieme per un obiettivo di grande importanza sociale: il recupero di chi ha sbagliato e sconta una pena. È al centro del protocollo d’intesa tra la Commissione regionale Pari Opportunità e l’Amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, presentato a Bari nel corso del workshop "La Rinascita. Le imprese non dimenticano il sociale". Una iniziativa di straordinario valore, "sarebbe straordinario consentire a quindici, dieci, anche a un solo soggetto di avere una nuova chance nella vita, di trovare un lavoro, una collocazione nella società", ha detto il presidente del Consiglio regionale pugliese Mario Loizzo, che ha ospitato il seminario nell’Aula consiliare. Il primo progetto realizzato dall’organismo di genere insediato solo da pochi mesi, ha fatto presente la presidente della commissione di parità Patrizia del Giudice. Portare lavoro in carcere è un vantaggio per il detenuto, l’impresa e la società, ha aggiunto. È un percorso di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale che può concretizzarsi solo attraverso la collaborazione tra istituzioni, lavoratori e imprenditori, una rete che la Commissione pari opportunità ha cominciato a promuovere e che porterà avanti con la collaborazione di tutti. È allo stesso tempo "un messaggio dal Consiglio regionale a tutta la comunità pugliese: non siamo solo un’Assemblea legislativa - ha insistito il presidente Loizzo - non facciamo solo leggi. Certo, è la missione principale, ma l’articolazione dell’istituzione consiliare è complessa, si estende ad attività non legate immediatamente a quella normativa, ma di grande utilità sociale a tutela dei diritti delle persone". Un settore di intervento del Consiglio regionale della Puglia guarda a chi è privato della libertà personale, attraverso la funzione del garante dei detenuti e della sua struttura, incardinata tra quelle consiliari. Il Consiglio regionale, ha ricordato il presidente Loizzo, riconosce la qualità del lavoro dell’Ufficio del garante e si impegna a potenziarla, con risorse finanziarie che possano sollevare almeno in parte le mille difficoltà in cui si sviluppa questa attività. La stessa attenzione sarà rivolta alle esigenze dell’atro garante, dei minori ed anche del garante dei disabili, in via di istituzione. "Sono pezzi di un impegno per il sociale e per i cittadini che il Consiglio regionale porta avanti con convinzione, pur nelle note ristrettezze di bilancio". Ai lavori del workshop, moderati dalla giornalista Donatella Azzone, hanno partecipato con Loizzo, del Giudice e Rossi, l’assessore regionale alla formazione Sebastiano Leo, il garante Piero Rossi, il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il segretario generale del Consiglio regionale Domenica Gattulli, i direttori generali delle Asl Vito Montanaro (Bari) e Ottavio Narracci (Bat) e il presidente di Confindustria Bari-Bat Domenico De Bartolomeo. Genova: busta esplosiva spedita al capo delle carceri di Giuseppe Filetto La Repubblica, 27 giugno 2017 Il plico inviato a Santi Consolo, direttore Dap: inchiesta sulla pista anarco-insurrezionalista. Un ordigno artigianale, che poteva esplodere e fare molto male. Un plico spedito il 9 giugno scorso da Genova e recapitato a Roma, indirizzato a Santi Consolo, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il più alto dirigente del settore a cui fanno riferimento tutte le carceri italiane. Per fortuna la busta con al suo interno fili elettrici, una batteria e della polvere da sparo, è stata intercettata e disinnescata, ma sull’inquietante vicenda è stata aperta un’inchiesta da parte della Procura di Roma (il reato si è consumato nella Capitale), ma sono interessate anche la Direzione Distrettuale Antiterrorismo (pm Federico Manotti) e la Digos di Genova. Inoltre, un documento del Viminale è stato diramato a tutte le procure italiane. Il plico è simile agli altri due recapitati l’8 giugno scorso a Palazzo di Giustizia, a Torino, ma questa volta il mittente porta le generalità di tale "Giacinto Siciliano, via Camporgnago numero 40, Opera, provincia di Milano". Una vera provocazione: Giacinto Siciliano è il direttore del penitenziario di massima sicurezza di Milano Opera, quello dove sono detenuti tanti anarco-insurrezionalisti. Tanto che nel febbraio del 2016 un comunicato firmato da 128 reclusi, con il quale si denunciavano le condotte punitive (isolamento, censura della posta, trasferimenti e persino aggressioni fisiche e "misere" condizioni di ricovero nel reparto ospedaliero "San Paolo" dedicato ai detenuti). L’iniziativa interna al carcere era stata seguita nel gennaio scorso da presidi anche notturni all’esterno da parte di attivisti. La lettera-bomba spedita da Genova porta il timbro del Centro Smistamento Poste Aeroporto. Con ogni probabilità, è stata imbucata in una cassetta in città. In ogni modo, è stata intercettata il 12 giugno durante la lavorazione all’interno dell’omonimo centro postale di Roma. Sono intervenuti gli artificieri prima che arrivasse al Dap. I due plichi recapitati a Torino - anche questi spediti da Genova, con mittenti i nomi di due avvocati genovesi e di un prestigioso studio legale che ovviamente sono completamente estranei alla vicenda - erano indirizzati ai pm Roberto Sparagna ed Antonio Rinaudo, i due magistrati che si sono occupati di inchieste su fenomeni eversivi e di rilievo politico, ma anche di infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In particolare, il primo ha condotto l’inchiesta "Scripta Manent" su una serie di attentati dinamitardi della Fai (Federazione Anarchica Informale). Il secondo è titolare dei fascicoli sui No-Tav. I due plichi di Torino e quello recapitato a Roma non sono stati rivendicati, ma gli investigatori seguono la pista dell’area anarco-insurrezionalista. Negli scorsi giorni, infatti, la Digos ha acquisito un documento sul sito "InformAzione" che potrebbe apparire come una sorta di attribuzione di paternità. Si legge: "È una vera gioia vedere saltare in aria caserme, tribunali, rappresentanti del potere... il sistema e le sue strutture non sono astratte e i responsabili hanno nomi, cognomi e sono facilmente individuabili". Inoltre, due torinesi sono in carcere: Alfredo Cospito e Nicola Gai, condannati per essere gli autori del ferimento dell’ad di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Attentato avvenuto a Genova, in via Montello (Marassi) il 7 maggio 2012 e firmato dal "Nucleo Olga". In carcere anche Anna Beniamino, compagna di una vita di Cospito, la tatuatrice sanremese arrestata a Viterbo per associazione terroristica internazionale. Perciò, si suppone che gli autori delle tre missive siano militanti che gravitano tra Genova e Torino. Brescia: situazione critica a Canton Mombello, l’allarme dei sindacati Giornale di Brescia, 27 giugno 2017 "Il personale in servizio non è più sufficiente per garantire la sorveglianza e il rispetto dei diritti dei detenuti". A lanciare l’allarme è il Sinappe, sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria, che sottolinea come a Canton Mombello, a fronte di 220 operatori previsti, siano in servizio solo 180 persone. E la situazione, già critica da almeno due anni, è destinata ad aggravarsi ulteriormente nei prossimi mesi. "La direzione ha garantito a tutti il diritto alle ferie, ma la gestione dei turni è sempre più ardua" chiarisce Antonio Fellone, segretario nazionale del Sinappe. C’è poi il problema del pensionamento del personale più anziano: 8 gli agenti che lasceranno il lavoro entro gennaio, ma solo 4 all’anno in media i nuovi ingressi. Mentre il numero dei detenuti, 332 quelli attuali, continua ad aumentare. "A Verziano le cose non vanno meglio: nel reparto femminile per assicurare la sorveglianza necessaria viene richiesto anche ad agenti con più di 50 anni di effettuare turni notturni, in deroga alla legge" spiega Fellone, che sottolinea come alla struttura servirebbero 71 operatori, ma in servizio oggi se ne contano solo 44. Di qui l’appello alle istituzioni, raccolto dalla commissione carceri di Regione Lombardia, il cui presidente, Fabio Fanetti, ha visitato ieri i due istituti di pena bresciani. "Farò pressioni sul Ministero, esponendo la situazione che ho visto, affinché venga assegnato altro personale" ha promesso Fanetti. La speranza è anche quella di ottenere fondi per una parziale ristrutturazione di Canton Mombello, che potrebbe migliorare le condizioni di vita per tutti. "Finché non prenderà forma il nuovo carcere di Verziano, questa struttura non si può considerare dismessa". Ravenna: corsi di teatro, cucina o mosaico in carcere, lavori socialmente utili per chi esce ravennaedintorni.it, 27 giugno 2017 Messo a punto un programma per migliorare le condizioni di vita delle persone sottoposte alla pena detentiva a Ravenna. Umanizzare e migliorare le condizioni di vita delle persone sottoposte alla pena detentiva, sostenendo attività socio educative, di socializzazione, per l’inserimento lavorativo. Sono gli obiettivi del programma che il Comune, assessorato alle Politiche sociali, ha messo a punto in accordo con la direzione della Casa circondariale di Ravenna e Uepe (Ufficio delle esecuzioni penali esterne), insieme con associazioni, cooperative sociali, società sportive e altri enti che hanno presentato progetti di diversa tipologia, dal teatro allo sport, dalla cultura alla gastronomia. La giunta ha approvato il programma presentato in municipio dall’assessora alle Politiche sociali, Valentina Morigi, da Carmela De Lorenzo, direttrice della Casa circondariale di Ravenna, e da Maria Paola Schiaffelli, direttrice Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe). Le risorse derivano dal fondo regionale che viene ripartito fra i comuni sede di carcere, tenendo conto di diversi indicatori: per il 2017 sono stati assegnati circa 30mila euro a Ravenna. Il Comune partecipa con una quota di cofinanziamento relativa al costo di un dipendente con il ruolo di educatore per lo sportello informativo e per la gestione delle dimissioni con l’obiettivo di valutare il percorso più opportuno di rinserimento. "Non è sufficiente la collocazione in centro storico per mettere le politiche del carcere al centro della città - ha spiegato l’assessora alle Politiche sociali Valentina Morigi -. C’è bisogno di un proficuo coordinamento con la direzione carceraria, come da alcuni anni sta avvenendo, di rendere partecipe la città della progettualità dei percorsi e di restituire i risultati, che nel tempo hanno dato riscontri positivi di rinserimento. Il nostro valore aggiunto è proprio la capacità di fare rete tutti insieme - direzione del carcere, amministrazione comunale, associazionismo diffuso, città - perché i progetti abbiano una valenza per le persone detenute che vada oltre il periodo di reclusione e perché possano essere utili per la loro vita una volta fuori dal carcere". Roma: seminario di formazione per i nuovi cappellani del carcere agensir.it, 27 giugno 2017 Dal 26 al 28 giugno si tiene a Roma, presso la Direzione generale della formazione di via Giuseppe Barellai n° 135, il seminario di formazione dei nuovi cappellani delle carceri, organizzato da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, unitamente con la Direzione generale del personale e delle risorse del Dap e la Direzione generale della formazione. "In questa occasione - spiega don Grimaldi - sono stati convocati a Roma i sacerdoti, inviati in carcere dai loro vescovi come cappellani incaricati o volontari, dal 1° gennaio 2016 ad oggi". Il primo giorno, lunedì 26 giugno, dopo l’accoglienza indirizzata ai sacerdoti da Riccardo Turrini Vita, direttore generale della formazione del Dap, mons. Simon Ntamwana, arcivescovo di Gitega (Burundi), terrà un momento di preghiera seguito da una riflessione di don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana. Martedì 27, sono previste le riflessioni del sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, di Gemma Tuccillo, capo dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, e di direttore generale del personale e delle risorse del Dap, Pietro Buffa. La giornata si chiuderà con la celebrazione eucaristica presieduta da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Infine, mercoledì 28 giugno, dopo il momento di preghiera guidato dall’ordinario militare, mons. Santo Marcianò, seguiranno le conclusioni e, in ultimo, il saluto di Santi Consolo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Foggia: nel carcere atto finale per "Sportiva… mente", tra calcio e solidarietà immediato.net, 27 giugno 2017 Atto conclusivo, il prossimo 29 giugno, per "Sportiva… mente", il torneo di calcio e integrazione organizzato presso la Casa Circondariale di Foggia dal docente del Cpia 1 e assistente volontario Luigi Talienti. "Ormai organizziamo il torneo da qualche anno e l’adesione dei detenuti è sempre alta e ricca di entusiasmo. Nel corso delle settimane si sono sfidate numerose squadre e per tale sforzo organizzativo voglio ringraziare la Direzione della Casa Circondariale di Foggia, l’Area Trattamentale, gli agenti di Polizia Penitenziaria e tutti i volontari operanti all’interno dell’Istituto di Pena, con un occhio particolare al Csv Foggia, che spesso li e ci accompagna nella promozione delle attività. Un plauso va all’Acsi di Foggia e al suo Presidente, Giuseppe Chiappinelli per lo spirito di abnegazione nel mettere a disposizione l’intero comparto arbitrale. Attraverso lo sport - sottolinea Talienti - si affermano i valori fondanti del senso civico, del rispetto del prossimo e del valore della regola. Tali iniziative sono pensate con l’obiettivo di dare un’opportunità di inclusione alla popolazione detenuta, che deve essere considerata parte integrante della comunità civile: solo così si concede una effettiva seconda possibilità ai ristretti e alle loro famiglie che, indirettamente, espiano una pena dura, quella determinata dalla lontananza dai propri cari. Attraverso lo sport si affermano i valori della solidarietà umana e della risocializzazione, nel rispetto del principio normativo statuito dall’art. 27 della Costituzione. Lo sport ha una innata ed incontrovertibile forza integrativa, utile ad attivare concretamente percorsi riabilitativi e risocializzanti per i soggetti reclusi". Alla realizzazione del torneo hanno contribuito anche il Cpia 1 Foggia, il Consiglio dell’Ordine forense di Foggia, il cappellano Frà Eduardo Giglia, la squadra dei ragazzi di Via Marinaccio, gli assistenti volontari dell’Istituto Penitenziario e gli storici volontari dell’Ass. Genoveffa de Troia. "Il carcere di Foggia - sottolinea il Presidente del Csv Foggia, Aldo Bruno - è sempre molto attento e disponibile con il mondo del volontariato. Queste occasioni, così come le attività culturali e le presentazioni di libri in carcere, possono creare un collegamento fra l’Istituto Penitenziario e la città. Il volontariato penitenziario vuole essere quel filo che accompagna il reinserimento della persona dalla reclusione alla libertà, un ponte solidale tra le due città, quella libera e quella imprigionata che il mondo dell’associazionismo, da qualche anno, sta costruendo con grande generosità, un mattone dopo l’altro". "Sportiva... mente 2017" ha visto anche la partecipazione del Foggia Calcio, che il 29 maggio scorso ha festeggiato in carcere la promozione in serie B e, in alcune occasioni, il coinvolgimento delle famiglie delle persone ristrette. "A dicembre e marzo scorso - conclude Talienti - i detenuti con e senza figli sono scesi in campo, per giocare e sorridere oltre le barriere fisiche ed emotive. Abbiamo pensato a queste importanti occasioni per dare voce e visibilità ai bambini che hanno un genitore recluso, per sensibilizzare istituzioni, sistema carcerario, media e opinione pubblica affinché non vengano emarginati solo perché figli di detenuti. Sugli spalti, a tifare per i propri papà, mariti e figli, c’erano le famiglie". Intanto, i volontari sono già all’opera per organizzare un nuovo torneo per l’autunno. Milano: al via "Prova a sollevarti dal suolo", festival di Teatro Carcere chiesadimilano.it, 27 giugno 2017 Partita la sesta edizione del Festival di Teatro Carcere, a cura dell’Associazione Opera Liquida che lavora all’interno del carcere di Opera. L’iniziativa si articolerà in diversi momenti fino a novembre 2017, dividendosi tra il Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera e lo spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Punta dell’est. L’Associazione Opera Liquida del carcere di Opera, propone la sesta edizione del Festival di Teatro Carcere. "Prova a sollevarti dal suolo" si svolgerà dal 24 giugno e si articolerà in diversi momenti fino a novembre 2017, dividendosi tra "il Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera e lo spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Punta dell’est", dove per l’occasione è stata inaugurata la Biblioteca Liquida, per un servizio di prestito di libri e Dvd ai fruitori del Parco. Ad aprire il Festival una raffinata fiaba per adulti e bambini, "Il lupo e i sette capretti", de La Casa delle storie, per le famiglie dei detenuti dell’Associazione Bambinisenzasbarre. La stagione estiva in Idroscalo riprende l’indagine sull’universo femminile con "Nonostante voi. Storie di donne coraggio", lo spettacolo reportage di Livia Grossi e prosegue con il nostro "Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama" che vedrà in scena la compagnia di detenuti ed ex detenuti, residente. A settembre la compagnia e.s.t.i.a. del carcere di Bollate porta in scena una drammaturgia collettiva che indaga il bullismo, la fragilità umana e le sue trasformazioni. Anche "La mula", di Rossella Raimondi, ci è parsa un’indagine profonda, ironica, tutta al femminile, di un universo che è molto presente, seppur taciuto, quello delle donne madri sacrificanti e sacrificabili. In quell’amplificatore emotivo che è il teatro del carcere, il festival prosegue all’insegna delle risate, per pensare, condividere un momento culturale, affrontare temi e miserie umane, insieme alla popolazione detenuta, nella leggerezza dell’ironico sentire. Allora ecco il Recital di Ale e Franz, David Anzalone con il suo "Targato H", il Recital di Max Pisu e la chiusura dell’esilarante regia di Rita Pelusio con "L’ultima cena - 3 Chefs Trio Comedy Clown". Opera Liquida, che incontra ogni giorno gli uomini reclusi nel carcere di Opera, con i quali lavora anche presso lo spazio in Idroscalo e agisce, attraverso la prassi teatrale, in assenza di giudizio, vuole con questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’essere umano, anche se ristretto o in fase di reinserimento. In allegato il programma completo del Festival. Migranti. Chi ha paura della concessione di cittadinanza? di Daniele Archibugi Il Manifesto, 27 giugno 2017 La cartina di tornasole delle paure recondite di una nazione è la concessione della cittadinanza. Le società bloccate fanno di tutto per limitare l’accesso dei nuovi membri e ritengono che i cittadini debbano essere tali perché i loro antenati lo sono stati nel passato. È quello che i giuristi chiamano lo ius sanguinis: solo quelli che discendono direttamente dai nativi possono essere ammessi alla comunità. È una idea di cittadinanza tutta rivolta all’indietro e che ben poco si preoccupa del futuro. Non sorprende, dunque, che tra gli stati più restrittivi in tema di cittadinanza ci siano quelli che hanno da distribuire delle rendite: nei paesi produttori di petrolio, il governo si guarda bene dall’estendere la cittadinanza agli immigrati perché questi potrebbero rivendicare una quota della rendita petrolifera, che in alcuni paesi arriva a 100 mila dollari pro-capite. Più si aumentano i cittadini e più la rendita si riduce. Perché mai "regalarla" agli stranieri che non hanno avuto la fortuna di nascere sopra un pozzo di petrolio? Se, invece, si aumentano solo i residenti, questi saranno mal pagati e sfruttati. E così, in Kuwait solo un residente su tre è cittadino, e in Qatar i cittadini sono addirittura meno del 15 per cento dei residenti. A questa concezione della cittadinanza, se ne oppone un’altra e che guarda al futuro piuttosto che al passato: i cittadini sono quanti vogliono costruire l’avvenire del paese. "Noi, popolo degli Stati Uniti", intona la Costituzione americana, e quel popolo è composto da chi rispecchia i valori di libertà, addirittura di ricerca della felicità. Basta essere nati lì per essere cittadini americani e nessuno, neppure Donald Trump, ha mai pensato che si possa modificare tale criterio, tanto esso è parte integrante della storia, cultura e valori americani. L’idea implicita è che le rendite debbano basse e che chiunque possa contribuire ad aumentare il benessere, grazie al proprio merito piuttosto che alle condizioni di partenza. Né sorprende che, anche oggi, gli Stati Uniti abbiano un sistema assai aperto per dare la cittadinanza, tramite naturalizzazione, ai residenti nati altrove. Ne hanno diritto quelli di "buon carattere morale", ossia chi contribuisce alla fortuna del paese lavorando, pagando le tasse, e generando con il proprio talento idee e beni per tutti. Non è forse questa l’essenza del sogno americano? È dunque sorprendente che una norma così ovvia e innocua come lo ius soli generi tanti timori e reazioni addirittura violente in persone altrimenti moderate. È, purtroppo, la testimonianza che le opportunità in Italia sono in diminuzione e che si vogliano trincerare le poche rimaste per chi non sa costruirsele. In Italia non abbiamo da distribuire neppure i proventi del petrolio, ma molti, troppi, vogliono conservare per i figli degli italiani le ultime rendite di posizione rimaste. Un tentativo quasi disperato di mantenere il privilegio di chi è pessimista sulla possibilità di creare nuove risorse per tutti. Gli argomenti razionali che giustificano la cittadinanza a chi nasce in Italia sono ignorati: non basta ricordare che la popolazione italiana sta terribilmente invecchiando ed è in diminuzione se non ci fossero gli immigrati di rinforzo. Che una parte crescente degli imprenditori, la componente più dinamica di qualsiasi sistema economico e sociale, è oramai straniera. Tutti argomenti che non scalfiscono le convinzioni di chi ha paura e si aggrappa a una idea anacronistica di cittadinanza. Perché gli immigrati e i loro figli sono qui: nelle nostre scuole, nei posti di lavoro, per le strade. Già beneficiano, per fortuna, di tutti i diritti connessi alla residenza, a cominciare da educazione e sanità. C’è però chi vuole mantenere un esercito di riserva, e anche se non possono loro negare diritti civili e sociali (anche perché gli immigrati se li pagano con le tasse), occorre impedirgli di avere diritti politici. Ci siano italiani che preferiscono portarsi nella tomba le loro piccole dispense piuttosto che dare ad altri una speranza. E, purtroppo, siamo tutti costretti, italiani di sangue e nati in Italia, a costruire insieme a costoro il nostro futuro. Migranti. L’Europa e lo strabismo di Massimo Riva La Repubblica, 27 giugno 2017 Ultimo vertice dell’Unione è stato come un’esibizione di "paso doble": con un gran bel passo in avanti in tema di difesa e sicurezza, ma anche con uno meno riuscito a lato sul nodo dei migranti, che dice quanto sia ancora lunga la strada per superare gli egoismi nazionali. Il merito principale della novità positiva va al neopresidente francese che ha ottenuto di arrivare in breve termine all’avvio, fra i Paesi che vorranno aderirvi, di una struttura permanente di cooperazione nella politica militare e di intelligence. Tanto che in parallelo si è deciso di costituire un Fondo specifico per aiutare lo sviluppo dell’industria europea della difesa. Si tratta di un importante salto di qualità nella strategia continentale che costituisce la migliore risposta ai nuovi scenari geopolitici innescati dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Insomma, l’Europa c’è ed è pronta a raccogliere la sfida di badare alla sicurezza dei suoi confini con risorse proprie. Se si pensa che nel primo dopoguerra fu proprio la Francia a far fallire il progetto di una Comunità europea della difesa, la novità potrebbe acquistare il significato di una svolta storica. Anche perché, dopo l’addio di Londra, il governo di Parigi è l’unico a poter portare in dote alla politica europea nel mondo due atout fondamentali: il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e l’arma nucleare. È chiaro che Emmanuel Macron terrà gelosamente nelle sue mani questi poteri, ma è un fatto che avere l’Eliseo dalla propria parte sarà utile per tutti gli europei. A Berlino lo hanno afferrato al volo e, infatti, Angela Merkel ha affiancato con entusiasmo l’iniziativa francese. Effetto collaterale di questa scelta sarà così anche un consolidamento della diarchia franco-tedesca sul destino dell’Unione. Passaggio ineluttabile perché - piaccia o no - l’Europa si farà osi disferà sulle rive del Reno. Dove, invece, l’esito del vertice di Bruxelles è risultato evasivo è su un altro dossier oggi di grande peso, soprattutto per il nostro Paese: le migrazioni di massa. Qui si è realizzata una versione stravagante dell’Europa a due velocità: lungimirante nella prospettiva a lungo termine, ma del tutto miope nel breve. Da un lato, infatti, è stata pienamente condivisa la visione proposta dall’Italia secondo cui il fenomeno va aggredito alle radici con robusti piani d’investimento in Africa per crearvi le condizioni economiche utili a contenere la spinta disperata all’esodo di milioni di persone. Ma dall’altro lato - quello dell’emergenza pressante - il ritrovato spirito europeo si è come dissolto. Pacche sulle spalle al nostro premier Gentiloni da parte di Jean-Claude Junker, enfatiche ammissioni di non aver fatto nulla per aiutare l’Italia da parte di Macron e Merkel, ma niente più che bei gesti e belle parole. Sarà che da Bruxelles è partita (finalmente!) la messa in mora dei Paesi del Quartetto di Visograd renitenti ad accogliere anche un solo rifugiato, ma si sa che queste procedure d’infrazione richiedono anni per concludersi e che Berlino ha più di un occhio di riguardo per i riottosi dell’Est. Simile strabismo alimenta il dubbio fastidioso che al riguardo il tandem Parigi-Berlino stia nascondendo dietro vasti progetti per il futuro la propria incapacità ad affrontare i nodi spinosi del presente. Droghe. La traversata del deserto di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 27 giugno 2017 Il governo convochi la Conferenza nazionale o questa legislatura sarà un’occasione persa. Un’occasione persa. Questo è stata la XVII legislatura repubblicana in tema di droghe. Nonostante la Corte costituzionale, che su nostra sollecitazione ha giudicato illegittima la legge Fini-Giovanardi. Nonostante l’ampia adesione parlamentare a una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis e un’analoga iniziativa popolare che ha raccolto più di cinquantamila firme di cittadine e cittadini italiani. Nonostante gli impegni presi dal ministro Andrea Orlando all’Assemblea dell’Onu. Nonostante tutto ciò, nonostante autorevoli prese di posizione della magistratura e della cultura, e nonostante le continue sollecitazioni internazionali a un cambio di rotta, dagli Stati uniti al Canada, in questi quattro anni, in Italia, la politica sulle droghe non è cambiata. Il massimo sforzo di innovazione, paradossalmente affidato alla giurisprudenza costituzionale, è stato assorbito con qualche ritocco alla vecchia legge Iervolino-Vassalli, cui si deve l’impianto punitivo della normativa vigente. La partita riprenderà nella prossima legislatura, sotto la pressione di un nuovo incremento della popolazione detenuta, in gran parte determinato - ancora una volta - dalla criminalizzazione dei consumatori e della detenzione di sostanze stupefacenti, come in questo libro bianco dimostriamo. Sì, perché il carcere che ritorna è il solito carcere alimentato dalla legge sulla droga e affollato di persone che pagano lo scotto dell’uso di droghe. Ci rivolgeremo a tutte le forze politiche affinché abbiano il coraggio in campagna elettorale di prendere impegni per la legalizzazione della cannabis e contro la criminalizzazione dei consumatori di sostanze stupefacenti e finalmente per una politica di riduzione del danno fondata sulla soggettività dei consumatori. E riporteremo in Parlamento le nostre proposte per la depenalizzazione della detenzione di droghe e la regolamentazione legale della vendita e della coltivazione della cannabis. Intanto, però, bisogna mettere a frutto questi mesi che ci separano dalla fine della legislatura, per esempio acquisendo tutte le informazioni necessarie sul funzionamento della legislazione. Noi, come sempre, facciamo la nostra parte con il Libro bianco, ma il governo non se la può cavare con una Relazione annuale finalmente presentata in termini accettabili. No, al governo spetta la responsabilità di convocare la Conferenza nazionale prevista dall’articolo 1, comma 15, del testo unico sulle sostanze stupefacenti. Secondo la legge, la Conferenza nazionale deve essere convocata ogni tre anni dal presidente del consiglio "anche al fine dì individuare eventuali correzioni alla legislazione" dettate dall’esperienza applicativa. A otto anni dalla sua ultima maldestra messa in scena a Trieste ad opera della strana coppia Giovanardi-Serpelloni, a diciassette anni dall’ultima Conferenza nazionale degna di questo nome - nella Genova di don Gallo, nell’autunno del 2000 - non è arrivato il momento di tornare a discutere e definire linee di intervento per la prossima legislatura? Perché la domanda non suoni retorica, la Società della Ragione, Forum Droghe e l’associazione Luca Coscioni hanno promosso una diffida formale alla Presidenza del consiglio per una messa in mora e per una spinta ad adempiere a un dovere. Droghe. Nell’VIII Libro bianco il quadro delle folli politiche italiane contro le sostanze di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2017 È stato presentato oggi alla Camera dei Deputati l’ottavo Libro bianco sulle droghe - il precedente è scaricabile dal sito Fuoriluogo.it - promosso dalla Onlus La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cnca e Associazione Luca Coscioni e con l’adesione di Cgil, Comunità di San Benedetto al Porto, Gruppo Abele, Itaca, Itardd, Lega Coop Sociali, Lila. All’inizio del 2014 la Corte Costituzionale ha fatto cadere la legge cosiddetta Fini-Giovanardi sulle sostanze stupefacenti, di impianto estremamente repressivo e da noi criticata fin dalla sua entrata in vigore nel febbraio del 2006. Seppure la Consulta basò la sua decisione su vizi procedurali che avevano accompagnato l’approvazione della legge, la sentenza avrebbe potuto costituire una buona occasione di discussione e confronto pubblico su un tema rispetto al quale l’intero pianeta si va oggi interrogando. È chiaro a tutti, infatti, che la war on drugs lanciata dal presidente americano Richard Nixon nel 1971 ha mietuto vittime per quasi mezzo secolo, mentre mostrava al mondo il proprio fallimento. Invece no. Invece niente altro è accaduto se non il parziale ritorno in vigore della normativa precedente, il Testo unico Jervolino-Vassalli che condivide l’impianto repressivo nel trattamento delle tossicodipendenze. Gli Stati Uniti d’America stanno cambiando passo su questi temi. Nel novembre dello scorso anno per via referendaria ben otto Stati hanno legalizzato possesso e uso della marijuana - quattro di essi anche per scopi ricreativi e non solo terapeutici - unendosi così a Colorado, Oregon, Washington, Alaska e Washington D.C. che già erano andati nella stessa direzione. La California è un colosso dove adesso la cosiddetta "droga leggera" è consentita a uso ricreativo. In Italia, invece, la proposta di legge dell’intergruppo parlamentare per la cannabis legale è a un binario morto. La bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta è stata un’occasione persa. E le conseguenze si vedono. Eccome. Nel Libro Bianco leggiamo che alla fine del 2016 il 32,52% del totale della popolazione reclusa era in carcere con accuse o condanne legate all’art. 73 del Testo unico sulle droghe, che punisce produzione, traffico e detenzione. Se aggiungiamo la percentuale di coloro che sono reclusi per violazione dell’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), scopriamo che il 43,26% dei detenuti in Italia è in carcere per violazione della legge sulle sostanze stupefacenti, una percentuale nuovamente in crescita. A farla crescere non è tuttavia la repressione dei grandi consorzi criminali bensì l’incarcerazione di massa dei "pesci piccoli" della tossicodipendenza. Sempre al 31 dicembre del 2016, il 25,9% del totale dei detenuti aveva una dipendenza da sostanze. Nel corso dell’anno si è toccato il massimo numero di ingressi di tossicodipendenti in carcere degli ultimi 12 anni, ben il 33,95% del totale delle persone che hanno varcato i cancelli della galera. Se diamo uno sguardo adesso alle segnalazioni e alle sanzioni amministrative per il consumo di droghe, vediamo che, dopo il calo del 2015, tornano ad aumentare le persone segnalate al prefetto: da 27.718 a 32.687 (+17,92%), che diventa un impressionante +237,15% se consideriamo le sole segnalazioni dei minorenni. "Si conferma marginale - scrivono gli autori del Libro Bianco - il peso della vocazione "terapeutica" della segnalazione al Prefetto: solo 122 persone vengono sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; 9 anni prima erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 40,25% dei segnalati. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria". Quali sono le sostanze più colpite dalla repressione? Di gran lunga i cannabinoidi (per il 78,98%), cui segue a grande distanza la cocaina (13,68%) e, ancora con un certo distacco, l’eroina (5,35%). Dal 1990 a oggi sono state ben 1.164.158 le persone segnalate per possesso di droghe a uso personale e nel 72,57% dei casi si trattava di derivati della cannabis. Per quanto riguarda la guida in stato di alterazione, i dati della Polizia Stradale ci dicono che nel 2015 solo lo 0,39% dei conducenti coinvolti in tutti gli incidenti stradali era positivo ai test antidroga. Il nuovo protocollo operativo attivo dal 2015 prevede l’effettuazione di test di screening sulla saliva direttamente su strada. Con questa procedura nel 2016 si è rilevato che su 17.565 controlli l’1,22% dei conducenti fermati era positivo ad almeno una sostanza stupefacente (era l’1,42% nel 2015, su 14.767 conducenti fermati). Va detto che nel 2016 oltre il 30% dei conducenti positivi al test salivare è stato in seguito scagionato da ulteriori analisi di laboratorio (nel 2015 i falsi positivi furono il 21%). Infine, uno sguardo ai costi delle nostre scelte in tema di droghe. L’economista Marco Rossi dell’Università La Sapienza di Roma nel suo saggio contenuto nel Libro Bianco sviluppa la previsione di risparmio che si avrebbe assumendo per la cannabis una regolamentazione e una tassazione simili a quelle del tabacco. Rossi stima in circa 4 miliardi di euro il risparmio che si avrebbe da imposte sulle vendite, imposte sul reddito e diminuzione della spesa pubblica per la sicurezza. Molti altri i temi trattati in questa ottava edizione del Libro Bianco sulle droghe - da una comparazione su base europea al sistema dei servizi ai dati sul consumo di cannabis tra i giovani a molto altro ancora - che ci fornisce ancora una volta un quadro esaustivo della follia delle politiche italiane sulle tossicodipendenze. I soldi che si risparmierebbero con un’inversione di marcia si potrebbero reinvestire in politiche di riduzione del danno, inclusione sociale, sostegno alle famiglie. Perseverare nell’utilizzo del solo strumento penale per trattare un tema complesso come quello delle droghe continuerà a fare del male ai nostri ragazzi in nome di un approccio ideologico che nulla ha a che vedere con la soluzione dei problemi e con i dati di realtà. La guerra alla droga è idiota, drammatica e criminale come ogni guerra. Droghe. Il proibizionismo aumenta la criminalità di Edoardo Izzo La Stampa, 27 giugno 2017 L’Associazione Luca Coscioni presenta alla Camera dei deputati i contenuti del Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi - Dati, politiche e commenti sui danni collaterali del Testo Unico sulle droghe. Nel 2016 hanno ripreso ad aumentare le carcerazioni connesse a spaccio di droga, ed infatti in Italia il 43,26% dei detenuti (17.733 al 31 dicembre, tra cui 14.157 tossicodipendenti) lo è per violazione dell’art. 73 del Testo unico sulle droghe. Si tratta del 32,52% del totale, cioè un detenuto su tre è imputato o condannato sulla base di quell’articolo. A essi si aggiungono 5.868 ristretti per art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), il 10,74% del totale, in calo rispetto al 2015. Ma mentre i "pesci piccoli" tornano ad aumentare, i consorzi criminali continuano a restare fuori dai radar della repressione penale. I dati sono contenuti nel "Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi - Dati, politiche e commenti sui danni collaterali del Testo Unico sulle droghe", promosso dal Cartello di Genova e presentato dall’Associazione Luca Coscioni alla Camera dei deputati, in occasione della giornata internazionale contro il narco-traffico. Secondo il Rapporto Mondiale sulle droghe delle Nazioni unite (World Drug Report) oltre 250 milioni di persone hanno usato sostanze stupefacenti nel mondo nel 2016. Di questi 29.5 milioni, lo 0,6% della popolazione adulta mondiale ha avuto un problema di salute, compresa la dipendenza, con le sostanze scadenti controllate dal mercato illegale. La repressione e il proibizionismo - affermano i promotori del Libro bianco - hanno dunque fallito, nel mondo come in Italia, dove alla sentenza della Corte costituzionale del 2014, che ha cancellato gli aggravamenti imposti dalla cosiddetta ‘Regge Fini-Giovanardì (che equiparava le droghe pesanti a quelle leggere) non hanno fatto seguito ulteriori modifiche dell’impianto repressivo e sanzionatorio che ispira l’intero Testo Unico sulle sostanze stupefacenti noto come Jervolino-Vassalli. Libro Bianco sulla legge "Fini-Giovanardi". Un detenuto su due dentro per droghe Corriere della Sera, 27 giugno 2017 L’associazione Coscioni ha presentato il Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi. "La repressione alimenta il fenomeno. La riforma sulla legge è indispensabile". Sono oltre 250 milioni le persone che nel mondo hanno assunto droghe. E di questi quasi 30 milioni (0,6% della popolazione mondiale adulta ha avuto problemi di saluti, con le sostanze scadenti controllate dal mercato illegale. Sono i numeri forniti nel Rapporto Mondiale sulle droghe delle Nazioni unite (World Drug Report) che fanno dire agli autori del Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi - Dati, politiche e commenti sui danni collaterali del Testo Unico sulle droghe, che la "repressione e il proibizionismo hanno fallito, nel mondo come in Italia". Il documento promosso dal Cartello di Genova è stato presentato questa mattina insieme ad Associazione Luca Coscioni alla Camera dei Deputati. in occasione della giornata internazionale contro il narco-traffico. "l Libro offre dati che confermano la urgente necessità di rilanciare una riforma complessiva della legislazione in materia di sostanze stupefacenti e di ripensamento generale delle politiche che ne derivano" -ha affermato Filomena Gallo, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni. Restano enormi le implicazioni penali e di salute pubblica". I numeri del Libro - Nel 2016 sono aumentate le presenze in carcere, dopo alcuni anni di diminuzione ed è tornata ad aumentare la percentuale di detenuti per violazione della legislazione sulle droghe. Quasi il 50 per cento (il 43,26%) dei carcerati in Italia è dentro per violazione della legge sulle droghe. 17.733 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2016 lo erano a causa dell’art. 73 del Testo unico che punisce la produzione, il traffico e la detenzione di droghe illecite. Si tratta del 32,52% del totale: un detenuto su tre è imputato/condannato sulla base di quell’articolo della legislazione sulle droghe. A questi si aggiungono 5.868 ristretti per art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), il 10,74% del totale, in calo rispetto al 2015. Ma mentre i "pesci piccoli" tornano ad aumentare, i consorzi criminali continuano a restare fuori dai radar della repressione penale. Inoltre 14.157 dei 54.653 detenuti al 31 dicembre 2016 sono tossicodipendenti. Il 25,9% del totale, in costante aumento da alcuni anni. Segnalazioni e sanzioni amministrative - Dopo il vistoso calo del 2015 tornano ad aumentare le persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: da 27.718 a 32.687 (+17,92%) con una impennata delle segnalazioni dei minori (+237,15%). Aumenta sensibilmente anche il numero delle segnalazioni (da 32.478 a 36.795, +13,29%). Si conferma marginale il peso della vocazione "terapeutica" della segnalazione al Prefetto: solo 122 persone vengono sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; 9 anni prima erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 40,25% dei segnalati. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria. La repressione colpisce per quasi l’80% i consumatori di cannabinoidi (78,98%), seguono a distanza cocaina (13,68%) e eroina (5,35%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 1.164.158 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste il 72,57% per derivati della cannabis. Misure alternative - Nonostante un leggero aumento delle misure alternative alla detenzione in corso, e nonostante il pur lieve aumento, nel loro ambito, degli affidamenti in prova al servizio sociale, gli affidamenti terapeutici per dipendenti da sostanze, sono leggermente diminuiti al termine del 2016, e costituiscono il 23,35% del totale degli affidamenti e il 12,77% delle misure alternative in corso alla fine dell’anno. Violazione al Codice della Strada - Violazioni dell’art. 187 del codice della strada Sono significativi i dati rispetto alle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. I dati interamente disponibili della Polizia Stradale (2015) indicano che solo lo 0,39% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali risulta positivo ai test antidroga. Nel 2016 solo lo 0,83% delle persone controllate a seguito di incidente stradale risultava positivo ai test, non si conoscono i dati relativi al totale degli incidenti per comparare la percentuale con il 2015. Rispetto al nuovo protocollo operativo della polizia stradale attivo dal 2015 - che prevede l’effettuazione di test di screening sulla saliva direttamente su strada - si è rilevato come nel 2016 su 17.565 controlli l’1,22% dei conducenti fermati è risultato positivo ad almeno una sostanza stupefacente, in calo rispetto all’1,42% della campagna 2015 (su 14.767 conducenti fermati). Da notare come nel 2016 oltre il 30% dei conducenti risultato positivo al test salivare sia poi stato "scagionato" dalle ulteriori analisi di laboratorio (nel 2015 i falsi positivi furono il 21%). Contento (Antidroga): "vigilanza incrociata di famiglia e comunità" - La presenza di tossicodipendenti nelle carceri italiane è massiccia e a preoccupare è la dipendenza dei giovani dalle nuove sostanze. "Il disagio giovanile è crescente", ha detto Maria Contento, capo del dipartimento Politiche antidroga, durante un seminario organizzato oggi a Roma da Focsiv. "Le nuove sostanze - ha aggiunto - i giovani le acquistano sui siti, cambiano continuamente ed è difficile anche per i genitori vigilare. Serve una vigilanza incrociata da parte di famiglia e comunità ecclesiastica. Credo molto nel ruolo della famiglia, della Chiesa come comunità per supportare i genitori". Marina Ceccarelli, della Comunità di Sant’Egidio, ha portato la testimonianza dell’opera dei volontari nelle case circondariali: "A Roma e nel Lazio il problema oggi è la collaborazione con la magistratura di sorveglianza che non c’è. È difficile entrare nelle carceri". "Credo che le possibilità ci sono - ha sostenuto -. È vero che non ci sono i soldi ma è anche vero che in passato con la cassa delle ammende si sono fatti dei progetti, perché non recuperarla?. Un aiuto grande va dato alle famiglie, quando sanno che il caro torna a casa non sanno come aiutarlo e dargli da mangiare. È chiaro - ha concluso - che se non si dà una mano quello che era un ex detenuto delinque di nuovo e torna in carcere". Droghe. Boom dei minori segnalati ai prefetti lettera43.it, 27 giugno 2017 L’ottava edizione del Libro Bianco sugli stupefacenti documenta una crescita del 237%. Il 43,2% dei detenuti è in cella per reati connessi. E il 25,9% è tossicodipendente. "La repressione e il proibizionismo hanno fallito". Tanto che, dopo alcuni anni di calo, sono tornati ad aumentare i detenuti per reati legati agli stupefacenti. L’ottava edizione del Libro Bianco sulle droghe, curato dalla Onlus "La società della ragione" insieme a Forum droghe, Antigone, Cnca e associazione Luca Coscioni, mette in fila i numeri più significativi relativi al 2016. Chiarendo che l’impatto complessivo sui conti pubblici di un’eventuale legalizzazione della cannabis sarebbe di circa 4 miliardi di euro. Lo studio documenta il vero e proprio boom delle segnalazioni che riguardano il consumo di sostanze illecite da parte dei minori, +237% nell’arco dell’ultimo anno, mentre il numero totale delle persone segnalate ai prefetti è passato da 27.718 a 32.687 (+17,92%). Con quali risultati? Secondo i curatori del Libro Bianco, "si conferma marginale il peso della vocazione terapeutica della segnalazione al prefetto: solo 122 persone vengono sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; nove anni prima erano 3.008. Le sanzioni amministrative riguardano invece il 40,25% dei segnalati. La segnalazione al prefetto dei consumatori di sostanze stupefacenti ha quindi natura principalmente sanzionatoria". Cannabis, cocaina ed eroina. La repressione colpisce per quasi l’80% i consumatori di cannabinoidi (78,98%), seguono i consumatori di cocaina (13,68%) ed eroina (5,35%). Dal 1990, 1.164.158 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale. Di queste il 72,57% per derivati della cannabis. Gli affidamenti in prova ai servizi sociali e gli affidamenti terapeutici per curare situazioni di dipendenza sono leggermente diminuiti al termine del 2016. Rappresentano il 23,35% del totale degli affidamenti e il 12,77% delle misure alternative in corso alla fine dell’anno. Le piaghe della popolazione carceraria. Per quanto riguarda la popolazione carceraria, il 43,2% dei detenuti in Italia è in cella per violazione della legge sulle droghe. Produzione, traffico e detenzione di droghe illecite pesano per il 32,5% del totale. A questi si aggiungono i detenuti per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, pari al 10,7% del totale, in calo rispetto al 2015. Il 25,9% della popolazione carceraria, inoltre, è tossicodipendente. Si tratta di 14.157 persone su 54.653, e le cifre sono in aumento. Stati Uniti. Muslim ban, prima vittoria per Trump: Corte suprema dà parziale via libera di Federico Rampini La Repubblica, 27 giugno 2017 In attesa di pronunciarsi definitivamente a ottobre, la Corte suprema lo ha reso valido "per gli stranieri che non hanno relazioni con persone o entità negli Stati Uniti". Dopo tante batoste incassate da tribunali di grado inferiore, Donald Trump incassa la sua prima vittoria sul controverso decreto sigilla-frontiere, quello che vietava l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da sette (poi sei) paesi a maggioranza musulmana (nonché, in una delle versioni di quell’ordine esecutivo, perfino ai detentori di Green Card). Vittoria parziale ma significativa, è uno dei primi risultati del nuovo rapporto di forze a favore della destra nella Corte suprema, creato dallo stesso Trump con la nomina del giudice Gorsuch. L’organo costituzionale con la decisione di oggi consente l’entrata in vigore temporanea di una parte di quell’ordine esecutivo, in attesa di pronunciarsi in maniera definitiva sull’intera materia. Finora il decreto sigilla-frontiere, pur riscritto per ben tre volte, era inoperante perché diversi tribunali lo avevano bloccato giudicandolo incostituzionale in quanto discriminerebbe in base alla religione. Nella sua decisione di oggi la Corte suprema lo rende operativo almeno "per quegli stranieri che non hanno relazioni con persone o entità negli Stati Uniti", una formulazione che sembra escluderne coloro che hanno familiari o un visto di lavoro qui. "Una chiara vittoria per la nostra sicurezza nazionale - ha esultato Donald Trump - Come presidente non posso far entrare nel nostro Paese persone che vogliono farci del male. Voglio persone che possano amare gli Stati Uniti ed i suoi cittadini, che lavorino sodo e siano produttivi". L’ordine esecutivo sui divieti d’ingresso fu uno dei primi atti del presidente appena insediato alla Casa Bianca e nei primi giorni della sua applicazione creò un caos negli aeroporti. La Corte per adesso non si è pronunciata sulla questione della discriminazione religiosa. I paesi che sono presi di mira: Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Cisgiordania. Quel muro altissimo e il check-point simbolo di Qalandiya di Mauro Pompili La Repubblica, 27 giugno 2017 Il valico collega la Cisgiordania occidentale e Gerusalemme Est, ed è una strada obbligata per chi deve andare a lavoro, a scuola o all’università, per raggiungere un ospedale o vedere i parenti. Tra le decine di punti di controllo lungo le centinaia di chilometri della barriera, è il più importante che gestisce ogni giorno un terzo di tutti i movimenti dei palestinesi. Sono le 4,30 del mattino, quando arriviamo in vista del check-point di Qalandiya, ma la fila di persone e di mezzi pronti ad attraversare il valico è già molto lunga. "Penso che i giornalisti e i pellegrini che vengono in Terra Santa dovrebbero venire anche qui, passare qualche ora sul lato palestinese del check-point di Qalandiya. Un modo semplice per capire cosa vuol dire vivere nei Territori Occupati". A parlare è Ahmed, che con il suo piccolo banchetto vende frutta alle persone in fila per attraversare il posto di controllo. L’orizzonte è chiuso da un muro altissimo di cemento e acciaio. Dalle torrette blindate, i militari israeliani sorvegliano, pronti a intervenire mentre in basso barriere e recinzioni in metallo bloccano il traffico dei veicoli e dei pedoni. Come negli anni della guerra fredda check-point Charlie a Berlino era diventato il simbolo di quell’altro muro che divideva la città, il check-point di Qalandiya è diventato il simbolo dell’occupazione per le migliaia di palestinesi che lo devono attraversare quotidianamente. Il luogo dove si gestisce un terzo dei movimenti. Il valico collega la Cisgiordania occidentale e Gerusalemme Est, ed è una strada obbligata per chi deve andare a lavoro, a scuola o all’università, per raggiungere un ospedale o vedere i parenti. "Purtroppo il nostro check-point non è famoso come check-point Charlie e il mondo se ne disinteressa". Dice amareggiato Ahmed. Circa 26.000 palestinesi passano attraverso Qalandiya ogni giorno, secondo le autorità israeliane, a piedi, in auto o in autobus. I controlli sono a volte rapidi, ma a volte i palestinesi subiscono lunghi interrogatori per la verifica dei permessi. Tra le decine di punti di controllo lungo le centinaia di chilometri della barriera, Qalandiya è il più importante, gestendo ogni giorno un terzo di tutti i movimenti dei palestinesi dentro e fuori dalla Cisgiordania. Due ore per passare dall’altra parte. Ogni giorno le code si formano sul punto di controllo prima dell’alba. "È come se fossimo in una prigione. Arrivo qua alle 5 del mattino, con l’obiettivo di superare i controlli in meno di un paio d’ore e incontrarmi con il mio capo dall’altro lato alle 7", dice Fadi, un giovane lavoratore che passa da Qalandiya ogni mattina. "Quando i soldati israeliani chiudono il check-point, nessuno può andare o venire. Questo accade spesso, ogni volta che pensano ci sia una minaccia per la loro sicurezza". Un muro che non coincide con la "linea verde". Il punto di controllo ha preso forma nel 2001, quando Israele ha iniziato a costruire una barriera da 700 chilometri di muri e recinzioni in calcestruzzo per separare la Cisgiordania da Gerusalemme e Israele. Solo una parte della barriera segue la "linea verde" che demarca il confine preesistente della guerra del 1967. In molte aree il muro si estende attraverso i villaggi palestinesi, soprattutto intorno a Gerusalemme e nelle aree ricche di fonti d’acqua. Alto 8 metri, in alcuni tratti circondato da fossati, il muro è protetto da reti di filo spinato e torri di controllo poste ogni 300 metri. Lungo il suo tracciato sono state costruite strade di aggiramento riservate ai coloni, una quarantina di valichi agricoli e molti check-point. Una barriera "inumana" anche per la Corte Suprema israeliana. Nel luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha condannato l’illegalità del muro denunciando che: "L’edificazione del muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale". Nel 2005 anche la Corte Suprema israeliana ha giudicato all’unanimità che la parte della barriera di separazione edificata in territorio occupato è illegale. Il muro costituisce inoltre una violazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese definiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, come il diritto alla libertà di movimento, al lavoro, all’accesso ai servizi pubblici. Rappresenta anche una violazione della IV Convenzione di Ginevra (art. 53), per la demolizione di case, la distruzione di terre e proprietà, e perché si delinea come forma di punizione collettiva. Viola poi un numero ben nutrito di trattati, accordi e risoluzioni internazionali, sottoscritte anche da Israele "Se fosse stato un qualunque altro Stato, e non Israele, a costruire questo orrore e a commettere questi soprusi, la comunità internazionale e i governi avrebbero reagito con la stessa colpevole indifferenza?" Chiede Sarah, in fila per raggiungere l’Università di Bir Zeit e sostenere un esame di diritto internazionale Iraq. Nelle carceri duemila bambini-soldato addestrati dall’Isis Tempi, 27 giugno 2017 Lo Stato islamico li ha addestrati a diventare spie, costruttori di bombe e assassini. Servirebbero programmi di riabilitazione, ma ci sono molte difficoltà. Tra le fila dello Stato islamico è schierato anche un nutrito esercito di bambini soldato. L’Economist riporta che l’Isis in Iraq e Siria ha reclutato migliaia di ragazzi, strappandoli dagli orfanotrofi o rapendoli. Altre volte invece sono gli stessi genitori a consegnare i propri figli nelle mani dei jihadisti, perché entusiasti del Califfato o per ottenere in cambio cibo, gas da cucina e uno stipendio mensile di 200 dollari. Alcuni giovanissimi vengono convinti dai compagni di scuola, altri sono sedotti dalla promessa di avventure, denaro o dalla prospettiva del potere. Questi bambini vengono addestrati come spie, imparano a preparare bombe, cucinare per l’esercito o sorvegliare i prigionieri. In casi estremi, sono proprio loro ad uccidere i prigionieri, decapitandoli o usando armi da fuoco. Diversi filmati diffusi dallo Stato islamico lo dimostrano: nel luglio 2015 un video mostrava un ragazzino che decapitava un pilota delle forze aeree siriane; all’inizio del 2016 un bambino britannico di quattro anni, portato in Siria dalla madre, è stato filmato mentre premeva il pulsante per far saltare in aria un’auto con tre prigionieri all’interno; in un altro ancora, dei ragazzi correvano attraverso delle rovine facendo a gara a chi riuscisse ad uccidere più prigionieri. Ci sono poi diverse foto di ragazzini che stringono tra le mani teste mozzate, con accanto i loro padri pieni di orgoglio. Come fa notare l’Economist, non è la "creatività della violenza" la novità (in molte altri parti del mondo i bambini soldato compiono atti atroci), quanto la diligenza nel documentare e diffondere questa violenza. Nella sua propaganda, l’Isis dipinge i bambini come il futuro del Califfato, le risorse che consentiranno la sopravvivenza del gruppo, tant’è che i jihadisti hanno costruito specifiche scuole dove impartire l’ideologia islamista. In realtà, riferisce la rivista inglese, lo Stato islamico sta mandando a morire i suoi bambini soldato in numero sempre più consistente da quando ha cominciato a perdere terreno in Siria e Iraq (a gennaio, per esempio, 51 bambini si sono fatti saltare in aria a Mosul). Anche i servizi di intelligence europei sono preoccupati da questo fenomeno che costituisce una vera e propria minaccia per la sicurezza: i bambini addestrati a costruire bombe e indottrinati nell’odio verso l’Occidente possono più facilmente passare i confini ed eludere i controlli. In Iraq il governo è mal equipaggiato per smobilitare migliaia di bambini soldato, mentre nel caos siriano i "cuccioli del Califfato" costituiscono facili reclute. Il problema, scrive l’Economist, è decidere come fronteggiare questo pericolo. Nelle carceri irachene sono rinchiusi circa 2 mila bambini accusati di avere lavorato per l’Isis, ma questi centri di detenzione non sono attrezzati per riabilitare i giovani radicalizzati, non forniscono un’assistenza specializzata e, stando alle testimonianze, impartiscono torture e abusi. Il risultato è che i ragazzi rischiano di uscire dal carcere ancora più soli e rancorosi nei confronti dello Stato. L’opzione migliore sarebbe dunque quella di introdurre questi bambini in programmi di riabilitazione per insegnare loro un lavoro e reintrodurli nel tessuto sociale. Tuttavia, anche così ci sarebbero diverse difficoltà. Innanzitutto, molti membri della società li disprezzano perché li vedono come assassini che hanno contribuito a distruggere il paese. Molti ragazzi potrebbero rifiutare l’aiuto per paura di essere arrestati dalle forze di sicurezza irachene o uccisi dall’Isis con l’accusa di tradimento. Neanche le famiglie sembrano essere d’aiuto nella transizione di questi bambini alla vita civile, come avvenuto in altri paesi, perché in molti casi sono proprio i genitori a spingere i figli tra le schiere dell’Isis. Anche se cominciano a sorgere scuole nelle aree precedentemente occupate dall’Isis per recuperarli, non è facile trovare insegnanti qualificati in grado di gestire problematiche complesse come la radicalizzazione e il trauma psicologico. Bisogna inoltre considerare l’elevato livello di disoccupazione giovanile, la crisi economica del paese e la diffusa corruzione che renderanno difficile creare nuovi posti di lavoro. Cina. Scarcerato Liu Xiaobo, Nobel per la pace: è malato terminale Avvenire, 27 giugno 2017 L’attivista per i diritti civili è trasferito nell’ospedale di Shenyang. Al dissidente, in carcere dal 2008, è stato diagnosticato un tumore. ll premio Nobel per la pace e dissidente cinese Liu Xiaobo, è stato rilasciato dal carcere per essere sottoposto a trattamento medico per un tumore al fegato ormai in fase terminale diagnosticato lo scorso 23 maggio. La liberazione con la condizionale è stata confermata dal suo avvocato, Shang Baojun. "Dopo l’uscita dal carcere, Liu è stato trasferito nell’ospedale di Shenyang, nella provincia di Liaoning", ha reso noto il suo avvocato. "Le autorità cinesi dovrebbero immediatamente garantire che Lui Xiaobo riceva cure mediche adeguate, e che lui e tutti gli altri che sono detenuti perché hanno esercitato i loro diritti umani siano rilasciato in modo immediato e senza condizioni", aveva dichiarato Amnesty International. Chi è Liu Xiaobo - Attivista per i diritti civili, Liu Xiaobo, 61 anni, è uno scrittore e saggista: quello che ora è il più noto dissidente cinese venne arrestato nel dicembre 2008 dopo aver aderito al movimento per l’avvento della democrazia in Cina. Era il primo firmatario del manifesto di Charta08, cui hanno aderito online 330 intellettuali cinesi, che elencava una serie di riforme necessarie per una trasformazione democratica del Paese. Il 25 dicembre 2009, Liu venne condannato a 11 anni di carcere per "incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato". Nel 2010, Liu ricevette il premio Nobel per la pace "per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina". La premiazione avvenne davanti ad una sedia vuota, trasformatasi immediatamente in un potente simbolo contro la repressione del dissenso in Cina. Subito dopo l’annuncio del premio Nobel, la moglie dell’attivista, Liu Xia, venne posta agli arresti domiciliari nella sua casa di Pechino benché contro la donna non siano mai state spiccate accuse formali. Stati Uniti. "Ear Hustle", il podcast "terapeutico" che dà voce alle storie dei detenuti illibraio.it, 27 giugno 2017 Dalla prigione di San Quintino, in California, arriva il Podcast "Ear Hustle", il progetto che vuole dare voce ai detenuti nelle mura del carcere, realizzato dagli stessi detenuti. Una storia che arriva dalla prigione di San Quintino, in California: Ear Huste è il podcast che viene registrato e prodotto integralmente all’interno del carcere, per dare voce ai detenuti, perché raccontino la propria quotidianità. Come ha raccontato anche Repubblica, l’idea è nata dall’iniziativa dai due detenuti: Earlonne e Antwan con la collaborazione dell’artista Nigel Poor; ogni episodio, prima di poter essere diffuso, deve ottenere l’approvazione delle autorità, ma il podcast non dà l’impressione di essere censurato. Il titolo Ear Hustle è un’espressione dello slang carcerario che designa l’origliare conversazioni private e l’obiettivo del podcast è quello di rappresentare il più fedelmente possibile la realtà quotidiana all’interno del carcere: da Prison Break a Orange is the new Black, non mancano rappresentazioni della vita carceraria, ma sono finzionali, costruite sull’immaginazione di chi sta fuori. Gli stessi detenuti di San Quintino sostengono di non sentirsi rappresentati da queste interpretazioni. "Produciamo storie e racconti di ‘vita quotidianà, vita reale che si svolge però tutta all’interno di quattro mura, tra celle, corridoi e ore d’aria di una delle prigioni più conosciute al mondo", spiega Nigel Poor. Proprio per questa volontà di realismo, alcuni episodi e alcune storie sono particolarmente difficili da accettare e digerire, il che ne fa un progetto ancora più importante. Certo, non è facile essere ascoltati da dietro le sbarre, come spiega l’incaricato di sound design Antwan, condannato a 15 anni per rapina a mano armata: "Abbiamo commesso gravi crimini, se la gente ha paura o ha qualche problema nei nostri confronti è comprensibile". Per il suo collega Earlonne, invece, il podcast è una forma di terapia, non solo per se stesso: "Chiedo agli altri prigionieri che incontro, mi racconti la tua storia? E a chi risponde che non ha una storia propongo di raccontarmi di quando si sono sposati, dei figli, di qualsiasi cosa gli passi per la mente".