Segregazione e isolamento, la tortura soft dell’aguzzino di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 25 giugno 2017 Celle lisce e insonorizzate, interi reparti dove è più facile usare la violenza sui detenuti. Tra pochi giorni è attesa la sentenza della Corte Ue dei diritti umani sul carcere di Asti. Il testo di legge per introdurre il reato di tortura arriva alla camera lunedì. Senza correzioni. Il carcere deve essere un luogo aperto, trasparente. Era il 2000 quando Antigone pubblicò il primo rapporto sulle carceri italiane titolandolo per l’appunto "Il carcere trasparente". Da allora tutti gli anni giriamo in lungo e in largo l’Italia entrando nelle prigioni e raccontando quello che osserviamo. Dal 2012 lo facciamo anche con le videocamere. Ed è questa una conquista, non solo nostra, ma anche de il manifesto con cui lanciammo la campagna affinché la stampa potesse raccontare anche con le immagini la vita nelle carceri italiane. Immediatamente dopo ci fu la condanna della Corte europea per i diritti umani nel caso Torreggiani e tutte le istituzioni italiane presero coscienza della drammaticità della vita dentro. Dunque in questo viaggio nelle carceri italiane diretto alla conoscenza del mondo di dentro molto dobbiamo a questo giornale, oltre che a chi nell’amministrazione penitenziaria non ha mai esercitato censura o posto divieti pretestuosi al nostro monitoraggio. La nostra ambizione, come da sempre ci ha insegnato Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, è che l’osservazione, mai neutrale, possa trasformare l’oggetto osservato. Entrare in una galera senza essere detenuto o essere parte dello staff è in primo luogo uno straordinario mezzo di prevenzione rispetto a tentazioni di violenza o di abusi. Più occhi esterni squarciano il buio e rompono il monopolio di controllo delle istituzioni, meno i detenuti saranno considerati cosa loro. I custodi non devono considerare i custoditi loro proprietà privata. Tra i luoghi bui del carcere vi è il reparto di isolamento, ossia il luogo dove viene scontata quella che è ritenuta la sanzione disciplinare per eccellenza. La legge prevede che l’isolamento debba durare massimo per quindici giorni. In isolamento si trovano le persone difficili, i detenuti più a rischio. È nelle celle di isolamento, spesso lisce, disadorne, vuote, tragiche, che possono venire in mente pensieri suicidari. Come i pensieri venuti nella testa di Youssef, suicidatosi nel carcere di Paola nell’ottobre del 2016. Pare avesse scritto ai suoi familiari che in quella cella d’isolamento fosse costretto a dormire per terra. Quindici giorni dopo avrebbe finito di espiare la sua condanna. In quello stesso reparto del carcere calabrese un altro detenuto, questa volta italiano, si era tolto la vita qualche settimana prima. L’isolamento è un carcere nel carcere. In giro per l’Italia si vedono ancora reparti di isolamento lontani dagli sguardi dei visitatori. Alla fine degli anni novanta, l’allora indimenticato capo dell’amministrazione penitenziaria Alessandro Margara con una propria circolare di fatto abrogò l’isolamento. Un detenuto, seppur sanzionato disciplinarmente, non avrebbe mai dovuto essere spostato dalla sua cella e comunque mai essere isolato, privato della comunicazione con il mondo esterno. La circolare è stata mal sopportata nella periferia penitenziaria e di conseguenza è stata scarsamente rispettata. In isolamento vengono in mente pensieri di morte, aumenta l’aggressività, si subiscono danni psico-sociali irreversibili. È più facile che in isolamento ci sia violenza gratuita come quella dei poliziotti che nel carcere di Asti nel 2004 torturarono due detenuti comuni, fino a fargli lo scalpo. Da un giorno all’altro attendiamo la sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che speriamo restituisca giustizia e memoria ad una delle due vittime. L’altra purtroppo, nel frattempo, è deceduta per cause naturali. Nei giorni in cui molto si è parlato di tortura, va ricordato che alcune azioni per prevenirla si possono fare subito. Ad esempio subito si potrebbe dare applicazione alla circolare voluta da Margara, chiudere i reparti di isolamento, chiudere tutte le celle lisce e insonorizzate. Si può fare a legislazione vigente. Si possono dare indicazioni ai direttori affinché non eccedano nell’esercizio dell’azione disciplinare. E nel caso dei minori, sarebbe buona cosa rinunciare del tutto a una pratica che è violativa, forse in modo irreversibile, del loro stato di salute e della loro crescita sana. Non si può tenere un quindicenne isolato sensorialmente e umanamente per più di pochi minuti. Isolare un ragazzo configura un trattamento inumano e degradante, contrario alle norme internazionali. Il Guardian ha proposto ai suoi lettori on-line un’esperienza virtuale di isolamento. È facile trovarla in rete e provare cosa significhi per la propria lucidità stare chiusi in pochi metri quadri per ore, giorni, settimane. Seppur vero che in Italia l’isolamento disciplinare non può durare più di quindici giorni non è infrequente che tale limite venga superato intervallando due periodi di isolamento con poche ore di galera normale. Esiste poi un altro isolamento, non regolato, con eccessi di discrezionalità applicativa ed è l’isolamento giudiziario, ossia quello disposto dai giudici per ragioni investigative. Non ha limiti di tempo né modalità predeterminate. Mi è capitato negli anni di trovare persone lasciate in cella senza servizi igienici nella speranza di ritrovare gli ovuli di droga da loro presumibilmente inghiottiti prima dell’ingresso in carcere. Persone dunque costrette a vivere tra i loro bisogni. In questi giorni che si celebrano le vittime della tortura il ministero della Giustizia potrebbe fare subito quanto è nelle sue prerogative, senza aspettare avalli normativi superiori, ossia togliere di mezzo le celle di isolamento e le celle lisce. A sua volta il Csm dovrebbe dare indicazioni contro gli abusi nell’isolamento giudiziario. La tortura e i maltrattamenti hanno tante forme, alcune classiche, altre più subdole, meno appariscenti. La cultura della violenza non si sconfigge solo con le norme ma anche con pratiche rispettose della dignità umana. In questo viaggio oramai ventennale nelle prigioni d’Italia ho incontrato tantissimi operatori - direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, cappellani, medici, psicologi, volontari, insegnanti, garanti - eccezionali. Questi ultimi non vanno lasciati soli. Vanno premiati quelli che hanno il coraggio di costruire un modello di detenzione non violento e rispettoso della dignità umana, anche se più rischioso rispetto ai canoni tradizionali della sicurezza. Anche questa è prevenzione della tortura. Carcere e università: da Nord a Sud percorsi di studio per i detenuti di Fabio Mandato agensir.it, 25 giugno 2017 La cultura supera le sbarre. Nelle parole del rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci, il compito che l’Ateneo calabrese sta avviando. Ma quello di Cosenza non è il primo modello. Ce ne sono altri in Italia e rispondono alla stessa esigenza: "Dare speranza al territorio e a chi ha sbagliato". "Attuare lo spirito della reclusione, che deve tendere alla rieducazione". È questa la mission delle università che aprono le proprie porte ai detenuti. Il luogo del sapere e dei saperi, dell’apertura massima, entra nelle carceri, tra i "ristretti". La cultura supera le sbarre. Nelle parole del rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci, il compito che l’Ateneo calabrese sta avviando. Ma quello calabrese non è il primo modello. Ce ne sono altri in Italia, da Nord a Sud, e rispondono alla stessa esigenza: "Dare speranza al territorio e a chi ha sbagliato". Ne vediamo alcuni. Modello Toscana. Dal 2000 è attivo il Polo universitario toscano, che unisce le università di Firenze, Pisa e Siena, grazie anche all’apporto dell’associazione Volontariato penitenziario. Nel 2010 è stato firmato il Protocollo d’intesa per l’istituzione del Polo universitario penitenziario della Toscana. A parlarne è il coordinatore regionale, Antonio Vallini: "Per i detenuti che intendono iniziare un percorso di studi offriamo tutti i corsi delle tre università, a partire da un orientamento iniziale". Oltre 100 gli studenti iscritti. Da sottolineare il caso Prato, dove all’interno del carcere è presente una "sezione universitaria, dove i docenti, con un permesso speciale, entrano ed escono". Sardegna. A Sassari il percorso del Polo universitario penitenziario era iniziato nel 2004 con un accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel 2014 poi un protocollo d’intesa aveva dato inizio a una partnership con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Quattro le carceri protagoniste: Alghero, Tempio, Sassari e Nuoro. "In totale queste case circondariali hanno un migliaio di detenuti, Sassari oltre 500 in quattro sezioni, Tempio e Nuoro 200 in alta sicurezza, ad Alghero i detenuti comuni - i numeri di Emmanuele Farris, delegato del rettore per il diritto allo studio dei detenuti -. Riguardo a questi sottolineo come, grazie ai premi che ricevono, possono anche seguire le lezioni e vivere l’università, venendo anche a mensa. Ogni anno abbiamo iscritti circa 40 detenuti, la metà dei quali nel carcere di Tempio". In Calabria. Già quattro i detenuti laureati all’Università della Calabria. Particolarmente proficua, finora, la partnership con il carcere di Rossano e, in particolare, con il suo cappellano, don Piero Frizzarin. Ma l’obiettivo è un altro. Col modello Firenze, si vuole arrivare a un Polo penitenziario vero e proprio. La parola al delegato del rettore, Pietro Fantozzi: "Per la costruzione di questo polo la nostra volontà è di offrire opportunità anche agli altri due Atenei calabresi. Incontreremo il responsabile regionale del sistema carcerario, nonché i direttori delle 12 case circondariali, anche per stabilire la convenzione da attuare. Poi pensavamo di incontrare tutti i cappellani delle carceri, perché il progetto possa funzionare bene è necessario che tutti quanti sono impegnati nelle carceri sostengano quanti intendono studiare". Servizi. Tra le esigenze, assicurare diritti agli studenti detenuti. Presso il polo di Sassari - il Comune ha istituito anche un Garante dei diritti - gli studenti detenuti conservano le agevolazioni "per tutto il percorso di studi a prescindere dal fine pena", dice Farris. Tra queste spiccano "il pagamento di una tassa minima a prescindere dal censo, l’aiuto per l’acquisto dei libri e il prestito inter-bibliotecario tra le biblioteche carcerarie e quelle universitarie". Di "servizio prestito della biblioteca interna al carcere" parla anche Vallini, che sottolinea come presso la casa circondariale di Prato vi siano anche i pc e la possibilità di collegamento telematico e audiovisivo. "Anche per gli esami attraverso videotelefono". Materie scelte. Scienze politiche, giuridiche e agrarie. Sono questi i corsi di laurea scelti prevalentemente dagli studenti di Sassari. "La scelta riflette sostanzialmente la propria situazione personale, anche di esperienze precedenti", spiega Farris. Insomma, chi ha avuto esperienze in agricoltura è portato a scegliere scienze agrarie. Agraria si conferma tra le lauree più scelte anche nel Polo penitenziario fiorentino, come dice Vallini, insieme a "scienze politiche, scienze della formazione e lettere. Ma stiamo portando avanti anche una laurea in medicina". In rete. Farris sottolinea l’importanza dell’esistenza di un "garante che chiama a raccolta le Istituzioni, le associazioni. Qui si lavora bene con il territorio ed è necessario perché da solo non ce la fai". Per questo sono importanti le risorse umane nel tutoraggio. "Noi abbiamo pensato di coinvolgere le associazioni studentesche, non solo come volontari, ma anche riconoscendo loro dei crediti. Per un servizio volontario ci affidiamo invece ai professori in pensione". Riprende Fantozzi: "Insieme alle educatrici, il ruolo dei volontari esterni è fondamentale altrimenti difficilmente si riesce a realizzare un sistema che funzioni. Il servizio, infatti, deve portare a una crescita vera, e la riabilitazione deve avvenire con uno sforzo, con un impegno, con il sostegno di tutti". Missione compiuta. Vallini è convinto del buon esito del lavoro realizzato in seno al Polo. "Siamo molto soddisfatti non solo per il numero dei laureati, ma anche perché molti di essi, anche se non sono arrivati a conseguire la laurea oppure non possono poi concretamente spenderla sul territorio, dopo aver vissuto l’esperienza della studio, hanno scoperto un carcere alternativo. Per questo si vedono effetti nella rieducazione". A fargli eco è Farris, che ricorda come "a livello nazionale la recidiva è molto alta ma diminuisce per quei detenuti che hanno un percorso di studio, di lavoro, di pene alternative". A Cosenza invece hanno conseguito la laurea anche degli ergastolani ostativi. "Per questi il titolo è servito soprattutto a loro - spiega Fantozzi. Siamo arrivati a 11 persone iscritte e questo vuol dire che è cambiato il clima in carcere e lo studio è diventato un elemento di emulazione". Fiandaca: "C’è un eccesso di reati e di pene, la politica è troppo emotiva" di Luigi Ferrarella La Lettura - Corriere della Sera, 25 giugno 2017 L’intervista a Giovanni Fiandaca, docente a Palermo, che ha appena pubblicato "Prima lezione di diritto penale" su modi, tempi e strumenti della punizione. "Ci vorrebbe un "fermo normativo" di non breve durata delle leggi che stabiliscono reati e pene, per ripensare in maniera più razionale, organica e sobria il diritto penale sostanziale". Come per i pesci quando bisogna ripopolare il mare, sembra pensare il professor Giovanni Fiandaca, fresco autore di Prima lezione di diritto penale (Laterza), che il sessantanovenne docente di diritto penale all’Università di Palermo, già presidente di commissioni ministeriali ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, dichiara di aver scritto "per i non specialisti" sul cosa punire, come e perché. È un diritto penale inflazionato? "Per effetto di frequenti rattoppi e aggiunte, sempre più somiglia a un vestito d’Arlecchino, o a un quadro dadaista nel quale prospettive e figure e colori si sovrappongono in maniera disordinata". La società sta male e vive angosciata, allora le si somministra la pillola calmante di nuovi reati o di pene aumentate: siamo al diritto come ansiolitico? "Come strumento per sedare le ansie collettive provocate dall’allarme-criminalità. Anche se la funzione di rassicurazione collettiva può risultare illusoria: non esistono riscontri empirici idonei a suffragare l’idea che pene draconiane servano davvero a distogliere dal commettere reati. Ragion per cui le forze politiche sbagliano nell’assecondare acriticamente le richieste collettive di maggiore punizione, le quali spesso riflettono reazioni emotive e pulsioni aggressive che sfuggono a ogni controllo razionale". È pur sempre un modo della politica di "parlare" ai cittadini-elettori. "La pena è sempre stata e continua a essere un potente "medium comunicativo", il che spiega la ricorrente tentazione di due suoi usi politico-comunicativi. Pri- mo: creando nuovi reati o inasprendo reati preesistenti, il ceto politico veicola il duplice messaggio di prendere sul serio l’allarme sociale e di farsi carico del bisogno di sicurezza dei cittadini, e perciò confida di poter così lucrare consenso elettorale. Secondo: il ricorso allo strumento penale comporta difficoltà e richiede costi assai inferiori - in risorse materiali, tecniche ed umane - rispetto alla attuazione di strategie d’intervento basate sulla prevenzione extra-giuridica e sulle riforme economico-sociali". Da uomo di sinistra la colpisce che il "pan-punitivismo" dilaghi anche lì? "La tendenza all’impropria strumentalizzazione politica del diritto penale è in realtà da tempo trasversale. Ma rilevo che, mentre fino a un recente passato la tendenza repressiva delle forze di sinistra prendeva di mira soprattutto i reati di criminalità organizzata e quelli tipici dei colletti bianchi, queste stesse forze oggi scimmiottano la destra nell’incrementare il rigore repressivo della stessa delinquenza comune. Il che, dal mio punto di vista, segna un regresso politico-culturale. Si pensi all’impegno profuso dal Pd renziano per introdurre in una ottica populistico-vittimaria il nuovo e discutibilissimo reato dell’omicidio stradale, che rischia paradossalmente di risultare controproducente proprio rispetto al contrasto dei danni da incidenti stradali". C’è una relazione tra sistemi elettorali e qualità della legislazione? Il maggioritario di questi anni ha giovato alla formazione del diritto penale? "È una bella domanda. Premesso che mancano puntuali studi storico-ricostruttivi, mi limito a rilevare che la garanzia democratica sottostante alla riserva di legge in materia penale è volta a che le deliberazioni politiche su reati e pene siano frutto di un confronto dialettico il più possibile rappresentativo di tutte le posi- zioni. Da questo punto di vista, la logica della riserva di legge penalistica sembra compatibile più con la democrazia proporzionale che con quella maggioritaria. Ciò premesso in linea di principio, osservo che il maggioritario di questi anni, oltre a non risultare pienamente consonante con l’esigenza costituzionale di coprire col massimo di rappresentatività politica possibile la produzione di norme penali, non mi pare abbia per altro verso giovato a rendere più chiara, univoca o di approvazione più spedita la legiferazione penale, che ha dovuto accettare compromessi forse in misura maggiore che in passato". Come giudica l’appena approvata nuova legge sul processo penale? "A maggior ragione se guardata con le lenti del professore, va incontro a più di un rilievo. A parte gli ormai consueti aumenti di pena, spot pubblicitari a scopo elettoralistico, certo in teoria si poteva fare di meglio e di più. Quanto alla prescrizione, è poco corretto considerarla isolatamente dagli altri problemi di funzionamento del sistema giudiziario e, comunque, la soluzione non può consistere nell’allungarne sempre più i tempi, neppure nei reati di corruzione. Accade non di rado che le indagini, anziché prendere le mosse da ipotesi di reato sufficientemente profilate sin dall’inizio, impieghino molto tempo nell’andare alla ricerca di possibili reati. Inoltre, i tempi si allungano ulteriormente perché i pm non sempre dispongono delle conoscenze e competenze per risolvere con ragionevole tempestività i nodi sulla legittimità degli atti e sulle frequenti incertezze connesse alla fitta e oscura boscaglia delle disposizioni amministrative dietro cui si celerebbero gli accordi corruttivi". Ma voi professori siete innocenti o è vero pure, come in Radbruch da lei citato, che il diritto "ha perso la sua buona coscienza"? Ormai quasi a ogni cattedratico si può appiccicare in partenza l’appartenenza a un ambito politico del quale si sa già farà la stampella. "La scienza del diritto penale non si basa su conoscenze certe e neutrali, ma è una scienza debole e composita a sua volta ancorata a postulati politico-ideologici, e intrisa di giudizi di valore non sempre supportati da basi empiriche. Ma una cosa è esserne responsabilmente consapevoli. Altra cosa è che il cattedratico di turno si riduca a operare come un servo del principe, al servizio di una parte politica rinunciando in anticipo a ogni autonomia di giudizio e pensiero critico, così violando ogni regola di moralità professionale. Devo ammettere che, purtroppo, in alcuni casi questo completo asservimento si è verificato e continua a verificarsi, con conseguente pericolo di perdita di credibilità da parte di tutti". I magistrati hanno da guardarsi più dall’esterno o da se stessi? "Ritengo incomba più il rischio di possibili derive che non di minacce esterne. Andrebbe arginata una certa tendenza giudiziale a eludere basilari principi garantistici quali riserva di legge e tassatività, la quale sfocia in applicazioni così estensive da equivalere in alcuni casi a vere e proprie creazioni giurisprudenziali di nuove ipotesi di reato: un libertinaggio ermeneutico che, per quanto praticato anche in buona fede per soddisfare ritenute esigenze di tutela trascurate dal legislatore, viola il principio costituzionale della divisione dei poteri. Un’altra possibile deriva la riconnetterei alla persistente pretesa di una parte della magistratura, che può estendersi per contagio alle toghe più giovani, di assolvere ruoli di attori politici e educatori collettivi, nella convinzione anche sincera che la giustizia penale abbia tra i suoi compiti il rinnovamento politico e la moralizzazione pubblica. Dall’esterno, invece, non mi pare in questo momento il potere politico vagheggi riforme volte a limitare l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario. Se mai, mi sembra insidiosa minaccia esterna da scongiurare la perdurante tentazione della politica di corteggiare magistrati-star promettendo loro ruoli politici di primo piano, come la recente offerta da parte del Movimento 5-Stelle al pm Nino Di Matteo della candidatura a presidente della Regione siciliana o del Ministero della Giustizia in un eventuale governo grillino. È un perverso circuito giudiziario-politico che danneggia e discredita sia la giustizia, sia la politica". Primo a criticare radicalmente i presupposti giuridici del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su ciò lei è stato a sua volta assai criticato. "Da quella stessa parte di pm che io ho criticato nei miei scritti? Se è così, non sorprende. Ma è più rilevante che le mie critiche siano del tutto condivise da pm assai autorevoli e noti, di entrambe le aree, conservatrice e progressista, della magistratura. Continuo a ritenere che questo processo infinito, su storia e politica dei primi anni Novanta più che su plausibili ipotesi di reato - che rischia di avvitarsi sempre più su se stesso riproponendo teoremi accusatori più volte smentiti in altri processi e ribadendo con insistenza verità frutto più di fede che di logica probatoria - costituisca un grande laboratorio di analisi e riflessione per tutti i giuristi interessati a studiare al microscopio i possibili straripamenti e le mutazioni funzionali del processo penale". Forse per questo però è stato pure "arruolato" da garantismi pelosi. "Respingo fermamente, per il suo carattere decisamente illiberale, l’obiezione secondo cui non è lecito muovere critiche che possono oggettivamente prestarsi a essere strumentalizzate dal fronte dei garantisti pelosi: se le critiche sono fondate, lo studioso che le muove deve anche accettare il rischio di una possibile strumentalizzazione. Un eccesso di "correttezza politica", più che giovare, nuoce a quell’impegno per la verità cui ogni sistema democratico non può rinunciare". Italia grottesca sul reato di tortura. Arriva la legge, ma l’Europa l’ha già bocciata di Luigi Manconi Il Manifesto, 25 giugno 2017 Tristi coincidenze. La stroncatura del dl all’esame del parlamento negli stessi giorni in cui arriva la condanna per i "fatti della Diaz". Per una singolare e poco propizia coincidenza, a distanza di pochi giorni, due atti provenienti da diverse istituzioni europee hanno messo l’Italia sotto accusa. Entrambi i provvedimenti hanno a che fare con la irrisolta questione dell’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del delitto di tortura. Il primo documento è una sentenza, datata 22 giugno 2017, della Corte Europea dei diritti dell’uomo che condanna l’Italia a risarcire, per un importo complessivo di oltre due milioni di euro, 35 vittime dei "fatti della Diaz" accaduti durante il G8 del 2001 a Genova. "La Corte ha osservato che - si legge nell’atto - la procedura interna nel caso di specie era la stessa procedura che aveva determinato una violazione nel caso di Cestaro contro l’Italia. Non ha pertanto visto motivo di discostarsi dalle sue conclusioni in tale sentenza, anche per quanto riguarda le carenze del sistema giuridico italiano in materia di punizione della tortura". Ora, si replica da ambienti del Governo italiano, quelle "carenze" sono prossime ad essere colmate dall’imminente voto favorevole della Camera al disegno di legge contro la tortura, già approvato dal Senato lo scorso maggio. Ma ecco che, quasi nelle stesse ore, viene resa pubblica una lettera inviata dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks ai Presidenti dei due rami del Parlamento, a quelli delle commissioni Giustizia e a quello della commissione Diritti umani del Senato. Si tratta di un documento che più limpido non potrebbe essere: il testo della legge italiana viene puntualmente analizzato e criticato. Il Commissario per i Diritti Umani segnala alcuni aspetti e passaggi "che sembrano essere disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e alla Convenzione delle Nazioni Unite". Poi Muiznieks, entra nel merito e sottolinea come "nell’attuale versione del disegno di legge, perché si possa configurare il reato di tortura, sono necessarie "più condotte" di violenze o minacce gravi, ovvero crudeltà". Dunque, perché vi sia tortura sarebbe necessaria una pluralità di atti, il loro reiterarsi, il ripetersi magari in diverse circostanze. Il che nega proprio quanto affermato dalla Convenzione delle Nazioni Unite come fondamento stesso del concetto di tortura. Inoltre, il Commissario contesta il fatto che "la tortura psicologica è limitata ai casi in cui lo stesso trauma sia verificabile". Una circostanza che renderebbe davvero inapplicabile l’individuazione del reato, dal momento che gli effetti di un trauma psichico - basta scorrere anche da profani la letteratura scientifica internazionale - possono svanire dopo qualche tempo o manifestarsi a distanza di anni. Insomma, il testo che sta per diventare legge - forse in coincidenza con la giornata mondiale contro la tortura del 26 giugno: il che sarebbe cupamente grottesco - non è quello voluto e prefigurato dalle Convenzioni internazionali e non è quello che nell’ormai lontanissimo 1988 l’Italia si impegnava a introdurre nel nostro ordinamento. Si farà una legge mediocre, di ardua applicazione e che, probabilmente, non avrebbe consentito la condanna per tortura dei responsabili di quella "macelleria messicana" che trovò drammatica attuazione nella notte del 21 luglio nella scuola Diaz di Genova. E come suona tragicamente distante, tutto ciò, dalla dolente consapevolezza dei genitori di Giulio Regeni che, davanti al cadavere seviziato del proprio figlio, dissero di aver visto sul suo volto "tutto il male del mondo". Più manodopera contro la mafia di Alessio Viola Corriere del Mezzogiorno, 25 giugno 2017 La relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia è una sorta di messa laica di espiazione per i ritardi della giustizia e sulla lenta e apparentemente inarrestabile avanzata del potere mafioso nel nostro Paese. Come ogni anno vengono dedicate molte pagine alla Puglia, dense di riflessioni ma spesso carenti di proposte. Quella resa nota l’altro ieri però contiene elementi di approfondimento in parte nuovi, che vanno sottolineati ed approfonditi. Parlando dei clan baresi si sottolinea "il carattere levantino che connota la società civile del territorio", quasi un dato socio-antropologico su cui spesso si è sorvolato. Siamo all’essere sociale della letteratura marxista delle origini, alla sottolineatura che i mafiosi sono "pesci nell’acqua" di un mondo nel quale non sono estranei, ma troppo spesso parte integrante ed integrata. La relazione rileva "un abbassamento della soglia di legalità" rispetto ai clan "in una prospettiva della loro definitiva i sostituzione agli organi istituzionali dello Stato". E via elencando i settori in cui più forte è l’infiltrazione della "mafia degli affari": oltre ai tradizionali della droga, prostituzione, contrabbando, armi e traffico di esseri umani, i settori emergenti dell’agroalimentare e del turismo. Ovvero i motori principali dello sviluppo dell’economia regionale. Come sempre, queste relazioni offrono materia di riflessioni fin troppo crude. Su quella enorme zona grigia che tra Stato e anti-Stato troppo speso fa scegliere per la convenienza del momento: "Pochi maledetti e subito", lo ricorda anche l’Antimafia, è ancora il vangelo per tanta parte dell’economia pugliese. Dove purtroppo queste relazioni lamentano la loro debolezza e la stanchezza della ritualità è nelle proposte. Oltre all’appello solito alla società civile e alla ribellione delle coscienze, compito per altro della politica e delle organizzazione imprenditoriali, giovanili e culturali sul territorio, mancano proposte di soluzioni decise sul piano organizzativo. Per chiamare le cose col loro nome, parliamo di paurosi vuoti di organico nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nelle strutture di assistenza sociale e di welfare sul territorio. Che non siano le periodiche trasferte di qualche decina di poliziotti che vanno a fare i posti di blocco nei paesi dove avviene l’ultimo delitto, o dell’intitolazione di qualche strada di periferia ad una vittima della mafia. Parliamo di uno Stato e degli enti locali che dovrebbero avere la forza di redistribuire gli investimenti sulla sicurezza, in maniera massiccia, tagliando sprechi di ogni tipo che zavorrano pesantemente la possibilità di risposte forti alle sfide della mafia. Certo: il futuro, le scuole, l’educazione civica, la cittadinanza. Ma ora, subito, servono magistrati, poliziotti, assistenti sociali, psicologi, operatori di servizio civile sul territorio. Oggi, non in un futuro sempre più ipotecato dal potere mafioso. Lutto fra gli ergastolani per la scomparsa di Stefano Rodotà di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 25 giugno 2017 La morte del Professore Stefano Rodotà ci ha molto addolorato, perché gli uomini ombra (così si chiamano fra loro gli ergastolani) avevano ancora bisogno della sua voce e della sua luce per tentare di cancellare nel cuore degli umani e nel nostro ordinamento giuridico la pena più crudele che un uomo possa dare e ricevere: la condanna alla "Pena di Morte Viva". Molti non sanno che il Professor Stefano Rodotà, insieme a Margherita Hack, Umberto Veronesi, Franca Rame, Don Andrea Gallo e tanti altri ancora vivi, era uno dei primi firmatari della proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo sul sito carmelomusumeci.com. Anni fa, anche a nome dei miei compagni, gli avevo scritto questa lettera: "La prigione è un mondo ignoto per tutti quelli che sono liberi e, per fare conoscere ai "buoni" l’inferno che hanno creato e che mal governano, scrivo spesso sulla violenza del mondo carcerario. Sono un "cattivo, maledetto e colpevole per sempre" destinato a morire in carcere se al mio posto in cella non ci metto qualcun altro, perché sono condannato alla "Pena di Morte Viva". Infatti in Italia una legge prevede che se non parli e non fai condannare qualcun altro al tuo posto, la tua pena non finirà veramente mai e non avrai nessun beneficio o sconto di pena, escludendo così ogni speranza di reinserimento sociale. Questa condanna è peggiore, più dolorosa e più lunga, della pena di morte, perché è una condanna di morte al rallentatore, che ti ammazza lasciandoti vivo. Per questo gli ergastolani ostativi non hanno più età, come non l’hanno i morti, perché sono cadaveri viventi. E il nostro dolore è diverso da tutti gli altri prigionieri, perché non c’è neppure un briciolo di speranza in una cella di un uomo ombra. Per questo gli stessi ergastolani, con l’aiuto della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da Don Oreste Benzi, prendendo coscienza della loro situazione hanno deciso di mettere in rete una raccolta di adesioni denominata "Firma Contro L’Ergastolo", nel sito che porta il mio nome, www.carmelomusumeci.com , perché esistono molti modi per uccidere una persona, ma quello di murarlo vivo in nome del popolo italiano, senza l’umanità di ammazzarlo prima, è uno dei più crudeli. Sapendo del Sua sensibilità sociale abbiamo pensato d’invitarla ad aderire pubblicamente contro la pena dell’ergastolo". Molti miei compagni erano scettici sul fatto che una persona così importante come Stefano Rodotà avrebbe aderito ad un’iniziativa che partiva così "in basso" e lo ero anch’io, consapevole che difficilmente un uomo delle istituzioni avrebbe avuto il coraggio di aderire pubblicamente ad una campagna così impopolare e controcorrente. Eppure lui lo fece, subito e senza esitazioni, facendoci così capire che non tutta la società era d’accordo a considerare irrecuperabili per sempre i condannati all’ergastolo. Grazie professore. Buon riposo. La "politica delle libertà" per cui Rodotà si è impegnato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 25 giugno 2017 Pugnace e combattivo, Rodotà ha svolto un ruolo attivo in quella che lui stesso definiva "politica delle libertà", consapevole del fatto che non basta garantirle nella Costituzione. Cinquant’anni fa, Stefano Rodotà terminava la sua prolusione maceratese dichiarando una "profonda e mondana fede nella ragione", ma proponendosi anche di "avventurarsi del gran mare del mondo, dove, anche se con pericolo, si può nuotare liberamente". Quello scritto - manifesto non era solo una invocazione alla fantasia giuridica, fatta con le parole di un grande letterato, ma anche un programma anti-concettualistico, che assegnava al giurista il compito di indagatore della realtà sociale. Un programma che Rodotà, non ancora trentenne, aveva già cominciato a realizzare con un lungo saggio sulla proprietà (del 1960), che aveva suscitato interesse sia per la nuova interpretazione di un antico istituto, sia per il modo in cui essa veniva esposta (vi era una citazione di Thomas Mann che fece storcere il naso a diversi cattedratici parrucconi). Dopo questo esordio felice degli anni 60, Rodotà è stato insegnante a Macerata, Genova e Roma, autore di molti libri ed articoli scientifici, collaboratore del Mondo, del Giorno, di Panorama, di Rinascita, di Repubblica, "public moralist", parlamentare, amministratore pubblico (quale presidente del Garante della protezione dei dati personali). Ma tra tante attività, di quella che è stata la sua principale vorrei parlare, quella di studioso. Uomo con grandi curiosità, di vastissime letture, specialmente non giuridiche, con una solidissima cultura giuridica, cominciò con il sostituire alla "triade formalistica" soggetto - fattispecie - negozio, allora dominante nello studio del diritto civile, la "triade realistica" proprietà - contratto - responsabilità, tre temi questi ultimi ai quali dedicò le sue ricerche degli anni 60. Questi primi suoi lavori miravano a far uscire lo studio del diritto dal "sonno dogmatico", dall’isolamento, dalla marginalizzazione e dalla sterilità scientifica. Aspiravano a rinnovare la cultura giuridica non solo svecchiandone le categorie concettuali, ma anche richiamando l’attenzione dei giuristi sul modo concreto in cui si struttura l’ordinamento. Demistificando i concetti giuridici, proponevano una legislazione per principi e il ricorso a clausole generali. Questi suoi primi studi avevano anche una tecnica particolare di scrittura, quella di "girare intorno" al tema (presentandolo da diversi punti di vista), e ai modi in cui era stato studiato, per infine "aggredirlo" e penetrarne la più intima struttura. Con gli anni 70, ha inizio una seconda fase, che si apre con la fondazione della rivista Politica del diritto. In questa fase, Rodotà si mette a esplorare le frontiere della sua materia, il diritto civile, conduce la sua battaglia contro il formalismo, valorizza il ruolo della Costituzione nel vivere civile. In questi anni, i suoi lavori non sono diretti solo a un pubblico di specialisti, perché riguardano il ruolo del diritto privato nella società, gli elaboratori elettronici, il controllo sociale delle attività private, fino al volume intitolato Alla ricerca delle libertà, del 1978, che apre un nuovo periodo dei suoi studi, nel quale il giurista Rodotà diventa "tout court" scienziato sociale e si interessa - spesso, nello scrivere, con spirito battagliero e radicale che non corrispondeva alla dolcezza, alla riflessività e alla mitezza dell’uomo - di tecnologie e diritti, di tecno-politica, di privacy e libertà, delle regole che riguardano la vita delle persone, della laicità. Un ultimo passo avanti è quello dell’ultimo periodo. I libri del primo e del secondo decennio del nuovo millennio hanno per titolo Il diritto di avere diritti, Elogio del moralismo, Solidarietà, Il mondo nella rete, Diritto d’amore. Superate le rigide barriere del diritto, tuttavia egli continua a interessarsi a argomenti strettamente afferenti al campo giuridico, declinato nel modo particolare che gli era proprio, con gli studi di bio-diritto e sulle tecnologie dell’informazione. In questa ultima fase, in particolare, Rodotà è divenuto un combattente sul fronte dei diritti, la cui voce non era più solo diretta al mondo dei giuristi (un mondo nel quale occupava un posto di primo piano), ma al più vasto mondo della società civile, sensibile alla tutela e al progresso dei diritti sociali e delle libertà. Pugnace e combattivo, Rodotà ha svolto un ruolo attivo in quella che lui stesso definiva "politica delle libertà", consapevole del fatto che non basta garantirle nella Costituzione. Ed è per questo che egli verrà ricordato non solo come una grande studioso, che ha aperto nuove strade allo studio della società, ma anche come uno dei più attivi "guerriglieri dei diritti civili" (una espressione da lui stesso coniata nel 1978). Camerino (Mc): carcere, sindaco in pressing sul governo per la ricostruzione cronachemaceratesi.it, 25 giugno 2017 Lo ha comunicato Gianluca Pasqui all’assemblea pubblica di giovedì pomeriggio nella sede del Coc, la prima trasmessa in diretta radio. Il primo cittadino ha comunicato che mercoledì 21 giugno è stato a Roma, con il vicesindaco Lucarelli e l’ex sindaco Conti, per incontrare il sottosegretario Ferri, al quale è stata sollecitata la ricostruzione del carcere, per cui ci sarebbe già un terreno idoneo. Confermata la riattivazione del Giudice di pace, nel terreno dell’ex campo sportivo dietro l’Ipia, con fondi comunali. Sollecitato da una domanda sulle strade, Pasqui ha detto che alcune sono in pessime condizioni e che in futuro potrebbe essere costretto a chiuderle, gli interventi sono programmati in base ai fondi a disposizione. Riguardo al futuro centro commerciale in località San Paolo, ha detto di essere scettico, sul fatto che sarà completato a dicembre. Da un’altra domanda è venuto fuori che sono in fase di approvazione in Regione due interventi a Valle San Martino, il sindaco però ha specificato che la Regione che dovrebbe concedere l’autorizzazione entro tre giorni di norma ci impiega un mese. Diversi cittadini hanno espresso apprezzamento per gli incontri portati avanti dai giovani architetti del team Cucinella. Pasqui ha poi ricordato che l’ufficio tecnico sta lavorando ad un cronoprogramma per i puntellamenti e le messe in sicurezza in centro storico. Di recente è stata ridotta la zona rossa: nell’ultima ordinanza si può circolare in vicolo San Silvestro, via Morrotto nel tratto compreso tra via Simone da Camerino e via Cesare Battisti, parte di vicolo del Pozzo, un tratto di viale Seneca sino all’incrocio con via Borgo San Giorgio e via Orazio Orazi, via Pontoni nel tratto da via Gioco del Pallone fino all’ex tempio dell’Annunziata (escluso). Questo è stato reso possibile dalla conclusione di alcuni lavori di messa in sicurezza: un muro sottostante un fabbricato in via Pontoni, un fabbricato in vicolo del Pozzo, un altro fabbricato in viale Seneca, una serie di edifici in via Morrotto e vicolo San Silvestro, debitamente puntellati. Prima di poter riaprire tutta via Morrotto sino al palazzo della Musica, occorrono altri tre interventi di messa in sicurezza ancora da fare e la rimozione di una tamponatura della scuola Betti. Da lunedì inizieranno i lavori a Madonna delle Carceri per segnaletica verticale ed orizzontale, marciapiedi e parcheggi, in un tratto di questa e a via Santoni, saranno istituiti sensi unici per la sicurezza stradale. Installato il cantiere per fare i lavori a San Domenico, si stima che la strada a piazza dei Costanti potrebbe riaprire entro due mesi, togliendo anche qui la zona rossa. Torino: dalla pasticceria in carcere nasce il Dolce di San Giovanni di Cinzia Gatti torinoggi.it, 25 giugno 2017 Presentato questa mattina: i proventi saranno devoluti a sostegno delle associazioni che si occupano dei detenuti e dei bambini vittime di violenze o in difficoltà. Dal dolore nasce il Dolce di San Giovanni. Il Santo Patrono di Torino quest’anno vede un’importante novità. I ragazzi del carcere minorile sabaudo Ferrante Aporti hanno infatti realizzato il Dolce di San Giovanni, che è stato presentato ufficialmente questa mattina alla messa in Duomo. A forma di mezzaluna, ripieno di marmellata di ciliegie, nocciole, mandorle e amarene, la ricetta per prepararlo è segreta. "All’interno dell’istituto", spiega uno dei promotori dell’iniziativa, "abbiamo un laboratorio di arte bianca gestito da Forcoop. Un’iniziativa resa possibile grazie ai percorsi professionali avviati insieme alla Regione" Tra di loro anche M., di origine egiziana, che questa mattina era davanti al Duomo per far assaggiare la novità dolciaria: "Io ho sempre cucinato, anche a casa. Mi piacerebbe lavorare in questo settore". I proventi ottenuti dalla vendita saranno devoluti a sostegno delle associazioni che si occupano dei detenuti e dei bambini vittime di violenze o in difficoltà. Carinola (Ce): carcere modello per detenuti e famiglie, ora c’è lo spazio arcobaleno Il Mattino, 25 giugno 2017 Un carcere, quello di Carinola, caratterizzato dall’attenzione verso il detenuto, dalla cura dei suoi bisogni e delle sue necessità. Una casa circondariale dal volto umano che ha nella sua politica la riabilitazione e il reinserimento nella società dei suoi ospiti. Da qui le iniziative tese a farli sentire non esclusi ma parte integrante della comunità civile dalla quale sono momentaneamente lontani già da quando la loro condizione è ancora quella di recluso. "La nostra azione è tesa a favorire qualsiasi iniziativa capace di far crescere nei detenuti la consapevolezza che tutto può succedere anche in senso positivo", ha affermato Carmela Campi, direttrice della casa circondariale di Carinola. "Ma è necessario che si creino sinergie positive che hanno come scopo il coinvolgimento e l’inclusione diretta a chi vive il disagio. Le leggi ci sono, e possiamo lavorare bene anche con collaborazioni esterne". Tante le attività che si svolgono fra le mura del carcere e anche fuori, tese proprio a raggiungere questi obiettivi. Oltre alle attività esterne svolte dai detenuti che lavorano presso enti ed istituzioni del territorio, fra le quali la più conosciuta è quella che ancora vede impegnati un gruppo di detenuti nei giardini della Reggia di Caserta, sono di questi giorni alcune iniziative finalizzate proprio all’integrazione. Le più recenti sono il concerto per la Festa della musica che si è tenuto nel campo sportivo del carcere al quale hanno assistito 300 detenuti e l’inaugurazione dello spazio Arcobaleno. All’evento musicale, nato dalla collaborazione fra la Comunità di Sant’Egidio, l’Istituto "Nifo" di Sessa Aurunca e la direzione della Casa di Reclusione di Carinola, hanno partecipato, il maestro Filippo Morace, il chitarrista Francesco Buzzurro, gli studenti del liceo musicale Nifo, diretti dal Gerardo Valente, il gruppo canoro della Casa di Reclusione di Carinola. Lo "spazio arcobaleno" è invece un luogo aperto, allegro, colorato, pieno di giochi ma anche di libri realizzato dal club di Caserta del Soroptimist International dove i reclusi incontrano i figli. "Abbiamo allestito quest’area per rendere meno traumatico il colloquio fra bambini e adulti" ha spiegato la presidente del club, Rita Muto. "Entrare fra queste mura costituisce spesso un’esperienza brutta per i bambini: sentire le porte che si chiudono dietro le proprie spalle, stare in ambienti spartani, può lasciare nei bambini un ricordo triste e indelebile". All’inaugurazione ha partecipato anche la presidente europea del Soroptimist International, Elisabetta De Franciscis, che ha sottolineato che l’iniziativa tutta italiana dello Spazio arcobaleno è stata tanto apprezzata a livello europeo che il club della civilissima Norvegia ha espresso la volontà di conoscerne il know how per organizzarlo anche nelle case circondariali norvegesi. Verona: "dacci speranza", i detenuti si appellano a Mannino (Legalità Internazionale) di Federico Fiocco gdmed.it, 25 giugno 2017 "Dopo aver presenziato alla "Sagra di Primavera" di Venezia, dove ha ribadito l’importanza di perseverare nella lotta alla criminalità, Nicolò Mannino - Presidente del Parlamento della Legalità Internazionale - ha portato un messaggio di amore e speranza ai detenuti della Casa Circondariale di Verona. Il Presidente, accompagnato da una delegazione composta da Anna Lisa Tiberio - Coordinatrice della Rete di Cittadinanza Costituzione e Legalità, Thomas Piccinini - Sindaco di Mozzecane - ed uno staff di collaboratori, ha incontrato i detenuti e le detenute della Casa Circondariale diretta da Maria Grazia Bregoli. La Direttrice ha iniziato l’incontro mettendo in evidenza l’armonia di intenti tra l’operato delle Carceri e i valori propugnati dal Parlamento della Legalità Internazionale. Il Presidente Nicolò Mannino ha evidenziato episodi personali che lo hanno motivato a sensibilizzare giovani ed adulti ai temi della legalità e della cittadinanza attiva e consapevole. In particolare ha rievocato, con ardore colmo di sommo rispetto, le figure dei Giudici Falcone e Borsellino e di tutti coloro che hanno perso la vita per difendere la nostra Costituzione. Altro momento toccante è stata la rievocazione dell’efferato omicidio di Giuseppe Di Matteo, seguita dal monito a non lasciarsi sopraffare dal dolore e dalla rabbia, anche di fronte ad azioni così inumane. È estremamente importante capire che tutte le nostre azioni devono essere tese alla consapevolezza e al rispetto delle regole di convivenza civile e democratica. Può succedere di sbagliare, ed è giusto pagarne le conseguenze - come successivamente ribadito dal Sindaco Thomas Piccinini -, ma è altrettanto importante offrire una possibilità di riscatto ai detenuti meritevoli. Il percorso di riabilitazione non è però un lavoro che i detenuti compiono da soli. Alle loro spalle ci sono infatti numerosi esperti e professionisti che si prodigano nell’aiutare gli altri senza essere, con le parole del Presidente Mannino, "carcerati del proprio orgoglio". n tal senso si deve ricordare anche l’impegno della Dottoressa Anna Lisa Tiberio che, stringendo le mani ai detenuti, ha fatto capire loro quanto sia importante studiare. Infatti, non a caso, proprio questo 22 Giugno, alcuni detenuti hanno partecipato alla seconda prova dell’esame di Stato che consentirà loro di proseguire nel percorso riabilitativo. Fondamentale è il lavoro che la scuola sta facendo per abbattere la stigmatizzazione e gli stereotipi, perché la speranza di essere accolti dagli altri è per i detenuti un motivo del loro desiderio di cambiamento. Si deve evidenziare che proprio dagli interventi dei detenuti è emersa una grande volontà di superare il dolore e di riscattarsi, ma anche un auspicio ad essere accettati. Si è percepita voglia di dialogare e di confrontarsi parlando delle loro storie, dimostrando consapevolezza dei propri errori. Segno, questo, che il lavoro condotto nella Casa Circondariale sta dando i suoi frutti sia nella riabilitazione che nell’integrazione dei detenuti". Augusta (Sr): applausi nella nuova arena del carcere per il primo dei due concerti estivi lagazzettaaugustana.it, 25 giugno 2017 Si è tenuto l’altra sera, venerdì 23 giugno, nella nuova "Maxi Arena Gattabuia" della casa di reclusione, il primo dei due concerti estivi all’aperto, per pubblico esterno, tenuti dalla "Swing Brucoli’s Brothers Band", gruppo vocale formato da detenuti e diretto dal maestro Maria Grazia Morello. Platea folta, circa duecento gli spettatori, fra i quali il presidente del Tribunale di Siracusa Antonio Maiorana, il magistrato di sorveglianza dirigente Anna Maria Guglielmino, accompagnata da tutto lo staff del suo ufficio, il neo sindaco di Melilli Giuseppe Carta, oltre a dirigenti scolastici, rappresentanti di associazioni e club service e tanti giovani. In apertura, il direttore della casa di reclusione Antonio Gelardi ha ringraziato gli spettatori accorsi e il personale di tutte le aree, che ha lavorato a lungo per consentire la realizzazione dell’evento, nonché i detenuti della squadra manutenzione che si sono sbracciati per predisporre il nuovo sito. Venti i coristi, alcuni prossimi all’uscita dal penitenziario, il cosiddetto "fine pena", altri con un lungo tragitto detentivo ancora da compiere. Alla fine tutto il pubblico si è alzato in piedi per omaggiare, con una lunga ola, la Band. Questo sabato sera la replica, e l’organizzazione comunica che sono attese quattrocento persone. La direzione premierà i coristi, consentendo in via eccezionale la presenza dei familiari per tutta la durata del concerto. Un altro spazio particolare verrà concesso ai familiari la prossima settimana. Infatti i detenuti che frequentano il corso di ceramica potranno partecipare, sotto la direzione della docente Simona Farina, ad un laboratorio artigianale insieme ai propri figli. Anche questa autorizzazione si colloca nell’ambito dello speciale favore che l’ordinamento penitenziario riserva ai rapporti con i familiari e che saranno oggetto di ulteriore ampliamento con i decreti delegati attuativi della riforma della giustizia, recentemente approvata dal Parlamento, che prevede, fra le altre cose, ampio spazio dedicato alla affettività. Un amore più serio per l’Europa di Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 25 giugno 2017 Difendere le frontiere europee è facile: una polizia di frontiera già esiste, si chiama Frontex, basta spendere di più. Idem per politiche volte a proteggere i lavoratori spiazzati dalla globalizzazione: anche qui un fondo già esiste, si chiama European Globalization Adjustment Fund, ma è minuscolo, bisognerebbe allargarlo. È possibile che i cittadini siano disposti a destinare una quota delle tasse che oggi pagano agli Stati nazionali al finanziamento di attività a livello europeo che evidentemente ritengono importanti. Potrebbe essere anche un modo per convincere la Germania a risparmiare un po’ di meno: oggi, tutta insieme, la Germania risparmia circa 270 miliardi di euro l’anno. E tuttavia, quella indicata da Macron non è una via priva di pericoli. Ha il merito di spostare l’attenzione su poche chiare priorità, certamente troppo a lungo tralasciate. Questo aiuterà a rendere l’Europa ancor più popolare fra i suoi cittadini, li aiuterà, come scriveva ieri sul Corriere Angelo Panebianco, a ritrovare una loro "identità". Forse metterà definitivamente fuori gioco gli anti europeisti. Il pericolo però è che questo nuovo entusiasmo faccia dimenticare i molti cantieri aperti, il più delle volte incompiuti perché arenati di fronte a gelosie o pregiudizi nazionali. Se i Paesi dell’euro fossero colpiti da una crisi simile a quella che si verificò nell’estate del 2011 (sarebbe incosciente escluderlo), quando i tassi di interesse italiani a dieci anni schizzarono oltre il 6 per cento, non è evidente che oggi disporremmo di strumenti più efficaci per farvi fronte. L’Omt (Outright Monetary Transactions), lo strumento creato dalla Bce nel 2012 e che consiste nell’acquisto da parte della Banca centrale di titoli di Stato di Paesi in difficoltà, non è mai stato messo alla prova. E per una buona ragione. Per accedere ai fondi un Paese deve impegnarsi (immagino con una mozione parlamentare) a realizzare un programma di stabilizzazione economica, cioè riforme e correzione dei conti pubblici. Impegni difficili da assumere se ad esempio il governo, nella crisi, ha perso la maggioranza. E comunque i dubbi di costituzionalità espressi in Germania (pur respinti dalla Corte di giustizia europea) probabilmente richiederebbero che il programma fosse quanto meno sottoposto al Parlamento di Berlino. Insomma, non uno strumento attivabile in un fine settimana per bloccare una crisi. Ci sono molte proposte: lo stesso ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, è favorevole alla trasformazione di un’istituzione che già esiste, il Meccanismo europeo di stabilità, in una specie di Fondo monetario europeo. Ma sarebbe inutile se le risorse dell’attuale meccanismo non fossero aumentate di un ordine di grandezza: di questo nessuno parla, né di eliminare il requisito che le decisioni richiedano l’unanimità dei Paesi aderenti all’euro. Altri cantieri aperti riguardano il fondo europeo per far fronte ai fallimenti bancari (l’attuale calendario prevede che vada a regime non prima del 2023), le regole con cui gestire il possibile default di un Paese dell’euro (se ci fossero, la crisi greca non si trascinerebbe da sette anni), il modo con cui ridurre la quantità di titoli pubblici domestici nei bilanci delle banche, una condizione necessaria per evitare che una crisi si avviti fra Stati e banche. Insomma, tutte questioni forse meno importanti e certo meno popolari delle tre proposte di Macron, ma anche più controverse, e proprio per questo bloccate da anni. Se non le si risolve rapidamente (e non è difficile, basterebbe spendere una piccola quota del capitale politico di cui oggi godono i leader europei), quando arriverà la prossima crisi i grandi progetti verranno ancora una volta messi da parte e, come è accaduto con la Grecia, i governi verranno assorbiti dalla quotidianità della crisi rischiando di perdere quell’apertura di credito che oggi fanno loro i cittadini. Ius soli, la maggioranza degli italiani dice no. In sei anni opinioni ribaltate di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 25 giugno 2017 Gli italiani favorevoli nel 2011 erano il 71 per cento, ora sono scesi al 44 per cento. Ma per la versione "temperata" c’è una maggioranza risicata. Finora il tema degli stranieri è stato caratterizzato da una forte ambivalenza tra gli italiani. In generale infatti la loro presenza suscita preoccupazione perché sono giudicati troppo numerosi, gravano sui conti pubblici e competono con gli italiani nel mercato del lavoro. Per non parlare dei rischi per la sicurezza, non solo per gli episodi di microcriminalità (scippi, furti negli appartamenti, spaccio, ecc.) ma anche per la possibile presenza di terroristi. Tuttavia, spostando l’attenzione dalla percezione generale del fenomeno all’esperienza diretta e alle persone straniere con cui si hanno rapporti quotidianamente (dalla badante all’operaio, ai compagni di scuola dei propri figli o nipoti), le minacce paventate spariscono, gli atteggiamenti cambiano e risultano più orientati all’inclusione. Insomma, da un lato si registra una chiusura determinata dall’allarme sociale e dall’altro un’apertura favorita da una pacifica convivenza. Il sondaggio odierno sullo ius soli sembra segnare una discontinuità rispetto a questa contraddizione: infatti oltre la metà degli italiani (54%) è contraria al riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di immigrati stranieri nati nel nostro Paese, con almeno un genitore che abbia un permesso di soggiorno permanente in Italia, mentre il 44% si dichiara favorevole. Nell’arco di sei anni le opinioni si sono rovesciate: da un sondaggio Ipsos pubblicato nel 2011 emergeva che i favorevoli allo ius soli (71%) prevalevano nettamente sui contrari (27%). Il tema è fortemente al centro del dibattito politico attuale e ha prodotto una netta polarizzazione delle opinioni. Gli elettori del Pd sono in larga misura favorevoli (78%) mentre tra quelli della Lega e di FI prevale nettamente la contrarietà (86%). L’elettorato del MoVimento 5 Stelle che, come noto, è più trasversale, presenta sensibilità diverse sulla questione e risulta più diviso: 58% i contrari allo ius soli a fronte del 42% di favorevoli. Ed è interessante soffermarci sulle differenze nei diversi segmenti sociali: i favorevoli prevalgono tra i più giovani (al di sotto dei 35 anni), tra i residenti nelle regioni del Nord Ovest, tra i laureati, i ceti dirigenti e impiegatizi, tra gli studenti e, sia pure di poco, tra le casalinghe. Mentre i contrari allo ius soli sono nettamente più presenti tra i commercianti, gli artigiani e i piccoli imprenditori, tra gli operai, i disoccupati e i pensionati. Inoltre, se analizziamo i credenti, coloro che hanno una partecipazione settimanale alla messa domenicale sono favorevoli allo ius soli, sia pure di poco, mentre chi ha una frequentazione meno assidua si dichiara nettamente contrario, nonostante la posizione da sempre assunta da papa Francesco sul tema dei migranti. L’ipotesi di riconoscere la cittadinanza a bambini e ragazzi figli di immigrati che abbiano frequentato per almeno cinque anni la scuola italiana modifica in parte gli atteggiamenti: in questo caso i favorevoli al riconoscimento della cittadinanza prevalgono sui contrari 51% a 47%, confermando la divisione nell’opinione pubblica. Divisione che si registra anche rispetto ad altre due questioni affrontate nel sondaggio odierno. La prima riguarda la nostra cultura e le nostre tradizioni: la presenza degli immigrati rappresenta una minaccia per il 50% degli italiani mentre il 49% è di parere opposto, ritenendo il confronto tra le culture uno dei fattori di crescita del Paese. La seconda è una questione più complessa, di cui negli ultimi tempi si è iniziato a discutere e ha a che fare con aspetti economici e sociali, in particolare gli effetti positivi della presenza degli stranieri in termini di demografia (contrasta l’invecchiamento della popolazione), gettito fiscale e contributivo (contribuiscono al pagamento delle pensioni di molti italiani), crescita del Pil e dei consumi. In sintesi, la presenza degli stranieri è necessaria per il nostro Paese ma a questo proposito la maggioranza degli italiani (54%) si dichiara in disaccordo. Le opinioni sono influenzate dall’orientamento politico ma non solo. Sono soprattutto i ceti più in difficoltà, e le persone meno istruite e quelle meno giovani a mostrare atteggiamenti di maggiore chiusura, dettati da una forte preoccupazione. Il dibattito acceso, lo scambio di accuse tra "buonisti" e "cattivisti", come pure l’appello agli aspetti etici produce più una radicalizzazione delle posizioni piuttosto che un confronto. E in questo scenario la partita tra emozioni e paure da un lato contro razionalità e pragmatismo dall’altro è tutta a vantaggio delle prime. Stati Uniti. "Non espelleteli: questi cristiani iracheni sono in America da 15 anni" di Elena Molinari Avvenire, 25 giugno 2017 Il racconto del religioso caldeo che assiste le decine di immigrati che Trump vuole rimpatriare. "Hanno già pagato per le loro colpe, là rischiano la vita o di essere torturati". La deportazione di questi nostri fratelli equivale a una condanna a morte, come il dipartimento di Stato ha riconosciuto lo scorso anno. (…) Il loro arresto ha seminato confusione e rabbia nella nostra comunità". La lettera che Francis Kalabat, eparca di San Tommaso Apostolo a Detroit, ha inviato a Washington in risposta alla minacciata espulsione di 114 caldei iracheni della sua diocesi tradisce lo stupore della Chiesa del Michigan di fronte alle incursioni degli agenti dell’immigrazione in decine di case della regione. "È tutto molto strano e doloroso - spiega Kalabat - queste persone non si stavano nascondendo, ma sono state buttate giù dal letto all’alba di domenica dall’irruzione di uomini armati. Il mandato di arresto li definisce criminali, ma chi fra loro aveva commesso un reato l’ha già pagato e si era del tutto reintegrato in società". Il rimpatrio forzato è stato sospeso da un tribunale di Detroit per due settimane, ma le famiglie degli arrestati non sono tranquille e continuano a manifestare di fronte agli uffici federali della città. Nel frattempo, altri 85 cristiani iracheni sono stati arrestati fuori dal Michigan e non sono protetti dalla sentenza emessa dal giudice Mark Goldsmith. Quasi tutti gli iracheni presi di mira dall’agenzia per l’immigrazione dell’Amministrazione Usa (Ice) sono arrivati negli Stati Uniti a partire dal 2003 come rifugiati, in fuga dalla guerra civile in Iraq e dalla persecuzione commessa nei confronti dei cristiani nel Paese mediorientale. Nel marzo del 2016 il dipartimento di Stato americano ha dichiarato che il Daesh aveva commesso e stava commettendo "un genocidio" nei confronti delle minoranze cristiane in Iraq e in Siria. Alcuni degli arrestati, stando alle associazioni per i diritti umani che li stanno difendendo, non hanno rinnovato i loro permessi di soggiorno, altri hanno commesso reati o infrazioni mentre si trovavano negli States. Ma tutti i carichi civili e penali sono già stati scontati con pene carcerarie o sanzioni pecuniarie negli ultimi anni. "Comprendiamo che qualcuno possa avere avuto dei problemi in passato - continua il vescovo Kalabat - ma ora non hanno debiti con la società, hanno messo su famiglia, sono diventate persone migliori in questo grande Paese di pace e di opportunità". L’Ice ha fatto sapere che i raid sono frutto di un recente accordo fra l’Amministrazione Trump e Baghdad: "In seguito a recenti negoziati fra Washington e Baghdad - dice la nota dell’agenzia - l’Iraq ha accettato di ricevere un certo numero di suoi cittadini oggetto di un ordine di rimozione". Un giudice federale ha firmato gli ordini di espulsione forzata qualche settimana fa. Attualmente tutti gli arrestati sono detenuti nel penitenziario di Youngstown, in Ohio, in attesa che i ricorsi avanzati a loro nome vengano ascoltati. "Come comunità, siamo in ansia e stiamo soffrendo", conclude padre Kalabat. Siria. Amnistia, rilasciati 672 detenuti, anche sostenitori dei ribelli Ansa, 25 giugno 2017 Curdi liberano 200 membri Isis. Il governo siriano ha rilasciato oggi centinaia di detenuti, tra cui alcuni sostenitori dell’opposizione armata al presidente Bashar al Assad, in occasione della festa per la fine del Ramadan, un atto di amnistia che si ripete ogni anno. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Hisham al Shaar. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani (Ondus) ha intanto riferito che le forze a maggioranza curde impegnate nell’offensiva per strappare all’Isis Raqqa hanno rilasciato per la stessa festività 200 miliziani dello Stato islamico che non si erano macchiati di reati di sangue, in un segno distensivo verso la popolazione locale araba in vista della formazione di una nuova autorità locale dopo la fine dell’occupazione del Califfato. I detenuti rilasciati dal governo sono 672, di cui 91 donne. Di questi, 588 erano in carcere a Damasco. Yemen. Governo Hadi annuncia inchiesta su carceri segreti dei soldati emiratini Nova, 25 giugno 2017 Il governo yemenita del presidente Abde Rabbo Mansur Hadi ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sui report diffusi dalla Ong "Human Right Watch" (Hrw) su presunti abusi commessi dai soldati degli Emirati Arabi Uniti, schierati ad Aden nell’ambito della Coalizione araba contro i ribelli Houthi, e sulla presenza di eventuali carceri segrete nel sud dello Yemen. In una nota il premier Ahmed Bendagher fa sapere di aver ordinato la formazione di una commissione d’inchiesta "sulle voci di violazioni dei diritti umani nelle zone liberate", intendendo le aree non controllate dai ribelli sciiti. La commissione è composta da sei membri e presieduta dal ministro della Giustizia, il giudice Jamal Omar, e presenterà una relazione al primo ministro entro 15 giorni. La Ong ha denunciato arresti sommari e torture ai danni dei detenuti in prigioni segrete controllate da forze armate e sostenute dagli Emirati Arabi Uniti. In un report del 22 giugno si parla di 49 casi di persone adulte e 4 di ragazzini nelle province di Aden e Hadramawt. Stati Uniti. Un sicario della mafia esce di prigione a 100 anni Ap, 25 giugno 2017 John "Sonny" Franzese, il detenuto più anziano delle carceri federali statunitensi e uno dei più feroci sicari della storia della mafia negli Usa, è un uomo libero. Ha appena compiuto la veneranda età di 100 anni. Dopo decenni di detenzione è uscito venerdì dal Federal Medical Center in Massachusetts su di una sedia a rotelle e si è diretto a casa della figlia a Brooklyn. L’ultima condanna risale al 2010, quando a 93 anni gli furono dati otto anni di carcere per aver ricattato alcuni bar e strip club di Manhattan, chiedendo il pagamento di un pizzo. Don Franzese - a lungo alle dipendenze dei boss della famiglia dei Colombo - è stato accusato nella sua vita dell’uccisione di decine di persone, tra le 50 e le 100 vittime. Nel 2010 il giudice federale dell’ultima condanna affermò che per Franzese, nonostante l’età già avanzata, "morire in carcere era una pena più che adeguata considerando il suo stile di vita". Vita fatta anche di sfarzi e di frequentazioni glamour con personalità dello sport e dello spettacolo, come l’ex pugile Jake LaMotta e Frank Sinatra. Mai il magistrato avrebbe immaginato che oggi Franzese fosse ancora vivo. Ora il primato del detenuto più anziano negli Usa passa ad un altro italo-americano: il gangster Salvatore Sparacio, in carcere a Filadelfia e che ha "solo" 95 anni.