La riforma dell’Ordinamento penitenziario vista "da dentro" di Daniele G. lettera21.org, 24 giugno 2017 Sì, lo ammetto a volte sono davvero un pessimista. Ne ho avuto ulteriore conferma rileggendo gli articoli scritti sui vari numeri della rivista di Letter@21 sulla Riforma del Processo Penale in discussione in Parlamento, in particolare l’ultimo, del dicembre 2016, che terminava con un apodittico post scriptum: "P.S.: dopo l’esito referendario del 4 dicembre e la caduta del Governo, anche le esili speranze di una Riforma della Giustizia e della Legge Delega 2067 sono ormai svanite". Ma il "bello" di avere poche aspettative è che quando inaspettatamente va in porto qualcosa di positivo lo si apprezza ancora di più. E così, proprio quando avevamo perso le speranze che il disegno di legge (presentato il 23 dicembre 2014) potesse venire alla luce, ecco che, dopo un lungo stand-by, nel giro di qualche giorno l’iter riprende prepotentemente vita e velocità e, grazie anche al voto di fiducia, si arriva all’approvazione del decreto (il 14.06.2017) tra le urla dei parlamentari delle opposizioni e l’incredulità dei "diversamente liberi". Siamo quindi arrivati all’happy end di una lunga telenovela? Per poter rispondere dobbiamo abbandonare le valutazioni soggettive per esaminare oggettivamente cosa include il pacchetto approvato e quando se ne potranno godere gli, eventuali, benefici. Partiamo con il dire che il decreto è molto eterogeneo e include pene più dure per alcuni reati, una nuova valutazione delle circostanze attenuanti, una diversa procedura per le impugnazioni, un rinnovato metodo di calcolo della prescrizione e due leggi delega in tema di intercettazioni e di riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Questo primo approfondimento interessa la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, in particolare l’art. 85 del testo che delega il Governo ad emanare dei decreti legislativi recanti modifiche all’Ordinamento Penitenziario. Si tratta infatti di un decreto legislativo che, come previsto dall’art. 76 della Costituzione, deroga il monopolio legislativo del Parlamento (art. 70 Costituzione). Secondo il dettato costituzionale il Parlamento attribuisce al Governo l’esercizio del potere legislativo quando le Camere sono impossibilitate a lavorare a testi legislativi tecnicamente complessi (come codici) o che contengono la disciplina di ampie materie corrispondenti ad esigenze di sistematicità e l’iter che si avvia si compone di due fasi. Nella prima fase (che è quella che si è conclusa in questi giorni rispetto al decreto di cui parliamo) consiste nell’approvazione della Legge di Delegazione, che è una normale legge ordinaria (solo questo è il mezzo possibile per la delega, sussistendo una riserva di legge formale) dal contenuto necessario. La legge di delegazione deve infatti stabilire la materia oggetto della delega (art. 76 Cost. dice che la delega può aversi solo per "oggetti definiti"). Deve poi contenere il tempo entro il quale il Governo è tenuto a far uso della potestà legislativa conferitagli e trascorso il quale l’esercizio del potere legislativo ritorna automaticamente nella disponibilità del Parlamento. Inoltre la legge di delegazione indica i principi e i criteri direttivi ai quali il Governo deve ispirarsi nell’approntare il decreto legislativo. Nel caso della Riforma dell’Ordinamento Penitenziario sono indicati come principi e criteri direttivi i seguenti: - semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, ad eccezione di quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione; - revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative sia con riferimento ai presupposti soggettivi che con riferimento ai limiti di pena; - eliminazione di automatismi e preclusioni per i recidivi e per talune categorie di reati e per i condannati all’ergastolo che impediscono e ritardano l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari; - previsione di attività di giustizia riparativa sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative; - incremento delle opportunità di lavoro retribuito e di volontariato sia intramurario che esterno; - revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario relative alla medicina penitenziaria, anche attraverso il potenziamento dell’assistenza psichiatrica negli istituti di pena; - all’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia per fini processuali sia per favorire relazioni familiari; - riconoscimento del diritto all’affettività e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio; - interventi specifici per favorire l’integrazione dei detenuti stranieri; - previsione di norme tendenti al rispetto della dignità umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, la sorveglianza dinamica; - interventi a tutela delle donne recluse e delle detenute madri; - revisione del sistema delle pene accessorie improntata al principio della rimozione degli ostacoli al reinserimento sociale del condannato ed esclusione di una loro durata superiore alla durata della pena principale; - revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi; - l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età; Come si può vedere molti dei principi enunciati traggono spunto dall’importante e accurato lavoro svolto con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, ma come dicevamo, il procedimento ha una seconda fase, che al momento è ancora da attuare. Infatti nei termini previsti il Consiglio dei Ministri deve deliberare il Decreto Legislativo Delegato conformemente a quanto previsto dalla delega. Successivamente il decreto è emanato dal Presidente della Repubblica nella forma di Decreto Legislativo (denominato d.lgs, prima erano emananti come D.P.R., ingenerando confusione con i regolamenti governativi, con il rischio di confondere atti che occupano posizioni diverse nella gerarchia delle fonti) ed è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore, di norma dopo 15 giorni. Chi scrive pensa che questo sia un grande passo in avanti. Con l’approvazione della Legge Delega e anche rispetto ai contenuti possiamo dire che i criteri individuati accolgono spunti evidenziati da più parti in sede di Stati Generali. Quindi che fare abbandonare il consueto pessimismo della ragione per sostituirlo con l’ottimismo della volontà? Per questa volta sì, sperando di non essere smentiti come in passato. È morto il giurista Stefano Rodotà, una vita nelle battaglie per i diritti di Concetto Vecchio La Repubblica, 24 giugno 2017 Se n’è andato all’età di 84 anni un protagonista della nostra vita pubblica e uno degli ultimi intellettuali di valore. Soprattutto, fino alla fine, un uomo libero che si è speso con la passione civile di un grande laico. La camera ardente verrà allestita a Montecitorio e sarà aperta al pubblico oggi (sabato) dalle 16 alle 20 e domenica dalle 10 alle 19. "C’è un impoverimento culturale che si fa sentire, la cattiva politica è figlia della cattiva cultura", così Stefano Rodotà, morto oggi all’età di 84 anni, ammoniva già nel 2000. Una frase che sintetizza l’impegno di una vita di un protagonista della nostra vita pubblica che con passione inesausta ha sempre cercato di far valere un punto di vista laico nei grandi temi del nostro Paese. Difficile inquadrarlo con un’etichetta - giurista, politico, riserva della Repubblica - ma anche complicato incasellarlo dentro uno schieramento: è stato radicale, poi indipendente di sinistra, infine movimentista senza casacca. Comunque sempre a sinistra. È stato un intellettuale di valore, uno degli ultimi in questo Paese sempre più avaro di idee. Soprattutto, fino alla fine, è stato un uomo libero. Era nato a Cosenza il 30 maggio del 1933, negli anni del fascismo. Il padre, insegnante di matematica di origine albanese poi iscritto al Partito d’azione insegnava alle medie, dava ripetizioni a Giacomo Mancini, il futuro leader socialista; uno zio divenne segretario locale della Dc. La politica, insieme allo studio, è sin da subito una passione divorante. Nel 1953 approda a Roma per laurearsi in legge. Dice no a un’offerta di Adriano Olivetti, che lo vorrebbe con sé ad Ivrea, e che gli accrediterà comunque, come sostegno per i suoi studi, 300 mila lire sul conto corrente. Prima dei quarant’anni è già ordinario, insegna diritto civile alla Sapienza, ma l’impegno accademico è sempre intrecciato con quello politico; milita nei Radicali, scrive sul "Mondo" di Pannunzio - a 22 anni il primo articolo finisce in prima pagina - dopo che da ragazzo aspettava ogni settimana impaziente l’uscita del numero in edicola. È Elena Croce, la figlia di Benedetto, nel cui salotto conosce Klaus Mann e Adorno, a introdurlo. "Non c’è un giorno nel quale non abbia preso un libro in mano", dirà. È tra i primi professori a scrivere regolarmente sui giornali, sin dai primi anni Settanta, quando le tribune dei giornali erano scansate dagli accademici. Con la nascita di Repubblica inizia un’importante collaborazione con il nostro giornale. Insegna a Oxford, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, viaggia incessantemente, l’altra sua passione è la buona cucina, da gourmet, "l’investimento per una buona cena non va considerato di serie B rispetto a un libro o a un disco", dirà. Nel 1979 entra in Parlamento, ma a sorpresa rifiuta l’offerta dei radicali ("l’unico partito al quale sono mai stato iscritto"), e si candida come indipendente di sinistra nelle liste del Pci. A Pannella, che quell’anno aveva convinto Sciascia a candidarsi, preferisce Berlinguer. Sono anni difficili, il terrorismo mette a dura prova la tenuta delle istituzioni. Quando il Pci voterà a favore delle leggi emergenziali di Cossiga, Rodotà si smarcherà. Vi rimarrà fino al 1993 quando si dimetterà, a sorpresa, dopo essere stato eletto vicepresidente della Camera. Scrive: "La mia non è una ritirata, né un rifiuto sull’aria "ingrata politica non avrai le mie ossa". I tempi sono così pieni di politica che nessuno può tirarsene fuori con un gesto o una parola". La Seconda Repubblica lo vede quindi fuori dal Palazzo, e con più forza, con meno vincoli. Nel 1997, durante il primo governo Prodi, diventa Garante della Privacy, "il signor Riservatezza", ruolo che regge con equilibrio fino al 2005, in un momento storico in cui, grazie all’esplosione della rete, ogni certezza sui dati personali sembra saltata. Riceve 80 ricorsi al giorno. Interviene, guida, spiega con mano ferma temi che aveva iniziato a studiare sin dai primi anni Settanta. I temi di una vita sono i diritti, quelli individuali e sociali, perché "è da quelli che si misura la qualità di una società". E poi la laicità dello Stato, i valori della Costituzione, da far conoscere e da preservare, il rapporto tra Stato e Chiesa, quello tra democrazia e religione, la bioetica, la libertà di stampa. Su questi argomenti scrive incessantemente, per anni, con prosa scabra, puntuale, "perché il linguaggio è sempre rivelatore". Pungola la sinistra ogni volta che può, "sui diritti è debole, quasi che la chiesa cattolica abbia il monopolio delle questioni etiche". Il Paese oscilla tra grandi slanci riformatori e repentini ripiegamenti, Rodotà si ritrova spesso in minoranza. "Viviamo in uno stato di diritto, ma nessuno ci crede", commenterà un giorno, amaro. Con la sinistra dei partiti il suo rapporto è complesso. Nell’89, dopo la Svolta di Occhetto, aderisce al Pds. Ne diventa presidente, ma senza sentirsi mai pienamente a casa. È un irregolare. Sono gli anni di Tangentopoli, la sinistra sconta le sue debolezze, avanza il berlusconismo, il paesaggio del Novecento, con le sue certezze, frana di colpo. Il conflitto d’interessi di Berlusconi diventa così il nuovo campo di battaglia dove misurare la forza della democrazia repubblicana. Rodotà è in prima fila. Ne denuncia le storture su questo giornale, ripetutamente. "Siamo alla rottura dei fondamenti di un moderno Stato democratico", dirà dopo che Berlusconi avrà incassato la sua prima fiducia, nell’aprile del 1994, intervistato da Rina Gagliardi. Rodotà in qualche modo è sempre stato moderno. A 80 anni si scopre star del web. Parla ai giovani. Nel 2013 i Cinque Stelle lo candidano alla successione di Napolitano. Il tifo per lui "Ro-do-tà -Ro-do-tà", risuona a Montecitorio, lo votano anche Sel e alcuni del Pd; poi Grillo, con un atto volgare dei suoi, lo definirà "un ottuagenario miracolato della rete". Viene rieletto Napolitano. Sposato da più di mezzo secolo con Carla, collaboratrice di Repubblica, due figli, Carlo e Maria Laura, una delle firme del giornalismo italiano, ha quindi attraversato questo nostro tempo con una profonda curiosità e spirito civile. "Il mio narcisismo l’ho consumato in tutte le cose che ho fatto. Ora mi sento pacificato", disse tempo fa ad Antonio Gnoli. La sua voce, mai accomodante, mancherà. Addio Stefano Rodotà, il mite guerriero dei diritti di Marco Damilano L’Espresso, 24 giugno 2017 Scompare l’uomo che ha insegnato a generazioni di studenti che il diritto, le leggi, non sono un insieme di norme e di codici, materia di disquisizioni accademiche, ma sono carne e sangue, corpo, premessa di progresso. L’ultima volta che gli ho parlato, per raccogliere il testo che poi è diventato il suo ultimo articolo apparso sull’Espresso, era venerdì 10 marzo, si intuiva la fatica, eppure intatta restava la passione civile, la lucidità intellettuale e l’entusiasmo quasi adolescenziale che gli illuminava gli occhi chiari quando illustrava la possibilità di un diritto in più, una frontiera finalmente aperta. "L’Unione pone la persona al centro della sua azione", disse quella sera citando a memoria il preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Europa. Quasi una sintesi della sua vita. Lui lo aveva fatto sempre. Per tutti noi è stato il maestro dei diritti, del "diritto di avere diritti", come si intitola uno dei suoi libri di maggiore successo, ha insegnato a generazioni di studenti con la chiarezza estrema del suo dire e del suo spiegare, specchio di un ragionare cristallino, con semplicità e pulizia intellettuale, che il diritto, le leggi, non sono un insieme di norme e di codici, materia di disquisizioni accademiche, ma sono carne e sangue, corpo, premessa di progresso. La ragione che prova a mutare la realtà. Il collante del vivere civile. Tutto il suo percorso - ordinario di diritto civile neppure quarantenne all’università La Sapienza, firma del "Mondo" e di "Repubblica" fin dall’inizio, deputato dal 1979, nel gruppo degli indipendenti di sinistra di cui era stato presidente senza mai iscriversi (l’unica tessera era stata, in anni lontani, quella del partito radicale), garante per la privacy nell’autorità per la protezione dei dati personali appena istituita - è stato dedicato alla protezione e all’allargamento delle tutele e delle garanzie di tutti e dunque dei più deboli, di chi ha nel diritto il suo unico scudo, la sola voce. Un uomo del futuro. Conteso dalle accademie più prestigiose, sempre un passo in avanti, sempre più in là, con uno sguardo laico, dunque curioso, libero, senza pregiudizi sulle novità: i suoi studi sulla bioetica sono degli anni Ottanta, di tecno-politica e del rapporto tra la rete e i diritti comincia a scrivere prima degli anni Novanta, quando giuristi e politici a malapena sanno che cosa sia internet, aveva spostato la sua attenzione sui beni comuni, era stato presidente della commissione per la riforma del codice civile sui beni pubblici e tra gli estensori del quesito contro la privatizzazione dell’acqua che vinse il referendum del 2011. Eppure c’era chi lo considerava un conservatore solo perché custodiva la Costituzione repubblicana. Come gran parte della sua generazione, aveva vissuto la prima parte della vita nell’appassionante sfida di attuare gli articoli della Carta che in bocca a lui recuperavano la pienezza della visione dei costituenti ("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana...", quante volte l’ha scritto e ripetuto?). Nella seconda parte della sua esistenza, invece, aveva assistito all’attacco ai diritti, al tentativo di smantellare tutto quello per cui si era battuto. Allora, quando venivano messe in discussione le libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, il mite giurista si trasformava in un combattente inflessibile. Intransigente in politica, sulla questione morale scoppiata anche a sinistra, sui cedimenti alle parole degli avversari, sulla omologazione con la destra e con i suoi argomenti. Era stato eletto e poi si era dimesso dalla presidenza del Pds, a disagio con i riti e i bizantinismi della politica, nonostante il culto per il Parlamento e per le assemblee elettive che non ha mai conosciuto stanchezze. Molto più felice si ritrovava in un’assemblea o in una manifestazione di studenti o di lavoratori. Si era schierato con la Fiom a fianco degli operai licenziati a Pomigliano, era salito su un palco in piazza del Popolo dopo una caduta nel 2015 e aveva parlato a lungo. C’era il sole che tramontava, lui in giacca e maglione, a insegnare ancora nonostante lo sforzo, applaudito. E, da ultimo, si era impegnato per il no al referendum sulla Costituzione. Non aveva mai immaginato di diventare, nel 2013, nel momento difficile di inizio di questa legislatura, il candidato al Quirinale di un movimento politico, il Movimento 5 Stelle, che era arrivato a ritmare il cognome davanti a Montecitorio. Finì anche su un hashtag #rodotaforpresident. "Ho lasciato la politica parlamentare quasi venti anni fa, non ho tratto benefici personali dai miei incarichi... Se guardo indietro vedo che ho fatto sempre quello che mi sentivo capace di fare. Alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me", mi disse un mese prima che cominciassero le votazioni in aula. Si è battuto per una nuova politica, un’altra politica, di cui aveva visto l’alba la sera del 13 giugno 2011, quando ventisette milioni di persone erano uscite di casa per votare sui referendum sull’acqua pubblica, sull’energia, sulla giustizia uguale per tutti. "Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell’opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati", scrisse all’indomani della vittoria su "Repubblica". "Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri". Non una rivolta anti-politica, ma la richiesta di politica, di un’altra politica. I suoi mondi che oggi restano senza la sua voce e la sua intelligenza. Io ricordo lo sguardo ironico, gentile, affettuoso con cui mi salutò accompagnandomi alla porta di casa dopo un’intervista che era diventata una lunga conversazione, un sabato mattina. "Perdona la mia chiacchiera inarrestabile", si scusò timidamente alla fine. Ma per me ascoltarlo era stato un privilegio. Un privilegio aver conosciuto Stefano Rodotà. Una motivazione in più per proseguire le sue battaglie, con il suo rigore e la sua mitezza, una lezione vivente di democrazia. Lettera aperta. Sul reato di tortura si misura la nostra credibilità La Repubblica, 24 giugno 2017 Se lo volessero, deputati e senatori potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi una norma all’altezza di un paese civile. Dopo anni di vani tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale, il 17 maggio scorso il Senato ha modificato il testo che gli era pervenuto dalla Camera, partorendo un contorto groviglio giuridico che torna dunque a Montecitorio. Occorre innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco (che qualcuno ha alimentato ad arte). Il reato di tortura non è diretto ad ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine! La sua finalità è unicamente quella di sanzionare penalmente la tortura, ovvero l’inflizione intenzionale di sofferenze acute ad una persona. Difatti quello previsto dall’attuale disegno di legge è un reato comune (punisce cioè la tortura anche quando viene commessa da privati), aggravato nel caso del pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Per definizione, dunque, la tortura non riguarda lesioni cagionate nell’esercizio legittimo della forza, che tale è quando risulta necessario e se messo in atto in modo proporzionato e con professionalità. La previsione contenuta nel testo modificato, secondo cui il reato di tortura non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, può ritenersi ammissibile se essa venga intesa in linea con l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il quale esclude dolore o sofferenze risultanti da sanzioni legittime. La tortura è altra cosa, sempre che non si voglia dare alle forze dell’ordine la possibilità di infliggere intenzionalmente sofferenze acute. Ci rifiutiamo però di credere che i nostri parlamentari e gli stessi vertici delle forze dell’ordine, nell’interesse della dignità della loro divisa e del pieno sostegno dell’opinione pubblica per il loro fondamentale servizio, vogliano abbassarsi ad un simile livello. Ciò premesso, il testo modificato approvato dal Senato è una informe creatura giuridica. Tra l’altro, la definizione di tortura recepita dal Senato è contorta e illogica, soprattutto dove prevede che il fatto è punibile "se è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". In particolare, il requisito (aberrante) di "più condotte" condurrebbe all’assurda conseguenza di escludere, ad esempio, la rilevanza penale come "tortura" di un’unica condotta protratta nel tempo. Ancora, il testo modificato limita in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura psicologica, esigendo che il trauma psichico sia verificabile: che cosa significa "verificabile" quando la vittima riesca a dimostrare di essere stata sottoposta a sevizie psicologiche qualificabili come tortura? Infine, il testo modificato tace in materia di prescrizione, laddove il reato di tortura dovrebbe essere accompagnato da un termine di prescrizione lungo o, meglio ancora, andrebbe reso imprescrittibile. Spetta dunque alla Camera di rimediare alle mancanze più gravi del pessimo testo varato dal Senato, a cominciare dalla definizione del reato di tortura, che deve essere chiara e rigorosa. Basterebbe del resto adottare una definizione essenziale (del genere: "chiunque, intenzionalmente e agendo con crudeltà, cagiona tortura", con l’eventuale aggiunta di una clausola di esclusione per sanzioni legittime analoga a quella contenuta nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite). Se lo volessero, deputati e senatori, con l’impulso della presidente Boldrini e del presidente Grasso, potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi un reato di tortura all’altezza di un paese civile. A loro ci permettiamo di ricordare che: a) la tortura è una delle violazioni dei diritti umani più gravi - per certi versi la più abominevole - e il nostro sistema di prevenzione e di repressione penale è privo di un deterrente efficace senza un reato configurato in termini seri; b) l’Italia si è impegnata a farlo da anni e anni, sia di fronte alle Nazioni Unite, sia a livello europeo; c) senza un reato di tortura serio non possiamo né estradare dei torturatori arrestati in Italia né perseguire, in quanto tali, atti di tortura commessi all’estero ai danni di un cittadino italiano. Ne va palesemente della serietà, e quindi della credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo. Sottoscrivono Antonio Bultrini, Associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze; Pasquale De Sena, Ordinario di diritto internazionale nell’Università Cattolica di Milano e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Filippo di Robilant, membro del Comitato esecutivo dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea; Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale speciale per l’ex-Jugoslavia e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Giuseppe Nesi, Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Trento e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Tullio Padovani, avvocato, già Ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Cantone: "pensare di risolvere tutti i problemi con manette e microspie? è medioevale" di Vittorio Zincone Corriere della Sera, 24 giugno 2017 In auto con la scorta per le strade di Roma, il presidente dell’Autorità Anticorruzione dice: "All’Italia serve ciò che hanno i Paesi civili: cittadinanza attiva e trasparenza". Si avvicina alla macchina con passo lento da gattone. Sul sedile posteriore c’è la sua borsa da lavoro. Estrae l’iPad. Comincia a compulsare quotidiani online e documenti. Tra questi c’è anche un appello da parte del sindaco Virginia Raggi a intervenire su alcuni appalti complessi. Dice: "Abbiamo una marea di richieste". Raffaele Cantone è il presidente dell’Autorità Anticorruzione, voluto da Renzi e in poco tempo trasformato in una sorta di Madonna Pellegrina della legalità. Sospira: "L’enfasi fortunatamente ora si è abbassata". I maligni sostengono che caduto il governo Renzi sia cominciata anche la corsa per ridimensionare il ruolo di Cantone. Lui chiarisce: "In realtà il meccanismo con cui l’Anac poteva bloccare gli appalti è stato reso più efficace". I posti anteriori della vettura sono occupati da due agenti della Finanza, Walter e Luca. Doppio binario blindato con scorta, quindi. Cantone parla a voce bassa e articola le risposte con calma rassicurante. Ogni tanto gli sfugge qualche turbo napoletanismo: "La prevenzione è necessaria ma ha effetti invisibili. Un cantiere senza incidenti… Che ne sai se è merito della prevenzione o del mazzo?". Il mazzo? "Ehm… Il sedere, la fortuna". Il viaggio parte dal cancello di una caserma romana. Quando gli chiedo perché viva in una foresteria militare e non abbia affittato un appartamento, spiega: "Perché la mia vita è a Giugliano". Giugliano è la città in provincia di Napoli dove Cantone è nato e cresciuto e dove vive con la famiglia. Quando è a Roma chi frequenta? "Pochissime persone. Niente salotti. La sera generalmente mangio una bistecca in via del Corso con i ragazzi della scorta". Con loro si è creata una specie di fratellanza? "Manteniamo le dovute distanze, ma sono effettivamente un pezzo reale di famiglia. Sanno tutto di me. Trascorriamo insieme, in macchina, molte ore al giorno, soprattutto durante i trasferimenti a Giugliano. Non venire a vivere nella Capitale mi ha aiutato a mantenere saldi i piedi per terra". Ha amici antichi che non badano troppo ai suoi successi? "Enzo, Roberto, Gerardo… Per sfottermi mi chiamano O presidente. Ho appena festeggiato con loro la mia prima vittoria al Fantacampionato". L’hanno fatta vincere perché è una celebrità. "Ho vinto perché ho acquistato l’attaccante Lorenzo Insigne quando nessuno credeva in lui". Anche in famiglia la prendono un po’ in giro per il suo ruolo di Mr. Wolf degli appalti italici? "I miei figli mi dicono: "Se combatti la corruzione come fai i lavori di casa stiamo freschi"". Negli ultimi anni le sono arrivate anche critiche meno affettuose. Sabino Cassese sostiene che la sua Anac sia una sorta di gendarmone troppo ingombrante che produce anti efficienza. "Ho provato e proverò a spiegargli che non è così". Piercamillo Davigo ha criticato sia il suo ruolo sia il nuovo Codice degli appalti di cui lei è padrino. "Temo che Davigo sul Codice degli appalti sia poco informato. Io ho sempre precisato di non essere Superman e di non avere bacchette magiche. La grande scommessa inconsapevole dell’Anac è quella di capovolgere il paradigma per cui solo la salvifica azione della magistratura può combattere per la legalità". Lo dice da magistrato… "Già. Forse non è chiaro che da presidente dell’Anticorruzione il mio compito non è arrestare né condannare. Non lo posso proprio fare. Noi cerchiamo di far rispettare le regole perché la corruzione non si verifichi. La nostra principale attività oggi è quella della vigilanza collaborativa. Considero medioevale il fatto di pensare che tutto vada risolto con le microspie e con le manette". Se non si usano le manette… "Nei Paesi civili funzionano molto di più l’accountability, cioè il rendere conto delle proprie azioni e delle proprie responsabilità, una cittadinanza attenta e la trasparenza". La trasparenza in Italia… "In via teorica… legislativa… astratta, abbiamo i migliori strumenti al mondo per garantire la trasparenza della Pubblica Amministrazione". In pratica? "C’è qualche resistenza. I dirigenti, per esempio, hanno ottenuto di non mettere online i loro stipendi". Libero ha scritto che i suoi dossier sulle assunzioni Rai non conformi alle regole sono alla base della defenestrazione del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto… "È vero solo in parte. Noi abbiamo verificato il rispetto del piano di prevenzione della corruzione". Cantone chiede alla scorta di fermarsi per prendere un caffè. Siamo in centro, vicino a Palazzo Chigi. Gli domando se Renzi gli abbia mai proposto di entrare in Parlamento. Replica di no. L’offerta più concreta che ha ricevuto è stata quella di candidarsi alla presidenza della Regione Campania nel 2015: "Ma non credo che conoscere i codici equivalga a saper gestire una realtà territoriale". Gli faccio notare che non sono pochi i magistrati che si danno alla politica. Ultimamente anche il super pm antimafia Nino Di Matteo ha dato la sua disponibilità per un governo a Cinque Stelle. Mi corregge: "Le parole di Di Matteo sono state lette così, ma non la considererei esattamente una disponibilità. Ci ho parlato a lungo proprio in occasione del convegno sulla giustizia organizzato a Montecitorio dal M5S". Che cosa le ha detto? "Io e lui eravamo compagni di concorso quando siamo entrati in magistratura. L’ho visto provato. Mi ha fatto un discorso amaro sulla solitudine del magistrato. Mi ha impressionato perché sto leggendo il libro di Giovanni Bianconi su Falcone. E ricordo la solitudine di Falcone, i colleghi che gli urlavano "traditore" durante le riunioni in cui si discuteva della Procura Nazionale Antimafia". Di Matteo vive la stessa solitudine di Falcone? "Gli viene rinfacciato di avere una scorta imponente come se fosse una sua scelta, una colpa che si deve far perdonare. Sono ambiguità inaccettabili". Le manca la vita da pm? "Più passa il tempo e meno mi manca. Quattro anni fa stavo per rientrare nella Procura di Napoli, ma il trasferimento è stato bloccato. Ho rinunciato a fare ricorso, ma quell’esperienza mi ha segnato". Che cosa farà nel 2020 quando scadrà il mandato all’Anac? "Vorrei comunque tornare in magistratura". Com’è il suo rapporto con Renzi? "Buono. L’ho incontrato una decina di volte. Ci vedevamo soprattutto a colazione, a Palazzo Chigi. Mi diceva: "Se qualcuno viene a chiedere qualche cosa a mio nome, ti sta mentendo. Io non ti chiederò mai niente". Ed è la verità". Renzi l’ha voluta al suo fianco durante il viaggio di ottobre 2016 negli Stati Uniti. Con Bebe Vio, Roberto Benigni… "Me lo ha comunicato al telefono, pochi giorni prima della partenza: "Ti servirà uno smoking". Panico. Era venerdì. Ho chiamato il signore da cui compro i vestiti e gli ho detto: "Mimmo, c’è un problema"". Tre giorni dopo era accanto a Barack Obama. "Non ci ho parlato molto. Ma la grande confidenza che ha con Renzi lo rendeva molto alla mano". In quella trasferta americana c’era anche Giusy Nicolini, sindaco uscente di Lampedusa. "Quando ho saputo che Nicolini aveva perso le elezioni ho pensato: quel viaggio non ha portato molta fortuna. Ho cominciato a toccare ferro". Arrivati alla sede dell’Anac, Luca e Walter scendono dall’auto e aprono lo sportello di Cantone. Lui mi fa cenno di osservare un cestino gonfio di spazzatura. La prima volta che ci siamo incontrati, nel 2008, la sua Giugliano era sommersa di monnezza. Con una certa fierezza, dice: "Ora abbiamo una differenziata da città del Nord. Non esistono più i bidoni per strada. Stiamo messi di sicuro meglio di Roma". Noto: "Effettivamente si sente parlare molto meno della Terra dei fuochi". Spiega: "Purtroppo però la riduzione dell’interesse non è proporzionale alla soluzione di tutti i problemi. Ci si indigna, si portano folle oceaniche in piazza, ma appena passa l’emergenza…". Lo ha detto lei che la differenziata è a un livello molto buono. "Già, ma le eco-balle vengono portate via molto lentamente e con difficoltà, le bonifiche non sono state fatte e continuano i ritardi sui registri dei tumori. A me piacerebbe che in Italia ci fosse meno indignazione fugace e più solida consapevolezza". Lei continua a mangiare tranquillo le mozzarelle di bufala della zona? "Certo. Qualche giorno fa in ufficio un funzionario del sindacato ha organizzato all’Anac una mozzarellata: la gara tra le bufale di Aversa e quelle di Battipaglia". Lei saprebbe riconoscerle a occhi chiusi? "Certo. E preferisco quelle di Aversa. Sono più sapide". La magistratura e l’incubo dell’intangibilità di Giovanni Verde Il Mattino, 24 giugno 2017 Chi di noi non ha incubi? Mi capita di immaginare un futuro non so quanto lontano in cui tutti gli individui siano di straordinaria perfezione e bellezza, ma tutti eguali. Tutti prodotti dalla genetica, una scienza che mi affascina e al tempo stesso mi terrorizza, avendo la possibilità di manipolare la vita e il suo mistero (e di fronte a questa possibilità, le paure sono assai maggiori delle speranze). Questo incubo è tipico di chi si occupa di diritto, almeno da quando al diritto si è assegnata anche la funzione di livellatore sociale. Vi è un’area in cui il diritto ha precorso la genetica con la sua azione livellatrice. Parlo della nostra Magistratura e del suo credo secondo il quale un magistrato vale l’altro. Questo assioma si fonda sulla nostra Costituzione. Se il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101), se il pubblico ministero è obbligato ad esercitare l’azione penale (art. 112), se il giudice deve essere terzo e imparziale (art. 111), se i magistrati sono inamovibili e si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (art.107), se insomma due più due fa quattro, è giocoforza ritenere che, una volta vinto il concorso, il magistrato è assoggettato ad un processo di mutazione genetica che lo rende del tutto fungibile con un qualsiasi suo collega. Sulla base di questo presupposto si vuole costruire l’ordinamento giudiziario. Ogni tentativo, però, si risolve in un esercizio acrobatico con cui si cerca di dettare regole là dove le regole sono destinate inevitabilmente a non attecchire. Mi spiego. La nostra magistratura, che non è elettiva, dovrebbe soggiacere alle regole della burocrazia. Ma la burocrazia si fonda su di una costruzione di tipo gerarchico-piramidale che valorizza le idoneità specifiche dei singoli operatori. Come è possibile, allora, attribuire ai capi degli uffici giudiziari poteri per i quali essi possano imporre scelte ai loro colleghi, di cui costituiscono perfetti "avatar"? Come è possibile prevedere regole organizzative che tengano conto delle attitudini specifiche dei singoli, se per definizione ogni magistrato è fungibile con un qualsiasi altro collega? Come è possibile prevedere una qualsiasi forma di coordinamento se ogni magistrato rappresenta una monade impenetrabile? La storia interna della nostra Magistratura in quest’ultimo mezzo secolo segue il percorso di chi cerca, con espedienti di ogni genere, di risolvere una inconciliabile contraddizione. La via che finora si è percorsa è quella delle regole. Si anestetizza il potere dei capi (che "obtorto collo" devono pur essere nominati) attraverso un reticolo asfissiante di regole. Il capo dell’ufficio deve fare un programma (credo triennale), che è il frutto di una concertazione complessa, che coinvolge una enorme quantità di persone, e che deve passare per la grata, a fitte maglie, predisposta dal Csm. Qualsiasi attribuzione di sede o di funzioni deve passare attraverso procedure concorsuali nelle quali i punteggi assegnati per il merito non hanno valore o hanno un valore marginale. Del resto, non è questo un male. Non c’è alcuna attendibile valutazione del merito. Dal 2006 i magistrati sono sottoposti a valutazioni quadriennali fondate in prevalenza sull’autocertificazione e al controllo determinante dei Consigli giudiziari, ossia di colleghi che oggi valutano e che domani saranno valutati sulla base di criteri per definizione inaffidabili, essendo fondati sul presupposto che ciascun magistrato è fungibile con l’altro. Dal 2006 si produce una montagna di carte, che assorbe non poche energie lavorative da parte di magistrati che potrebbero spenderle meglio in attività giudiziarie, senza un risultato che la giustifichi. Per più del 99% dei casi il risultato della valutazione è stato positivo. Ma non potrebbe essere diversamente atteso il presupposto di partenza. Di qui il sospetto che la riforma del 2006 sia stata un pretesto per dare un senso all’art. 105 che continua (purtroppo) a parlare di "promozioni" (come si può promuovere chi per definizione è già "un" promosso?). In conclusione, se il punto di vista della magistratura ? ogni magistrato è fungibile con l’altro e ogni magistrato deve esercitare la sua professione in un ambiente asettico, depurato da qualsiasi tipo di passione (senza speranze e senza paure) - è intoccabile, qualsiasi riforma dell’ordinamento giudiziario rischia, come è avvenuto nel 2006, di aggiungere problemi a problemi. E ciò a tacere dell’altra questione riguardante la scelta del nostro Costituente di creare un unico organismo - la Magistratura - nel quale ha convogliato chi esercita funzioni giudicanti e chi esercita funzioni requirenti, quasi che si tratti di funzioni totalmente assimilabili (ma non lo sono; diversamente non si spiegherebbe perché nessuno abbia pensato che l’Avvocatura, che svolge funzioni sostanzialmente requirenti, debba fare parte dell’ordine giudiziario). L’attrazione in un unico organismo, insomma, non è dovuta alla omogeneità delle funzioni, ma alla posizione soggettiva (di potere) assegnata alla magistratura requirente. Credo che delle norme della Costituzione sopra richiamate si possa dare una diversa lettura. Ma sarebbe una lettura che dovrebbe portare a rivedere posizioni consolidate, che formano oramai una sorta di Costituzione materiale che si è sovrapposta al dato letterale. Allo stato e fino a quando non ci convinceremo che è necessario cambiare indirizzo, ciò non è possibile. Diamo atto, allora, che questo è, per quanto riguarda la Magistratura, il migliore dei mondi possibili e lasciamolo in pace senza avventurarci in tentativi di razionalizzazione inutili e controproducenti. Del resto, se le cose non vanno nel mondo della giustizia (e parlo non solo della giustizia penale), tutto dipende, se crediamo alla Magistratura, da un eccesso di domanda e dalla scarsità delle risorse. Quindi, perché tirare in ballo l’ordinamento giudiziario? Separare le carriere dei magistrati, per una giustizia insieme forte e giusta di Rodolfo Capozzi* Il Dubbio, 24 giugno 2017 La proposta di legge avanzata dalle Camere Penali garantirebbe l’effettiva autonomia dei giudicanti, con una sua separata e ben distinta collocazione ordinamentale. Il Partito Liberale Italiano ha deciso di sostenere l’Unione delle Camere Penali Italiane nella raccolta di firme per una proposta di legge costituzionale ad iniziativa popolare per attuare la separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura. La proposta è anche quella di "sdoppiare" il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura, creandone uno per la magistratura giudicante (i magistrati che emettono sentenze di proscioglimento e condanna) e uno per la magistratura requirente (i pubblici ministeri, ovvero la pubblica accusa), "senza alcuna subordinazione o dipendenza del potere esecutivo" come precisano le Camere Penali. Non si tratta di porre la magistratura requirente sotto il controllo del potere esecutivo bensì di assicurare la piena autonomia, garantendo però al contempo l’effettiva autonomia della magistratura giudicante, attraverso una sua separata e ben distinta collocazione ordinamentale. La separazione delle carriere può considerarsi un caposaldo del pensiero liberaldemocratico (basta pensare a De Tocqueville e "La Democrazia in America"?) tanto da postulare una necessaria "inimicizia" fra le due magistrature, nel senso politico del termine, come presupposto per un fisiologico antagonismo fra poteri per l’efficienza e l’equilibrio del sistema che solo un giudice "terzo" può garantire, nello spirito della Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 che riformando l’art. 111 Cost. ha più o meno - introdotto il modello accusatorio del processo penale nel nostro sistema. Ebbene confesso che nel recente passato ho avuto non poche perplessità sulla "separazione delle carriere", forse perché avvocato ma figlio di un magistrato e forse perché liberale ma di matrice conservatrice. Quindi culturalmente e ideologicamente incline a uno Stato minimo ma forte e se non autoritario almeno autorevole in materia di giustizia penale. Insomma per lungo tempo anche il sottoscritto è stato convinto che la professionalità della maggior parte dei magistrati rendesse in ultima analisi superflua una tale riforma (consola pensare che una resipiscenza simile la ebbe anche il professor Giovanni Conso e che Giovanni Falcone venne aspramente criticato per aver sempre sostenuto la necessità della separazione delle carriere). E invece no, dopo lunga e attenta riflessione e grazie all’equilibrio e alla sapienza tecnica della proposta di legge avanzata dalle Camere penali, è arrivato il momento di separare le carriere nell’interesse dei giudici e soprattutto dei giudicati. Nella proposta si emenda la Costituzione repubblicana in modo da avere nei due Csm pari rappresentanza di membri togati e laici, per evitare che detti Consigli operino come "organismi corporativi e autocratici" e per arginare il correntismo all’interno della magistratura paragonabile a quello insito nei partiti politici. E quindi concorsi separati, consigli separati per due ordini di magistrati separati e distinti, ferma restando l’intangibile indipendenza della magistratura, purché non diventi base di indebite e ripetute interferenze in ciò che è di competenza del Legislatore, forse non infallibile ma almeno democraticamente eletto. L’uso e l’abuso della obbligatorietà dell’azione penale contribuisce - e non poco - alla sostanziale inefficacia della giustizia penale nel Paese (circa il 60% dei procedimenti penali si prescrive in sede di indagini preliminari) socialmente percepita tanto da manifestarsi nella sempre più crescente sfiducia dei cittadini nello Stato e nella macchina repressiva penale lenta, anzi lentissima e forte con i deboli e debole con i forti. Uno Stato forte e autorevole conosce i propri limiti e deve maturare la serena consapevolezza che se è impossibile reprimere tutti i reati è necessario che il Legislatore si assuma la responsabilità politica di circoscrivere ciò che è penalmente rilevante senza lasciare spazi di ambiguità che non possono che essere colmati dal potere giudiziario. Una magistratura requirente separata ed autonoma da quella giudicante potrebbe contribuire a creare in Italia una giustizia insieme forte e giusta. Per questo il Pli e più modestamente il sottoscritto sono al fianco delle Camere Penali in questa battaglia di libertà e civiltà giuridica, in modo appassionato ma ragionato, consapevole e non partigiano. *Segretario provinciale romano del Partito Liberale Italiano "Quando il suicidio è annunciato". Lettera aperta al Ministro della Giustizia Orlando di Daniela Teresi (Psicologa ex art. 80 presso il carcere di Velletri) Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2017 Sig. Ministro Orland, in questi giorni ho letto su molti quotidiani che Lei da New York, a seguito del suicidio del detenuto Marco Prato, ristretto nel carcere di Velletri, ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un rapporto dettagliato per vedere se il protocollo di prevenzioni dei suicidi è stato rispettato. o letto poi, sig. Ministro Orlando che Lei ha ricordato che negli ultimi tempi sono state rafforzate le misure di sostegno psicologico dei detenuti e che il numero dei suicidi è sceso. Eppure il suicidio di Prato è il 23 esimo detenuto a togliersi la vita dall’ inizio anno 2017. Un ennesimo suicidio annunciato, si veramente prevedibile, perché come psicologa ex art. 80 operante al carcere di Velletri, come tutti gli psicologi che lavorano in carcere da tanti anni, lo può dire. Ovviamente per la carenza strutturale degli psicologi e l’aumento della popolazione detenuta con tante forme di disagio psichico evidenti o meno, impossibile ad essere trattate per queste ragioni, l’aumento del rischio suicidario è sicuramente prevedibile ed è probabile che presto sarà anche in aumento. A questo punto mi domando cosa si aspetta di trovare Lei sig. Ministro aprendo un’inchiesta a questo proposito, quando il vero problema che non si riesce a vedere è inerente a questa strutturale carenza di psicologi! Cosa pensa di risolvere con la Sua inchiesta se non riesce a fare una qualche nuova azione con la politica? Infatti amaramente vi è da constatare che questo ennesimo suicidio è l’espressione dell’inadeguata assistenza psicologica intramuraria a cui può collegarsi anche la surreale condizione e paradossale di trattamento che l’Amministrazione Penitenziaria ha riservato agli psicologi art. 80 che, già estromessi dal passaggio alla Sanità, più di recente sono stati anche umiliati, perché saranno mandati via in blocco alla fine dell’anno, per effetto dei dettami della circolare Dap n. 3465/6095 dell’11.06.2013 sulla nuova disciplina riguardante i contratti ex art. 80 Un problema che, al momento, sembra non interessare nessuno, salvo i professionisti del settore e chi come la sottoscritta che svolge dal 1990 attività di psicologa ex art.80, presso il carcere di Velletri. Si chi scrive ritiene doveroso sollevare questa problematica perché la conosce bene e la evidenzia a Lei, sig. Ministro per sottolineare che solo personale specializzato, con esperienza e a tempo pieno potrà ridurre le morti nelle carceri.. Quindi mi auguro che ci sia da parte Sua la volontà di vedere le responsabilità di tutti, prima ancora che si concluda l’inchiesta su di un’ennesima morte annunciata e che si possa fare buon uso di ciò che è facilmente decifrabile dall’evidenza dei suicidi in carcere per compiere azioni che veramente servono. Spero tanto quindi che anche l’Amministrazione penitenziaria venga sottoposta a controlli per le proprie scelte politiche e l’annosa tematica degli psicologi penitenziari ex. art. 80 IV comma L.354/75 perché si possa veramente riuscire a vincere la grande sfida di ridurre il fenomeno suicidario in carcere. Perché da questo punto di vista, con l’estromissione degli psicologi ex articolo 80 storici e la sostituzione con i nuovi, è certo che solo il peggio è prevedibile. È una affermazione forte la mia me ne rendo conto, ma considerare gli psicologi storici come alleati esperti in questo momento è la sola vera ragione per cui tenerli. Dopotutto, forse la sfida più grande per chiunque, non è solo vedere soddisfatte le proprie aspettative ma veder crescere veramente l’Istituzione a cui si appartiene. Mi auguro che questa è anche la Sua aspirazione. Concludo dicendo che non so se sarà ascoltata la voce della scrivente ma a titolo personale e come professionista del settore che da oltre 30 anni sta continuando a dare il proprio contributo e le dinamiche e le problematiche del carcere le conosce bene, credo che al Ministro di uno stato civile e democratico quanto pensa è doveroso far sapere. Grata per l’attenzione e con osservanza. Marche: focolai di terrorismo, indagini nelle carceri di Maria Teresa Bianciardi Corriere Adriatico, 24 giugno 2017 La relazione della Dna per le Marche segnala anche l’attenzione ai traffici del porto dorico. Nelle Marche molti detenuti stranieri sono stati oggetto di indagini per la possibile attività di proselitismo in carcere o adesione all’estremismo islamico. È quanto emerge dal dossier della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Si evidenzia anche che il porto di Ancona resta sotto sorveglianza. Il porto di Ancona sempre più al centro dei controlli per il traffico di droga (in aumento) immigrazione clandestina e contraffazione. Non solo. Nelle Marche molti detenuti stranieri sono stati oggetto di delicate indagini per la possibile attività di proselitismo in carcere o comunque adesione all’estremismo islamico. È un dossier che scotta, quello della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) presentato ieri in Senato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e dalla presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi. Un panorama poco confortante che per una regione che fino a qualche anno fa era considerata una vera e propria isola felice. Attracchi sospetti - Il porto di Ancona "riveste sempre un’importanza centrale nell’attività investigativa, per quanto concerne i traffici di stupefacenti, l’immigrazione clandestina (e il terrorismo), il traffico di tabacchi, la contraffazione e l’esportazione di rifiuti". È quanto si legge nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo relativa al Distretto di Corte d’Appello del capoluogo. Per quanto riguarda l’immigrazione, i dati della polizia di frontiera "confermano quanto già riscontrato negli ultimi anni sul mutamento di rotta per l’ingresso clandestino in Italia". Sei gli arresti e tutti per favoreggiamento all’ingresso di una o al massimo tre persone, trasportate in auto. "Non si sono riscontrate - si legge nella relazione - situazioni, quali quelle che si verificavano anni orsono, con l’organizzazione di trasporti di plurimi clandestini", nascosti in vani ricavati nei Tir. Viene quindi confermato come la rotta, che interessava il porto di Ancona e quelli greci di Patrasso e Igoumenitsa, sia scelta ormai "solo saltuariamente". Ma il dossier presentato in Senato si sofferma anche sui "soggetti in stato di detenzione" al centro di indagini sul terrorismo nelle Marche. Carceri nel mirino - "Le indagini - si legge - sono scaturite o da segnalazioni delle case circondariali o da dichiarazioni di altri detenuti", ma "gli elementi acquisiti non hanno suffragato le informazioni inizialmente apprese. L’attività ha riguardato una pluralità di detenuti, segnalati per la possibile attività di proselitismo in carcere o comunque adesione all’estremismo islamico". Nel dossier vengono segnalati "altri procedimenti originati dall’invio di immagini inneggianti al terrorismo islamico, sia a mezzo telefono che su profili Facebook. Sono state eseguite perquisizioni e sono in corso gli accertamenti tecnici, tramite Ctu, sul materiale informatico sequestrato. In un altro procedimento stanno per iniziare le intercettazioni telematiche, con coinvolgimento della polizia postale". L’avvertimento del procuratore nazionale Antimafia è chiaro: "Non dobbiamo cullarci sugli allori e non dobbiamo abbassare la guardia. Dei 54 mila detenuti, 18.500 sono stranieri, pari al 33%. Se non c’è integrazione questi soggetti diventano facile preda della criminalità". Palermo: prevenzione dei suicidi nelle carceri, intesa tra Asp e tre Case circondariali nsanitas.it, 24 giugno 2017 I protocolli operativi con Ucciardone, Pagliarelli e Casa circondariale di Termini Imerese. Asp, Ucciardone, Pagliarelli e Casa circondariale di Termini Imerese insieme per la prevenzione del suicidio nelle carceri palermitane. Valutazione all’ingresso, monitoraggio e gestione del rischio e del disagio sono le attività pregnanti di ciascuno dei tre protocolli operativi territoriali sottoscritti dal manager dell’Azienda sanitaria, Antonio Candela, rispettivamente con la direttrice dalla Casa circondariale Pagliarelli, Francesca Vazzana, con la direttrice della Casa di reclusione Ucciardone, Rita Barbera, e con la direttrice della Casa circondariale di Termini Imerese, Nunziella di Fazio. "In coerenza con le linee guida emanate dall’Assessorato regionale alla Salute il 21 aprile- ha spiegato Candela- nel documento sono previste azioni specifiche di intervento in grado di intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico, di disturbo psichico o di altre fragilità. L’obiettivo è di mettere in atto misure e forme di prevenzione del rischio suicidio o di atti di autolesionismo". Nel caso vengano evidenziate o insorgano all’ingresso o durante la carcerazione situazioni o fattori di rischio, è immediatamente attivato uno specifico staff multidisciplinare composto da operatori dell’Istituto penitenziario e dell’Asp. Nel protocollo sono anche previste "modalità e tecniche per la preparazione degli stessi detenuti alle funzioni di caregivers e peer supporter", cioè di detenuti "formati" che possano essere da supporto e sostegno di altri detenuti a rischio suicidio o di atti autolesionismo. "Dopo il passaggio delle competenze di assistenza e cura al Servizio sanitario nazionale - ha spiegato Candela - l’Asp di Palermo è particolarmente impegnata nelle carceri del proprio territorio. Abbiamo, tra l’altro, previsto e già attivato la presenza mensile per complessive 364 ore di psicologi e per 350 ore di psichiatri". Cagliari: il Bobby Sands sardo rischia di morire in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2017 Salvatore Doddore Meloni è in sciopero della fame e della sete da oltre cinquanta giorni. Ha 74 anni, è detenuto nel carcere sardo di Uta e da oltre 50 giorni è in sciopero della fame e della sete dichiarandosi un "prigioniero politico". Secondo il suo legale rischia la vita, ma il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Cagliari ha respinto la richiesta degli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Parliamo del leader indipendentista Salvatore Doddore Meloni, arrestato il 28 aprile scorso auto dichiarandosi subito "detenuto politico belligerante ai sensi dei trattati internazionali sui diritti umani ratificati anche dallo Stato italiano". Non a caso si era portato in cella la biografia di Bobby Sands, l’indipendentista irlandese di 27 anni che nel 1981 si è lasciato morire in carcere di fame e di sete. Doddore Meloni aveva annunciato l’intenzione di fare lo stesso. Infatti, non ha più mangiato, né bevuto. Ed ora si trova in condizioni critiche nel centro clinico del carcere di Uta. Meloni, uno degli ultimi separatisti sardi, personaggio controverso, visionario, protagonista di clamorose proteste ed azioni, è stato arrestato per reati di natura fiscale. Si dichiara innocente e si sente vittima di un accanimento giudiziario. L’indipendentista sardo, prima di essere fermato dai carabinieri, aveva detto: "Sono condanne ingiuste frutto della persecuzione giudiziaria scatenata nei miei confronti nel 2008, all’indomani della proclamazione della Repubblica indipendente di Malu Entu, per impedirmi di continuare a lottare per l’indipendenza di tutta la Sardegna". A poche ore dal deposito del provvedimento col quale il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Cagliari ha respinto la richiesta di arresti domiciliari per gravi motivi di salute, l’avvocata difensore Cristina Puddu ha già intrapreso nuove iniziative legali a favore di Doddore Meloni con la denuncia contro i responsabili del sistema sanitario della casa circondariale di Uta, dove l’indipendentista di Terralba è giunto ormai al cinquantasettesimo giorno di sciopero della fame. La penalista ha annunciato che le nuove iniziative legali saranno rese note a breve. "Anche familiari, amici e sostenitori - ha dichiarato - stanno organizzando nuove e ulteriori forme di protesta contro il mancato riconoscimento dei diritti di Meloni, quale detenuto politico e come cittadino privato della libertà che ha bisogno di cure a tutela della salute e della vita". A proposito del rigetto dell’istanza per i domiciliari, sempre la penalista ha osservato: "Sarebbe stato più rispettoso della persona e della sua dignità - osserva la penalista - se nel provvedimento si fosse dichiarato espressamente che Doddore Meloni deve scontare la sua condanna e deve morite dentro il carcere di Uta". Interviene sulla vicenda anche Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti Riforme, sottolineando che "aldilà della pena da espiare e della personale determinazione del detenuto occorre far prevalere la logica e l’umanità. Usare il pugno di ferro non sembra poter giovare". Doddore è un personaggio particolare. La sua è stata ed è ancora una vita sempre in bilico che persegue un’idea politica propriamente sovversiva. Nato a Ittiri (Sassari), ma residente a Terralba (Oristano), autotrasportatore di professione con la passione politica dell’indipendentismo, Doddore è un personaggio molto noto in Sardegna, non solo perché anni fa, con un centinaio di militanti indipendentisti aderenti al Partito Indipendentista Sardo (Paris), ha occupato l’isola di Mal di Ventre, autoproclamandosi presidente della Repubblica di Malu Entu (il nome sardo di Mal di Ventre). Il suo nome balzò alle cronache per la prima volta più di 30 anni fa, per un presunto golpe separatista che costò a Meloni nove anni di carcere. Allora militava nel Partito sardo d’Azione, ed era stato accusato di aver compiuto un attentato alla sede di Cagliari della Tirrenia dopo che in casa gli avevano trovato dell’esplosivo. Con lui finì in carcere un noto indipendentista sardo, il professor Bainzu Piliu, considerato "la mente" del presunto complotto separatista per staccare la Sardegna dallo Stato italiano e altre 13 persone, tra cui un libico che, secondo l’accusa, aveva preso contatti con i separatisti sardi in Sicilia. E qui entra in scena perfino Gheddafi. Meloni raccontò che il colonnello libico addestrava i "patrioti sardi" nei campi paramilitari nel deserto africano, preparandoli all’ora x che sarebbe dovuta scattare una notte di Natale, con l’occupazione di una caserma militare e il blocco delle strade dell’Isola. Una rivoluzione in piena regola con proclama annunciato alla radio, raccontava Doddore. Dopo un lungo periodo di silenzio, una volta uscito dal carcere, Meloni era poi tornato alla carica con l’occupazione dell’isola di Mal di Ventre, dove aveva costituito un governo con tanto di invio al segretario generale delle Nazioni Unite della richiesta di ammissione della Repubblica di Malu Entu all’Onu. Viene creata la bandiera - rosso e blu in bande orizzontali con al centro sei figure che rappresentano la cultura sarda e la scritta Repubblica Malu Entu - e la moneta locale. Da allora Meloni è tornato spesso all’onore delle cronache con decine di iniziative (occupazioni, sciopero della fame davanti alla Regione Sardegna) anche contro Equitalia, e promuovendo, nel passato, anche un referendum sull’indipendenza della Sardegna. Ora rischia di morire in carcere, proprio come Bobby Sands. Asti: lo stato dell’arte e le prospettive dell’agricoltura sociale nelle carceri winenews.it, 24 giugno 2017 3.000 detenuti coinvolti in attività agricole che potrebbero aumentare con progetti d’agricoltura sociale: nella casa di reclusione di Asti ForAgri (Confagricoltura) illustra lo stato dell’arte e le prospettive dell’agricoltura sociale nelle carceri. Sono 3.000, su un totale di 56.000, i detenuti coinvolti in attività agricole, regolarmente retribuiti. Un numero elevato che può ulteriormente aumentare grazie alle opportunità offerte dall’agricoltura sociale. Emerge dal convegno,organizzato dal Fondo Paritetico Nazionale Interprofessionale per la Formazione Continua in Agricoltura (www.foragri.com), nel carcere di Asti, dedicato proprio ai risvolti concreti per i detenuti prevista dalla legge sull’agricoltura sociale. "La casa di reclusione di Asti - ha spiegato il direttore della struttura, Elena Lombardi Vallauri - è attiva da oltre 15 anni in progetti dedicati all’attività agricola, con detenuti che nel tempo si sono specializzati nelle coltivazioni di ortofrutta, anche di cultivar autoctone rare, e non solo". Con l’agricoltura sociale si allargano le prospettive. "Il ForAgri - ha spiegato il presidente Stefano Bianchi - ha colto questa esigenza e ha investito negli ultimi anni in vari progetti formativi specifici nel comparto. In otto anni il nostro fondo ha investito 32 milioni di euro in formazione, coinvolgendo 40.000 lavoratori e 6.700 imprese agricole. Il ForAgri ha una linea specifica per il terzo settore, che noi dedichiamo all’agricoltura sociale". Ma investire nella formazione è solo uno dei tanti passi necessari. Numerose realtà del settore hanno portato le loro esperienze ed insegnamenti, contribuendo ad arricchire il dibattito: dalla necessità di insistere sulla sostenibilità generale che le iniziative di inserimento sociale devono avere, secondo gli esempi concreti con i disabili gravi portati da Marco Berardo Di Stefano, presidente delle Fattorie Sociali; all’importanza di attivare la motivazione delle persone detenute, secondo Paolo Bendinelli dell’Università Popolare di Anidra, che ha all’attivo 20 anni di progetti nel carcere di Opera. Non mancano gli esempi di master, come quello in agricoltura sociale dell’Università di Tor Vergata, presentato da Andrea De Dominicis, o gli esempi di lavoro svolto da "Asini si nasce" con diversi animali, asini in particolare, all’interno della casa di reclusione di Asti, spiegati dal presidente Luigi Cesare Ivandi. Concetti ripresi dal Vice Ministro delle Politiche Agricole, Andrea Olivero: "il settore primario è da sempre un mondo inclusivo. Crediamo molto nell’agricoltura sociale, non solo perché sviluppa servizi aggiuntivi, ma anche perché diventa uno strumento concreto di integrazione di persone"; in riferito all’iter della legge 141/2015, ha aggiunto: "stiamo lavorando con l’Osservatorio per arrivare quanto prima ai decreti attuativi e fare in modo che le Regioni non appesantiscano il carico burocratico per il comparto". "Confagricoltura ha dimostrato finora grande attenzione a questi temi - ha commentato Luca Brondelli - e continuerà a farlo. Presto lanceremo il secondo bando "Coltiviamo agricoltura sociale" per premiare le migliori realtà a livello nazionale". Prato: la Caritas "nessun detenuto è irrecuperabile, se accompagnato" di Veronica Giacometti acistampa.com, 24 giugno 2017 Non ci sono detenuti irrecuperabili, tutti hanno il diritto alla speranza". Ne è convinta la Caritas diocesana di Prato nel presentare "Non solo carcere", un progetto promosso in collaborazione con l’associazione Don Renato Chiodaroli, Gruppo Barnaba e Insieme per la Famiglia. Accoglienza, reinserimento sociale e sensibilizzazione della cittadinanza. Sono i tre ambiti di impegno di "Non solo carcere", finanziato da Caritas Italiana con i fondi derivanti dall’8 per mille alla Chiesa Cattolica. Finalità e caratteristiche del progetto sono state illustrate questa mattina in palazzo vescovile, alla presenza del vescovo Franco Agostinelli e di tutti i soggetti promotori, tra i quali ci sono anche Cna Toscana Centro e Estra Spa, che hanno dato la propria disponibilità agli inserimenti lavorativi e alla realizzazione di attività di informazione rispetto al problema carcere. "L’obiettivo è quello di prendersi cura di queste persone, è vero - sottolinea la direttrice della Caritas diocesana Idalia Venco - si sono macchiate di uno o più reati ma se vogliamo che veramente possano riparare al danno che hanno commesso, ma soprattutto non delinquere più, allora dobbiamo accompagnarli". L’importanza di questo tipo di sostegno è confermata dal direttore del carcere La Dogaia di Prato Vincenzo Tedeschi: "i detenuti che una volta usciti hanno avuto opportunità lavorative, anche minime e in qualsiasi ambito, hanno un rischio di recidiva molto basso, lo dicono le statistiche e noi possiamo confermarlo". Questi percorsi saranno messi in campo grazie anche alla fattiva collaborazione delle istituzioni carcerarie: direzione casa circondariale di Prato, magistrature di sorveglianza, ufficio per l’esecuzione penale esterna e garante per i diritti dei detenuti. Laureana (Rc): ancora ferme le attività di reinserimento Casa di reclusione "Daga" di Salvatore Larocca inquietonotizie.it, 24 giugno 2017 Continuano a vedersi, seppur a sprazzi, i frutti della collaborazione tra la Casa di reclusione "Daga" e le istituzioni scolastiche della città. Già istituto carcerario a custodia attenuata che, nel corso degli anni e dopo varie peripezie, continua a operare a Laureana di Borrello, seppur con fini evidentemente diversi, e diremmo meno nobili, da quelli immaginati dal suo fondatore Paolo Quattrone. Sembra infatti che il regime carcerario dell’istituto si sia lentamente modificato per volere del Dap, affinché continuasse ad operare. Attualmente "ospita" trentuno detenuti, di diverse nazionalità, nonostante la possibilità ricettiva di numeri molto più alti, in cui, però, le attività lavorative di reinserimento sembra essere ferme. Si ricorderanno le grandi serre coperte che per anni sono state utilizzate alla floricoltura e alla grande officina di falegnameria oltre ai laboratori di creazioni artistiche che, a fronte di un contratto, impiegava i detenuti, oltre alle attività culturali come le rappresentazioni teatrali, i corsi scolastici e quelli professionalizzanti. Un po’ tutto sottotono, ormai, come l’attenzione verso questa struttura che è andata scemando. Ciò nondimeno, non mancano le iniziative e il supporto dell’Istituto tecnico commerciale "Piria" che con la sua dirigente Maria Rosaria Russo mantiene quel filo necessario ad unire due mondi, certamente diametralmente opposti, ma, che per molti, rappresenta la prova concreta che un’altra strada è possibile. È di questi giorni la notizia, infatti, a risultati pubblicati, che uno degli ospiti, un giovane del 1986, di nazionalità straniera, è stato impegnato il 29, 30 e 31 maggio scorso, a sostenere gli esami di ammissione al quinto anno per la maturità commerciale. Lo stesso, inserito nel contesto dei corsi serali per adulti offerti dall’Istituto Tecnico, ha potuto prepararsi grazie all’attività di un gruppo di volontari, tra i quali insegnanti in pensione, impegnati in attività di alfabetizzazione scolastica destinata ai detenuti. Percorsi già ampiamente collaudati e certamente non nuovi per l’istituto carcerario che ricorda, nei suoi annali, il diploma di ben cinque detenuti negli esami dell’anno scolastico 2010, con un corso allora sostenuto dall’assessorato provinciale alla cultura Tucci con la preside Russo. Palermo: "Il palcoscenico della legalità", giovani detenuti imparano i mestieri teatrali minori.it, 24 giugno 2017 È stato realizzato con la collaborazione dei ragazzi dell’Istituto penale per minorenni Malaspina di Palermo lo spettacolo teatrale Fiesta, che andrà in scena il 27 giugno, alle 15.45, nel carcere della città siciliana. La regia è di Giuseppe Massa. I ragazzi coinvolti hanno partecipato ai laboratori formativi sui mestieri teatrali previsti dal progetto Il palcoscenico della legalità, promosso dall’associazione CO2 Crisis Opportunity con l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale dei minori degli istituti penitenziari di Airola (Benevento) e Palermo e sostenere percorsi di educazione alla legalità nelle scuole. I giovani del carcere Malaspina, in particolare, hanno preso parte a laboratori di drammaturgia, tecnica e disegno, luci e scenografia. Occasioni importanti, per questi ragazzi, per acquisire nuove competenze spendibili in futuro nel mondo del lavoro. Il progetto, promosso in partenariato con alcune fondazioni e cofinanziato dalla Fondazione con il sud in collaborazione con altre realtà, prevede anche laboratori nelle scuole volti a stimolare la partecipazione e la riflessione degli studenti sul tema della legalità. Le informazioni sul progetto e sugli eventi realizzati nell’ambito dell’iniziativa sono disponibili sul sito dell’Associazione CO2 Crisis Opportunity e sul sito della Fondazione con il sud. Padova: il valore assoluto della persona, dentro e fuori dal carcere di Sante Biello magazine.polis-sa.it, 24 giugno 2017 Il progetto "Papillon - Operatori di Relianza". L’intervista a Maria Cinzia Zanellato, Alberta Pierobon e Lara Mottarlini. Passeggiare tra le vie storiche di Padova in un caldo pomeriggio estivo e restare rapiti dalla magia del canto. Al Centro Universitario in via Zabarella, il 13 giugno è andato in scena uno spettacolo musicale formato da professionisti e detenuti, grazie ad un progetto chiamato "Papillon - Operatori di Relianza", promosso dall’associazione "Incontrarci". La curiosità mi ha spinto, alla fine dello spettacolo, a conoscere meglio questa realtà e intervistare la direttrice artistica Maria Cinzia Zanellato, la corista Alberta Pierobon e Lara Mottarlini che si occupa delle attività sportive. Com’è nata l’iniziativa di questa sera? Maria Cinzia Zanellato: È nata all’interno di un progetto che si chiama "Operatori di Relianza" che ha tre attività all’interno del carcere "Due Palazzi" di Padova: il teatro, attivo dal 2005 di cui ho la direzione artistica, un’attività di coro, presidente Alberta Pierobon e un’attività di volontariato che invece svolge l’associazione "Incontrarci", quest’ultima è la capofila del progetto. L’idea è quella, tramite queste attività artistiche, di portare degli elementi di socializzazione sia all’interno che all’esterno del carcere; l’occasione di questa sera infatti è stata proprio questa. Il progetto è formato da persone detenute, da volontari e da professionisti; Giulia Prete ad esempio è una grande professionista e una grande musicista che stasera ha diretto il coro. Com’è nata l’idea di portare il teatro nel carcere "Due Palazzi" di Padova? Il teatro entra in carcere come progetto pilota già nel ‘94. Era un periodo illuminato a seguito della legge Gozzini che prevedeva tutta una serie di principi tra i quali gli inserimenti e i permessi premio e anche quello di promuovere appunto delle attività culturali e artistiche. Adesso l’obiettivo è quello della giustizia riparativa che attraverso una mediazione culturale umanistica permette di "riparare" le ferite più profonde; il danno quantificato in pene o denaro non va a risanare la rottura della relazione sociale e la relazione che c’è tra reo e vittima. In tutti questi anni avete potuto constatare l’importanza di queste iniziative? Questo è fondante. Bisogna sempre dare la possibilità alle persone di crescere e di cambiare, come avviene a noi nella vita normale tramite le esperienze e le attività che facciamo. È doppiamente importante per quanto riguarda la realtà carceraria altrimenti si rischia di congelare una persona che avrà notevoli difficoltà quando sarà reinserito nella società. Qual è la situazione carceraria in Italia in generale e a Padova in particolare? Tre anni fa la Corte europea dei diritti umani ha denunciato la condizione delle carceri italiane proprio perché al di sotto dei limiti di vivibilità, come il sovraffollamento, i ritardi nella giustizia, la messa in sicurezza, una situazione complessa insomma. Padova, rispetto alla realtà italiana è comunque una situazione anomala nel senso migliore del termine perché esiste la scuola, esiste l’Università ed esistono tutte una serie di attività importanti al suo interno. C’è anche una squadra di calcio, la cooperativa Giotto, la pasticceria con i suoi prodotti di alta qualità, per non parlare delle attività dei volontari che è ben articolata. È un modello che si è sviluppato del basso. Com’è invece l’esperienza del coro all’interno della "Casa di Reclusione Due Palazzi"? Alberta Pierobon: ci chiamiamo "Coristi per caso"; abbiamo pensato di portare il coro dove non esiste, dove non c’è. L’abbiamo fatto prima in una scuola Cpt, scuola per stranieri, e poi inseguivo il sogno di portare il coro in carcere, ed è stato così. Prima un contatto con l’insegnante del carcere e poi abbiamo cominciato, ormai sono 4 anni fa. Abbiamo visto che ci si cambia a vicenda, si incontrano persone. Non dico mai che vado a fare volontariato ma vado a cantare insieme a queste persone. Noi siamo un coro formato da cinque persone esterne e ci siamo poi fusi con il gruppo "Teatrocarcere Due Palazzi" in più c’è un gruppo variabile di detenuti con il quale abbiamo formato un vero gruppo, con le dinamiche di gruppo, legami del gruppo. Ci si parla e l’umanità che emerge è immediata perché non ci sono mai sovrastrutture, ma si è se stessi. Come avviene la scelta dei detenuti nell’inserimento di queste attività esterne? La scelta dei detenuti avviene tramite la scuola Cpia, che sono le scuole pubbliche all’interno del carcere e quello fa da ponte. In questo caso, Daniela Lucchesi che fa parte anche lei del coro, suggerisce gli alunni che possono intraprendere questo percorso. Sono persone comunque che hanno già un cammino, una loro evoluzione perché frequentano una scuola, hanno voglia di fare altro e di mettere in pratica le loro attitudini, anziché sprofondare nell’afasia. Come dicevamo all’interno del carcere esiste anche una importante attività sportiva Lara Mottarlini: si, infatti seguo la squadra di calcio che si chiama "Pallalpiede" e gioca in terza categoria. È iscritta regolarmente alla Figc e gioca ovviamente sempre in casa. Ci occupiamo quindi di riabilitazione graduale del detenuto attraverso lo sport, il teatro, la musica. Pensare di tenere chiuso una persona per anni senza alcun contatto con l’esterno e poi ritrovarsi di colpo nella società una volta che ha scontato la pena, non ha senso. Quali saranno le prossime iniziative dell’associazione? Maria Cinzia Zanellato: la prossima iniziativa è a dicembre. C’è una parte del coro che si è esibita stasera e una parte teatrale che si sta sviluppando. L’idea è quella di unire i due elementi, fare un debutto all’interno del carcere e poi mettere in piedi uno spettacolo con la possibilità di farlo conoscere in giro. Quindi una relazione doppia sia all’interno che all’esterno del carcere. Il grande passo è quello di pensare che la pena non sia solo punitiva perché crea un danno, delle rabbie ingiustificate di pancia e pensare invece che come società civile possiamo dare tanto. Nel 2016, in occasione dell’inaugurazione del nuovo carcere di Rovigo, il Ministro Orlando disse che siamo il sistema penitenziario europeo che spendiamo di più e abbiamo la recidiva più alta, quindi qualche domanda dobbiamo farcela. I dati invece dimostrano che chi fa un’attività, che sia di studio o di attività culturali all’interno del carcere, ha una recidiva minore. La guarigione può avvenire solo attraverso la cura dell’anima. In occasione delle amministrative, il ministro della Giustizia Andrea Orlando il 9 giugno ha fatto tappa a Padova. Le associazioni, le cooperative, gli insegnanti e i volontari che operano nella "Casa di Reclusione Due Palazzi" hanno firmato e consegnato al ministro una lettera nella quale emergono le difficoltà che spesso le associazioni si trovano ad affrontare all’interno del carcere. La lettera è stata pubblicata su "Il Mattino di Padova". È importante conoscere il lavoro di tutte le associazioni che operano all’interno delle carceri, non solo per i detenuti ma per l’intera collettività perché come diceva Dostoevskij "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni". Pescara: dieci detenuti in "missione speciale" a Loreto unitalsi.info, 24 giugno 2017 Saranno accompagnatori dei disabili in pellegrinaggio con l’Unitalsi. Il progetto si chiama "Oltre le barriere" è realizzato dalla sottosezione di Pescara e la direzione della casa circondariale. Per la prima volta dieci detenuti della casa circondariale di Pescara "usciranno" per una missione veramente speciale: partecipare al pellegrinaggio della sezione Abruzzese dell’Unitalsi (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) a Loreto. Una presenza non solo simbolica, ma anche concreta perché saranno impegnati in tutte le attività di assistenza e sostegno alle persone disabili che prenderanno parte al pellegrinaggio che si terrà dal 1 al 2 luglio 2017. Le loro mansioni saranno diverse dalla cucina, al settore bagagli fino alle sale dell’Illirico di Loreto dove verranno ospitate le persone malate e disabili. L’iniziativa ha come slogan "Oltre le barriere" ed è stata organizzata dalla sottosezione di Pescara dell’UnitalsI in collaborazione con al direzione della Casa circondariale del capoluogo abruzzese. I dieci detenuti, che sono stati individuati in base al loro percorso e alla loro storia giudiziaria, sono di età diverse che va dai 35 ai 55 anni. Per prepararli a questa nuova esperienza sono stati organizzati due momenti d’incontro di conoscenza e formazione in carcere; il primo, che si è svolto lunedì 12 Giugno, rivolto maggiormente alla conoscenza personale, dell’Unitalsi e Lourdes, soffermandosi soprattutto su Loreto, sulla storia, il significato e il valore della Santa Casa; nel secondo, lunedì 19, è stato approfondito il significato dell’essere volontario unitalsiano, quali saranno i loro "Servizi", il significato e l’organizzazione delle celebrazioni alle quali parteciperanno. "Un’iniziativa nella quale crediamo profondamente - spiega Federica Bucci, presidente della sottosezione dell’Unitalsi di Pescara - anche perché la sottosezione di Pescara già da un paio d’anni ha avviato una bella collaborazione con il carcere, prima portando pellegrina la Madonna di Lourdes, poi l’anno scorso la Madonnina di Fatima grazie all’amicizia nata con suor Livia, al prezioso lavoro che lei svolge con i detenuti e all’ottimo rapporto che si è instaurato con il direttore del carcere, Franco Pettinelli. "Quest’anno - aggiunge Bucci - grazie a Suor Livia Ciaramella, che sarà presente anche lei a Loreto come accompagnatrice del gruppo, siamo riusciti a concretizzare il sogno di poter portare alcuni detenuti in Pellegrinaggio e offrire loro la possibilità di essere inseriti tra i volontari unitalsiani per fare un’esperienza di servizio veramente alternativa". "Una bellissima iniziativa - spiega Alessandra Bascelli, presidente della Sezione Abruzzese dell’Unitalsi - che auspico possa essere replicata non solo nelle altre sezioni della nostra Associazione, ma anche e soprattutto a Lourdes che è il cuore dell’Unitalsi". "La Casa Circondariale di Pescara - spiega Federica Caputo, Funzionario Giuridico-Pedagogico della Casa Circondariale di Pescara - incoraggia la partecipazione dei ristretti ad attività di volontariato, specie negli ultimi tempi, considerato che l’Istituto ha accolto diversi progetti di giustizia riparativa, siglando accordi con le Associazioni del territorio e gli Enti Locali. Crediamo fermamente che tale partecipazione, oltre a favorire il confronto con la società esterna, possa aiutare il detenuto a rielaborare in senso critico la condotta antigiuridica e ad adottare scelte di vita socialmente accettabili". "La condivisione del Progetto "Oltre le barriere" - prosegue Caputo - nasce dalla volontà di far vivere il momento del pellegrinaggio anche ai detenuti del carcere, persone che difficilmente avrebbero avuto l’occasione di partecipare ad un progetto di forte umanità e di servizio come il Pellegrinaggio a Loreto. Il gruppo di detenuti ha accettato con entusiasmo di prendere parte all’attività proposta, tramite la fruizione di un permesso premio, sapendone cogliere il senso profondo sia dal punto di vista spirituale, sia riconoscendo l’importanza del mettersi al servizio degli altri". "Il permesso premio, in quest’ottica, - conclude Caputo - può essere considerato come un’attività trattamentale esterna, nella quale non solo si sperimenta il detenuto, ma lo stesso può esercitare un programma di giustizia riparativa importante, affiancandosi agli operatori dell’Unitalsi nell’attività religiosa e di assistenza ai malati". Milano: "Donne Oltre le Mura", percorsi di inclusione attiva e accoglienza abitativa Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2017 Il 27 giugno alle ore 11.00 presso la Cascina Cuccagna a Milano conferenza stampa del progetto "D.O.M.: Donne Oltre Le Mura. Percorsi di inclusione attiva e accoglienza abitativa per donne e persone particolarmente vulnerabili". Il 28 giugno, sempre a Cascina Cuccagna, Biblioteca vivente Donne oltre le mura: 15 donne diventeranno libri umani tutti da "leggere" Il prossimo 27 giugno alle ore 11.00 presso la Cascina Cuccagna, in Via Cuccagna, angolo via Muratori, 2/4 a Milano, si terrà la conferenza stampa del progetto D.O.M.: Donne Oltre Le Mura? - Percorsi di inclusione attiva e accoglienza abitativa per donne e persone particolarmente vulnerabili D.O.M.: Donne Oltre Le Mura. Percorsi di inclusione attiva e accoglienza abitativa per donne e persone particolarmente vulnerabili è un progetto realizzato dalla Cooperativa sociale Alice in collaborazione con Associazione Comunità il Gabbiano Onlus, Associazione Consorzio Cantiere Cuccagna, Fondazione Eris Onlus, Galdus Formazione, Ala Milano onlus, ForMAttArt APS, ABCittà, Camera del lavoro metropolitana di Milano, Sicet Milano, Comune di Milano - Politiche Sociali, Cooperativa opera in fiore, Camelot Cooperativa Sociale, Bee 4 Altre menti, con il contributo di Regione Lombardia nell’ambito delle iniziative promosse dal Programma Operativo Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo. Donne Oltre le Mura è un progetto costruito appositamente sui bisogni delle donne che, oltre ad essere autrici di reato e dovere scontare una pena, sono o cercano disperatamente di essere anche madri, lavoratrici, cittadine. Grande cura sarà attribuita al sostegno e all’accompagnamento territoriale con l’obiettivo dell’inclusione sociale, del recupero dei legami familiari, della socialità e dell’accompagnamento al lavoro. Consapevoli che solo attraverso l’inclusione sociale è possibile ridurre le recidive e limitare i percorsi di devianza. Per questo trasversale a tutte le aree sarà l’accompagnamento e il supporto territoriale costruito sui bisogni e sulle caratteristiche specifiche di ognuna. Coerentemente con le finalità del Progetto Cuccagna, in Cascina si svolgeranno laboratori formativi attraverso i quali le donne del progetto potranno imparare a fare nuove attività, per riabituarsi ai ritmi e ai tempi del lavoro, ma anche per incontrare gli operatori del progetto, i volontari e i cittadini "frequentatori" della Cuccagna in un contesto di accoglienza, di ascolto dei bisogni e di "normalità". La conferenza stampa sarà un primo momento di riflessione sulle tematiche progettuali e ne discuteranno con noi Luisa Della Morte - Cooperativa Alice, Cecco Bellosi - Associazione Comunità il Gabbiano onlus, Paola Bonara - Associazione Consorzio Cantiere Cuccagna, Ulderico Maggi - ABCittà e i rappresentanti istituzionali della Regione Lombardia, Comune di Milano e degli Istituti Penitenziari. L’incontro del 27 giugno sarà pure occasione per presentare l’evento ‘Biblioteca Vivente - Donne oltre le Murà, che si svolgerà proprio nella cornice della Cascina Cuccagna, il giorno successivo 28 giugno 2017, dalle ore 18.00 alle ore 22.00 (in allegato locandina). 15 donne con storie diverse (detenute nella Casa di reclusione di Milano Bollate, a San Vittore, in detenzione esterna e operatrici) hanno, infatti, accettato la sfida di diventare "Libri Umani" attraverso cinque incontri di formazione, condotti dai facilitatori di ABCittà. La Biblioteca Vivente tutta al femminile permetterà di toccare corde profonde, come il tema dell’essere donna in carcere, e i pregiudizi che appesantiscono e non di rado limitano l’uscita dal carcere, sia in termini fisici che mentali. L’inserimento lavorativo e abitativo e le relazioni sociali, sono spesso dei miraggi per le donne detenute non solo per le difficoltà che questi passaggi comportano in sé, ma anche e soprattutto per gli sguardi incrociati che da una parte e dall’altra del muro condizionano di solito negativamente perché carichi di pregiudizi discriminatori. Biblioteca Vivente è un’esperienza molto significativa, per i lettori che potranno ascoltare, per le detenute che lavorano con la rielaborazione autobiografica, per gli operatori del carcere, che riescono a ricevere spunti per il proprio lavoro e, non da ultimo anche per noi, facilitatori e formatori, ogni volta trascinati a comprendere, oltre i pregiudizi o gli stereotipi, le mille sfumature della vita di una persona. I pregiudizi, infatti, sono annidati ovunque, nella testa e nella pancia di ciascuno; ciò che possiamo fare è riconoscerli e provare a smontarli a partire da noi stessi. L’incontro diretto con l’altro e l’ascolto attivo costituiscono una strada efficace per questa impresa." L’esperienza della Biblioteca Vivente viene elaborata dalla cooperativa milanese ABCittà nel 2011, mutuando e sviluppando in chiave interculturale e partecipativa l’esperienza danese di Human Library. Pregiudizi che s’incontrano e scontrano con scorci di autobiografie, narrate dai protagonisti: così alcune persone diventano libri umani. Dichiara Ulderico Maggi, coordinatore del Progetto per ABCittà: "con questo splendido strumento - Biblioteca Vivente - stiamo compiendo un viaggio lungo l’Italia attraverso le carceri incontrando storie e pregiudizi incrostati sia all’interno che all’esterno delle "mura". ABCittà ha già proposto questo format a Milano, Roma e Lecce su temi differenti dall’immigrazione alla disabilità, dal veganesimo alla malattia psichica, dall’omosessualità alla storia locale e molto ancora. Il percorso di preparazione dei libri umani è stato avviato a Milano da ABCittà nell’ambito del progetto D.O.M.: Donne Oltre Le Mura - Percorsi di inclusione attiva e accoglienza abitativa per donne e persone particolarmente vulnerabili. "Il carcere è un’accademia del crimine, chi ci entra ci ritorna sempre; ‘lorò, sono violente di natura, escono sempre troppo presto; vivono a nostre spese come se fossero in albergo", "le donne detenute sono madri inaffidabili; se prendi a lavorare una detenuta, se hai una detenuta come vicina di casa ci sono sicuramente problemi". Sono tra i tanti pregiudizi che Biblioteca Vivente vuole affrontare e spezzare in questa edizione. Durante l’evento ogni libro umano sarà disposizione di un lettore per circa 30 minuti e la consultazione sarà di fatto un dialogo guidato dal titolo e dalla quarta di copertina del libro umano. La partecipazione è gratuita e l’accesso è libero. Milano: "Invito ad Opera", nel carcere di Opera concerto finale con 20 detenuti mentelocale.it, 24 giugno 2017 Si conclude con il concerto di venerdì 30 giugno 2017 alle ore 20.30 sul prestigioso palcoscenico del Piccolo Teatro Grassi di Milano il progetto "Invito ad Opera", la importante iniziativa che vede protagoniste 20 persone attualmente detenute nel carcere di Opera, eccezionalmente fuori dalle mura di Opera per l’occasione, insieme ad un coro polifonico già esistente nell’esecuzione dei monumentali Carmina Burana di Orff nella versione per 2 pianoforti, percussioni, coro e soli. L’evento è realizzato dall’Associazione Musicale Piano Link di Milano, la giovane realtà musicale milanese guidata dal pianista Andrea Vizzini, che ultimamente sta attirando sempre più unanime consenso di pubblico e critica milanesi per le sue iniziative mosse da innovazione e originalità. L’iniziativa di Piano Link, ispirata ai più alti e importanti valori sociali di integrazione e inclusione, si è avviata nel 2016 con la selezione dei cantori, scelti per timbro e capacità vocali e ai quali non è stata richiesta alcuna competenza musicale, ed è poi proseguita in un ricco e lungo percorso di preparazione, terminato nelle fasi finali con l’inclusione all’interno del coro polifonico già esistente, fino alle prove d’insieme dell’organico completo di oltre 120 elementi. Frutto del laboratorio multidisciplinare di creatività musicale il brano che aprirà il concerto finale, con musica e testi originali composti dai detenuti di Opera durante le lezioni. L’evento, patrocinato dal Comune di Milano e Regione Lombardia e promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, Commissione Cultura, Sottocommissione Carceri, Garante dei diritti delle persone private della libertà e dal Carcere di Opera, inserito nel palinsesto di Expo in Città, vede protagonista il Coro Stendhal di Novara con l’aggiunta di cantori provenienti dalle province di Novara e Milano, insieme ai pianisti Andrea Vizzini e Moreno Paoletti, i percussionisti Gabriele Bullita, Gianluca Centola, Maria Luisa Pizzighella, Diego Verzeroli, i cantanti solisti Loredana Bacchetta soprano, Federico Kaftal tenore, Daniele Caputo baritono, diretti da Massimo Fiocchi Malaspina, al fianco dei 20 cantori detenuti a Opera fra tenori e bassi che per l’occasione escono dalle mura del carcere per salire sul palcoscenico del Piccolo davanti al pubblico milanese. L’idea ispiratrice di Invito ad Opera è quella di alimentare il senso di appartenenza ad una comunità in chiave positiva e restituire ad un contesto purtroppo tipicamente destrutturante e spersonalizzante la dignità di attore individuale e creatore d’arte: queste le parole di Andrea Vizzini, presidente e direttore artistico di Piano Link, che vede nello spettacolo un’opportunità per i detenuti di regalare qualcosa di positivo alla cittadinanza, un pubblico esterno poco abituato a sentire una presenza costruttiva provenire dalle case di reclusione, e che invece nel normale ambiente cittadino autonomo e indipendente potrà riunirsi ed assistere ad uno spettacolo libero, seppur proveniente da un luogo recluso. Tre i maestri che regolarmente si sono recati all’interno del carcere di Opera per tenere le lezioni di preparazione dei detenuti: Andrea Vizzini, Massimo Fiocchi Malaspina e Mario Mariani, che dell’impegno ed entusiasmo delle persone coinvolte all’interno delle mura carcerarie escono arricchiti e stupiti, dichiarando quanto il Carcere di Opera si distingua come vero esempio di successo di realizzazione dei più alti e dibattuti princìpi della nostra Costituzione. Biglietti: 15 euro (3388566443). Augusta (Sr): Festa della Musica, spettacoli di là del muro augustaonline.it, 24 giugno 2017 Si conclude oggi la serie di spettacoli all’interno della casa di reclusione di Augusta iniziati lunedì 19. Quattro appuntamenti, due dei quali nell’ambito dell’evento nazionale Festa della Musica 2017 a cui era iscritta anche la casa di reclusione diretta da Antonio Gelardi. Il 21 giugno alle ore 19.30 lo spettacolo è stato replicato anche per gli ospiti esterni, in collaborazione con il Comune di Augusta. Protagonisti i detenuti del coro Blues brother band di Brucoli diretti da Maria Grazia Morello. Mercoledi 21 il programma prevedeva, oltre all’esibizione del coro diretto da Maria Grazia Morello, il bel canto con la voce di Sarah Marturano, il coro Unitre, i ballerini diretti da Giusy Piazzese. Ha presentato Michela Italia. In prima fila gli assessori Giusy Sirena e Roberta Suppo in rappresentanza del comune di Augusta; il comandante di Marisicilia Contrammiraglio Nicola De Felice; il comandante della Stazione dei carabinieri di Augusta Maresciallo Paolo Cassia. A margine della manifestazione l’assessore alla Cultura ha voluto chiarire : "In merito alla seconda edizione della "Festa della Musica", che è stata organizzata nella casa di reclusione mi preme precisare alcuni aspetti. L’Amministrazione comunale riceve esclusivamente dal sito Mibact i format, compilati dagli artisti che intendono esibirsi. Essi sono successivamente contattati per decidere luoghi e tempi dell’eventuale esibizione. L’Amministrazione ha pubblicizzato l’adesione alla Festa della Musica, invitando quanti volessero partecipare tramite un avviso sul sito istituzionale del Comune, come già avvenuto lo scorso anno. Quest’anno - spiega l’assessore Sirena - abbiamo ricevuto sette iscrizioni, tra gruppi e artisti singoli. Tra questi, la Swing Brucolìs Brothers Band, composta da detenuti. Dopo un confronto con il direttore Gelardi, avendo appreso che solo due detenuti su venticinque che compongono la band, erano autorizzati a esibirsi fuori dal carcere, abbiamo chiesto di poter portare la Festa all’interno della Casa di Reclusione. Gli artisti che si sono iscritti regolarmente sono stati contattati e alcuni di loro hanno liberamente scelto di non volersi esibire. Gli altri fanno parte del programma che si trova pubblicato sul sito ufficiale della Festa della Musica, consultabile on-line. Gli accessi alla casa di reclusione - conclude l’assessore - sono regolamentati da norme che sono state chiarite da un ulteriore comunicato del direttore, al quale va il mio personale ringraziamento per la sua disponibilità ad accogliere la Festa della Musica". Il chiarimento probabilmente si è reso necessario a causa di una coda di polemiche che hanno alimentato un dibattito in città. "Partendo dal presupposto che siamo ben lieti di assistere a qualsiasi evento che abbia come fine ultimo l’inclusione, l’apertura e la condivisione. - sostiene il movimento "Facciamo squadra" in una nota - Ciò che il direttore Galardi insieme ai suoi collaboratori e i volontari fa ogni anno, tutte le energie che sono impiegate affinché si crei un ponte tra la cittadinanza e i detenuti che desiderano affacciarsi a una vita diversa, è sicuramente encomiabile. La domanda che sorge spontanea è: perché non includere i concerti previsti in carcere all’interno di un programma più vasto? Perché non prevedere l’allestimento di spazi in grado di contenere un gran numero di cittadini e dar loro la possibilità di partecipare anche senza una prenotazione o all’ultimo momento? Perché non animare le piazze del centro storico? Dal nostro punto di vista non ci sono più scuse! A questo punto - conclude la nota - non ci resta che prenderne atto. Ci troviamo di fronte ad un assessorato incapace a svolgere il proprio compito, incapace di trovare soluzioni al mero immobilismo e soprattutto sempre assente in un territorio che ha bisogno di partire dalla cultura e dallo sviluppo sociale". Sulla vicenda anche il consigliere di minoranza Biagio Tribulato è intervenuto con delle precisazioni. "Anzitutto trovo altamente significativa la grandezza della corale, un appuntamento ormai consolidato portato avanti dall’istituto penitenziario di Augusta e colgo l’occasione per ringraziare il direttore e tutti i collaboratori che quotidianamente spesso con spirito di abnegazione si spendono ai fini dell’integrazione dei detenuti, anche con altre attività a servizio della nostra città. Nell’ambito di una festa della musica sicuramente l’esibizione della Swing Brucoli Brother’s Band e l’evento organizzato all’interno del carcere a mio giudizio accresce un valore più sociale seguito da quello culturale. La Festa della Musica - sostiene Tribulato - si sarebbe potuta strutturare anche con lo spettacolo all’interno della casa di reclusione, ma non solo. Era l’occasione giusta per questa amministrazione e per un assessorato "latitante" sin dal primo giorno quale quello alla cultura di poter creare sfruttando l’occasione, degli eventi contemporanei in altre piazze e zone della città, facendo rivivere borghi e centro storico, incoraggiando i commercianti del territorio, coinvolgendo tutte le associazioni musicali che operano nella nostra città. È chiaro - conclude Tribulato - l’amministrazione comunale trovandosi di fronte al fatto di voler scegliere un pacchetto già pronto pur di dimostrare di fare qualcosa e di mettere il bollo su iniziative non proprie, come in questi anni è spesso avvenuto, ha preferito la strada più semplice". Avezzano (Aq): Giornata europea della musica nella Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2017 Il 21 giugno 2017, giorno del solstizio d’estate, si è svolta anche nella Casa Circondariale a custodia Attenuata di Avezzano, la Giornata Europea della Musica. La festa è una celebrazione della musica dal vivo destinata a valorizzare la molteplicità e la diversità delle pratiche musicali, per tutti i generi di musica. Protagonisti della manifestazione sono stati: la formazione Young band del Circolo Leoncini d’Abruzzo di Pescina e il coro multietnico formato dai detenuti dell’istituto di pena. A "pezzi" di musica classica eseguiti con maestria dai giovani componenti l’orchestra diretti dal maestro Nicolino Rosati, sono seguiti rinomati canti popolari cantati dai detenuti diretti da Alberto Marchionni e Giuseppe Pulcinelli. La festa ha rappresentato un momento di forte aggregazione: la musica in quanto linguaggio universale è veicolo di valori, rafforza le relazioni e ha carattere educativo e formativo. Plauso alla Direzione della Casa Circondariale che continuamente promuove momenti di apertura del carcere alla società esterna. Rimini: "Non me la racconti giusta", la streetart entra ai Casetti chiamamicitta.it Arriva alla casa circondariale di Rimini "Non me la racconti giusta", il progetto di arte urbana all’interno delle carceri italiane a cura di ziguline, magazine di arte e cultura contemporanea, degli artisti Collettivo FX e NemÒs e del fotografo e videomaker Antonio Sena. Dopo le intense esperienze dello scorso novembre nella Casa circondariale di Ariano Irpino e nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, il gruppo prosegue il proprio percorso fisico ed interiore nelle carceri italiane, come sempre con l’obiettivo di accendere una discussione sul tema della reclusione e sul ruolo del carcere oggi. Così attraverso l’arte "Non me la racconti giusta" vuole attirare l’attenzione su una problematica che ci riguarda tutti ma che viene percepita come scomoda per la nostra società e spesso trascurata dalle istituzioni. Il prossimo appuntamento si svolgerà dal 26 giugno al 01 luglio nella Casa di reclusione di Rimini e questa volta il progetto si avvale di nuove e interessanti collaborazioni. Innanzitutto, con l’artista riminese Filippo "Mozone" Tonni attivo dagli anni 90 con uno stile molto personale che mescola writing, illustrazione, grafica e fotografia, il quale sarà al fianco di Nemòs e Collettivo Fx nella gestione del laboratorio che vedrà protagonisti i detenuti. Nel gruppo di lavoro sarà presente anche l’associazione Il Palloncino Rosso, che ha creduto nel progetto e nella possibilità di dare una nuova visione al tema del carcere e di conseguenza ha permesso di portarlo a Rimini, contribuendo alla creazione di una rete di sostenitori e di operatori. E ultimo, ma non meno importante, Antonio Libutti, regista autore del documentario "Con gli occhia al muro" un film del 2016 che nasce dall’esigenza di restituire una panoramica sulla street art in Italia negli ultimi 10 anni, il quale ha supportato il progetto lavorando come mediatore tra l’istituto penitenziario e "Non me la racconti giusta". Con questo rinnovato team, Non me la racconti giusta varcherà la soglia della Casa circondariale di Rimini sempre con lo stesso proposito, ovvero, aprire una finestra sul carcere per far conoscere questa realtà all’esterno e contemporaneamente mettere a disposizione dei detenuti un progetto culturale che culmina nella realizzazione di un intervento pittorico collaborativo e che permette agli stessi detenuti di gestire l’intero processo creativo, dalla determinazione dei contenuti, all’ideazione del soggetto, fino alla realizzazione materiale dell’opera. Il modus operandi resterà lo stesso, ovvero creare un tavolo di lavoro sul quale gli artisti pongono una serie di temi da sviluppare, e successivamente la realizzazione di un intervento di arte pubblica in una specifica area del carcere, individuata attraverso la collaborazione con la direzione e il brain storming in aula con i detenuti. "Non me la racconti giusta" è stato permesso grazie alla disponibilità della Casa circondariale di Rimini, in particolare del responsabile educativo Laura Ungaro, della garante dei detenuti Ilaria Pruccoli e del Ministero della Giustizia. Partner del progetto per la tappa di Rimini sono l’associazione Il Palloncino Rosso e Antonio Libutti. Si ringrazia inoltre lo sponsor tecnico Colorificio MP di Rimini e alla CGIL Rimini per il loro contributo. Grazie ai cittadini che hanno sostenuto il progetto con un contributo spontaneo: Fabio Corazza, Marco Vici, Luca Zamagni e Daniele Pagnoni. Un ringraziamento speciale va a Mino Sebastiano per l’immagine grafica. Grazie infine a Jessica Valentini che è stata la prima promotrice del progetto e che ha messo in campo un impegno ed una dedizione unici. Gli artisti coinvolti Collettivo Fx - Collettivo Fx si dedica da numerosi anni a progetti di coinvolgimento sociale, alla valorizzazione della memoria collettiva e alla denuncia di problematiche che riguardano la nostra società. Ha già esperienza con progetti all’interno del carcere con corsi di disegno con i detenuti della Casa Circondariale di Reggio Emilia e nel 2016 con la realizzazione di un murales all’interno della Casa circondariale di Ragusa. Nemòs - Artista attivo da diversi anni nell’arte di strada e con laboratori artistici dedicati a bambini e ragazzi. La denuncia sociale e un ritratto delle ansie e le paure che caratterizzano la nostra società sono al centro del suo lavoro. Nemòs ha già avuto esperienze all’interno delle carceri con corsi di disegno in collaborazione con i detenuti. ziguline - Magazine di arte e cultura contemporanea, attivo dal 2007, documenta l’arte, la musica, la fotografia e altri argomenti di carattere culturale. Sviluppa, inoltre, progetti di arte pubblica e fotografia in collaborazione con altre realtà dislocate sul territorio nazionale. Antonio Sena - Fotografo per Esse Studio, fotoreporter per ziguline, direttore artistico del festival di arte urbana Bag Out 16 e membro del Collettivo Boca. Viaggia i tutta Europa per documentare eventi e iniziative legate all’arte urbana. Maria Caro - Direttore editoriale del magazine ziguline ed esperta di comunicazione. Lavora da anni nel campo del giornalismo, della comunicazione e dei media, è coinvolta in vari progetti di arte urbana sul territorio campano e fa parte del progetto Collettivo Boca. Filippo Mozone - Attivo dai primi anni ‘90, porta avanti un percorso personale che mescola il writing con l’illustrazione, la grafica, la fotografia. Ha partecipato a diverse convention, eventi, fiere e mostre di carattere internazionale nell’ambito del writing e dell’arte contemporanea. È membro di collettivi artistici in Italia e in Francia. Attualmente lavora come artista freelance con base a Rimini. Il Palloncino Rosso - L’associazione ha l’obiettivo di occuparsi dei temi dell’economia condivisa, del consumo collaborativo, del coworking e, più in generale, della cosiddetta "Terza Rivoluzione Industriale" e lo fa sotto tre aspetti: culturale, formativo ed operativo. L’associazione ha una forte vocazione "sociale". Opera (Mi): "Prova a sollevarti dal suolo", sesta edizione del Festival di Teatro Carcere di Maria Lucia Tangorra milanoweekend.it, 24 giugno 2017 L’Associazione Opera Liquida che lavora all’interno del carcere di Opera propone la sesta edizione del Festival di Teatro Carcere. Prova a sollevarti dal suolo si svolgerà dal 24 giugno e si articolerà in diversi momenti fino a novembre 2017, dividendosi tra "il Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera e lo spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Punta dell’est". Toccherà a "Il lupo e i sette capretti" inaugurare le danze, de La Casa delle storie "per le famiglie dei detenuti dell’Associazione Bambinisenzasbarre e tutti coloro che vorranno giocare con noi". La stagione estiva in Idroscalo riprende con uno spettacolo di Livia Grossi, giornalista che ha sempre dimostrato un’attenzione particolare verso l’universo femminile ("Nonostante voi. Storie di donne coraggio", il 6 luglio). Il 14 settembre si riprende dopo la pausa estiva la compagnia e.s.t.i.a. del carcere di Bollate porta in scena una drammaturgia collettiva che indaga temi e questioni molto stringenti dal bullismo alla fragilità umana. "In quell’amplificatore emotivo che è il teatro del carcere, il festival prosegue all’insegna delle risate, per pensare, condividere un momento culturale, affrontare temi e miserie umane, insieme alla popolazione detenuta, nella leggerezza dell’ironico sentire". In quest’ottica si inseriscono gli spettacoli di Ale e Franz (5 ottobre), David Anzalone (19 ottobre), Max Pisu (26 ottobre) e la chiusura dell’esilarante regia di Rita Pelusio (9 novembre)". Prova a sollevarti dal suolo - Festival Opera Liquida, dal 24 giugno al 9 novembre 2017. Luoghi: Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera e spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Punta dell’est Info: per gli spettacoli in carcere è obbligatorio prenotare i biglietti sul sito almeno tre giorni prima della data dello spettacolo, compilando il form con dati anagrafici e inviandolo alla mail prenotazionistabileinopera@gmail.com. Ingresso in carcere almeno un’ora prima dell’inizio degli spettacoli. Per gli spettacoli in idroscalo: è consigliabile prenotare, i biglietti si ritirano la sera dello spettacolo. Biglietti: intero 15€; ridotto 10€. Oltre due milioni di persone "schedate" tra i soggetti a rischio per banche e intelligence di Stefania Maurizi La Repubblica, 24 giugno 2017 Utilizzato da seimila persone in 170 Paesi, World-Check contiene dati su milioni di persone e società. Persone innocenti di tutto il mondo sono finite ingiustamente in una watchlist insieme a terroristi e criminali, secondo un’inchiesta realizzata da Repubblica con un team internazionali di media, che include il Times di Londra, il quotidiano belga De Tijd, la tv e il quotidiano tedeschi Ndr e Sueddeutsche Zeitung, la radio olandese Npo e il giornale americano The Intercept e che è stata supportata da Journalismfund.eu. La watchlist si chiama World-Check ed è un database riservato che contiene i nominativi di oltre 2 milioni di persone: è compilato dal gigante dell’informazione finanziaria Thomson Reuters ed è venduto in abbonamento a praticamente tutte le grandi banche del mondo, alle forze di polizia, alle agenzie di intelligence e anche alle organizzazioni non governative. In questa schedatura anche 90 mila italiani, di cui Repubblica in edicola pubblica una prima lista. Interpellato su World-Check, Tomaso Falchetta dell’ufficio legale di Privacy International, ha dichiarato: "Il rischio di discriminazioni contro individui, gruppi e intere comunità è molto alto". Il database esaminato da Repubblica in partnership con il team internazionale ha fatto emergere tutta una serie di persone e organizzazioni incluse in World-Check secondo criteri discutibili, come per esempio gli ambientalisti di Greenpeace o anche il movimento Occupy Wall Street, che ci è finito per presunti rapporti con gli hacker di Anonymous. Individui di fede musulmana e anche organizzazioni, come il Council on American Islamic Relations, sono inclusi nella sezione "terrorismo" del database sulla base di informazioni controverse, in alcun casi provenienti pure da siti islamofobici. La whistleblower Chelsea Manning, che ha passato a WikiLeaks i file segreti del governo americano, invece, è stata stranamente schedata nella categoria "crimini finanziari", poco dopo aver inviato i documenti. Julian Assange stesso e WikiLeaks sono schedati in World-Check fin dal 2010, con Jake Appelbaum, giornalista e ricercatore che in più occasioni ha collaborato con loro, e con Kristinn Hrafnsson, ex portavoce di WikiLeaks. Esempi discutibili non mancano: oppositori politici di paesi con una situazione disastrosa in materia di diritti umani, come lo Sri Lanka o l’Eritrea, sono finiti in questa blacklist sulla base di false accuse mosse dai loro governi. Ex detenuti di Guantanamo completamente scagionati e liberati, come Haji Faiz Mohammed - arrestato in Afghanistan all’età di 70 anni, colpito da demenza senile ed erroneamente rinchiuso nel lager - come anche Naqib Ullah, arrestato a 14 anni- stuprato dai Talibani e spedito a Guantanamo senza che rappresentasse un pericolo per gli Stati Uniti e i loro alleati- sono entrambi nel database. Delphine Boël, la figlia non riconosciuta dell’ex re del Belgio, i cui conti bancari sono stati chiusi nel 2012, è nel database, come anche un coltivatore olandese di patate membro di un consiglio provinciale. World-Check ha come scopo di identificare potenziali terroristi, criminali e anche politici di alto livello che le banche devono monitorare per prevenire atti di corruzione e riciclaggio. Chi è elencato in questo database potrebbe ritrovarsi con il conto bancario chiuso, mentre aziende e realtà non profit potrebbero ritrovarsi a perdere finanziamenti e contratti. Thomson Reuters non contatta le persone che inserisce nel database, che è compilato utilizzando articoli di giornali e fonti aperte. Le banche, da parte loro, hanno il divieto di dire ai loro clienti che sono sulla watchlist di World-Check. Una copia del database datata 2014 è finita accidentalmente online su un server, dove è stata scoperta dal ricercatore americano esperto di sicurezza informatica, Chris Vickery. Willem Debeuckelaere, il commissario belga per la privacy, ha dichiarato che ci sono tutta una serie di questioni problematiche intorno a World-Check, che vorrebbe discutere con gli altri garanti dei paesi europei. L’anno scorso, Thomson Reuters si è scusata e ha risarcito la moschea londinese di Finsbury Park - quella colpita domenica scorsa da un attentato xenofobo -, danneggiata dal fatto che World-Check l’aveva inclusa nella lista delle entità terroristiche. I legali della moschea hanno fatto sapere che altri individui inclusi nel database probabilmente seguiranno il loro esempio. David Crundwell, Senior Vice-President della Thomson Reuters, ha dichiarato al nostro team: "World-Check ha una chiara policy in materia di privacy, è possibile consultarla sul nostro sito e prevede che chiunque possa contattarci se crede che le informazioni che abbiamo sono inaccurate. Noi incoraggiamo a farlo". Crundwell ha anche precisato che l’inclusione nel database non implica alcuna colpevolezza e che ai clienti che utilizzano World-Check viene detto di fare delle verifiche sulle informazioni presenti in esso, prima di agire sulla loro base. Nel Sahel a causa della siccità si prepara la più grande migrazione della storia di Tommaso Carboni La Stampa, 24 giugno 2017 Africa e riscaldamento globale, emblema delle disuguaglianze della nostra epoca: sono i paesi ricchi a produrre gran parte dei gas serra, è l’Africa - soprattutto quella sub-sahariana, e il poverissimo Sahel - a subirne le conseguenze più gravi. Il continente ha una responsabilità minima (tra il 2 e il 4% delle emissioni annuali di gas serra); ma la sua temperatura, secondo quanto emerge da alcune ricerche delle Nazioni Unite, aumenterà una volta e mezzo più rapidamente della media globale, provocando condizioni meteorologiche sempre più estreme, con effetti potenzialmente devastanti. Prolungate siccità rischiano di esporre ad una penuria d’acqua fino a 250 milioni di africani entro il 2020. E nel 2040, secondo la Banca Mondiale, potrebbe deteriorarsi e divenire inservibile tra il 40 e l’80% della superficie dell’Africa sub-sahariana destinata alla coltivazione di cereali come grano e mais. Già oggi, piogge scarse e irregolari sono una minaccia costante per il Corno d’Africa e altre parti dell’Africa orientale. La carestia somala del 2011, in cui morirono 250.000 persone, e l’attuale crisi alimentare del Corno sono da attribuire a un prolungato periodo di siccità che ha portato raccolti fallimentari, oltre a decimare il bestiame. Nell’emergenza in corso, le ultime stime dicono che, tra Somalia, Kenya ed Etiopia, 14,4 milioni di persone soffrono di "acuta insicurezza alimentare" e hanno bisogno di assistenza umanitaria immediata. Mentre quasi tre milioni di somali sono già a un passo dalla carestia. Particolarmente vulnerabile appare Il Sahel, quella striscia di terra semi-arida appena sotto il deserto del Sahara. Il cambiamento climatico agisce poi su un quadro politico ed economico già molto precario. Vastissima - si estende dalla Mauritania all’Eritrea - e in forte crescita demografica, la regione conta oggi 135 milioni di abitanti, ma potrebbe averne 330 milioni nel 2050 e quasi 670 milioni nel 2100. Ogni anno, centinaia di migliaia di migranti attraversano queste aree instabili e impoverite per raggiungere il Nord Africa, e poi, eventualmente, l’Europa. Il dibattito sul tema resta aperto, tuttavia, gran parte degli studi sembrano concludere che l’aumento della temperatura - più 3-5 gradi, entro il 2050; e forse 8 gradi alla fine del secolo - renderà molte aree del Sahel ancora più inospitali, intensificando la frequenza delle migrazioni. Secondo un documento dell’ African Institute for Development Policy, l’aumento delle temperature potrebbe causare un calo della produzione agricola che va dal 13% del Burkina Faso al 50% del Sudan. Altre ricerche, più pessimiste, ipotizzano autentiche apocalissi. Il Washington Post pochi giorni fa ne ha citata una secondo cui il Sahel, a causa di una reazione a catena innescata dallo scioglimento dei ghiacci artici, rischia di inaridirsi completamente, costringendo ad emigrare centinaia di milioni di persone entro la fine del secolo. Probabilmente la più gigantesca migrazione nella storia dell’umanità. Aldilà di previsioni che ci si augura eccessivamente funeste, è chiaro che l’emergenza Sahel è aggravata da una crescita della popolazione che appare oggi fuori controllo. Anche le Nazioni Unite, di solito inclini ad un evasivo linguaggio diplomatico, hanno detto che sfamare il Sahel sta diventando una "missione impossibile". Chi si occupa di demografia è dello stesso parere, ma suggerisce di alleggerire la pressione limitando le nascite. Tassi di natalità troppo alti sono considerati un ostacolo allo sviluppo economico e sociale. Alcuni paesi sembrano aver recepito il messaggio. Per esempio il Niger, dove le donne partoriscono una media di 7,6 figli a testa, si è posto l’obiettivo di raddoppiare l’uso di contraccettivi. Segnali incoraggianti in una regione in cui la pianificazione familiare continua però ad essere colpevolmente trascurata. Eppure invertire questa tendenza è possibile. Tutte le "tigri asiatiche" hanno registrato cali repentini dei loro tassi di natalità fin dagli anni sessanta. Quando alle donne vengono date opzioni realistiche di pianificazione familiare, il numero di figli si riduce, anche piuttosto rapidamente. In Bangladesh, paese islamico conservatore, oggi le donne hanno una media di 2,2 gravidanze a testa. L’Islam quindi non è un ostacolo. Quello che manca in Sahel è la volontà politica di affrontare il problema. I governi locali sono colpevoli. Ma una parte di responsabilità ricade anche sulla comunità internazionale. Le Nazioni Unite, per esempio, in un recente documento per lo sviluppo del Sahel, hanno ricordato l’urgenza della crisi e la necessità di aiuti immediati. Senza però far mai menzione, in 45 pagine, né di anticoncezionali né di pianificazione familiare. Droghe. Dosi a 5 euro per "l’eroina dei poveri" di Federico Berni Corriere della Sera, 24 giugno 2017 Per "l’eroina dei poveri" bastano cinque euro. Il prezzo di una pasticca di Rivotril, un antidepressivo a base di benzodiazepine, venduta a tossici e sbandati che bivaccano alla stazione Centrale, acquistano e "si fanno" tranquillamente in mezzo ai pendolari e ai turisti che ogni giorno affollano lo scalo ferroviario. Il farmaco, se mescolato all’alcol, si trasforma in una miscela pericolosissima con effetti simili a quelli, per appunto, dell’eroina. La scoperta di questo nuovo mercato della disperazione l’hanno fatta gli agenti del commissariato Garibaldi Venezia. La squadra di investigatori guidati da Alessandro Chiesa ha arrestato un senegalese cinquantenne, pregiudicato, in Italia da 20 anni. Nello zaino aveva 597 compresse del farmaco che, recentemente, è stato inserito nelle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti, se assunto al di fuori di prescrizioni e controllo medico. Ai poliziotti che la grande area della stazione Centrale, non è sfuggito il suo atteggiamento guardingo e sospetto, in mezzo a un assembramento di circa 40 immigrati africani vicino ad un chiosco di souvenir. Zaino appoggiato su una spalla, veniva cercato a colpo sicuro da clienti italiani e africani. Seguito durante uno spostamento nelle toilette della stazione, è stato trovato in possesso di 6 confezioni imbottite di pastiglie. "Soffro di insonnia" avrebbe provato a giustificarsi in un primo momento, salvo poi ammettere di vendere le compresse a cinque euro al pezzo. Una sorta di surrogato a basso costo dell’eroina, di cui le cronache degli ultimi tempi hanno "parlato" relativamente ad una operazione della Squadra Mobile di Catania, che aveva scoperto un giro analogo tra i migranti del Cara di Mineo. Sembra che i tossici ricorrano al mix alcol-benzodiazepine per combattere l’astinenza da eroina, ma gli effetti per la salute restano molto nocivi. Una novità, nel mercato degli stupefacenti avviato in Centrale, che vede senegalesi e gambiani spartirsi la piazza per quanto riguarda hashish e marijuana, e i "soliti" nordafricani padroni dello smercio al dettaglio della cocaina. Fenomeni duramente contrastati dal personale della Questura, che in questo punto tradizionalmente problematico della città, negli ultimi due mesi ha arrestato 52 persone, ne ha denunciate 131 e ha rimpatriato 59 stranieri. Parliamo di una zona che resta un punto di riferimento per vagabondi e balordi, come era il giovane Ismail Hosni, italo-tunisino, piccolo spacciatore di strada, che un mese fa ha accoltellato due militari e un agente Polfer durante un normale controllo. Hosni, figlio di una coppia di sbandati e violenti, cresciuto per anni nella topaia di via Tommei fra case popolari, occupazioni, malavita e degrado, campava sì di spaccio. Ma aveva anche intrapreso, secondo gli inquirenti dell’Antiterrorismo di Milano, un percorso di "radicalizzazione". Lo aveva fatto "affiancando" un libico, conosciuto proprio in stazione Centrale, che aveva "raccolto" la rabbia del ragazzo e l’aveva convogliata verso un imminente "attacco", da effettuare forse all’interno dello scalo. Il Canada verso la cannabis legale, ma l’offerta produttiva potrebbe non essere sufficiente di Stéphanie Fillion La Stampa, 24 giugno 2017 "Alla fine, la sfida più grande che potremmo affrontare potrebbe essere legata alla carenza di marijuana" ha detto Charles Sousa, ministero per l’economia dell’Ontario, a margine di un incontro con i suoi colleghi delle altre provincie canadesi per fare il punto sulla legalizzazione della cannabis prevista per il 1° luglio 2018. La domanda di cannabis in Canada è già molto grande: ci sono 167.754 persone che ne fanno uso terapeutico dal marzo 2017 e spesso si verificano problemi di fornitura, così come ha detto un produttore a Bloomberg. Per risolvere il problema, l’ente sanitario governativo nazionale ha promesso di accelerare il processo di approvazione per licenze da dare a nuovi produttori. La legalizzazione - A partire del primo luglio 2018 il governo di Trudeau ha deciso di rendere legale l’utilizzo della cannabis a uso ricreativo per le persone con più di 18 anni e ha previsto negozi specializzati alla vendita. Lo Stato canadese controllerà anche la tassazione, le regole di confezionamento e la commercializzazione. Ai maggiorenni sarà consentita la produzione "casalinga" per un massimo di quattro piante e la preparazione di prodotti per consumi personali. Il governo canadese, per combattere il mercato nero e la criminalità, ha anche previsto condanne penali per chi vende a minori e per chi guida sotto l’effetto di droghe. Storia della cannabis in Canada - Nel Paese nordamericano l’uso terapeutico della cannabis è stata legalizzato già nel 2000, quando la Corte suprema ha giudicato incostituzionale il divieto per l’uso medico della marijuana. Sulla base di questa decisione, l’ente sanitario governativo ha elaborato un sistema per controllarne l’utilizzò, rendendo così il Canada il primo Paese ad adottare un sistemo formale di regolazione di questa droga. Nel 2002, il Senato canadese ha redatto uno studio in favore della legalizzazione: "prove scientifiche - si legge nel rapporto - mostrano senza dubbi che la cannabis è meno dannosa dell’alcool e che la questione dovrebbe essere affrontata non come un problema penale, ma sociale e di saluta pubblica". Tredici anni dopo il Partito Liberale ha ascoltato queste raccomandazioni e ha inserito nel suo piano elettorale la legalizzazione della marijuana. Il commercio legale sarebbe anche una fonte di profitto per il governo nazionale: uno studio di Canaccord, un gruppo finanziario indipendente, evidenzia come il settore della marijuana ricreativa potrebbe generare un mercato di quattro miliardi di euro entro il 2021, se il processo di legalizzazione rispetterà le scadenze previste. Nel mondo - Il governo canadese sarebbe uno dei primi paesi nel mondo a legalizzare l’uso ricreativo della droga. Nel 2014 l’Uruguay aveva già legalizzato la coltivazione, il commercio e il consumo di cannabis. Nei Paesi Bassi, al contrario di quanto spesso si creda, ne è vietata la produzione, ma esiste una politica di tolleranza verso le droghe leggere. In Italia l’uso esclusivamente personale è illegale, ma è depenalizzato. L’uso per scopi terapeutici è legale sotto prescrizione medica. Svizzera. L’imam che cura le anime dei detenuti musulmani di Peter Siegenthaler swissinfo.ch, 24 giugno 2017 La radicalizzazione di alcuni terroristi islamici è avvenuta in prigione. Per cercare di impedirlo, le autorità ricorrono da qualche tempo anche a religiosi musulmani. Nel carcere regionale di Berna un imam si occupa dell’assistenza spirituale ai detenuti musulmani da ormai 24 anni. Che si tratti di prigionieri, secondini o visitatori, Monica Kummer accoglie tutti con una parola gentile o un sorriso. L’atmosfera rilassata creata dalla direttrice contribuisce a smussare le tensioni nel carcere regionale di Berna. Per i quasi 60 dipendenti la parola d’ordine è: rispetto. Nonostante abbiano a che fare anche con persone con cui non c’è da scherzare. Il penitenziario nel centro della capitale federale dispone di 126 posti. Al momento sono tutti occupati. La maggior parte dei detenuti si trova in custodia cautelare, sta scontando la propria pena o si trova in detenzione in attesa di espulsione. Al primo piano le donne, dal secondo al quinto gli uomini. Anche autori di delitti di matrice terroristica vengono incarcerati qui. Tutti mangiano la stessa cosa - Quattro detenuti su cinque sono stranieri, circa un terzo di religione musulmana. Per quanto possibile, in carcere le loro esigenze spirituali sono prese in considerazione. "In linea di principio rispettiamo i tempi di preghiera. In situazioni urgenti, per esempio in caso di interrogatori, devono però interrompere la preghiera", dice Kummer. La direttrice si è comunque preoccupata di chiarire se dal punto di vista teologico un’interruzione sia consentita. Trentun detenuti musulmani partecipano al ramadan. Il pranzo, la cena e la colazione del giorno successivo sono consegnati loro in cella a inizio serata. Alcuni aspettano che cali la notte per cominciare a mangiare, altri appendono degli stracci alle finestre per anticipare il buio. Per evitare ogni discussione non viene mai servita carne di maiale, neppure ai detenuti che non sono musulmani. Più volte alla settimana nel menu ci sono altri tipi di carne, ma non halal né kosher. Il personale riceve gli stessi pasti distribuiti ai detenuti nelle celle. Oggi ci sono bastoncini di pesce, grano cotto e verdure, senza salse, poco condite e tiepide. "Non lo farò mai più" - Anche Irhad celebra il ramadan, per la prima volta da quando è in prigione. Il cittadino bosniaco vive in Germania, ma ha infranto la legge in Svizzera. Non dice cosa ha fatto, ma ammette: "Ho incontrato le persone sbagliate". La vita da detenuto lo fa soffrire, soprattutto per il fatto di essere separato dalla sua famiglia. Dormire, leggere, pregare e attaccare etichette su confezioni destinate a un’azienda orologiera svizzera sono tutte attività che lo aiutano a superare almeno in parte la noia del soggiorno obbligato nell’istituto penale bernese. Contento di ogni distrazione, Irhad usufruisce ogni martedì pomeriggio dell’assistenza spirituale offerta da Mustafa Memeti, imam svizzero con radici albanesi. "Posso confidare tutto a Memeti. Quando parlo con lui mi sento bene e riesco a dormire meglio", dice il giovane musulmano. Per lui è importante sentire le parole di un teologo della propria religione. Non lo disturba il fatto che oggi siano presenti i giornalisti di swissinfo.ch, con microfono e apparecchio fotografico. Verso i terroristi prova solo ribrezzo, chiarisce fin dall’inizio dell’intervista, senza che l’imam lo abbia interpellato a proposito. Ha visto alla TV gli attentatori nell’atto di pregare. "Ma persone che uccidono innocenti e bambini durante un concerto non sono musulmani". I terroristi hanno problemi psicologici, afferma il teologo. "Interpretano in modo sbagliato i dettami della fede, non sono in grado di distinguere tra bene e male e danno sempre la colpa agli altri." Rivolgendosi al detenuto seduto all’altro lato del tavolo, l’imam aggiunge che è molto importante mettere in discussione anche sé stessi, in questa situazione difficile, pensare in modo positivo e immaginare un futuro fatto di lavoro e famiglia. In carcere ha ricevuto una lezione, fa notare l’esile religioso islamico a Irhad, robusto e alto quasi due metri. Il detenuto, pentito, promette: "Non lo farò mai più. Appena esco andrò da mia moglie e dai miei bambini". Prima di tutto lo Stato di diritto - L’imam Memeti ha studiato teologia in vari paesi arabi. Dal 1993 vive in Svizzera e da oltre vent’anni visita una volta alla settimana la prigione bernese, per dare un sostegno spirituale ai musulmani che si trovano in una situazione difficile, senza contatti, senza libertà e talvolta senza prospettive. "Le nostre competenze sono limitate. Non possiamo immischiarci nel procedimento legale. Ma possiamo aiutare le persone sul piano spirituale, allontanandole dai pensieri negativi e motivandole a riprendere in mano il loro destino". I pensieri negativi derivano sovente dall’impressione di non essere accettati, spiega Memeti. Spesso questo sentimento è all’origine di una radicalizzazione. Talvolta l’assistenza spirituale avviene anche in piccoli gruppi. "Può essere di grande aiuto, perché i detenuti si rendono conto di non essere soli in una situazione difficile". La direzione del carcere apprezza il lavoro di Memeti non solo da quando il terrorismo islamista è diventato una minaccia. "Ma ora siamo particolarmente contenti di poter contare su suo sostegno". Un detenuto parla a un secondino mentre sta uscendo dalla cell L’imam che combatte la radicalizzazione islamica in prigione - Un detenuto su tre professa l’islam. Ma soltanto poche prigioni consentono la visita di un imam. Tra queste c’è il carcere regionale di Berna. La partecipazione all’offerta di assistenza spirituale islamica è volontaria e non tutti i musulmani in carcere ne fanno uso. Ma quando un detenuto cambia improvvisamente modo di comportarsi, smette di ascoltare musica e di guardare la TV, si lascia crescere la barba e comincia a fare dichiarazioni bizzarre, allora la direzione del carcere chiede l’aiuto di Memeti. "Può avere un effetto benefico. Apprezzo la sua presenza, le sue competenze e la sua apertura", dice Monica Kummer. La direttrice esclude che l’imam stesso possa diffondere idee radicali nel carcere, com’è avvenuto altrove. Mustafa Memeti è noto come teologo musulmano moderato. Per lui lo Stato di diritto viene prima delle opinioni religiose. Anche il personale carcerario rispetta la libertà religiosa e il lavoro dell’imam, sebbene al momento nessun secondino sia di fede islamica. "Le competenze interculturali sono una componente essenziale del corso di base, che dura due anni. Ci sono corsi su temi come la radicalizzazione e il jihadismo", osserva Kummer. "I nostri dipendenti imparano queste cose perché lavorano al fronte e sono i primi che possono capire se qualcuno deve essere tenuto sotto osservazione". Emirati Arabi. Carceri segrete e torture di sospetti terroristi asianews.it, 24 giugno 2017 Un’inchiesta della Ap rivela le violenze contro presunti estremisti e membri di al Qaeda compiute in Emirati e Yemen. Prigionieri oggetto di abusi sessuali e bendati per settimane. Il ruolo degli alti militari statunitensi negli interrogatori. Abu Dhabi respinge le accuse e Washington minimizza il suo ruolo. Attivisti e ong pro diritti umani denunciano la scomparsa di decine di persone. I militari statunitensi si sono resi complici di torture, abusi e violenze contro sospetti terroristi, compiute dalle forze armate degli Emirati Arabi Uniti e dello Yemen sul loro territorio. È quanto emerge da un lungo reportage pubblicato dalla Associated Press (Ap), che sostiene il coinvolgimento di soldati americani negli interrogatori compiuti nelle prigioni segrete del Paese arabo, teatro da oltre due anni di una sanguinosa guerra civile. Le carceri sono controllate da ufficiali di Abu Dhabi e Sanàa e i dettagli che emergono dai racconti dei testimoni sono raccapriccianti. I prigionieri sono chiusi all’interno di container per spedizioni, cosparsi di feci e urina, bendati per settimane. E ancora, i sospetti sono picchiati e legati a una griglia circondata dal fuoco. A questo si aggiungono gli abusi a sfondo sessuale e interrogatori compiuti all’interno di navi segrete da parte di "esperti psicologi" ed "esperti di poligrafia" statunitensi. Secondo alcune testimonianze anonime rilanciate da Ap, sarebbero centinaia i sospetti terroristi, appartenenti alla rete di al Qaeda, finiti nella rete degli abusi e delle violenze delle carceri segrete in Yemen. Esse sorgono all’interno di basi militari, di porti, aeroporti, ville private e anche club notturni. Gli informatori riferiscono che gli abusi sono "una routine" e le torture inflitte "estreme". Altre fonti parlano di circa 2mila persone scomparse, che sarebbero ancora oggi rinchiuse all’interno delle carceri. Familiari, parenti, amici hanno promosso proteste e iniziative per la loro liberazione, finora invano. A fronte delle accuse - respinte al mittente anche dalla leadership degli Emirati Arabi Uniti (Eau), alcuni alti ufficiali a Washington, dietro anonimato perché non autorizzati a parlare con la stampa, affermano che le forze statunitensi avrebbero partecipato agli interrogatori. Gli esperti Usa avrebbero indicato le domande da porre ai sospetti e analizzato i verbali forniti dagli alleati degli Emirati. Inoltre, gli alti comandi degli Stati Uniti erano a conoscenza di violenze e torture, ma queste non sarebbero mai avvenute in loro "presenza". Attivisti e associazioni pro diritti umani non credono alla versione ufficiale dei vertici di Washington e del Pentagono, parlando di maldestro tentativo di lavarsi le mani e minimizzare responsabilità e coinvolgimenti. In un rapporto pubblicato in questi giorni da giornalisti e ong viene raccontata la storia di 49 persone - fra cui quattro bambini - detenuti in queste carceri segrete in Yemen e poi scomparsi senza lasciare traccia. La rete di prigioni segrete ricorda i centri di detenzione promossi dalla Cia all’indomani dell’11 settembre per interrogare i sospetti terroristi, più volte finiti nel mirino di ong internazionali e attivisti per i diritti umani. Nel 2009 l’ex presidente Usa Barack Obama aveva smantellato questi "buchi neri"; tuttavia, il complesso di prigioni creato dagli Emirati in Yemen è nato durante gli anni dell’amministrazione democratica e continua a essere ancora oggi operativa con Donald Trump alla Casa Bianca. Dal gennaio 2015 la nazione del Golfo è teatro di un sanguinoso conflitto interno che vede opposte la leadership sunnita dell’ex presidente Abedrabbo Mansour Hadi, sostenuta da Riyadh, e i ribelli sciiti Houthi, vicini all’Iran e agli Hezbollah libanesi. Nel marzo 2015 una coalizione araba a guida saudita ha promosso raid contro i ribelli, finiti nel mirino delle Nazioni Unite per le vittime [fra i civili] che hanno provocato. Tra questi vi sono anche bambini. Fonti Onu parlano di oltre 8mila morti e 45mila feriti. Tunisia. Il presidente Essebsi concede grazia a 196 detenuti in occasione dell’Eid al Fitr Nova, 24 giugno 2017 Il presidente della Repubblica tunisina, Bejiu Caid Essebsi, ha concesso la grazia a 196 detenuti in occasione della festa prevista per la fine del mese sacro del digiuno, il Ramadan. Le 196 persone a cui è stata concessa la grazia erano state in precedenza incarcerate per reati legati al traffico o al consumo di stupefacenti oppure erano detenuti portatori di handicap. La Eid al Fitr (in arabo festa della fine del digiuno) viene celebrata alla fine del mese lunare di digiuno del Ramadan, periodo in cui i musulmani digiunano dal sorgere al tramonto del sole. Lo scorso 13 gennaio Essebsi aveva concesso la grazia a 3.706 detenuti alla vigilia del sesto anniversario della rivoluzione dei gelsomini. Nei mesi scorsi la questione dell’affollamento delle carceri e del rimpatrio dei terroristi tunisini è stata al centro di un dibattito nel paese rivierasco. Il rimpatrio dei terroristi tunisini che hanno combattuto all’estero, concesso ai sensi della Costituzione del 2014, rappresenta un problema anche per le carceri del paese nordafricano sia per il sovraffollamento che per la possibilità radicalizzazione di detenuti per reati minori. Egitto. Il presidente al Sisi concede la grazia a 502 detenuti Ansa, 24 giugno 2017 Molti sono accusati di aver preso parte a cortei non autorizzati. Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sissi ha concesso la grazia a 502 detenuti, per la maggior parte accusati di avere organizzato manifestazioni non autorizzate. Lo ha reso noto un comunicato della presidenza. La decisione è stata presa in occasione della festa di Al Fitr e della rivoluzione del 30 giugno, quando venne defenestrato il presidente Mohamed Morsi, espressione della Confraternita. Tra i graziati figurano 25 donne e 175 uomini sotto i 30 anni di età, ma anche otto professori universitari, tre avvocati e cinque ingegneri, precisa il sito del quotidiano filogovernativo al Ahram. Lo scorso gennaio era stati graziati 147 detenuti grazie ad un decreto repubblicano e in occasione delle feste della rivoluzione del 25 gennaio e della polizia. Cecenia. Un giornalista ha potuto visitare i campi di detenzione per gay blogspot.it, 24 giugno 2017 In collaborazione con il canale americano Hbo, la rivista Vice ha pubblicato un reportage di nove minuti che mostra il primo reporter occidentale a cui è stato consentito di entrare nelle strutture cecene di Argun, ossia in quella ex-base militare cecena in cui sarebbero stati allestiti dei campi di detenzione illegale per gay. Lo scorso aprile il quotidiano russo "Novaya Gazeta" riportò la notizia di oltre 100 uomini arrestati dalle autorità cecene per la loro presunta omosessualità, detenuti e torturati in prigioni non ufficiali. Alcuni di loro sono morti a causa delle violenze subite. A pochi giorni di distanza dalle prime notizie, il quotidiano aveva pubblicato anche le prime testimonianze e aveva indicato un ex edificio militare di Argun come una delle sedi adibite a campi di prigionia per gay, drogati e dissidenti politici. Al reporter Hind Hassan è stato permesso di visitare quei locali, anche se la visita è potuta avvenire solo sotto la supervisione delle autorità locali. Ayub Kataew, il capo locale della polizia nazionale, ha negato che i fatti siano mai avvenuti e dinnanzi alle telecamere ha messo in piedi un imbarazzante teatrino in cui chiedeva ai suoi uomini se avessero mai torturato o detenuto illegalmente qualcuno. Ovviamente la risposta di tutti è stata "no". Di contro, il reporter di Vice ha incontrato anche una delle vittime dell’ondata di persecuzione, il quale ha confermato che Kataew si sarebbe recato in quel campo proprio cercare di prevenire la possibilità che qualcuno indagasse su dodici persone rimaste uccise nel corso delle torture. Indicativo è anche come alcune delle autorità intervistate dal reporter si siano affrettati non tanto a negare le violenze, quanto a sostenere che in Cecenia non esistono omosessuali. "Sono convinto che il rispetto delle tradizioni fa sì che in Cecenia non ci siano abbiamo queste persone", ha raccontato uno di loro. In altri passaggi le autorità cecene si lanciano in frasi altamente omofoniche come il sostenere che non avrebbero mai potuto imprigionare dei gay perché gli ufficiali avrebbero avuto schifo anche solo a toccare "quel tipo di persone".