Orlando: suicidi detenuti in calo, ma sforzi per fermare fenomeno allarmante Adnkronos, 26 giugno 2017 "A partire dal 2013 il numero di suicidi all’interno degli istituti penitenziari ha avuto un sensibile decremento. Tra il 2009 e il 2012, infatti, è stato sempre annualmente superiore a 55, con un picco di 63 nel 2011, mentre pari a 45 e 46 sono stati gli eventi degli anni 2007 e 2008. Grazie al miglioramento della situazione nei nostri penitenziari, il numero si è ridotto in maniera significativa, registrando 42 casi di suicidio nel 2013, 43 nel 2014, 39 nel 2015, 39 nel 2016 e 10 sino al 28 febbraio 2017". Lo sottolinea il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare della senatrice del Movimento 5 stelle Laura Bottici. "Sul piano comparativo, poi, l’Italia, secondo le statistiche ufficiali del Consiglio d’Europa, registra - scrive ancora il Guardasigilli - uno dei tassi più bassi di casi di suicidio. Nell’ultima rilevazione del 2013, si registra un tasso di 6,5 su 10.000 in Italia, 12,4 in Francia, 7,4 in Germania, 8,9 nel Regno Unito. I dati restano, in ogni caso, allarmanti e impongono un eccezionale sforzo dell’amministrazione penitenziaria, cui è demandata l’attuazione dei modelli di trattamento necessari alla prevenzione di ogni pericolo". "Alla luce delle analisi e delle riflessioni degli Stati generali dell’esecuzione della pena, il 3 maggio 2016, il ministro ha adottato una specifica direttiva sulla prevenzione dei suicidi, indirizzata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, prescrivendo la predisposizione di un organico piano d’intervento per la prevenzione del rischio di suicidio delle persone detenute o internate, il puntuale monitoraggio delle iniziative assunte per darvi attuazione e la raccolta e la pubblicazione dei dati relativi al fenomeno". "In attuazione della direttiva, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - ricorda ancora il ministro - ha predisposto un piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidiarie in ambito penitenziario, cui hanno fatto seguito circolari attuative trasmesse ai provveditorati regionali". "Le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria attengono alla formazione specifica del personale, alla raccolta ed elaborazione dei dati ed all’aggiornamento progressivo dei piani di prevenzione. Sono state, inoltre, impartite istruzioni ai provveditorati regionali ed alle direzioni penitenziarie per la conclusione di intese con Regioni e servizi sanitari locali, al fine di intensificare gli interventi di diagnosi e cura, nonché l’attuazione di misure di osservazione e rilevazione del rischio". "L’amministrazione ha anche operato sul piano dell’organizzazione degli spazi e della vita penitenziaria, con incentivazione di forme di controllo dinamico volte a limitare alle ore notturne la permanenza nelle celle, in modo da rendere agevole l’osservazione della persona in ambiente comune e ridurre le condizioni di isolamento". La tortura quotidiana di un sistema carcerario barbaro di Francesca de Carolis remocontro.it, 26 giugno 2017 26 giugno, giornata internazionale contro la tortura. Quale tortura? Quella della scuola Diaz a Genova con la recente condanna all’Italia, o quella che uccide Stefano Cucchi? La tortura quotidiana di un sistema carcerario barbaro. Dal 2000 nelle carceri 956 suicidi e 2.663 morti, molte per cause mai chiarite. Da quest’anno già 23 suicidi. "Si impiccano, si strangolano con i lacci delle scarpe, si tagliano le vene con le lamette oppure si mettono un sacchetto di plastica in testa e ci infilano il fornellino e aspirano il gas". 26 giugno, giornata internazionale contro la tortura. E chissà perché la pagina del taccuino di appunti si apre su una testimonianza di Patrizia Pugliese, che è stata insegnante in carcere a Tolmezzo: "Il mio incontro con la realtà carceraria è stato devastante, dal punto di visto emotivo, umano. Alcune scene ricostruite stasera mi riportano ai grandi soprusi, eccidi della storia, uno su tutti, l’olocausto, il disprezzo verso gli ebrei, i diversi". E racconta del colloquio avuto con una guardia. Di cui naturalmente non può fare il nome, che non lavora in Friuli, ma che le ha raccontato cose che avvengono in carceri italiane… La testimonianza è di sette anni fa, ma ancora ritorna, negli incubi… Dell’agente non si fa il nome, Patrizia lo chiama Gesù… che al suo lavoro in carcere, racconta, "sopravvive". A cosa? "Al dolore, alla storia dei deboli, dei marocchini, degli albanesi, ma anche di tanti, troppi ragazzi italiani." Gesù, che una volta ha salvato un marocchino che aveva tentato di uccidersi con il laccio delle scarpe. "Ma mica è l’unico che ho salvato. Sai quanti… io non sono cattivo come certi miei colleghi. Sai quante volte mi hanno detto… lascialo morire lì quel delinquente. Ma io non voglio pesi sulla coscienza. Io quando torno da mia moglie e da mia figlia devo guardarle diritto negli occhi. Alcune volte ho visto scene non belle (…). Una volta un albanese aveva appena saputo della madre morta… dopo poche ore si era aperta la pancia con una lametta, aveva le budella di fuori… sono corso in bagno a vomitare… non ho dormito per diverso tempo". E perché un gesto così estremo? "E senti, Patrì, quello stava già depresso.. Sai quanti depressi ci stanno in carcere? Forse, dico io, non gli avranno dato il permesso di andare ai funerali e lui ha cercato di uccidersi. Poi, ho saputo dopo, è stato ricucito e si è salvato. Ma io per mesi ho avuto incubi, sudavo e mia moglie che mi implorava di cambiare lavoro… Cambiare lavoro adesso? E cumme facciu a cangiare… À Crisi…." "Ma sai quanti in carcere si tagliano, si provocano ferite per protesta… e noi, cosa vuoi che facciamo? Li portiamo in infermeria, medicati, un calmante. Per avere poi un colloquio con uno psicologo ne passa tempo, devi fare le domandine. E non sempre ti vengono inoltrate. Per cattiveria, alcune non partono nemmeno…" Roba da denuncia, incalza Patrizia. E Gesù: "Ma chi vuoi che parli? Prova tu a dire queste cose… Vedrai come ti rompono le palle. (…) Non ho mai visto in tanti anni di carcere un educatore, un professionista esterno denunciare questo stato di cose. Tanto a chi vuoi gliene freghi dei detenuti? (…) Ma sai quanta disperazione c’è… A me fanno pena. Sembrano leoni in gabbia, una volta a uno gli ho raccolto una pagnotta da terra, lui era dentro la cella, e la pagnotta è cascata fuori dalle sbarre. Io l’ho raccolta … Un mio collega si è avvicinato al detenuto e con violenza gli ha detto: sei fortunato che stasera hai trovato lui… Per me potevi pure morire di fame, pezzo di merda!!" E scivolano davanti agli occhi numeri: dall’inizio del 2000 nelle nostre carceri ci sono stati 956 suicidi e un totale di 2.663 morti. Ma di molte di queste morti non sono state chiarite le cause. Dall’inizio di quest’anno già 23 suicidi… e spesso si parla di morti annunciate… ma a chi importa? Ancora le parole terribili del nostro Gesù: "Si impiccano, si strangolano con i lacci delle scarpe, si tagliano le vene con le lamette oppure si mettono un sacchetto di plastica in testa e ci infilano il fornellino e aspirano il gas…" Ancora: "Certo che avvengono i pestaggi in tutte le carceri italiane. Io no… mai pestato nessuno… Non ci riesco… Quando vedo mi allontano… Non voglio vedere e sentire le urla. Sembrano quelle dei maiali. Quando vengono uccisi… Ma sai, alcuni ti provocano, ti ci portano a mettergli le mani addosso. Alcuni se la cercano…" Ma non è provocazione, si chiede e chiede Patrizia, il fatto di stare al chiuso in celle sovraffollate… Quando Patrizia Pugliese ha incontrato quest’agente, era trascorso appena un anno dall’omicidio di Stefano Cucchi… Come non chiedersi e non chiedere, dunque… Stefano Cucchi potrebbe essere stato pestato? "Certo che è stato pestato… Si usano delle buste nere, da spazzatura, per non lasciare troppe tracce e su quelle si pesta… Poi si sanno i punti da colpire… Ma nessuno ti dirà mai che è stato pestato. Si suppone… Io non lo trovo né giusto e né umano, ma nelle carceri funziona così, è il sistema e nessuno può farci niente…Ma sta storia non stà a raccontarla nessuno…" Ma Patrizia Pugliese aveva sentito subito il bisogno di scrivere, "scrivere, scrivere scrivere, forse vorrei urlare, ululare, miagolare, nitrire, abbaiare…. Farmi sentire da tutti, dall’universo intero, ma qui tutti dormono…". E il suo urlo arriva fin qui. Quelli che ho riportato sono solo alcuni brevi passi di una lunga conversazione, che invito ad andare a leggere tutta nel sito di "Urla dal Silenzio". (urladalsilenzio.wordpress.com). Sì, ci vuole un po’ di coraggio… Ma provateci, mentre ricorre la Giornata contro la tortura, mentre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo torna a condannare l’Italia per le violenze e le torture avvenute all’interno della scuola Diaz durante il G8… mentre alla Camera è in attesa di essere approvata una legge che, se ne avete letto qualcosa, la tortura sembra definitivamente autorizzare… purché si torturi poco poco, purché si uccida una volta sola… Un testo che dovrebbe farci vergognare… Il mesto commento di Antigone e Amnesty International: "Con rammarico prendiamo atto del fatto che la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti all’apparato statale, anche quando commettono gravi violazioni dei diritti umani, continua a venire prima di una legge sulla tortura in linea con gli standard internazionali che risponda realmente agli impegni assunti 28 anni fa con la ratifica della Convenzione". Quella che oggi ancor più mestamente si ricorda… L’Africa dietro le sbarre. Intervista a Andrea Oleandri (Cild) di Carolina Antonucci Nigrizia, 26 giugno 2017 Gli stranieri reclusi per reati di spaccio rappresentano il 35% del totale. Intervista a Andrea Oleandri, Program manager della "Coalizione Italiana Libertà e Diritti" e coordinatore della campagna "Non me la spacci giusta". Con lui abbiamo discusso del rapporto tra tossicodipendenze e sistema penale. Qual è la situazione attuale? Alla fine del 2016 erano 18.702 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe: 17.980 uomini e 722 donne. Di questi, gli stranieri erano circa un terzo del totale. Leggendo nel dettaglio vediamo come gli stranieri siano in carcere per aver violato l’art. 73 del D.P.R. 309/90 (T.U. sugli stupefacenti), quello che, per intenderci, punisce i reati di spaccio. Gli stranieri rappresentano il 35% sul totale dei detenuti per questo reato. Sono, invece, meno del 15% gli stranieri in carcere per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Sono, cioè, poco implicati nel narcotraffico, tradizionalmente in mano alle organizzazioni criminali italiane. Lo spaccio, invece, è un tipo di reato che riguarda i più vulnerabili, che rappresentano una manodopera a basso costo ricattabile e facilmente rimpiazzabile. La presenza straniera è sovradimensionata anche a causa di una giustizia fortemente selettiva su base etnica, come mostrano i dati sulla detenzione cautelare. Che cosa significa essere tossicodipendente in carcere? Se non è facile essere tossicodipendente fuori dal carcere, ancor meno lo è quando si sta dentro. I tossicodipendenti reclusi sono circa il 25% del totale, quota che risulta sostanzialmente stabile nel corso degli ultimi 5 anni. Un dato, questo, che riguarda i detenuti con problemi droga-correlati e non con una diagnosi di dipendenza, che risultano essere meno. Il carcere fa fronte a questa problematica con l’aiuto dei Ser.T. all’interno degli istituti. Tuttavia, l’attività di disintossicazione, già difficile all’esterno delle carceri, sconta all’interno le problematiche connesse al sovraffollamento, alla carenza o fatiscenza delle strutture e al basso numero di personale, quali educatori e psicologi, fattori che non consentono di attivare tutti gli interventi necessari. Una soluzione, suggerita dalle stesse istituzioni, è quella di ampliare l’uso delle misure alternative alla detenzione, per permettere di meglio tutelare il diritto alla salute. Un auspicio che fatica a diventare realtà. Per quanto riguarda l’affidamento in prova, al 31 dicembre 2016, le persone erano 2.991 su 12.811 (il 22,7%). Un dato che negli ultimi tre anni è in lento ma inesorabile calo: erano, infatti, il 25,2% lo scorso anno, il 27,1% nel 2014, il 29,9% nel 2013. Quali sono i cambiamenti necessari? Va diminuito il ricorso alla custodia cautelare e aumentata la possibilità di accesso alle misure alternative per gli stranieri. Ma al centro deve esserci un cambiamento delle politiche sulle droghe. Legalizzare la cannabis ridurrebbe il mercato in mano ai gruppi criminali, mentre è necessaria la depenalizzazione delle altre sostanze. La dipendenza non può essere affrontata come una questione penale, ma dovrebbe essere trattata per quello che è: un problema sanitario. I tossicodipendenti dovrebbero essere aiutati a superare la dipendenza e non rinchiusi in carcere. La nobiltà antica del garantismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 26 giugno 2017 Aboliamo la parola garantismo per sottrarlo dalle grinfie di chi non ci crede nemmeno un po’, ma ne agita la bandiera solo per convenienza politica. Sarebbe il caso, per decenza e pulizia del linguaggio, di abolire del tutto dal vocabolario politico la parola "garantista", almeno per salvarne la dignità. Garantista sarebbe infatti: chi difende i princìpi dello Stato di diritto, chi vuole processi giusti, chi detesta lo sputtanamento mediatico, chi difende il valore costituzionale della presunzione d’innocenza. Invece in Italia garantista è, nella totalità dei casi tranne rarissime eccezioni come i Radicali con Tortora o oggi Luigi Manconi che difende con coerenza i diritti dei poveracci e quelli degli avversari politici, chi vuole veder tutelati i diritti degli amici, dei sodali, dei parenti, riservando agli altri la gogna. Per cui si vedono fieri garantisti che si scandalizzano se escono intercettazioni intrusive sul caso Consip, perché quella è la parte politica da difendere, ma non hanno nulla da eccepire, anzi sotto sotto godono pure, se si apre la telenovela dei messaggi Whatsapp di Virginia Raggi, una nemica e dunque passibile di trattamento mediaticamente rude. E viceversa vedrai feroci forcaioli come i grillini che diventano agnelli garantisti se a finire sotto il torchio della giustizia capita qualche esponente del Movimento 5 Stelle. Uno spettacolo che sarebbe comico, se non fosse penoso e se non deturpasse il nobile nome di "garantismo", scambiandolo per uno strumento in mano al clan di appartenenza per piegarlo dove soffia il vento. Per cui, aboliamolo, nel ricordo della sua antica nobiltà. E per sottrarlo dalle grinfie di chi non ci crede nemmeno un po’, ma ne agita la bandiera solo per convenienza politica, a zig zag, come capita. Se vedete un articolo che ne fa menzione, sappiate che lì non si vuole difendere un principio, ma un’amicizia, uno schieramento, una militanza comune. E ricordando che il garantista è vero se una volta, almeno solo una volta, è capace di difendere qualcuno lontano dalla propria cerchia, qualcuno antipatico, qualcuno che appartenga a uno schieramento politico con cui si è quotidianamente in lotta. E che se si è garantisti, lo si è per sempre, e non solo quando fa comodo. Cioè, in Italia: mai, se non appunto le nobili eccezioni prima menzionate. Un po’ di sana ecologia lessicale non guasterebbe. Poi, avanti con la scazzottata politica, ma almeno senza l’ipocrisia. Giù le mani dal garantismo. Processo penale, la prescrizione si allunga ma non per tutti i reati di Guido Camera e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2017 La prescrizione si allunga per la corruzione, i maltrattamenti, i reati sessuali e pornografici commessi contro i minori. Ma per i reati più frequenti - furti, danneggiamenti, frodi e minacce - l’aumento dei tempi è contenuto e, soprattutto, solo eventuale: può arrivare in totale fino a tre anni, ma solo se il processo, in primo grado e in appello, si conclude con una sentenza di condanna. È questo lo scenario che si delinea dopo il via libera alla riforma penale, approvata dal Parlamento nei giorni scorsi. Le nuove regole sulla prescrizione si applicheranno ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge, il 30esimo giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Si tratta di disposizioni - che hanno diviso la maggioranza e sono bersagliate dalle critiche degli operatori del diritto - scritte per arginare la caduta in prescrizione dei processi. Un fenomeno che riguarda circa il 4% dei procedimenti: secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, riferiti al 2015, i provvedimenti che dichiarano l’avvenuta prescrizione sono stati 126.865, rispetto al totale di 3,15 milioni di procedimenti penali terminati. Le disposizioni attuali - La riforma penale, per la verità, non cambia il meccanismo di base (previsto dalla "ex Cirielli", legge 251/2005) per il calcolo della prescrizione: il reato si estingue una volta decorso il tempo corrispondente al massimo della pena previsto per quel reato (comunque, non meno di sei anni per i delitti, non meno di quattro per le contravvenzioni). E questi tempi, in base alle norme attuali, sono raddoppiati per alcuni delitti: dall’omicidio stradale ai reati ambientali, dalla violenza sessuale alla pornografia minorile. Infine, la prescrizione così calcolata può ancora aumentare se si verificano degli "atti interruttivi" (previsti dall’articolo 160 del Codice penale), come, ad esempio, la sentenza di condanna. In questi casi, la prescrizione riparte dal giorno dell’interruzione, ma l’aumento totale non può superare di un quarto i tempi della prescrizione (può arrivare alla metà, ai due terzi e al doppio ad esempio per i delinquenti recidivi e abituali). Le novità della riforma - La riforma introduce un congelamento (che in totale può arrivare a tre anni) della prescrizione di carattere generale - senza operare alcuna distinzione in base al reato - che scatta solo in caso di condanna in primo grado (per 18 mesi) o in appello (anche qui per 18 mesi). È però reversibile: se nel grado successivo l’imputato viene assolto, nel termine complessivo di prescrizione si calcola anche il periodo di congelamento. Il meccanismo opera quindi solo se si arriva a sentenza e non investe i (tanti) procedimenti che si prescrivono durante le indagini preliminari. Un altro periodo di sospensione è previsto in caso di rogatoria all’estero del magistrato: la prescrizione non decorrerà fino all’arrivo dei documenti richiesti o al massimo per sei mesi. Una modifica severa è invece introdotta per i reati sessuali e i maltrattamenti in famiglia che riguardino minori di età: il termine di prescrizione decorrerà dal compimento di 18 anni da parte della vittima. Sono reati che hanno già tempi lunghissimi di prescrizione e che ora diventeranno, di fatto, imprescrittibili. Esempio: un abuso contro un bimbo con meno di 10 anni. Il termine di prescrizione massimo - che in presenza di atti interruttivi ordinari poteva già arrivare a 35 anni - aumenterà a 43, cui eventualmente aggiungere il congelamento triennale della prescrizione. Un aumento ad hoc della prescrizione è previsto per i reati di corruzione, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità, peculato (solo se in danno di Ue e Stati esteri) e truffa in danno dello Stato o altro ente pubblico. Per questi reati si prevede un aumento fino alla metà dei tempi, e non più fino a un quarto, in caso di atti interruttivi della prescrizione (e tra questi debutta l’invito a rendere interrogatorio alla polizia giudiziaria). Esempio: la prescrizione della corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio potrà arrivare a 15 anni, da 12 anni e 6 mesi di oggi. Non salirà invece il tetto massimo della prescrizione per la concussione, ovvero il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe il privato a dare o promettere denaro o altra utilità a lui o un terzo: probabilmente perché è già stato ritenuto alto (16 anni) dal legislatore. La modifica non incide neanche sul peculato (cioè l’appropriazione indebita commessa dal pubblico ufficiale): il termine di prescrizione massimo rimane di 12 anni, 2 mesi e 5 giorni. Né cambierà la prescrizione di furti e rapine, che sono i reati più frequenti. La riforma ha infatti aumentato le pene per questi delitti ma non ha toccato i massimi. Giudici di pace, la giusta protesta contro la riforma di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 giugno 2017 Quando fu istituito nel 91 fu presentato come un giudice di "equità", quasi un saggio che con il buon senso del padre di famiglia avrebbe risolto le liti mettendo d’accordo la gente, ma negli anni la politica, incapace in questo Paese di ridurre il contenzioso civile e di circoscrivere quello penale, ha scaricato sul giudice di pace sempre più competenze che ora spaziano dai ricorsi sulle cartelle esattoriali e sulle multe stradali all’immigrazione clandestina. In questi giorni i giudici di pace sono in rivolta con una nuova astensione dalle udienze dopo il progetto di riforma che prevede un ulteriore aumento delle competenze, una sostanziosa riduzione della retribuzione e nessuna copertura previdenziale o contributiva. Eppure il giudice di pace (come i Vpo e i Got, anche loro sulle barricate) è una figura chiave della giustizia, un "magistrato di prossimità" che smaltisce il 50% della materia civile e il 25 di quella penale occupandosi ogni anno di 1.400.000 processi contro il 1.200.000 dei tribunali ordinari (dati 2015 Associazione Gdp). A lui ci si rivolgere, anche senza avvocato, per sbrogliare in un tempo medio ragionevolmente breve (358 giorni) per la giustizia italiana controversie che possono sembrare minori, ma che spesso influiscono pesantemente sulla vita quotidiana della gente. La riforma impone ai nuovi giudici di non lavorare più di due giorni la settimana, ma come si può immaginare che, è stato sottolineato in una recente tavola rotonda a Milano, in appena 48 ore (notti comprese) si riesca a studiare decine di fascicoli e a tenere un’udienza e tutto per circa 600 euro al mese netti senza sottrarre inevitabilmente tempo alla quella che teoricamente dovrebbe essere la sua attività principale, che quasi sempre è quella di avvocato? Eppure fino ad ora i Gdp sono costati appena 74 milioni l’anno, con una media che va da 2.000 a 5.000 euro lordi al mese (in base ad udienze e ai provvedimenti emessi), un niente di fronte al miliardo e 400 dell’intero sistema giudiziario. Ustica, l’ultima beffa: "Dagli archivi aperti nessuna verità" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 giugno 2017 La delusione di Bonfietti e dei familiari delle vittime. Mai fatta la digitalizzazione e molte carte sparite. Dagli archivi desecretati è venuta fuori solo carta straccia. Niente che non si conoscesse già e soprattutto nessun documento dei giorni e dei mesi immediatamente successivi a quel 27 giugno 1980 quando "in uno scenario di guerra sul mar Mediterraneo" - come hanno accertato diverse sentenze - un aereo militare di non si sa quale nazione sparò un missile che, sul cielo di Ustica, colpì in pieno il Dc 9 dell’Itavia in volo da Bologna a Palermo. Domani saranno 37 anni dalla strage e Daria Bonfietti dà voce alla rabbia e alla delusione dei familiari delle 81 vittime. "Avevamo molto sperato che la direttiva Renzi potesse davvero portare alla desecretazione di documenti che avrebbero potuto dirci chi c’era quella notte in cielo e in mare, consentirci finalmente di ricostruire uno scenario reale ma posso solo esprimere tutto il nostro sconcerto per un Paese che non è in grado di custodire la documentazione prodotta. Basta dire che - tre anni dopo la direttiva Renzi che dispone la desecretazione degli atti sulle stragi degli anni ‘60-’70-’80 - il ministero dei Trasporti non ha depositato nulla se non qualche atto già noto della commissione Luttazzi. Alle nostre pressanti richieste gli uffici hanno risposto che non c’è ombra di documentazione alcuna e che non hanno neanche idea di dove dovrebbero essere i loro archivi". È una vicenda paradossale quella per la quale ora l’associazione dei familiari delle vittime di Ustica chiede un intervento politico e della magistratura per individuare i responsabili della "sparizione" di tutti i documenti coevi alla strage, Denuncia ancora Daria Bonfietti: "Non c’è nulla dell’aviazione civile né del gabinetto del ministro dei Trasporti, lo Stato maggiore della Marina non porta nessun documento dal 1980 al 1986, in prefettura a Bologna non è stato depositato nulla. Per non parlare della beffa dei documenti dei Servizi segreti: solo un’enorme rassegna stampa e schede sui giornalisti che scrissero articoli sul caso. E con i nomi in chiaro. Invece di indagare su quel che accadde quella notte, i nostri Servizi indagarono sui giornalisti". Per i familiari delle vittime di quel disastro aereo, la direttiva Renzi è un fallimento. Che si aggiunge alla delusione per le mancate risposte alle rogatorie internazionali chieste negli ultimi anni dai pm italiani ai colleghi di diversi paesi. "Oggi - osserva Bonfietti - diverse sentenze definitive sia penali che civili hanno messo nero su bianco che il Dc9 fu abbattuto da un missile in uno scenario di guerra e hanno condannato i ministeri italiani a risarcire i familiari delle vittime per non aver saputo garantire la loro sicurezza e aver nascosto la verità. Resta un grande vulnus nelle indagini, quello di riuscire a mettere una targa a quegli aerei". Dito puntato contro lo stato disastroso degli archivi italiani e contro la reale volontà della politica di mettere a disposizione i documenti secretati anche da parte di Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni e responsabile della rete degli archivi "Per non dimenticare". "A parte il fatto che non esiste alcuna digitalizzazione di questi documenti, noi non abbiamo gli strumenti per verificare se e che cosa ci sia. Certo, sembra incredibile che al ministero dei Trasporti nessuno sia in grado di dire dove sia la documentazione della Marina e dell’Aviazione dal giugno 80 in poi. A cominciare dai registri amministrativi come quelli sulle presenze delle navi. Loro si appellano alla sciatteria della tenuta degli archivi, ma le carte non si muovono da sole. Se sono sparite qualcuno deve averlo fatto. E oggi deve essere chiamato a risponderne. Per questo oggi chiediamo che il governo faccia dei passi politici. Si ordini un’ispezione interna e si individuino le responsabilità ". Il procuratore Antimafia Roberti: "Toto Riina morirà in carcere" Leggo, 26 giugno 2017 Toto Riina morirà in carcere? "Assolutamente sì". Così il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha risposto a una domanda nel corso de "L’Intervista" di Maria Latella su SkyTg24. "Noi non perseguitiamo nessuno né abbiamo alcun spirito di vendetta. Noi rispettiamo la legge. Riina - ha aggiunto - è in carcere sulla base di giudizi medici secondo i quali le condizioni consentono la detenzione. E fin quando non cambieranno, Riina rimarrà in carcere". Roberti ha poi aggiunto: "Stiamo da tempo cercando di promuovere la consapevolezza dei Paesi investiti dalla criminalità organizzata, di origine italiana ma non solo, che è un problema anche loro, di tutti i Paesi. Parliamo con l’Olanda, con la Svizzera, con la Francia, con la Germnia, il Canada, l’Australia". E sul fronte della politica e del rischio di infiltrazioni mafiose, il magistrato ha osservato: "Si può fare politica pulita anche in Calabria, in Sicilia, in Campania. Naturalmente bisogna tenere conto che c’è chi gioca sporco quindi bisogna fare fronte comune, denunciare queste situazioni. Mettere la magistratura in condizioni di poter intervenire, anche con misure di prevenzione per rendere respirabile l’ambiente, renderlo legale, democraticamente accettabile". Responsabilità equipe medica: tutti i componenti tenuti alla verifica dell’agire degli altri di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 31 maggio 2017 n. 27314. La responsabilità penale di ciascun componente di una equipe medica non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla equipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 31 maggio 2017 n. 27314. La responsabilità penale di ciascun componente di un’equipe medica - Secondo la Cassazione occorre quindi accertare se e a quali condizioni ciascuno dei componenti dell’equipe, oltre a essere tenuto per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni, debba essere tenuto anche a farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’equipe o possa viceversa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui: accertamento che deve essere compiuto tenendo conto del principio secondo cui ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Il principio suddetto va apprezzato e coniugato, peraltro, sempre secondo la Corte, onde non configurare ipotesi di responsabilità oggettiva o di posizione, con l’altro fondamentale principio che è quello "di affidamento", in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ma potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell’osservanza delle regole di diligenza proprie. Per l’effetto, per tutte le fasi dell’intervento chirurgico in cui l’attività di equipe è corale, riguardando quelle fasi dell’intervento chirurgico in cui ognuno esercita e deve esercitare il controllo sul buon andamento dello stesso, tutti i componenti dell’equipe sono necessariamente tenuti alla verifica dell’agire degli altri. Mentre diverso discorso deve farsi per quelle fasi in cui, distinti nettamente, nell’ambito di un’operazione chirurgica, i ruoli e i compiti di ciascun elemento dell’equipe, dell’errore o dell’omissione ne può rispondere solo il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica. La fattispecie esaminata dalla quarta sezione penale - Nella fattispecie in esame, in cui a seguito di un intervento chirurgico di colecistectomia per via laparoscopica il paziente era deceduto per shock emorragico in conseguenza della inidonea sutura dell’aorta - lesionata durante l’intervento - cui aveva provveduto il primo operatore, era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in applicazione del principio della responsabilità di equipe, anche il secondo operatore, che pure si era limitato a svolgere il compito materiale di tenere il divaricatore e l’aspiratore per consentire all’operatore di ispezionare l’addome. La Cassazione, invece, in applicazione dei suddetti principi, ha annullato la sentenza senza rinvio, sul rilievo che le modalità di suturazione dell’aorta non potevano addebitarsi anche a quest’ultimo, perché rientranti nel proprium dell’operatore che vi aveva provveduto, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza, specie in settore specialistico, in una sorta di obbligo generalizzato - e di impraticabile realizzazione - di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di - addirittura - invasione negli spazi della competenza altrui. Uso illegittimo dei voucher, la prova ricade sulle Entrate di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2017 Ricade sul Fisco l’onere di dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro per il quale non è possibile utilizzare la retribuzione tramite voucher. Lo afferma la Ctp Vicenza (presidente Pietrogrande, relatore Mottes) nella sentenza 328/1/2017, depositata lo scorso 12 aprile. La vicenda - La controversia scaturisce dall’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso dall’agenzia delle Entrate in base al contenuto di un verbale dell’ispettorato del lavoro; quest’ultimo, infatti, aveva affermato l’esistenza di un debito contributivo della Srl ricorrente, ritenendo che la stessa avesse avuto alla proprie dipendenze lavoratori subordinati non assunti regolarmente e retribuiti con voucher. Le Entrate, stimando in oltre 72mila euro il debito, avevano rettificato il modello 770 della Srl, determinando in 16mila euro le maggiori ritenute non operate e richieste alla contribuente. La società ha presentato ricorso contro l’avviso, chiedendone l’annullamento; secondo la ricorrente, infatti, i verbali degli ispettori del lavoro fanno piena prova, fino a querela di falso, solo dei fatti che il pubblico ufficiale attesta come avvenuti in sua presenza o da lui stesso compiuti, mentre non hanno valore di prova, neppure presuntiva, per la parte relativa ad apprezzamenti e valutazioni. Dal canto suo, l’Agenzia ha chiesto il rigetto della domanda, sostenendo che la ricorrente si era limitata ad affermazioni non idonee a contrastare l’accertamento. Le motivazioni - Nell’accogliere il ricorso, la Commissione rileva, innanzitutto, che il verbale dell’ispettorato non era stato seguito da un’ordinanza-ingiunzione dello stesso ufficio. Peraltro, la vicenda non richiedeva una "particolare istruttoria, ma solo la qualificazione del rapporto" e l’applicazione di una sanzione pecuniaria. Sicché l’ispettorato, se "avesse ritenuto fondata la propria pretesa", avrebbe senz’altro notificato il provvedimento sanzionatorio. I giudici osservano quindi che l’agenzia delle Entrate aveva ritenuto che l’accordo tra la Srl e i lavoratori si inserisse nell’esecuzione di contratti di appalto, stipulati dalla stessa società con ditte committenti. Ma, secondo la Ctp, le prestazioni della Srl si dovevano inquadrare piuttosto nei rapporti di agenzia, giacché la ricorrente svolge attività di promozione di prodotti presso punti vendita ("in store promotion" o "servizio hostess"). Peraltro, anche ammesso che la Srl avesse concluso contratti di appalto, comunque il divieto di ricorso a prestazioni di lavoro accessorio (e quindi anche alla retribuzione mediante voucher) nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi è stato introdotto dal Dlgs 81/2015, e dunque non si applica alle prestazioni in esame, in quanto precedenti all’entrata in vigore dello stesso decreto. In ogni caso - prosegue la Ctp - la prova di una rapporto di lavoro subordinato ("legittimante il recupero fiscale") è "a esclusivo carico dell’amministrazione finanziaria" e non del contribuente, che altrimenti dovrebbe dare la prova di un fatto negativo. Né, conclude la Commissione, l’Agenzia può assolvere tale onere probatorio mediante il richiamo a un verbale ispettivo, "peraltro non seguito dall’ingiunzione". I giudici di Vicenza hanno quindi annullato l’avviso e condannato le Entrate al pagamento delle spese di lite, liquidandole in 3.600 euro. Biella: "Casa di lavoro", in carcere è scontro fra gli agenti di polizia e la direzione di Andrea Formagnana La Stampa, 26 giugno 2017 I sindacati Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp e Cosp di polizia penitenziaria hanno proclamato lo stato di agitazione e chiedono l’avvicendamento del direttore e dei vertici della casa circondariale di Biella. La protesta è la conseguenza delle mancate risposte alle questioni sollevate circa il modello organizzativo del carcere di Biella, con la recente istituzione della "casa di lavoro" per internati. La struttura non sarebbe attrezzata per ospitare questa nuova sezione e soprattutto gli agenti non sarebbero in numero adeguato per garantire la sicurezza. "Non abbiamo avuto risconti né dalla direzione, né dal provveditorato", fanno sapere i rappresentanti sindacali. Che annunciano: "A questo punto diserteremo l’incontro fissato per il 30 giugno in cui di sarebbe dovuto sottoscrivere il nuovo modello di organizzazione". Intanto un’altra sigla sindacale, Alsippe, ha fatto approdare il caso Biella in Parlamento. Il deputato dei Conservatori-Riformisti Daniele Capezzone ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia. "Premesso che - si legge - presso la casa circondariale di Biella sussiste uno stato di agitazione del personale penitenziario dovuto ad una cattiva gestione dello stesso nelle sezioni detentive, si chiede se il ministro sia a conoscenza del contesto di difficoltà del personale e, se del caso, quali iniziative intenda intraprendere al fine di porre rimedio a tale situazione che, evidentemente, incide negativamente sulla sicurezza e sulla incolumità dello stesso personale di vigilanza". Nell’interrogazione viene elencata tutta una serie di lagnanze che da tempo sono note. A tutti questi problemi si aggiunge quello, cronico, delle divise e delle scarpe. Sono anni, infatti, che le forniture non vengono fatte e gli agenti devono arrangiarsi per sopperire alle carenze. Oristano: il direttore della Caritas chiede misericordia per Doddore Meloni youtg.net, 26 giugno 2017 "Chi può, intervenga subito per salvargli la vita". "Seguiamo con apprensione la situazione umana di "Doddore" Salvatore Meloni. Al di là di ogni considerazione giuridica non possiamo non esprimere un sentimento di misericordia per questo nostro fratello che con una decisione che può non essere condivisibile sta mettendo a rischio la sua vita": così don Angelo Pittau, direttore della Caritas di Ales e Terralba, sulla vicenda del leader indipendentista al quale sono stati rifiutati gli arresti domiciliari, nonostante l’età e le gravi condizioni di salute dovute a uno sciopero della fame. "Noi chiediamo che chi può intervenga immediatamente per salvare la sua vita e la sua salute: anche la vita dei detenuti è sacra", prosegue il prete, "Esprimendo i nostri sentimenti di amore fraterno a "Doddore" Salvatore Meloni e di sincera apprensione per la sua vita, vogliamo assicurare i suoi familiari e i tanti sardi che seguono con misericordia questa umana situazione che noi non possiamo essere indifferenti, noi per quanto possibile ci fermiamo, ci prendiamo cura di lui. Nell’impotenza lo offriamo al Signore e al cuore degli uomini". Sulmona (Aq): Uil "repartino detenuti, se l’Asl lo cancella ricorreremo alla magistratura" reteabruzzo.com, 26 giugno 2017 La Asl avrebbe cancellato il progetto di realizzazione del repertino riservato al ricovero di detenuti nel nuovo ospedale di Sulmona. A lanciare l’allarme è il segretario generale territoriale della Uil Pa polizia penitenziaria, Mauro Nardella. "Se fosse vera questa notizia trapelata da indiscrezioni la decisione presa risulterebbe gravissima e lesiva dei diritti non solo dei detenuti ma anche e soprattutto dei preposti alla sicurezza degli stessi" precisa Nardella. "A scanso di equivoci sappia il direttore generale dell’Asl Rinaldo Tordere che i detenuti quotidianamente accompagnati nella struttura ospedaliera sulmonese non sono semplici ladri di polli. Quelli che vengono sottoposti alle cure dei medici operanti nell’ospedale civile sono esponenti di spicco delle più importanti organizzazioni criminali mondiali - spiega il sindacalista - tra i detenuti presenti in istituto contiamo più di 400 rientranti tutti nel regime cosiddetto di "Alta Sicurezza" ed in procinto di divenire 700 con l’apertura del costruendo nuovo padiglione. Sono circa 100 gli ergastolani e diversi i collaboratori di giustizia.Pensare di ricoverare personalità di questo calibro in una stanza di dimensione quattro per quattro e magari di cartongesso sarebbe da folli". Nardella ricorda ancora che la situazione proposta dal responsabile del servizio di Prevenzione e Protezione al direttore sanitario dell’ospedale dell’Annunziata e resa nota anche dagli organi d’informazione riguardava un progetto definito all’avanguardia. In caso di effettivo ripensamento dell’Asl sul progetto Nardella annuncia battaglia, anche per vie legali, se necessario ricorrendo alla magistratura per denunciare "eventuali ricoveri imposti nell’angusto, insalubre ed alquanto insicuro repertino ospedaliero penitenziario attualmente in dotazione del corpo di Polizia penitenziaria o, peggio ancora, nelle corsie dei vari reparti senza il rispetto del vincolo della sicurezza e, così come è accaduto nel passato e neanche tanto lontano, finanche dinanzi le scale d’emergenza che di fatto sono rimaste, contro legge, bloccate". Caserta: l’Ass. "Carcere possibile Onlus" in campo contro le violenze nelle celle Il Mattino, 26 giugno 2017 Giornata internazionale contro la tortura, l’associazione "il Carcere Possibile" e la Camera penale di Napoli manifestano totale adesione all’iniziativa dell’Ucpi denominata "Mi hanno torturato solo un po’". L’avvocatura Napoletana ed "il carcere possibile Onlus" chiedono una legge che assicuri, in modo chiaro e netto, il rispetto della dignità umana anche per gli ultimi della società che non possono, e non devono, essere dimenticati". Al centro del dibattito che si terrà questa mattina, l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale, come strumento normativo che potrebbe anche mettere a fuoco alcuni episodi denunciati all’interno delle carceri. E sono sempre gli esponenti della Onlus il carcere possibile a chiedere la costituzione come parte civile nella prima udienza preliminare del processo che punta a chiarire l’esistenza di una sorta di cella zero nel carcere di Poggioreale. Milano: scarcerato dopo 25 anni Matteo Boe, che rapì e tagliò l’orecchio a Farouk La Repubblica, 26 giugno 2017 È uscito questa mattina dal carcere di Opera dove era detenuto, Matteo Boe, il bandito sardo responsabile anche del rapimento a Porto Cervo del piccolo Farouk Kassam, il bimbo di sette anni cui lo stesso Boe tagliò un lobo dell’orecchio per recapitarlo, all’interno di una busta, al padre. Farouk fu poi liberato dopo 177 giorni di prigionia dopo il pagamento di un riscatto. Matteo Boe, 59 anni, ha terminato di scontare 25 anni di carcere. Boe divenne negli anni 80 la primula rossa del banditismo sardo, per un’impresa che in precedenza (e in seguito) non era riuscita a nessuno: evadere dall’ Asinara. Cosa che fece, insieme con un complice, Salvatore Duras, il primo settembre 1986, fuggendo a bordo di un gommone. Venne bloccato anni dopo, il 13 ottobre 1993, dalla polizia francese di Porto Vecchio, in Corsica, dove si trovava da alcuni giorni insieme con la sua convivente, Laura Manfredi, all’epoca incinta, e i loro due figlioletti, Luisa e Andrea. Furono proprio loro a portare i gendarmi dal bandito sardo: la polizia francese li aveva seguiti da Santa Teresa di Gallura, dove moglie e figli si erano imbarcati sul traghetto per Bonifacio. Matteo Boe ha figurato a lungo ai primissimi posti nell’elenco dei 200 ricercati più pericolosi d’Italia. L’operazione che aveva portato alla cattura era scattata subito dopo la liberazione del piccolo Farouk Kassam, per il cui sequestro l’ex latitante è stato condannato a 20 anni di reclusione. Oltre che per questo rapimento è stato coinvolto nel sequestro dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, prelevato dalla sua villa di Romazzino, in Costa Smeralda, il 12 giugno 1988 e liberato il 31 ottobre successivo dopo il pagamento di un riscatto di 3 miliardi di lire. Non si sa ancora se deciderà di tornare nel suo paese natio, ma la notizia della sua imminente scarcerazione ha già fatto il giro dell’Isola. Dopo Graziano Mesina, infatti, è lui il bandito sardo più famoso. Perugia: migranti, profughi e storie dal mondo nelle foto di Annalisa Vandelli di Angela Giorgi umbria24.it, 26 giugno 2017 Ottimo riscontro di pubblico per la mostra fotografica ‘In un vortice di polverè di Annalisa Vandelli, ospitata alla rocca Paolina di Perugia dal 26 maggio al 25 giugno. Sessanta fotografie accompagnate da testi, video, musiche che raccontano gli ultimi del mondo, dalla Siria al Guatemala, dall’Etiopia al Nicaragua passando per l’Egitto. Annalisa Vandelli cattura elementi capaci di condensare storie di vita in cui la macro-storia irrompe determinando il destino degli individui. Prossima tappa della mostra sarà Altidona, città che custodisce l’archivio del grande fotoreporter Mario Dondero. Gli ultimi del mondo I "mareros" di El Salvador, dove la media è di 900 morti al mese, la più alta al di fuori dei paesi in conflitto come la Siria. Corpi coperti dal codice silente dei tatuaggi, volti che si prestano alla macchina oltre le sbarre del carcere. "Ho trascorso una giornata lì dentro e all’inizio avevo paura", racconta Annalisa. "Tutte le guardie carcerarie indossano il passamontagna per non essere riconoscibili, solo io e il direttore giravamo a volto scoperto. Quando sono arrivata, i detenuti stavano giocando a calcio nel cortile e, appena mi hanno visto, si sono fermati". Ecco, cominciano i problemi, ha pensato. Un detenuto invece le ha detto: "Non vorremmo colpire la tua macchina con il pallone". In un paese dove analfabetismo e mancanza d’istruzione alimentano l’abitudine alla violenza, in carcere si leggono Shakespeare, Dante e la nicaraguense Claribel Alegria. "Ho fatto registrare a un detenuto un messaggio destinato a lei, che è stata anche per me fonte d’ispirazione", prosegue Annalisa risvegliando i ricordi. E ancora la Limonada di Città del Guatemala, quartiere blindato dove solo i "leader" e i loro familiari e affiliati possono circolare senza diventare bersaglio delle armi da fuoco, i profughi siriani al confine con la Giordania, gli ospedali, le carceri femminili, le case e le strade. C’è un’umanità che si sposta, che cammina, che fugge, che percorre venti km a piedi ogni giorno solo per andare al mercato o che segue il letto di un torrente per cercare i propri morti, l’umanità fatta degli ultimi del mondo con le loro storie migranti. La Spezia: le ragazze del carcere minorile in scena al teatro della Rosa cittadellaspezia.com, 26 giugno 2017 Uno spettacolo benefico ieri sera, domenica 25 giugno 2017, alle ore 21.00 presso il Teatro della Rosa di Pontremoli. Protagoniste le ragazze dell’istituto penale per i minorenni di Pontremoli, cui verrà devoluto l’incasso. L’iniziativa è stata organizzata dall’associazione di volontariato "Ponti aperti" con la collaborazione e il patrocinio del Comune di Pontremoli, dell’associazione "Centro teatro Pontremoli" e del centro giovanile "mons. G. Sismondo". Partner nell’organizzazione della serata il Rotary club Marina di Massa, i Lions club Pontremoli, l’associazione "Le ali del sorriso", l’associazione "Lav - letture ad alta voce", oltre che Marzio Pelù, caposervizio de La Nazione di Massa-Carrara e Lunigiana, e il cantautore locale Renzo Cantarelli. "Prosegue il nostro progetto di uscire dalle mura dell’Istituto - ha commentato il direttore dell’Ipm Mario Abrate durante la conferenza stampa di stamani - creando nuove opportunità per le nostre ragazze e nuovi spunti per far conoscere la nostra realtà". "Un piccolo passo - ha commentato il presidente di "Ponti aperti" Umberto Moisè - per la collaborazione con l’Ipm, ma solo il primo visto che già abbiamo in programma diverse iniziative. È importante che il territorio conosca quest’Istituto." "Mi preme sottolineare - ha affermato l’assessore alla cultura e al valore sociale del Comune di Pontremoli Patrizio Bertolini - l’importanza che l’Ipm riveste per la nostra realtà, soprattutto per il valore sociale che ricopre. Ringrazio chi ogni giorno s’impegna in questo senso e chi dà corpo e voce a iniziative come questa". Nuova collaborazione invece per il Centro teatro Pontremoli, così commentata dal presentatore Luca Veroni, componente dell’associazione: "Quando ci è stato presentato questo progetto siamo rimasti subito entusiasti. Eravamo sicuri che quest’esperienza ci avrebbe arricchito come attori e come persone. Vorrei ringraziare oltre alle associazioni che hanno contribuito, le ragazze, che fin da subito hanno dimostrato di tenerci. E anche il copione, le battute che ho scritto, hanno un valore. Che possa essere, magari, un piccolo passo verso un futuro di "redenzionè". È intervenuto anche il dirigente del Centro giustizia minorile per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, Antonio Pappalardo: "L’artefice di tutte queste sinergie è stato il direttore Mario Abate. Lo spettacolo di domenica è una prima, un qualcosa di inedito. Speriamo di trovare il riscontro che da sempre troviamo nella partecipazione dell’intera realtà territoriale". Assente per impegni parlamentari il sottosegretario di Stato alla giustizia Cosimo Ferri. "L’iniziativa dell’associazione - ha scritto Ferri in una nota - rappresenta un momento di grande solidarietà e crescita per le ragazze dell’Ipm di Pontremoli, perché certamente contribuirà ad incentivare queste a proseguire il loro percorso di rieducazione e di reinserimento nella società. Sono certo che la serata del 25 giugno potrà essere una festa per tutti e darà un nuovo impulso alle attività che vengono svolte all’interno dalla struttura." "Ringrazio l’associazione per il suo impegno, perché fa emergere con chiarezza la sensibilità verso chi sta cercando la strada per ripartire dopo aver fatto degli errori per cui sta scontando una pena e contribuisce ad unire tutte le forze, anche oggi nella conferenza stampa, per fare rete ed aumentare la validità dell’iniziativa stessa," ha concluso il sottosegretario. Ecco il programma della serata, con ingresso a offerta libera: apriranno i ragazzi del Centro giovanile "Mons. G. Sismondo Pontremoli"; Veroni presenterà l’evento; seguirà l’esibizione teatrale diretta dal Centro teatro Pontremoli dal titolo "Una storia da scrivere" interpretata da alcune delle giovani dell’Istituto. In conclusione, interverranno il "Rotary Club Marina di Massa", il "Lions Club Pontremoli", l’Associazione "Le Ali del sorriso", "Lav - letture ad alta voce" e i due cantautori Pelù e Cantarelli. Padova: Calcio, Coppa Disciplina alla squadra dei detenuti per il terzo anno di fila di Stefano Volpe Il Mattino di Padova, 26 giugno 2017 Ed ecco servito il "triplete" più suggestivo, particolare e molto probabilmente anche inaspettato. La notizia era già nell’aria, ieri mattina è arrivata anche l’ufficialità e soprattutto la consegna del trofeo: la Polisportiva Pallalpiede ha vinto la Coppa Disciplina come squadra più corretta di tutti i campionati di calcio dilettantistici padovani. E con questa fanno tre Coppe Disciplina conquistate consecutivamente, il massimo possibile, visto che la squadra è stata fondata nell’estate 2014 e un paio di mesi fa ha concluso il proprio terzo campionato di Terza Categoria. Tre, numero ricorrente in questa storia. Nella simbologia è sinonimo di perfezione, una virtù che, con tutti gli sforzi possibili, non è proprio possibile associare ai calciatori di questo club. La Polisportiva Pallalpiede, come risaputo, è la squadra composta unicamente da detenuti del carcere Due Palazzi, grazie a un progetto nato dall’associazione "Nairi Onlus". Tre, giusto per restare in tema, sono mediamente gli anni di un ciclo societario, all’inizio dei quali una dirigenza stila gli obiettivi, per poi tirare le somme al termine del periodo. Nel caso di Pallalpiede si può dire che i primi traguardi siano stati assolutamente centrati. "Siamo felicissimi", sorride il direttore sportivo Lara Mottarlini, presente alle premiazioni assieme al presidente Paolo Piva, al tecnico Fernando Badon e al responsabile delle relazioni Andrea Zangirolami. "La Coppa Disciplina è sempre stato il nostro obiettivo principale, vincerla per tre anni consecutivi va forse anche oltre le nostre aspettative". Il perché non è difficile da intuire, visto che il trofeo viene consegnato alla squadra che subisce meno ammonizioni ed espulsioni nel corso del campionato, oltre a distinguersi per qualche gesto di fair play. "Il nostro progetto è stato imbastito per cercare di infondere uno spirito di lealtà, correttezza e rispetto delle regole ai detenuti. Questo riconoscimento certifica che siamo sulla buona strada e che il lavoro sta dando i propri frutti. Riuscire a far capire sino in fondo l’importanza della disciplina è la nostra più grande vittoria". Un successo che si aggiunge a tanti passi avanti compiuti dai detenuti negli ultimi tre anni. "La creazione della squadra ha aiutato a superare qualche acredine di troppo tra alcuni gruppi etnici all’interno del carcere. All’inizio c’erano giocatori che si allenavano per conto proprio pur di non condividere il gioco con altre persone. Adesso tutti quanti si sentono parte di una squadra, sono diventati un vero gruppo e partecipare ad un campionato è per loro un grande stimolo". La conferma arriva da uno dei detenuti presenti (grazie ad un permesso-premio) alla cerimonia di ieri a Mestre: "Non vediamo l’ora di ricominciare, speriamo che i lavori per mettere a posto il campo finiscano presto", spiega Cristian Andreis. "Partecipare alla cerimonia, vedere la gente che ci applaudiva, per noi è stata una grande emozione. Peccato non averla potuta condividere con tutto il gruppo". Già, proprio questo è il più grande sogno della Pallalpiede. La squadra disputa il campionato di Terza Categoria ma non fa classifica, dovendo giocare tutte le gare (sia all’andata che al ritorno) in casa. L’obiettivo, un giorno, è quello di far avere un permesso-premio speciale a tutti i detenuti in modo tale da poter giocare anche le gare in trasferta e lottare per la promozione. Di sicuro non sarà la prossima stagione, per la quale Pallalpiede sta ancora cercando gli ultimi finanziatori che permettano l’iscrizione alla Terza Categoria. Migranti. Ius Soli: i bambini e la nuova Italia di Gennaro Matino La Repubblica, 26 giugno 2017 "IO sto con loro". Con queste parole ho condiviso sulla mia pagina Facebook il video di Repubblica Tv che racconta di bambini nati nel nostro Paese, che crescono con i nostri figli, con il loro stesso dialetto, con i nostri costumi e la nostra cultura. Bambini che aspettano che sia loro finalmente riconosciuto il diritto sacrosanto dell’appartenenza, quello ius soli che nient’altro resta che solum ius, solo un diritto, soltanto un sacrosanto diritto che nasce dal bisogno di una nazione di aprire orizzonti nuovi di futuro benessere e di pace per se stessa e per le generazioni che l’abiteranno domani. In tempo di calo demografico, mentre il mondo è dilaniato da pestifere ideologie disgregative, "Io sto con loro" è schierarsi e scegliere in quale parte del campo giocare la propria avventura e rendere possibile il sogno di un’umanità che sa accogliere, apprezzare, accettare la diversità come valore straordinario per costruire una società integrata, giusta, orientata alla fraternità e all’armoniosa sintesi tra localismo e universalità. Non è un atto di carità, di misericordia, quasi elemosina da passare a chi è inceppato nella sfortuna di non essere italiano, ad usurpare spazio e capitali, è solo ius, giustizia che dice a chi non ha altro Paese che il nostro che è anche il suo. È solo intelligenza visionaria che politicamente organizza speranza investendo sul capitale umano, sulla risorsa più generosa per dire possibile una nazione più forte economicamente, più coesa, più lungimirante. Io sto con loro e non con il vecchio e il nuovo politichese che nasconde dietro la foglia di fico di altro a cui pensare, di altre emergenze da affrontare, il calcolo opportunistico o peggio il malcelato razzismo, barattando la dignità di figli, perché di nostri figli si tratta, di "fratelli d’Italia" anche loro, con qualche spicciolo di voti in più da pescare nel sottobosco del mai sopito spirito italico di fascista memoria. Quella stessa attitudine di far passare come giusto l’inganno che i diritti siano appannaggio di sangue e non di lavoro, di fatica, di osservanza della legge, di logica dell’appartenenza che superando il sangue rende cittadini chi ama esserlo, chi desidera esserlo, chi lotta per esserlo. L’insano verbo di chi divide, di chi cerca adepti scegliendo di "difendere" la dignità di una nazione proteggendola dall’invasione dei barbari, pur sapendo che gli unici barbari sono quelli che non sanno essere curiosi della diversità, quelli che orientano, formano, partoriscono persone ignoranti e grette come chi in risposta alla mia condivisione così postava: "Non sarebbe più giusto accogliere e aiutare, nei limiti delle risorse disponibili, garantendo diritti in cambio di doveri e in misura mai superiore a quelli dei cittadini?". Diritti mai superiori ai nostri, meglio sottoposti, forse schiavi. Dovranno pure crescere questi bambini e se vorranno restare, dovranno stare alle nostre dipendenze, ai nostri capricci. Beppe Grillo dice che la legge sullo ius soli in parlamento è un pastrocchio invotabile, basta con il buonismo, ma non dice come dovrebbe essere, non la vota passando la palla complice a Salvini che fa per lui il lavoro sporco, non si nasconde, non c’è bisogno di uno ius soli, non abbiamo bisogno di far crescere come italiani futuri membri di un prossimo partito islamico. È colpa della Chiesa, rincara Calderoli che meglio farebbe a preoccuparsi di disoccupati e poveri, dimenticando che però il compito dovrebbe essere il suo, quello della politica di dare risposte ai cittadini, soprattutto ai più disagiati e che la Chiesa fa la sua parte, anzi se non ci fosse stata la Chiesa a fare da supplenza nella mancanza dello stato sociale causato dalla corruzione e dal disastro politico morale provocato dal ventennio berlusconiano di cui il suo partito era complice e solidale, l’Italia non sarebbe stata risparmiata da più gravi disagi economico sociali. Lo stesso dice più "gentilmente" Di Maio, dimenticando che nel 2013 era lui a proporre lo ius soli: "parliamo di disoccupati". Mi sentirei offeso da disoccupato se qualcuno barattasse il mio diritto con il diritto di qualcun altro. Ciò che è vero è vero in sé ed è in sé che va ragionato: ma anche i 5 Stelle ormai hanno capito come funziona la politica nel nostro Paese. Non parlo di altri che ormai legano il ciuccio dove vuole il padrone di turno, inqualificabile la sceneggiata che quotidianamente offrono alla mancanza di idee e di visione. Io sto e resto con i prossimi italiani, con la loro giovinezza che come acqua nuova purificherà la stagnante, i nostri figli che faranno grande il nostro e il loro Paese. Io sto con loro, con tutti i giovani italiani per sangue, per nascita o per cultura, perché se fossi altrove avrei perso me stesso e tradito il mio essere davvero italiano. Yemen. Il network della tortura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 giugno 2017 La smentita è stata d’obbligo ma non è apparsa convincente. L’inchiesta dell’Associated Press su almeno 18 centri di detenzione segreti in Yemen, dove i militari degli Emirati arabi uniti torturerebbero e gli Usa interrogherebbero (il condizionale andrebbe tolto, perché il fatto è stato confermato dal Pentagono) persone sospettate di far parte di al-Qaeda, è invece preoccupantemente accurata e necessita, secondo Amnesty International, di un’indagine internazionale promossa e guidata dalle Nazioni Unite. Mentre da due anni buona parte dello Yemen è sconvolta dalla campagna militare contro le forze huthi guidata dall’Arabia Saudita, alimentata da copiose forniture di armi - anche dall’Italia - nel sud del paese silenziosamente si dà la caccia al presunto terrorista. Con ogni mezzo, migliaia di sparizioni comprese. Gli Emirati arabi uniti, che fanno parte della coalizione anti-huthi, sono noti per praticare massicciamente la tortura in casa. Nella guerra dello Yemen, il loro compito è essenzialmente quello di fornire equipaggiamento, addestramento e sostegno logistico alle forze di sicurezza di Aden e al-Mukalla, filo-governative. Gli Usa a loro volta hanno una lunga tradizione di appalto della tortura a paesi medio-orientali (tra cui Siria ed Egitto, nello scorso decennio) e di raccolta delle informazioni così estorte. Se la denuncia dell’Associated press venisse confermata in ogni dettaglio dall’auspicata inchiesta delle Nazioni Unite, risulterebbero complici di gravi crimini internazionali. Giappone. I detenuti meritano una seconda possibilità? focusgiappone.net, 26 giugno 2017 Quante possibilità ha un detenuto di ricominciare una vita normale una volta scontata la pena? I detenuti, una volta usciti dal carcere, il più delle volte non hanno un’occupazione a cui dedicarsi e l’unica alternativa possibile (e soprattutto la più semplice) sembra ricominciare a delinquere. La reintegrazione nella società è un fattore fondamentale ed indispensabile a completamento di un percorso, iniziato all’interno del carcere, che altrimenti resterebbe incompiuto. Non è sufficiente stabilire ed imporre una pena: è importante fornire una seconda possibilità. Fortunatamente, in una società così frenetica, troppo impegnata per curarsi di problemi simili, qualcuno ha scelto di non stare a guardare: la società Human Comedy Co., con sede a Tokyo, guidata da Akiko Miyake, ha deciso di pubblicare una rivista destinata ad essere distribuita nelle carceri e negli istituti penitenziari giovanili (per un totale di circa 100 strutture), a partire dalla metà di luglio. La prima edizione della rivista conterrà numerosi annunci di lavoro, offerti da dieci aziende appartenenti principalmente al settore delle costruzioni. "La probabilità che i detenuti una volta usciti dal carcere ricomincino a delinquere è, purtroppo, molto alta" - ha affermato Miyake in una recente intervista - "tuttavia ci sono aziende che giudicano i candidati in base alla loro motivazione, e non in base al loro trascorso, ed è un dovere della società quello di agevolare il contatto tra queste due realtà".