Chi è Ornella Favero di Adriano Sofri *Ristretti Orizzonti, 23 giugno 2015 Fra le esperienze più belle ed efficaci di attuazione dell’idea che la Costituzione si fa del carcere c’è quella di Ristretti Orizzonti. Oggi quella esperienza viene descritta da una euforica campagna congiunta come un disegno criminale. Non avendo lo spazio adeguato a un tale assalto vorrei pregare di leggere sul sito di Ristretti Orizzonti la lettera aperta che Ornella Favero ha indirizzato al quotidiano Il Gazzettino, che anche lui non ha trovato lo spazio per pubblicarla. Ornella Favero è la prima animatrice dell’impegno padovano e oggi la presidente di un’attività di circa diecimila volontari riuniti nella Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. L’intestazione dice: "L’onore di una persona, l’onore di un giornale, l’onore di vent’anni di un’esperienza come Ristretti". Trascrivo solo il primo brano: "Mi chiamo Ornella Favero, suppongo che mi conosciate per il trattamento che mi avete riservato sul vostro giornale. Mi sembra strano e antico parlare di "onore", però c’è un pensiero fisso che ho, che mi costringe in questi giorni a parlare di onore: sono quasi sollevata che i miei genitori non siano più vivi, perché ci soffrirei troppo a vederli leggere certe miserie che riguardano me e le cose che faccio, di cui sono stati sempre fieri". Leggete il resto, per favore. Per il rischio di non esserci più, o di non sapere bene di che cosa si tratti, quando verrà assegnato ai nipoti un tema di maturità su una frase o un gesto di Ornella Favero o di Rita Bernardini o di qualche altra o altro poeta calunniato o misconosciuto dei nostri tempi. *Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Foglio", rubrica "Piccola posta" del 22 giugno 2017. Nordio: "La giustizia è lenta e pericolosa" di Camilla Domenella Corriere Adriatico, 23 giugno 2015 Il magistrato e Crainquebille: "Povero cristo, come da noi". Un cortile gremito - e pure la vicesindaco Monteverde affacciata alla finestra - per ascoltare le parole di Carlo Nordio. L’ex magistrato e Procuratore aggiunto di Venezia, oggi editorialista de Il Messaggero, ha incontrato ieri il pubblico de La Controra di Musicultura. Il cortile di Palazzo Conventati è stato il palco dal quale Nordio ha espresso opinioni come sentenze sul tema della giustizia, ha svelato pareri e risvolti politici del mondo di oggi e soprattutto ha raccontato la sua passione per la letteratura. A portarlo a Macerata infatti, proprio un libro: Crainquebille, scritto da Anatole France, tradotto e curato per Liberilibri dallo stesso Carlo Nordio. Letteratura cartesiana - "La letteratura francese mi è sempre piaciuta" ha detto Nordio, spiegando i motivi alla base della sua predilezione "perché è cartesiana: chiara e distinta. La traduzione, fatta da me, è quella di un dilettante, di un amatore della lingua francese. Non ho una laurea in lingue". Si schernisce l’ex magistrato. "Crainquebille è la storia di un carrettiere che viene trascinato nel mezzo della giustizia". E Nordio di giustizia ha parlato. Incalzato dalle domande del giornalista Ennio Cavalli, l’ex magistrato, che nel corso della sua carriera ha condotto inchieste importanti come quella sul Mose a Venezia o Tangentopoli e Mani Pulite negli anni Novanta, ha espresso giudizi tranchant sul sistema giuridico italiano. Giustizia pericolosa - "La giustizia è pericolosa quando è lenta" afferma Nordio "e in Italia è sempre lenta, quindi è pericolosa". Colpa dell’immensa quantità di norme e codici, secondo il magistrato. "Io eliminerei almeno il 50% delle leggi. In Germania o nel Regno Unito, per esempio, ne hanno da un quinto a un decimo in meno di noi". La fitta maglia delle legislatura italiana, fa restare incagliati "i poveri cristi" - così li definisce Nordio, come quel "povero cristo di Crainquebille". "Troppe leggi portano all’incapacità di comprendere i diritti del cittadino". È netto il parere dell’ex magistrato, che pure - svela - era stato suggerito come Ministro della Giustizia. "Cosa avrei fatto se fossi stato Ministro della Giustizia? Quello è un ruolo che conta molto poco, non ha potere legislativo. La domanda è: cosa farei io se avessi la bacchetta magica e a costo zero?". Chiare le parole d’ordine: "Non punire, ma disarmare". Tanti i temi toccati ieri dall’ex magistrato, da quello sulla legge sull’omicidio stradale a quella sulla pedopornografia, ritenute eccessive, frutto "di slanci emotivi e politici". Ad animare l’incontro, la voce di Giulia Poeta, che ha letto l’incipit del libro, e la musica di Chopas e Valentina Guardabasso. Roberti: "Cambiate il 416-bis, le mafie ammazzano meno" di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2015 Per il capo della Dna "oggi le cosche fanno scorrere poco sangue ma sono sempre più in affari". "Un inarrestabile processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose, da associazioni eminentemente militari e violente, a entità affaristiche fondate su di un sostrato miliare". Se la ‘ndrangheta cambia pelle, pur restando sempre la stessa, allora anche il 416 bis deve essere adeguato. Per il procuratore Franco Roberti serve un’urgente modifica al reato di associazione mafiosa. Una modifica che tenga in considerazione che le mafie possono agire senza necessariamente far scorrere sangue ma ricorrendo alla corruzione. Quest’ultima è la parola chiave della relazione annuale presentata ieri dalla Direzione nazionale antimafia. Quasi mille pagine nelle quali il massimo organismo giudiziario della lotta alle cosche traccia un quadro desolante su come in Italia le mafie sono intese, o quantomeno percepite, al pari delle istituzioni. La ‘ndrangheta è presente in quasi tutte le regioni, nei settori nevralgici della politica, del l’amministrazione pubblica e dell’economia. Mondi diversi e uguali allo stesso tempo, tenuti insieme da un filo rosso che lega boss della ‘ndrangheta, massoni, barbe finte dei Servizi segreti e politici corrotti. "L’uso stabile e continuo - scrive Franco Roberti - del metodo corruttivo-collusivo da parte delle associazioni mafiose, determina di fatto l’acquisizione (ma forse sarebbe meglio dire, l’acquisto) in capo alle mafie stesse, dei poteri dell’autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico". La relazione della Dna è un’analisi dettagliata di ciò che sta emergendo dalle inchieste antimafia condotte dalle principali procure italiane: "I dati in nostro possesso - si legge - confermano come gli omicidi ascrivibili alle dinamiche delle organizzazioni mafiose siano complessivamente in calo, mentre il panorama delle indagini mostra un forte dinamismo dei sodalizi in tutti gli ambiti imprenditoriali nei quali viene in rilievo un rapporto con la pubblica amministrazione". L’obiettivo, soprattutto in Calabria, è "l’individuazione e il perseguimento della cosiddetta zona grigia, cioè di esponenti della politica, delle istituzioni, delle professioni, dell’imprenditoria, a volte con legami massonici, in grado di fornire alle famiglie della ‘ndrangheta, occasioni di grandi arricchimenti e, a volte, garanzie di impunità". Un ampio capitolo della relazione della Dna è dedicato all’inchiesta Mamma Santissima, coordinata dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, che ha fatto luce su quella "struttura direttiva riservata" della ‘ndrangheta composta da due avvocati, Giorgio De Stefano, con legami di sangue con l’omonima ‘ndrina, e Paolo Romeo, Francesco Chirico (alto funzionario regionale, in servizio per lunghi anni anche al Comune di Reggio Calabria) nonché due esponenti politici di primo piano, Alberto Sarra, assessore regionale e Antonio Caridi, senatore della Repubblica". Il processo è ancora in corso ma ha già consentito alla Procura di Federico Cafiero De Raho e ai gip di accertare come la tipologia di rapporti tra gli indagati e le cosche si allontana dai parametri del concorso esterno per "rientrare nel reato di cui all’articolo 416 bis (associazione mafiosa)". Legato al mondo massonico ed ex parlamentare del Psdi, Paolo Romeo è "il vero e proprio motore dell’associazione segreta dimostratasi in grado di condizionare l’agire delle istituzioni locali, finendo con il piegarle ai propri desiderata, convergenti, ovviamente, con gli interessi più generali della ‘ndrangheta". Assieme all’avvocato Giorgio De Stefano, è lui che tira le fila di quella che la Procura di Reggio e la Dna definiscono la "cabina di regia criminale" all’interno della quale "è stato gestito il potere, quello vero, quello reale, quello che decide chi, in un certo contesto territoriale, diventerà sindaco, consigliere o assessore comunale, consigliere o assessore regionale e addirittura parlamentare nazionale o europeo". È il caso non solo del senatore Caridi e dell’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra (arrestati l’anno scorso), ma anche dell’ex parlamentare europeo Umberto Pirilli e dell’ex sindaco di Reggio e governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti: "tutti - si legge nella relazione - pedine del gioco gestito dal Romeo e dal De Stefano, ma, se rispetto al Sarra è già stata effettuata la scelta di ritenerlo membro della struttura riservata della ‘ndrangheta, è il ruolo dello Scopelliti e del Pirilli che dovrà essere chiarito". Più violenze fanno una tortura di Eden Uboldi Italia Oggi, 23 giugno 2015 Con forti sofferenze o un trauma psicologico verificabile. Dopo il sì della Commissione giustizia, la pdl passa da lunedì in discussione alla camera. Traumi e più condotte violente per compiere il reato di tortura. La formula soft torna al vaglio del Parlamento. Ieri, designando come relatore il deputato Pd Franco Vazio, la Commissione giustizia della Camera ha dato il suo assenso alla proposta di legge che introduce il reato di tortura in Italia, senza apporre modifiche rispetto alla versione votata dal senato il 17 maggio scorso. Il testo, ormai alla quarta lettura, è atteso da lunedì prossimo per la discussione generale alla camera. Prima il provvedimento, presentato per la prima volta il 19 giugno 2013, ha trovato approvazione di Palazzo Madama il 5 marzo 2014, seguito dall’ok di Montecitorio che ha mutato alcune disposizioni. La proposta di legge stabilisce che il delitto di tortura è un reato comune. Prevedendo una pena detentiva da quattro a dieci anni, il legislatore pone attenzione sia al numero di atti degradanti compiuti sia alle conseguenze fisiche o psicologiche patite dalla vittima. Infatti il reato si realizza quando un soggetto, con più condotte violenze o plurime minacce gravi, causi "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che sì trovi in condizioni di minorata difesa". Se a compierli è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, abusando dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, si applica un’aggravante e la condanna varia dai 5 ai 12 anni di reclusione. Previste anche aggravanti nel caso in cui le torture infliggano Lesioni, declinando l’aumento delle sanzioni in base alla gravità. Sono dichiarate inutilizzabili le dichiarazioni o le informazioni ottenute con le violenze, tranne contro le persone accusate di tortura ai fine di provarne la responsabilità. Sugli immigrati, il provvedimento detta il divieto al respingimento, all’espulsione o l’estradizione dello straniero verso uno stato in cui rischi dì essere torturato. Inoltre, niente immunità diplomatica a quei soggetti sottoposti a procedimenti penali o condannati da un tribunale di altro stato o da una corte internazionale per il reato di tortura. Il provvedimento, nella sua formulazione attuale, ha sollevato le critiche da più parti, a partire dal relatore al senato e primo firmatario, il parlamentare Pd Luigi Manconi, che, durante l’ultimo voto, l’aveva definito "inaccettabile". "L’Unione delle Camere Penali è intervenuta più volte per sollecitare l’introduzione del reato di tortura che fosse conforme alle convenzioni internazionali e alla giurisprudenza della Corte Edu. E per tale ragione abbiamo fortemente criticato il testo recentemente licenziato dal Senato, sottolineando che una norma così congegnata sembrava costruita al solo fine di poter apparire formalmente adempienti agli obblighi internazionali", ha dichiarato ieri l’Unione delle Camere Penali tramite una nota, rammentando l’invito, via lettera, del Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, ad adeguarsi agli standard internazionali in materia, modificando la proposta. Sindaci minacciati, sì della Camera all’inasprimento delle pene di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 23 giugno 2015 Protezione estesa a consiglieri regionali e parlamentari. Obbligatorio l’arresto in flagranza di reato. Prevista un’aggravante se l’intimidazione è una ritorsione rispetto alle decisioni prese dall’amministratore. Nel 2016 sono state 180 le minacce. Sì definitivo dell’Aula della Camera alle norme per garantire protezione dalle intimidazioni ai sindaci e agli amministratori locali, ma anche ai consiglieri regionali ed ai parlamentari, con un inasprimento delle pene previste. I voti a favore sulle norme a tutela dei Corpi politici, amministrativi o giudiziari e dei loro singoli componenti, sono stati 268, nessun contrario, 74 gli astenuti (M5S e Lega). Il fenomeno ha recentemente raggiunto dimensioni preoccupanti: 180 hanno denunciato di aver subito minacce da gennaio a giugno 2016 e sono già 15 quelli che hanno subìto atti intimidatori dall’inizio dell’anno. Numeri preoccupanti che sono stati raccolti dall’Osservatorio sul fenomeno, istituito nel 2015 dal ministero dell’Interno. Il dato più grave è quello che riguarda il Sud del paese. Da gennaio a maggio 2016, dei 180 casi censiti il 78% si è verificato al Sud e nelle isole; il 9 % nel Nord-ovest e il 5% al Centro. Tra i minacciati il 47 per cento sono amministratori, il 18% dipendenti pubblici: stessa percentuale per mezzi e strutture, il 7% parenti e altrettanti politici. Tra gli amministratori, sono i sindaci a subire più spesso atti intimidatori, il 44%, seguiti dai consiglieri comunali (il 20%) e gli assessori (15 %). Ma secondo l’Associazione nazionale Comuni italiani sarebbero molto di più gli amministratori locali che convivono con violenze e paure. Le nuove norme - Il testo approvato alla Camera allarga la tutela già prevista dal codice penale agli organi politici amministrativi o giudiziari "ai singoli componenti" di essi quando vengano colpiti da atti che, oltre a intimidire l’amministratore in relazione all’integrità della sua persona e dei suoi beni, minacciano, nel contempo, il buon andamento della pubblica amministrazione. La protezione è estesa, nel testo uscito dal Senato, anche ai consiglieri regionali ed ai parlamentari: un’estensione, quella a deputati e senatori, non piaciuta a M5S che si è astenuto al voto finale. Viene poi reso obbligatorio l’arresto in flagranza di chi compie atti intimidatori. Prevista anche un’aggravante, che scatta se l’intimidazione è una ritorsione rispetto alle decisioni assunte dall’amministratore. Vengono, infine sanzionati anche gli atti intimidatori nei confronti di aspiranti consiglieri comunali, cioè i candidati alle elezioni comunali. I casi - I casi di cronaca si sprecano. Due giorni fa il sindaco di Rovigo, Massimo Bergamin, si è ritrovato il salone d’onore del Comune pieno di spazzatura: a minacciarlo un ucraino a cui non era stata concessa la casa popolare. I sindaci lombardi che hanno firmato il protocollo per l’accoglienza dei profughi, a partire dalla sindaca di Sesto San Giovanni Monica Chittò alla collega di Cinisello Balsamo, Siria Trezzi, sono stati minacciati a maggio. Francesco Piras, il sindaco di Gairo (Nuoro); si è ritrovato ad aprile una scritta fin troppo chiara sul muro di contenimento della provinciale che collega il paese a Cardedu: "Vattene o ti ammazziamo". A gennaio ad essere minacciato era stato il sindaco di Avellino, Paolo Foti: dopo varie telefonate e molestie al citofono, è stato messo sotto scorta. Dalla Camera primo sì al giro di vite sui reati contro i beni culturali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 Via libera della Camera al disegno di legge sui delitti contro il patrimonio culturale. Il testo dopo l’ok dell’aula, con 226 sì, 37 no e 97 astenuti, passa ora al Senato. Il nuovo testo del Ddl è composto da sei articoli che armonizzano le sanzioni penali ora "divise" tra il Codice penale e quello dei beni culturali, introducono nuovi reati, innalzano le pene vigenti per dare una tutela differenziata e preminente al patrimonio culturale e paesaggistico rispetto alla proprietà privata e, infine introducono delle aggravanti quando oggetto di un reato comune sono dei beni culturali. Le fattispecie di reato previste, sempre in relazione ai beni culturali, sono: furto, appropriazione indebita, ricettazione, riciclaggio, illecita detenzione, violazioni in materia di alienazioni, uscita o esportazione illecite, danneggiamento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito (questa volta anche paesaggistici), devastazione e saccheggio, contraffazione, attività organizzate per il traffico illecito. Il furto di beni culturali, ad esempio, è punito con la reclusione da 2 a 8 anni, significativamente più elevata rispetto al furto: una pena che lievita fino a 12 anni in caso di aggravanti. Carcere da 1 a 5 anni per chi imbratta, danneggia o deturpa e fino a 8 anni in caso di traffico organizzato illecito. L’aumento delle pene oltre all’effetto deterrente consente anche di far scattare l’arresto in flagranza, il processo per direttissima o le intercettazioni telefoniche. Tra le misure introdotte la confisca penale obbligatoria e prevista una pena per le dichiarazioni mendaci in sede di esportazione dei beni culturali. La norma modifica anche il decreto legislativo 231 del 2001 prevedendo la responsabilità delle persone giuridiche se i delitti contro il patrimonio vengono commessi da determinati soggetti nel loro interesse o a loro vantaggio. In tal caso viene integrato il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa dell’ente. Soddisfatta, la presidente della Commissione giustizia della Camera Donatella Ferranti, per l’ok a uno strumento contro "la predazione di beni artistici o archeologici fonte di finanziamento del terrorismo e della criminalità transnazionale". I tirocinanti a Orlando: "Basta lavorare gratis per i tribunali" di Antonio Sciotto Il Manifesto, 23 giugno 2015 In più di mille sono rimasti senza borsa di studio per esaurimento dei fondi: chiedono al ministro della Giustizia che il loro ruolo venga riconosciuto. Sono giudici in formazione: svolgono uno stage di 18 mesi presso gli uffici giudiziari necessario per l’accesso al concorso di Stato. In alternativa si può fare il praticantato in uno studio legale, o frequentare una scuola di specializzazione, ma loro - l’esercito dei tirocinanti - hanno scelto di entrare subito in tribunale per dare una mano ai magistrati e velocizzare le pratiche. Questa figura è stata istituita nel 2013 - con il "Decreto del fare" del governo Letta - che aveva previsto anche una borsa di studio per tutti, di 400 euro. Ma ora i soldi si sono esauriti, e si è finito per applicare il classico "modello Italia": lavorate gratis. Per protesta un migliaio di tirocinanti - circa 1300, spiegano loro stessi - ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando, chiedendo di rifinanziare la legge e di tornare a erogare la borsa a tutti. Al momento, infatti, i 400 euro sono garantiti solo a chi si trova sotto una certa soglia di reddito Isee, così come avviene normalmente per le borse universitarie: ma il punto, contestano i tirocinanti, è che qui non si tratta più di studio ma di un vero e proprio lavoro. Lo dice, scrivono nella lettera gli stagisti, la stessa legge approvata sotto il governo Letta: "Lo stage giudiziario non è nato infatti come attività di studio - segnalano al ministro Orlando - in quanto è stato istituito dal dl 69/2013 (cosiddetto "Decreto del fare") con cui il governo intendeva fornire "Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia". Nel titolo III del suddetto decreto legge è contenuto l’articolo 73 che, appunto, istituisce il nostro tirocinio, il quale veniva creato al fine di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario. Di conseguenza, traspare la chiara intenzione del governo di fornire nella maniera più veloce possibile uno strumento che aiuti a "smaltire" il carico di lavoro degli uffici giudiziari". In seguito a quella legge sono state create delle graduatorie di merito in ciascun ufficio giudiziario - requisiti minimi laurea in legge con almeno 105/110 ed età sotto i 30 anni - e quindi via via i tirocinanti sono entrati ad assistere i giudici: un periodo formativo per loro, ma anche - almeno era l’intento della legge - un modo per velocizzare una giustizia troppo lenta. "Nessun compenso" economico, prevede esplicitamente il decreto, e "non si determina il sorgere di alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo né di obblighi previdenziali e assicurativi", ma nel contempo si è vincolato lo svolgimento all’erogazione di una borsa di studio non inferiore a 400 euro mensili. Nel 2015 la borsa l’hanno presa tutti, ma nel 2016 il numero dei tirocinanti è stato aumentato a fronte di finanziamenti rimasti immutati: da qui la scopertura per il migliaio di stagisti che si è visto escludere in base al proprio Iseeu (l’Isee universitario: si è fissato che non deve essere superiore ai 42.012,21 euro annui). I tirocinanti contestano anche il sistema di formazione delle graduatorie, che definiscono "assolutamente oscuro e privo di trasparenza", e ritengono che l’esclusione di centinaia di loro dal beneficio "sia ingiusta perché la formula della borsa di studio basata sul valore Iseeu cerca in maniera sibillina di equiparare lo stage al percorso universitario, evidenziandone unicamente il profilo formativo", mentre al contrario "il nostro tirocinio è di fatto ben più equiparabile a una effettiva posizione lavorativa, dalla quale mutua anche il regime tributario, posto che la borsa è equiparata sul piano fiscale alle retribuzioni derivanti da lavoro dipendente e concorre a formare reddito". Infine, concludono, "risulta incomprensibile il fatto che lo Stato, dapprima imponga alle aziende e ai liberi professionisti di retribuire, anche solo sotto forma di rimborso spese, i propri stagisti e poi si sottragga a tale onere" proprio con i laureati selezionati per accelerare il sistema giustizia. G8 Genova. Strasburgo conferma: "Alla Diaz fu tortura" Il Dubbio, 23 giugno 2015 Altra condanna dalla Corte europea per i diritti umani. Secondo i giudici l’Italia dovrà risarcire somme che vanno dai 45mila ai 55mila euro ciascuno a 29 vittime che la notte del 21 luglio del 2001 furono "pestati" dagli agenti. Nel raid alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del luglio 2001 la polizia italiana compì degli atti di tortura contro gli occupanti. Lo ha stabilito la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, replicando il giudizio del 2015, pronunciato dopo il ricorso di Arnaldo Cestaro. Stavolta a ricorrere al giudizio della Corte sono stati 42 manifestanti, che la notte del blitz furono sia vittime che testimoni dell’uso "eccessivo, indiscriminato e chiaramente sproporzionato della forza" da parte degli agenti del VII Nucleo Antisommossa. Anche in questo caso la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 della Convenzione europea dei Diritti Umani, riguardante la proibizione della tortura e di trattamenti inumani o degradanti. La Corte di Strasburgo ha inoltre stabilito che l’Italia dovrà risarcire somme che vanno dai 45mila ai 55mila euro ciascuno a 29 vittime del pestaggio. Nonostante non opposero alcuna resistenza alla polizia, gli occupanti della scuola, la notte del 21 luglio del 2001 furono "sistematicamente pestati" dagli agenti, compresi coloro che erano sdraiati a terra o seduti con le mani alzate. La Corte ha anche affermato che i procedimenti legali condotti in Italia contro i poliziotti coinvolti nell’episodio sono stati inadeguati, stigmatizzando l’inadeguatezza del sistema legislativo italiano riguardo le sanzioni contro gli atti di tortura. Intorno alla mezzanotte del 21 luglio 2001, agenti di Polizia del VII Nucleo Antisommossa fecero irruzione nella scuola Pertini-Diaz, per effettuare delle perquisizioni, ricorda la Corte. I ricorrenti sostengono che i poliziotti, la maggior parte a viso coperto, li presero a pugni, calci e a manganellate, urlandogli contro e minacciandoli, gettando anche della mobilia contro alcuni dei ricorrenti. Quelli che provarono a scappare o a nascondersi furono presi e percossi, in qualche caso strappati per i capelli dai nascondigli in cui si erano rifugiati. Dopo l’operazione, 93 persone vennero arrestate, 78 delle quali finirono all’ospedale, e vennero sottoposte a procedimenti giudiziari con l’accusa di aver cospirato per mettere in atto distruzioni e danneggiamenti, resistenza aggravata alle forze dell’ordine e porto abusivo d’armi. Procedimenti che si sono conclusi con l’assoluzione, ricorda la Corte. Durante la stessa notte, continua la Corte, un’unità di agenti entrò nella scuola Pascoli, di fronte alla Diaz, in cui giornalisti stavano filmando quanto accadeva e dove una stazione radio stava trasmettendo in diretta. Quando i poliziotti sono entrati, hanno costretto i giornalisti a smettere di riprendere e di trasmettere, sequestrando i filmati prodotti nei tre giorni del vertice. La Corte di Cassazione italiana ha stabilito, riguardo a quanto avvenuto alla Diaz, che la violenza avvenuta poteva qualificarsi come tortura, ma che, in assenza di questo reato nell’ordinamento italiano, i presunti colpevoli erano stati accusati di lesioni personali, semplici o aggravate. G8 Genova. Quando la democrazia fu affidata a criminali di Stato di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 23 giugno 2015 A Genova la democrazia fu sospesa e messa nelle mani di criminali di Stato. Fu fatta carta straccia della rule of law e dell’habeas corpus. Decine e decine di corpi furono seviziati, massacrati, torturati. Dopo sedici anni arriva finalmente per quarantadue di quei corpi un risarcimento politico, giudiziario, morale, economico. La Corte europea dei diritti umani, nella sentenza resa pubblica ieri, l’ha potuta chiamare tortura. Noi, nelle nostre Corti, non possiamo ancora chiamarla così, perché la tortura in Italia non è codificata come crimine. Il 26 giugno è la giornata che le Nazioni Unite dedicano alle vittime della tortura. È anche il giorno in cui la Camera dei Deputati inizierà a votare la brutta, pasticciata e intenzionalmente confusa proposta di legge che il Senato ha approvato giusto poche settimane fa, dando cattiva prova di sé. Sono intanto trascorsi sedici anni dalle torture della Diaz e ben ventinove da quando l’Italia ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che ci obbligava a introdurre nel nostro codice il crimine di tortura. Il tempo passa ma non cambia il modo in cui le istituzioni hanno cercato di non parlare di un delitto che è tanto grave in quanto commesso su persone in stato di soggezione e dalle mani dei servitori della democrazia. Ancora una volta da Strasburgo arriva un monito a non lasciare impuniti i torturatori sul suolo italico. L’Italia infatti è una sorta di paradiso legale per i torturatori di ogni nazionalità che qui possono sentirsi sicuri e rifugiarsi da accuse e processi nei loro confronti. La sentenza risarcisce le vittime di quello che possiamo chiamare ora a tutti gli effetti un crimine di Stato, sia perché la tortura è nella storia del diritto un reato proprio di agenti dello Stato, sia perché nel caso di Genova i carnefici non sono stati due, tre o quattro ma un plotone intero con tutti i suoi governanti. Basta riguardare la sentenza della Corte di Cassazione del 2012 per leggere i nomi dei dirigenti ad altissimo livello della Polizia che furono condannati a vario titolo, ma nessuno per tortura, perché in Italia non si può condannare per tortura. La sentenza di Strasburgo restituisce giustizia a chi non vuole che la memoria e la verità siano violentate. Il numero delle vittime e la gravità delle condanne pongono un problema politico, non solo giuridico ed economico come forse in molti al potere vorrebbero far credere, ossessionati dalla paura dei fantasmi di Genova. Fu Antonio di Pietro, allora capo dell’Idv e ministro delle Infrastrutture, ad affossare la legge che istituiva una Commissione di inchiesta sui fatti di Genova. Una Commissione che ancora oggi sarebbe sacrosanto mettere rapidamente in piedi per fare i nomi e cognomi dei responsabili politici, militari e di Polizia di un piano sistematico criminale. Come altro definire un piano pensato per commettere crimini contro l’umanità? Nel frattempo impunità e immunità hanno favorito le carriere dei presunti torturatori e dei loro mandanti. Chiediamo ai governanti dello Stato italiano di oggi di rivalersi contro i responsabili politici e di Polizia di quel 2001, di fare loro causa civile, di istituire per via amministrativa un fondo per le vittime della tortura, di consentire l’identificazione degli appartenenti alle forze dell’ordine. Si può fare subito. Se dovesse anche questa volta prevalere la melina, l’autodifesa dei vertici, il quieto vivere vorrà dire che la democrazia è ancora sospesa. Tanti ragazzi che oggi frequentano le Università non sanno cosa è successo a Genova in quel luglio del 2001. Va loro raccontato che lo Stato democratico italiano torturò altri ragazzi come loro. Lo fece perché aveva paura delle loro bandiere della pace. Detenuti: nessun divieto di bis in idem tra procedimento disciplinare e procedimento penale ilpenalista.it, 23 giugno 2015 La Corte di cassazione, Sezione II, all’udienza del 20 giugno 2017, ha affrontato la questione, controversa in giurisprudenza, se sia configurabile il divieto di bis in idem nel caso di soggetto detenuto già sanzionato disciplinarmente ex art. 81, comma 2, D.P.R. 230/2000 e successivamente chiamato a rispondere per lo stesso fatto del reato di danneggiamento ex art. 635 c.p. e ha dato risposta negativa: "Il divieto di bis in idem tra procedimento disciplinare e procedimento penale non è stato fin qui affermato dalla Corte Edu, che anzi lo ha espressamente escluso (Corte Edu, Grande Chambre, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania), come peraltro già chiarito nel Rapporto esplicativo al Protocollo 7 (§ 32) e, d’altro canto, alla sanzione disciplinare, in applicazione dei "criteri Engel", non può essere attribuita natura penale". Caso Riina, stato di salute e compatibilità carceraria con il regime del 41bis di Anna Larussa altalex.com, 23 giugno 2015 Attenuatosi il clamore mediatico suscitato, nell’immediatezza del deposito della sentenza della Corte di Cassazione, dalla caratura criminale del ricorrente Salvatore Riina, può forse esaminarsi con serenità quella che, ad avviso di chi scrive, costituisce una indubbia lezione di civiltà. Civiltà che non deve mai mancare in uno Stato di diritto, in grado di assicurare le garanzie fondamentali anche a chi si è posto contro lo Stato con crimini efferati. Mette conto quindi di ripercorrere le argomentazioni dell’ordinanza impugnata, per comprendere la pregnanza del decisum adottato dal massimo Consesso in accoglimento delle censure della difesa; cominciando da quelle dell’ordinanza gravata con il ricorso. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna - Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna respingeva l’istanza difensiva con la quale veniva prospettata l’incompatibilità dello stato di salute del ricorrente (soggetto di età avanzata, affetto da plurime patologie a vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vascolopatia cerebrale cronica) con lo stato di detenzione. Anzitutto i giudici bolognesi osservavano come, a fronte delle pur gravi condizioni di salute del detenuto, fossero praticati e assicurati allo stesso i trattamenti terapeutici e i ricoveri necessari, incluso quello, in corso alla data dell’istanza, presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma. Aggiungevano che le patologie fossero trattabili in ambiente carcerario e che, in considerazione della idoneità della struttura penitenziaria ad apprestare interventi urgenti, lo stato di detenzione nulla aggiungesse alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di libertà. Infine, operavano un giudizio di bilanciamento fra la complessa situazione sanitaria dell’istante e le esigenze di sicurezza ed incolumità pubblica a beneficio di queste ultime ritenendo che la notevole pericolosità del detenuto - vertice assoluto dell’organizzazione criminale "Cosa Nostra", rispetto alla quale non aveva mai manifestato volontà di dissociazione - non avrebbe avuto bisogno di essere supportata dal vigore fisico per ordinare la commissione di ulteriori gravissimi delitti. La difesa censurava il provvedimento adottato dai giudici bolognesi in quanto motivava soltanto in ordine al profilo dell’adeguatezza delle cure che potevano essere fornite nello stesso carcere o per mezzo di ricovero ospedaliero, omettendo un’adeguata motivazione sulla necessità di apprezzare, come imposto da principi costituzionali e dalla Cedu, anche l’ulteriore profilo che il mantenimento dello stato detentivo potesse risolversi in un trattamento contrario al senso di umanità. La sentenza della Corte - Ineccepibile il percorso motivazionale che ha condotto la Corte all’annullamento dell’ordinanza gravata. Ineccepibile non solo perché fa corretta applicazione dei principi costituzionali ed europei in materia di umanità della pena e diritto alla salute ma soprattutto perché respinge qualsiasi condizionamento derivante dalla caratura criminale del ricorrente e dalla certa impopolarità della decisione in un contesto sociale che ragiona sulla pena in termini di vendetta sul reo per il torto cagionato col reato. Laddove, com’è stato efficacemente detto, il riconoscimento del nucleo dei diritti fondamentali anche al criminale, "toglie alibi e acqua alle menti criminali che dei diritti hanno fatto strame" (Riccardo De Vito). Veniamo ai motivi dell’annullamento. La Corte ha evidenziato la parzialità del ragionamento diretto a sostenere la compatibilità carceraria del sia pur grave stato di salute del detenuto in ragione della trattabilità delle patologie. In primo luogo perché i giudici bolognesi non hanno considerato lo stato di logoramento fisico del soggetto, come tale capace, secondo i principi garantisti riconosciuti in ambito nazionale e sovranazionale, di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria. In secondo luogo, perché gli stessi giudici non hanno considerato l’aggravamento che in tale stato possono comportare cause non patologiche come l’età avanzata. La circostanza che il prospettato esito infausto integri una condizione comune a tutti gli appartenenti al consesso umano, anche non detenuti, non costituisce infatti secondo la Cassazione una circostanza neutra ai fini della valutazione del senso di umanità richiesto dalla Costituzione nell’espiazione della pena, poiché deve al contrario affermarsi l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente anche in capo al detenuto. La Corte ha poi rilevato la contraddittorietà dell’ordinanza per aver affermato la compatibilità dello stato di detenzione dell’istante con le sue condizioni di salute e al contempo evidenziato espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma ove il medesimo è ristretto, pur ritenute irrilevanti ai fini della decisione. Proprio quelle deficienze strutturali dovrebbero invece essere ritenute rilevanti ai fini di una decisione sulla permanenza o meno delle modalità di esecuzione della pena poiché occorre verificare, nel caso di specie, se e quanto la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto molto anziano e gravemente malato, non dotato di autonomia di movimento, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che anche in carcere deve essere assicurato. Ed invero, le condizioni di detenzione del soggetto, non possono essere considerate in astratto, ma in concreto. Al pari delle valutazioni sulla pericolosità del soggetto. Anche su questo punto la Cassazione ha censurato l’ordinanza impugnata per mancata attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto, non avendo chiarito come l’indiscussa pericolosità dello stesso possa considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuto decadimento fisico e cognitivo del medesimo. Ha ritenuto, infatti, che le eccezionali condizioni di pericolosità debbano essere basate su precisi argomenti di fatto, rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidiva. Di qui l’annullamento per una nuova valutazione da parte dei giudici di merito. Il principio che si trae - Secondo la Cassazione dunque lo stato di detenzione, peraltro in regime di carcere duro, affrontato in condizioni di salute gravemente compromesse, sì da lasciar presagire un esito infausto, configura un trattamento inumano e lesivo della dignità della persona, in quanto degradante. Come tale, contrario alla Convenzione Europea dei diritti umani e alla nostra Costituzione, che tutela la dignità, come diritto non bilanciabile con nessun altro, oltre che la salute. A prescindere dal nome del detenuto. Il disconoscimento e il disprezzo della dignità umana, in funzione del nome del detenuto, possono solo portare, ad atti di barbarie e gli Stati di diritto come il nostro non possono diventare i carnefici delle persone che hanno "giustamente" (art.111 Cost.) processato e condannato. In una situazione diversa, in cui impedire una morte dignitosa significherebbe assecondare un pregiudizio che non fonda più su elementi attuali, lo stesso Stato deve attuare le contromisure rispetto a questa propensione e dimostrarsi come è, uno Stato di diritto in linea con i dettami costituzionali e sovranazionali. Una sentenza dunque avulsa dal populismo giudiziario che vuole una legge calibrata sulle emozioni, e pene esemplari per gli ingiusti. Ma una legge siffatta sarebbe inevitabilmente lontana dal principio di uguaglianza e la pena conseguente alla sua applicazione sarebbe essa sì ingiusta. Niente tenuità del fatto davanti al giudice di pace di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 La nuova causa di estinzione del reato per tenuità del fatto, inserita nel Codice penale all’articolo 131 bis, non si applica agli illeciti di competenza dei giudici di pace. Questo l’importante chiarimento fornito dalle Sezioni unite con un’informazione provvisoria diffusa ieri al termine dell’udienza. Le motivazioni saranno note solo tra qualche tempo, ma intanto è possibile constatare che le Sezioni unite hanno scelto la linea di maggiore rigidità e nello stesso tempo maggioritaria all’interno della stessa Cassazione. Per questo orientamento poi evidentemente fatto proprio dalle Sezioni unite, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non si può applicare ai reati di competenza dei giudici di pace; a questi trova invece applicazione la disciplina speciale prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo n. 274 che si colloca invece nell’ambito della finalità conciliativa caratteristica della giurisdizione penale del giudice di pace. La limitazione dell’area dei reati suscettibili di una dichiarazione di improcedibilità sulla base della disciplina del 2000 non ha peraltro, a differenza di quanto previsto in caso di tenuità, alcuna limitazione centrata sulle sanzioni. La tenuità vale per reati fino a 5 anni di pena, mentre la dichiarazione di improcedibilità può scattare sempre e comunque. Diversi sono poi gli elementi da tenere presenti per la concessione dei due diversi "benefici". Per l’improcedibilità va presentata attenzione ad aspetti come l’esiguità del danno o del pericolo, il grado di colpevolezza e l’occasionalità del fatto; per la tenuità pesano invece fattori come la particolare leggerezza del fatto e la non abitualità della condotta. A volere tacere poi, come rilevato dall’ordinanza di rinvio, che i due istituti si differenziano nettamente per il ruolo attribuito alla persona offesa. Il decreto del 2000 attribuisce alla persona offesa una facoltà di inibizione coerente anche in questo caso con la natura soprattutto conciliativa della giurisdizione del giudice di pace che dà particolare risalto alla posizione dell’offeso del reato. Al contrario, invece, la tenuità del fatto non ha istituito alcun vincolo di procedura successivo al dissenso delle parti. Allora, anche se bisognerà leggere le motivazioni, messi in evidenza questi elementi di differenziazione, è probabile che le Sezioni unite abbiano ricordato che non può essere stata possibile una tacita abrogazione della norma del 2000 per effetto della novità introdotta nel 2015. Una conclusione che potrebbe trovare conforto oltretutto nell’articolo 16 del Codice penale, secondo il quale, nei rapporti tra il Codice, come legge tenerla, e le leggi speciali, le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde a meno che non sia diversamente stabilito. Caso quest’ultimo che ricorre proprio nella causa approdata alle Sezioni unite alla luce dei profili di specialità irrinunciabili della disciplina davanti al giudice di pace. Iva, la frode grave blocca la prescrizione di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 31265 del 22 giugno 2017. Non si interrompe la prescrizione per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture false quando l’entità dell’Iva evasa non è rilevantissima e mancano altri elementi a dimostrazione della gravità del comportamento. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 31265 depositata ieri. Il Tribunale dichiarava il "non doversi procedere" nei confronti dell’amministratore di una società per intervenuta prescrizione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti. Avverso la decisione, proponeva ricorso per Cassazione il Pg eccependo che il giudice territoriale aveva trascurato i principi della Corte di giustizia, secondo i quali per l’evasione in misura "grave" di tributi Iva devono essere disapplicate le disposizioni in materia di prescrizione. La Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che, sino ad oggi, la disapplicazione delle disposizioni in materia di prescrizione dei reati è stata ammessa nelle ipotesi di consistenti condotte fraudolente che comportino in concreto l’evasione in misura grave di Iva. Trova così applicazione la regola secondo la quale il termine ordinario ricomincia a decorrere dopo ogni atto interruttivo. La questione, peraltro, è stata rimessa alla Corte costituzionale dalla Corte di appello di Milano e dalla Cassazione, poiché è stata ravvisata una possibile incostituzionalità nell’applicazione retroattiva all’imputato di una disciplina penale sostanziale sfavorevole. Nelle more della decisione della Consulta, la Suprema Corte (sentenza 16458/2016) ha precisato che la disapplicazione del termine prescrizionale impone l’esistenza di una "grave frode". Secondo i principi della Corte Ue, occorre cioè che il comportamento adottato sia suscettibile di ledere gli interessi finanziari dell’Unione europea. In assenza di più precise indicazioni della Corte Ue, per l’individuazione della gravità della frode hanno rilievo non solo l’entità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa, ma anche alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e, più in generale, alle modalità dell’azione, nonché all’elemento soggettivo. Ne consegue che ove non si sia in presenza di un danno di rilevantissima gravità, per milioni di euro, la gravità della frode può e deve essere desunta anche da ulteriori elementi, quali l’organizzazione posta in essere, la partecipazione di più soggetti al fatto, l’utilizzazione di cartiere o società-schermo, l’interposizione di una pluralità di soggetti, la sistematicità delle operazioni fraudolente, la loro reiterazione nel tempo, la connessione con altri gravi reati, l’esistenza di un contesto associativo criminale. Il giudice deve così valutare caso per caso, la concreta valenza di tali elementi ed indicare nella motivazione quelli ritenuti rilevanti. La Cassazione ha verificato che, nella specie, si trattava di un’unica fattura falsa con un’Iva evasa di poco superiore a 12.000 euro. Valore inferiore alle soglie previste per altri reati con la conseguenza che doveva escludersi la gravità. Ma l’assenza di gravità era desumibile anche verificando altri elementi. Le modalità di azione, i mezzi utilizzati, i tempi, i luoghi e l’elemento soggettivo non consentivano di classificare il comportamento dell’amministratore come "grave". Per tale ragione, quindi, i giudici di legittimità hanno ritenuto che correttamente il Tribunale aveva dato rilievo al termine di prescrizione. L’eutanasia, i suicidi e le carceri italiane sovraffollate Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2015 Se ogni settimana un Radicale, come ha fatto Marco Cappato, accompagnasse in Svizzera un malato grave che ha deciso di interrompere le proprie sofferenze, il fatto scandalizzerebbe numerose persone e farebbe presto notizia. Se, come invece accade, mediamente ogni settimana un detenuto decide di suicidarsi in carcere, può farlo senza destare troppo scalpore, tranne appunto tra le file (rade) dei radicali. I quali denunciano, avanzano proposte di riforma e arrivano persino a digiunare per settimane, come Rita Bernardini, in nome di una giustizia giusta anche nei confronti dei peggiori criminali e di una carcerazione che rispetti le regole dettate dalla nostra Costituzione. Dunque è uno strano Paese, il nostro, dove si fa così tanta fatica a varare una legge sull’eutanasia, ma non si mostra alcun interesse o sentimento nei confronti di un disgraziato che si uccide in cella: dall’inizio di quest’anno sono stati già ventitré i reclusi suicidi; un migliaio dall’inizio del nuovo millennio. Non importa quasi a nessuno e non ci si rende neanche conto di un paradosso assurdo, quanto incivile. I detenuti sono privati di molte libertà, tranne una, che non viene prevenuta né sufficientemente ostacolata: quella di togliersi la vita. Paolo Izzo, da Roma Risponde Salvatore Carrubba Effettivamente, il paradosso stride: chi ha perplessità (come il sottoscritto) per i rischi di intrusione statalista e giudiziaria anche nel momento del congedo, non può che rammaricarsi per l’indifferenza alle condizioni dei detenuti, di cui i suicidi sono un indice eloquente. Naturalmente, la decisione di suicidarsi può non essere direttamente legata alle condizioni della detenzione; e la tendenza alla crescita dei suicidi risulta in crescita in diversi sistemi penitenziari. Ma i numeri dovrebbero indurre a una considerazione sullo stato dell’edilizia carceraria, sull’affollamento e sulle condizioni della detenzione. In Italia non siamo messi benissimo: migliorare sarebbe una questione etica non meno che un interesse comune. Sulla questione etica c’è poco da aggiungere a quanto scrisse già Cesare Beccaria, se non sottolineare che civiltà nella carceri non è sinonimo di lassismo; sull’interesse, ricordo che tanto meno un detenuto ricadrà nel crimine quanto migliore è la condizione carceraria. Capisco che parte dell’opinione pubblica sia convinta fautrice della politica del "tutti dentro e buttate via la chiave"; ma occorrerebbe che qualcuno spiegasse che non ne uscirebbe una società più sicura e più giusta. In Italia paghiamo poi una deformazione particolare, quella dell’elevato numero dei detenuti in attesa di giudizio che nelle nostre prigioni rappresentavano nell’ottobre 2016, secondo l’Institute for Criminal Policy Research di Londra, il 32,5% dell’intera popolazione carceraria, contro una media del 27% nel mondo, e del 21,1% in Europa. Ecco un problema specifico, affrontare il quale già ci aiuterebbe a individuare politiche di riforma e di intervento. Aggiungo che negli Stati Uniti l’amministrazione (non c’entra Trump) sta cominciando a rivedere i rapporti con le società che gestiscono privatamente alcune prigioni per il semplice fatto che c’è una tendenza al calo dei detenuti. Non viene però messa in discussione la possibilità di un tale intervento in casi di emergenza, considerando tempi e costi per la costruzione di nuove prigioni. In Italia le condizioni carcerarie ci dovrebbero indurre a esaminare questa opportunità; ma prevedo già i clamori degli statalisti a oltranza per i quali un detenuto morto nelle prigioni di stato è comunque preferibile a uno vivo in una cella privata. Bari: "Porta Futuro", per i detenuti arriva uno sportello di orientamento al lavoro telebari.it, 23 giugno 2015 L’assessora al Lavoro Paola Romano, il garante dei Detenuti Piero Rossi e la direttrice della Casa circondariale di Bari Valeria Pirè hanno condiviso l’opportunità di avviare la sperimentazione di uno sportello distaccato di Porta Futuro presso il carcere di Bari. Il job center aperto a Bari nel 2015 quindi, che oggi conta più di 6.000 cittadini iscritti, bussa alle porte degli oltre 300 detenuti della casa circondariale, dove porterà i suoi servizi di bilancio delle competenze, supporto curriculare e orientamento al lavoro: un servizio gestito da operatori professionali della formazione e del lavoro che mira a supportare i detenuti nella creazione della propria identità professionale e della ricerca di un lavoro prima dell’uscita dal carcere, agendo sulla prevenzione e sulla capacità di incrociare le competenze con le opportunità esistenti sul territorio. "I detenuti sono a tutti gli effetti cittadini baresi e come tali avranno la possibilità di accedere ai servizi del Comune di Bari e in questo caso di Porta Futuro - spiega Paola Romano -. Troppo spesso chi è in carcere, giovane o meno giovane, dopo aver scontato la pena esce dall’istituto di detenzione senza una reale alternativa. Questa situazione crea le condizioni per cui c’è il rischio alto che si possa tornare a delinquere o essere facile preda della criminalità organizzata. Noi vorremmo interrompere questo circuito negativo, fornendo loro e ai loro familiari gli strumenti per comprendere il mercato del lavoro, le possibilità esistenti e, soprattutto, per utilizzare il momento di detenzione per riflettere sulle proprie aspirazioni, in modo da essere preparati e più forti quando si tratterà di affrontare la realtà esterna". Il progetto sarà esteso successivamente anche all’Istituto penitenziario minorile Fornelli. A breve sarà sottoscritto il protocollo operativo che disciplinerà i tempi e i modi di attivazione dello sportello che saranno concertati rispetto alle effettive esigenze dei detenuti e della casa circondariale di Bari. Castrovillari (Cs): 19enne cileno si uccise in carcere nel 2009, la salma non si trova più quicosenza.it, 23 giugno 2015 La nonna del giovane vuole riportare il corpo del nipote in patria, ma la salma non si trova e lei viene arrestata per residuo di pena. Una donna cilena mentre si trovava a Castrovillari per recuperare la salma del proprio nipote (ancora non ritrovata), è stata arrestata per un residuo di pena. Una vicenda strana, che mostra alcuni punti interrogativi ma che, certamente, non ha avuto un buon esito per la donna che ne è protagonista. È la storia di una 62enne cilena, C.M.R.D., giunta in Italia pochi giorni fa, per cercare di riportare nella propria patria la salma del nipote defunto. Il parente si era suicidato nel 2009 nel carcere di Castrovillari, all’età di 19 anni. La donna, dopo un lungo iter burocratico, era riuscita ad ottenere tutti i documenti necessari per riportare il corpo in Cile. Tuttavia nel cimitero di Castrovillari la salma del giovane non è stata trovata, per giorni la donna è rimasta in attesa di sapere dove è stato sepolto il nipote, ma nulla di fatto. Ancora oggi non è chiaro dove siano state tumulate le spoglie. Ma la storia della donna non finisce qui. Infatti, nell’attesa di avere notizie, la donna è stata raggiunta da un provvedimento di condanna, da parte del Tribunale di Milano, di pena residuale pari a 5 mesi di carcere. A seguito dei controlli di prevenzione crimine, si è scoperto che sulla cilena, pendeva tale sentenza. Perciò questa mattina è stata tratta in arresto dal personale di Polizia di Castrovillari per il residuo di pena in suolo italiano. Livorno: il Sindaco si attivi immediatamente per la situazione del carcere di Andrea Raspanti quilivorno.it, 23 giugno 2015 Il Consiglio Comunale ha approvato all’unanimità la mozione che chiede l’immediata attivazione del Sindaco, in qualità di autorità sanitaria locale, per stimolare il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria ad avviare i lavori di sanificazione e ristrutturazione delle docce del carcere di Livorno. In caso di ritardo nella risposta, impegna il primo cittadino a disporre senza indugio la chiusura dei locali in questione per emergenza sanitaria. Il problema non è ancora risolto, ovviamente, e l’attenzione nei prossimi giorni deve restare alta. L’atto è tuttavia un significativo passo in avanti ed è l’esito finale dell’attivazione di vari attori sociali: oltre al Consiglio, infatti, anche le Camere Penali e la Cgil hanno sollevato la questione nel corso della loro visita all’istituto. Un ruolo di fondamentale importanza l’ha avuto il Garante comunale delle persone private della libertà personale, Marco Solimano, che in questi anni ha svolto, spesso da solo, un costante lavoro di vigilanza e di stimolo alle autorità competenti su questo come su altri problemi rilevati all’interno della casa circondariale. Ci auguriamo che anche i consiglieri regionali espressi da questo territorio vogliano dare finalmente un segnale di attenzione forte, facendo valere le loro funzioni ispettive. Le violazioni dei diritti fondamentali che avvengono quotidianamente nelle carceri italiane e che sono valse ripetute condanne al nostro Paese sono l’effetto del segreto in cui si svolge la vita al di là dei loro cancelli. Maggiore è l’attenzione della comunità dei liberi su quello che succede negli istituti penitenziari, minore è il rischio di trattamenti inumani e degradanti contrari alla Costituzione e alle convenzioni internazionali accolte nel nostro ordinamento. Speriamo infine che il Sindaco voglia accompagnare l’azione a cui lo impegna la mozione allo scioglimento del nodo della nuova nomina del Garante comunale, in sospeso da oltre due mesi. Anche questa circostanza ha dimostrato che la figura del Garante è la base della possibilità da parte della città di intervenire all’interno del carcere. Teramo: prima mensa universitaria d’Italia con detenuti al lavoro virtuquotidiane.it, 23 giugno 2015 Entra nel vivo il progetto di integrazione sociale che l’Azienda per il diritto agli studi universitari di Teramo ha realizzato dopo l’affidamento del servizio mensa alla cooperativa sociale Blu line. Il primo detenuto, in arrivo dal carcere teramano di Castrogno, ha preso ufficialmente servizio lunedì nella mensa universitaria di Colleparco. L’iniziativa, unica in Italia nell’ambito delle mense universitarie, è stata salutata con favore da esponenti della politica nazionale. Tra questi c’è l’ex deputata e membro della direzione nazionale del Partito Radicale Rita Bernardini, da sempre impegnata sui temi dei diritti civili. "Purtroppo oggi soltanto una piccolissima percentuale di detenuti riesce a lavorare o formarsi attraverso lo studio, nonostante si tratti di due aspetti fondamentali in un percorso di recupero ed inclusione. Il disegno di legge sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario dovrebbe colmare questo gap. Da questo punto di vista l’Adsu di Teramo ha compiuto un piccolo ma grande passo per una pubblica amministrazione". Anche il sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli ha commentato positivamente l’iniziativa dell’Adsu di Teramo. "Ho seguito con attenzione la vicenda della mensa universitaria di Teramo e devo dire che nell’ultimo anno me ne hanno parlato in molti, tutti colpiti dalla filosofia innovativa e sociale che ha mosso l’Azienda per il diritto allo studio. L’aver modulato l’erogazione del servizio tenendo in considerazione la possibilità di offrire borse lavoro a tre detenuti del carcere cittadino di Castrogno (un detenuto è già al lavoro) è un fatto nuovo nella nostra Regione ed è segno di un’attenzione alle problematiche sociali che rende onore alla profonda cultura umanistica e umanitaria del Polo universitario, ospite delle più antiche facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche d’Abruzzo. Non è scontato che questa attenzione abbia trovato ulteriore linfa nella decisione di realizzare una mensa destinata ai non abbienti, in cui gli studenti diventano volontari, anzi ne certifica ancor più lo spirito inclusivo e d’avanguardia. Credo che l’esempio sia la modalità più efficace per generare una cultura della solidarietà, dell’integrazione e della giustizia sociale. L’Adsu di Teramo, con questi ambiziosi interventi, ha veramente offerto ai propri giovani utenti non solo un servizio, ma un esempio di apertura e dunque un’opportunità di crescita. Sono sicura che su queste premesse la Cooperativa aggiudicataria potrà svolgere un ottimo lavoro". Luciana Farina, amministratrice della Cooperativa sociale Blue Line, spiega il percorso finora seguito dal detenuto. "Si tratta - afferma - di una fattispecie che rientra nell’Articolo 21, quindi un detenuto autorizzato ad uscire dal carcere per realizzare alcune ore di lavoro e poi rientrare. Nello specifico, la persona in questione, svolge le sue mansioni, pulizia dei locali e delle stoviglie della mensa universitaria, dalle 13 alle 15 per un totale di circa 40 ore settimanali. È un vero e proprio contratto di lavoro previsto per le cooperative sociali, con tanto di contributi e ferie riconosciute: al momento, prevede un impiego per circa 4 settimane, ma, dopo la pausa estiva in cui la mensa resterà chiusa, potrà riprendere a lavorare da settembre fino a dicembre". Prima di essere inserito nel contesto lavorativo, le competenze del detenuto sono state analizzate dalla psicologa della cooperativa, che lo ha ritenuto idoneo, così come il personale del Carcere stesso, che lo ha scelto al termine di un percorso di selezione". Paolo Berardinelli, presidente dell’Adsu di Teramo, sottolinea come le politiche intraprese dall’Adsu sono in linea con quelle di inclusione già da tempo consolidate nell’Ateneo teramano e volute dal rettore Luciano D’Amico. "Le opportunità che verranno offerte ai detenuti rispondono a logiche inclusive e solidali che rappresentano una innovativa strategia condivisa all’unanimità dal consiglio di amministrazione dell’Azienda; così come l’affidamento del servizio di ristorazione ad una cooperativa sociale e l’attivazione della mensa solidale - afferma Berardinelli - In questo caso abbiamo attenzionato il coinvolgimento di detenuti che si è sposata alla perfezione con i nostri progetti: nello specifico in questo caso ci siamo concentrati sul recupero dei detenuti che si troveranno a lavorare all’interno della mensa del campus universitario collaborando con la cooperativa che ha come mission anche quella dell’inserimento dei soggetti svantaggiati. Come Adsu integreremo questo percorso attraverso delle borse lavoro destinate agli studenti universitari che potranno partecipare alla gestione della mensa". Bari: imprese e recupero sociale dei detenuti, seminario in Consiglio regionale consiglio.puglia.it, 23 giugno 2015 Recupero sociale e lavorativo dei detenuti: contenuti e obiettivi del protocollo d’intesa tra la Commissione regionale Pari Opportunità e l’Amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata saranno illustrati in un seminario, lunedì 26 giugno, alle 10, nell’Aula consiliare del Consiglio regionale (in via Capruzzi, a Bari). I lavori del workshop, sul tema "La Rinascita. Le imprese non dimenticano il sociale", verranno aperti dal presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo e introdotti dalla presidente della Commissione pari opportunità Patrizia del Giudice. Seguiranno gli interventi dell’assessore regionale alla formazione e lavoro Sebastiano Leo, del provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, del garante regionale dei detenuti Piero Rossi, del segretario generale del Consiglio regionale Domenica Gattulli, dei direttori generali delle Asl Vito Montanaro (Bari) e Ottavio Narracci (Bat) e del presidente di Confindustria Bari-Bat Domenico De Bartolomeo. Rimini: riparte il progetto di arte urbana all’interno delle carceri italiaartmagazine.it, 23 giugno 2015 Dopo le intense esperienze dello scorso novembre nella Casa circondariale di Ariano Irpino e nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, il gruppo prosegue il proprio percorso fisico ed interiore nelle carceri italiane, come sempre con l’obiettivo di accendere una discussione sul tema della reclusione e sul ruolo del carcere oggi. Così attraverso l’arte "Non me la racconti giusta" vuole attirare l’attenzione su una problematica che ci riguarda tutti ma che viene percepita come scomoda per la nostra società e spesso trascurata dalle istituzioni. Il prossimo appuntamento si svolgerà dal 25 giugno al 01 luglio nella Casa di reclusione di Rimini e questa volta il progetto si avvale di nuove e interessanti collaborazioni. Innanzitutto, con l’artista riminese Filippo Mozone attivo dagli anni 90 con uno stile molto personale che mescola writing, illustrazione, grafica e fotografia, il quale sarà al fianco di Nemòs e Collettivo Fx nella gestione del laboratorio che vedrà protagonisti i detenuti. L’associazione Il Palloncino Rosso, che ha creduto nel progetto e nella possibilità di dare una nuova visione al tema del carcere e di conseguenza ha permesso di portarlo a Rimini, contribuendo alla creazione di una rete di sostenitori e operatori. E ultimo ma non meno importante, Antonio Libutti, docente e regista, autore del documentario "Con gli occhia al muro" un film del 2016 che nasce dall’esigenza di restituire una panoramica sulla street art in Italia negli ultimi 10 anni, il quale ha supportato il progetto lavorando come mediatore tra l’istituto penitenziario e "Non me la racconti giusta". Con questo rinnovato team, "Non me la racconti giusta" varcherà la soglia della Casa circondariale di Rimini sempre con lo stesso proposito, ovvero, aprire una finestra sul carcere per far conoscere questa realtà all’esterno e contemporaneamente mettere a disposizione dei detenuti un progetto culturale che culminerà nella realizzazione di un intervento pittorico collaborativo e che permetterà agli stessi detenuti di gestire l’intero processo creativo, dalla determinazione dei contenuti, all’ideazione del soggetto, fino alla realizzazione materiale dell’opera. Il modus operandi resta lo stesso, ovvero creare un tavolo di lavoro sul quale gli artisti pongono una serie di temi da sviluppare e, successivamente, la realizzazione di un intervento di arte pubblica in una specifica area del carcere individuata attraverso la collaborazione con la direzione e il brain-storming in aula con i detenuti. Attualmente il carcere è un argomento relegato ai margini del dibattito sociale e il fine ultimo che si proporne questo progetto è coinvolgere attivamente l’opinione pubblica per superare i pregiudizi e capire insieme come questo luogo-non-luogo possa assolvere alla sua funzione riabilitativa e non meramente punitiva. Milano: gli avvocati ai fornelli per servire la solidarietà di Manuel Sarno Il Dubbio, 23 giugno 2015 In collaborazione con la direttrice di San Vittore è partita l’iniziativa "A tavola con la speranza". I detenuti e alcuni componenti del gruppo hanno organizzato una cena nella sezione femminile per ospiti esterni e reclusi. La Toga, per chi ha scelto di essere avvocato, non è un mero indumento professionale, è un’estensione dell’anima del difensore perché tale è l’avvocato, garante dei diritti dei cittadini che - in qualsiasi sede - assiste. Ed è per questo motivo che la Toga con i valori che esprime, almeno virtualmente, non si deve dismettere mai: nemmeno quando si è ai fornelli. È con questo spirito che da alcuni anni è nato e si è sviluppato Il Gruppo Facebook "Toghe & Teglie" - di cui sono il fondatore - che riunisce principalmente avvocati ma anche altri operatori del diritto appassionati di cucina, soprattutto praticata. Al momento i membri sono oltre trecento distribuiti in tutta Italia e condividono, oltre al divieto assoluto di discutere di processi o politica forense, una filosofia di vita che, come qualcuno lo ha descritto, ne fa un’enclave di serenità, predisposizione per il prossimo, equilibrio e amore. L’amicizia e lo spirito di colleganza tendono a non restare virtuali, e sono favoriti dalla organizzazione di incontri in ogni parte del Paese in occasione dei quali si abbinano il piacere di stare insieme con la visita di città d’arte ovvero la partecipazione ad eventi particolari. Il Gruppo, peraltro, e non potrebbe essere diversamente, è rivolto in maniera marcata all’impegno sociale: in pochi mesi, per restare all’ultimo periodo, sono state organizzate tre cene, a Milano, Perugia e Ferrara, per raccogliere fondi destinati alle popolazioni colpite dal terremoto, con grandi risultati; ovviamente, in cucina c’erano gli avvocati di "T&T". Dal mese di ottobre scorso, su iniziativa di Gloria Manzelli, direttrice della Casa Circondariale di Milano San Vittore e donna di straordinaria sensibilità, è stata avviata un’altra iniziativa di grande significato e impatto emotivo: "A tavola con la speranza". Alcuni esponenti del Gruppo (che cura tutta l’organizzazione logistica non gravando di spese l’Amministrazione) insieme ad alcuni detenuti e detenute - che frequentano la Libera Scuola di Cucina diretta da Marina De Berti - allestiscono una cena nella struttura della sezione femminile del carcere e la servono nel giardino adiacente ad un’ottantina di avvocati, magistrati, ospiti esterni, esponenti della Amministrazione penitenziaria e a una rappresentanza di reclusi. La prima della serie (l’intenzione è di rendere l’evento ricorrente) si è svolta il 15 giugno ed è stata un successo straordinario oltre che per la qualità delle preparazioni per il clima di armonia e condivisione che si è creato tra avvocati, provenienti non solo da Milano, i detenuti e le detenute con cui hanno lavorato gomito a gomito per più giorni al fine di offrire tutto al meglio. C’è stata anche la straordinaria sorpresa di ricevere la visita, le congratulazioni e l’incitamento del Maestro della cucina italiana: Gualtiero Marchesi che si è anche trattenuto per tutta la serata, testimonial di eccellenza di una componente del mondo esterno che non si chiude in maniera preconcetta alle prospettive di reinserimento sociale. Tra le tante portate, per l’occasione e in onore della direttrice Manzelli, romagnola e anima dell’iniziativa, è stato creato e dedicato un piatto dagli Avvocati di T& T: il risotto Gloria realizzato con gli ingredienti della piadina: mantecato con crema di rucola e guarnito con squacquerone e briciole di prosciutto crudo abbrustolito. La passerella finale di tutti coloro che - liberi e detenuti - hanno reso possibile la serata, mettendo in campo fantasia, dedizione e capacità è stata salutata dal pubblico con applausi, abbracci e visibile commozione. Prossimo appuntamento, sempre a San Vittore, il 21 settembre. Probabilmente, purtroppo, ha ragione il mio amico Giorgio Spangher quando proprio su queste colonne annuncia la fine del processo accusatorio, la sostanziale riduzione dei gradi di giudizio e con essi la mortificazione ultima del diritto di difesa. Ma noi non ci arrendiamo e concorrendo all’attuazione del canone costituzionale che declina la finalità rieducativa della pena vogliamo continuare ad essere difensori: si può fare anche con manifestazioni di questo genere che sono un modo per aprire, attraverso l’apprezzamento per le competenze acquisite nei corsi professionali inframurari, alla prospettiva di un impiego futuro e di una vita diversa e migliore. Un’occasione per far conoscere all’esterno un mondo fatto di sofferenza ma anche di quella speranza che a noi tutti compete di alimentare. Questa è solo cronaca, ed altro non poteva essere poiché molto vi è da dire ed è difficile riprodurre le sensazioni provate prima durante e dopo un’esperienza simile; ci ho provato sulla pagina di Toghe& Teglie (chi fosse su Facebook non lo può vedere perché è stato secretato al fine di limitare le richieste di ingresso alle Toghe con il passa- parola) modificando, un po’ con il sorriso e molto con struggente ricordo, l’indimenticabile soliloquio del replicante morente di Blade Runner: "Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare… ho visto filetti cotti a bassa temperatura fiammeggiare ai fornelli di San Vittore e twist al bacon balenare come frecce alle porte della sezione femminile e le lacrime di chi ha vissuto un’esperienza toccante ed indimenticabile. Ma nessuno di questi momenti andrà perduto: è impresso nella memoria di questo Gruppo di uomini e donne straordinari". Voglio ricordare, infine, unitamente alle detenute della sezione femminile, e ai "Giovani Adulti" di San Vittore, alla direzione, al Comandante, agli agenti della Penitenziaria, alla direttrice della Libera Scuola di Cucina, alle Educatrici, i colleghi: Daniela Brancato, Giuseppe Barreca, Maria Rosa Carisano Pietro Adami, Massimo Schirò, Pierdomenico Cariello, Valeria Chioda, Duccio Cerfogli, Francesca Santini, Roberta Succi, Francesco Laratta che - in cucina ma non solo - insieme agli unici non avvocati, Daniele Bertini, Alberto Zappa, Paola Sciacca e Gualtiero Marchesi hanno contribuito a rendere speciale questa serata. Grazie al Cnf che ha dato il suo patrocinio unitamente al Coa di Milano e quello di Mantova e alla Camera Penale di Milano. Genova: incontro "Il carcere e la cultura, esperienze dalla Casa circondariale di Marassi" mentelocale.it, 23 giugno 2015 Lunedì 26 giugno 2017 (ore 17.15), presso la Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale a Genova, incontro dal titolo "Il carcere e la cultura: esperienze dalla Casa Circondariale di Marassi". In occasione della presentazione del libro "La maledizione del Castello", di Pasquale Nocera (Il Canneto Editore), interverranno Mirella Cannata, Presidente dell’Associazione Teatro Necessario; Franco Della Casa, professore di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Genova, referente di Ateneo per il Polo Universitario Penitenziario; Grazia Paletta, formatore di scrittura creativa; Giorgio Mosci, Il Canneto Editore. Parteciperà all’incontro Maria Milano, Direttore della Casa circondariale di Genova Marassi. A metà strada tra realtà e fantasia, Pasquale Nocera intreccia sapientemente romanzo e diario autobiografico rifacendosi ad un evento accaduto nel 1970 nel celebre Castello di Palizzi (RC). Sotteso al racconto è il messaggio che solo noi siamo i veri protagonisti delle nostre scelte e che le uniche soluzioni possibili ai mali che divorano la nostra società siano il dialogo, il confronto e il rispetto per gli altri. Caratterizzato da temi forti come amicizia, violenza, amore e giustizia, il lungo racconto sembra lanciare al lettore un consiglio morale: sbaglia, se vuoi, ma impara dai tuoi sbagli. Pasquale Nocera (Palizzi, 1961) sta finendo di scontare la propria condanna presso la Casa Circondariale di Genova Marassi e con coraggio ha deciso di dare testimonianza di vita vissuta attraverso la finzione letteraria, mettendo a disposizione la propria esperienza a beneficio degli altri. La maledizione del Castello è la sua seconda prova narrativa dopo Fotografia di una giustizia malata del 2013. Il Canneto Editore, oltre al romanzo di Pasquale Nocera, scritto durante la detenzione, ha pubblicato "Dato il posto in cui ci troviamo" (2013), una serie di racconti a cura di diversi detenuti, e Scatenati. Dieci anni di Teatro Necessario in carcere (2016). Napoli: "Un film per evadere", dal 26 giugno al via anche a Nisida napolivillage.com, 23 giugno 2015 "Un film per evadere", la rassegna cinematografica selezionata per la comunità dei detenuti e nata dalla collaborazione tra l’Istituto per gli studi giuridici M&C Militerni e il Comune di Napoli, partirà a Nisida lunedì 26 giugno. La rassegna cinematografica, creata selezionando una serie di pellicole che saranno proiettate all’interno delle case circondariali, ha lo scopo di utilizzare il forte potere evocativo del cinema, il quale non costituisce soltanto un mero momento di distrazione e intrattenimento. La visione di un film, infatti, attraverso il processo di identificazione con le storie e i personaggi narrati, stimola emozioni forti, fantasie e memorie. La discussione sulle emozioni e sulle riflessioni suscitate dal film, parte fondamentale del progetto, consente di elaborare i vissuti dei detenuti, di connettere la trama del film ad una parte della trama della propria vita. Ogni proiezione sarà seguita da un dibattito con le psicologhe Ilaria Ricupero e Francesca Scannapieco e ogni detenuto potrà mettere su carta le riflessioni suscitate dalla visione-discussione del film, in brevi elaborati che saranno raccolti in un libro (il ricavato sarà devoluto per la realizzazione di progetti con finalità sociale). Un mese fa l’iniziativa ha avuto il via nella casa circondariale di Poggioreale - che si concluderà i primi di luglio - ha visto grande partecipazione e motivazione. Ad ogni proiezione la classe dei circa 40 spettatori ha mostrato forte interesse trascrivendo le emozioni negli elaborati che saranno pubblicati"- È stata una grande sfida, speravamo nel successo dell’iniziativa che è stato confermato dalla grande partecipazione- ha detto Maria Caniglia, consigliere comunale e presidente Commissione Welfare- ascoltare le loro riflessioni, talvolta anche forti e dolorose, ci spinge a diffondere l’iniziativa in altri istituti. La nostra rassegna cinematografica rende gli spettatori-attori attraverso la raccolta dei loro elaborati che saranno rilegati in un libro il cui ricavato finanzierà attività di natura sociale". Roma: a Regina Coeli un coro multietnico diventa terapia per detenuti Dire, 23 giugno 2015 Essere liberi grazie all’arte. La musica è tornata dietro le sbarre del carcere romano Regina Coeli ieri sera, in occasione del solstizio d’estate e della festa della musica celebrata con concerti ed eventi in tutta Italia. Tra le mura della casa circondariale capitolina un coro multietnico formato da detenuti si è esibito con l’obiettivo di promuovere l’integrazione tra gli ospiti dell’istituto e favorire la comunicazione tra culture attraverso il canto e la musica. "Il potere della musica è nell’essere un collante di socializzazione e un mezzo per favorire ciò che i Greci definivano catarsi, purificazione, per essere liberi di cantare, di esprimersi anche profondamente recuperando vissuti, ricordi legati alla propria terra - spiega la coordinatrice del progetto di musicoterapia in carcere "Musica dentro", Silvia Riccio. Non c’è scopo estetico o virtuoso, ma la volontà di facilitare la comunicazione non verbale, di potenziare le competenze del singolo per condurlo alla scoperta delle proprie potenzialità creative". "Musica dentro" è un laboratorio di musicoterapia che si tiene a Regina Coeli dal 2014 e permette ai detenuti di esprimersi e comunicare con il gruppo attraverso la musica, l’improvvisazione musicale, l’uso della voce e degli strumenti. "Il detenuto re-impara il concetto di tolleranza, verso i propri errori e quelli degli altri, e di convivenza - aggiunge Riccio - riflettendo sul valore imprescindibile del rispetto e amicizia. Un coro, quindi, di anime in primis, a conclusione di questo progetto di musicoterapia, che - conclude, non produce arte ma terapia che permette di prendersi cura di sè, facendo perno sul processo creativo". Milano: rugby, campo sportivo per 40 detenuti del carcere minorile Beccaria di Tiziana Cairati La Stampa, 23 giugno 2015 L’obiettivo è di quelli ambiziosi, ma quando c’è di mezzo l’ex rugbista Diego Dominguez, è facile andare in meta. "Ho promesso che farò passare ai ragazzi la miglior settimana della loro vita", dice Dominguez. Ma chi sono questi giovani? Sono 40 adolescenti detenuti nel carcere milanese minorile ‘Cesare Beccarià. Il progetto, che alle spalle ha Mediobanca, arriva da lontano, dall’Argentina e per la prima volta esce dal Paese sbarcando a Milano. Il programma è semplice, ma al contempo impegnativo, e si svilupperà dal 24 al 30 giugno. Un breve, ma intenso periodo durante il quale i quaranta minorenni avranno, non l’obbligo, ma la possibilità di giocare a rugby, calcio, basket e di nuotare. Il tutto sarà fatto sotto l’attenta osservazioni di esperti coach, che per 4 giorni (dalle 9 alle 17) si impegneranno ad insegnare e parlare di sport con i "loro atleti": Beppe Bergomi si occuperà calcio, Dino Meneghin e Antonello Riva di basket, il paraolimpico Federico Morlacchi del nuoto e, ovviamente, Diego Dominguez con il suo staff del rugby. "Lo facciamo per dare a questi giovani un futuro migliore, l’egoismo che può esserci nelle camere dovrà essere lasciato là. Negli sport di squadra di gioca uniti", sottolinea l’ex rugbista sudamericano, che nelle sue idee ha anche quella di "far crescere l’autostima per una migliore e futura integrazioni nella società", perché si può sbagliare "ma questi ragazzi stanno già pagando per i loro errori, bisogna dargli una nuova possibilità. Vogliamo dargli una luce nuova. Lo sport serve per educare, ma anche per integrarsi". I quattro giorni saranno intensi di sport riducendo al minimo i tempi vuoti della vita detentiva, ma ci sarà spazio anche per le chiacchiere. Prima di scendere in campo, infatti, i ragazzi parleranno con i loro ‘allenatorì del momento per imparare le regole dei quattro sport, ma anche di alimentazione e sana competizione. Poi tutti in campo per sfidarsi, ma soprattutto per giocare e stare insieme. "Sarà una settimana impegnativa per noi perché spinge un sistema rigido (come quello di un’istituzione totale) a essere estremamente flessibile. Questo campus sportivo va ad inserirsi negli strumenti previsti dal progetto d’Istituto per conseguire gli obiettivi del recupero di questi giovani: attraverso lo sport passano i messaggi del rispetto delle regole, dell’avversario e della sana competizione, la sperimentazione di esperienze altre rispetto a quelle che normalmente hanno vissuto questi ragazzi", spiega Olimpia Monda, direttore dell’Istituto Minorile Penale Cesare Beccaria. Il progetto come detto nasce in Argentina, dove da 8 anni l’avvocato penalista Eduardo Coco Oderigo - in arrivo a Milano - adotta questo veicolo di integrazione in 24 carceri sui 70 presenti nel Paese. "Abbiamo deciso di dar vita a questa iniziativa - commenta Giovanna Giusti del Giardino, Group Sustainability manager di Mediobanca - perché riteniamo che il supporto che il nostro Gruppo deve dare alla comunità possa passare anche attraverso progetti che promuovono lo sport come veicolo di inclusione sociale". Radio Carcere: suicidi in carcere, la c.d. informazione si occupa solo dei detenuti più noti Ristretti Orizzonti, 23 giugno 2015 "Suicidati due volte" - Se la c.d. informazione si occupa solo del suicidio di Marco Prato e gli allarmi inascoltati che sono stati lanciati sul caso da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute. A seguire "Botta & Risposta" - Il Ministro Orlando: "Prometto che entro agosto verranno approvati i decreti sull’ordinamento penitenziario". Rita Bernardini: "Bene, allora per aiutarlo ad agosto riprenderò lo sciopero della fame". Link: www.radioradicale.it/scheda/512463/radio-carcere-suicidati-due-volte-se-la-cd-informazione-si-occupa-solo-del-suicidio-di I "Robinù" e il naufragio delle nostre buone intenzioni Di Luisa Cavaliere Corriere del Mezzogiorno, 23 giugno 2015 Da dove si parla? Quale esperienza si racconta? Quale punto di vista si assume per evitare la "melassa" impossibile della obbiettività che nel caso di Napoli sembra avere i tratti sfacciati della bugia consapevole? Ho guardato il film di Michele Santoro Robinù cercando di filtrarlo consapevolmente attraverso le risposte a queste domande pregiudiziali. Non credo alle abilitazioni alla parola che si concedono ai cosiddetti intellettuali (che, spesso noiosamente, dissertano su tutto senza partire da sé, senza quel necessario gesto di lealtà che produce il vero scambio tra chi scrive e chi legge). Ho lavorato in una intensissima stagione della mia vita che non riesco (e non voglio) archiviare, sul rovescio della trama urbana, sulle periferie di Napoli, sui loro dolori e sulla loro solitudine, sui linguaggi che adottano, sulle scorciatoie che indicano, sul velleitarismo demagogico e intellettualistico di qualsiasi intervento "di bonifica". Ho avuto guide importanti, filtri culturali decisivi che si sono trasformati in amicizie profonde che possono permettersi lontananze geografiche e differenti esperienze quotidiane. Prima fra tutte Marina Rippa che ha generato un percorso di autocoscienza fra le donne di Forcella usando quel potentissimo strumento che è il teatro, Daniela Politi insegnante alle medie "Annalisa Durante" poi Giovanni Zoppoli che resiste alle intemperie che travolgono Scampia curando quelle primizie che sono i bambini e le bambine, Pietro Marcello, Maurizio Braucci, il preside Filia che per anni ha trasformato Barra e la scuola che lì dirigeva, in uno straordinario laboratorio, in un’isola mobile che fluttuava su radici che il tempo ha decretato impossibili. Federica Lucchesini Rosario Esposito Larossa. Una trama che ha prodotto progetti ed esperienze e, soprattutto, ha generato radicali mutamenti nell’approccio fino ad allora "tradizionale" ai mali della città che leggevo come eccezione, come malattia che può guarire. Basta lavorare, mi dicevo, sugli anticorpi, costruire dei buoni esempi. Immettere continue occasioni culturali. Basta un’idea illuministica della politica. Presto, prestissimo, le mie buone intenzioni si sono infrante sull’evidenza degli esiti di una partita squilibrata che negli ultimi 50 anni si è giocata sui bordi e dentro la città e che ha visto sfacciatamente vincente la realtà, (la cultura delle relazioni, l’idea di potere, il dominio di un linguaggio maschilista che esalta la morte e ne sfida i tempi accelerandone con le pistole l’incedere, l’onnivoro dilatarsi di una zona grigia che si alimenta e alimenta quei "mali") che racconta Santoro. Anzi, la realtà che si mostra crudele attraverso il suo meraviglioso film. Il suo disperato non cadere nelle mille trappole che si presentano a chi parla di questa città. Il Pasolini migliore che non si inceppa sul moralismo ideologico, che non giudica (come invece spesso facevano le sue trasmissioni televisive). Non parla e che sceglie come voce fuoricampo solo una musica cupa interrotta a tratti dalla voce osannata dei neomelodici. Mentre i ragazzi detenuti condannati per pene che mangeranno la loro giovinezza consumandola in carceri che sembrano pensate per moltiplicarne solitudine e rafforzarne cultura e violenza, sfilavano con le loro bellissime facce sullo schermo, pensavo che anche questa occasione offerta "dall’intellettuale" Michele Santoro non sarà colta dai politici per aprire un confronto profondo, radicale, su quello che hanno fatto e fanno, sui sogni che hanno impedito, sulla bellezza che hanno negato sulla complicità che hanno a tratti garantito, sulla sciagurata delega che hanno spesso dato al terzo settore in molti casi doppione fedele della loro nefasta logica spartitoria. Non c’è lieto fine in questo capolavoro del realismo dolente (come e quale potrebbe essere?) Potrebbe essercene, però, uno: portarlo dappertutto. Organizzare un confronto con le ragazzi e i ragazzi senza moralismi, senza docenti di buone maniere… senza nostalgie per le utopie, senza luoghi comuni. Senza tutto quello che in questo bellissimo film non c’è. Ius soli, l’appello al Parlamento dal mondo della cultura. Da Saviano a Zerocalcare La Repubblica, 23 giugno 2015 Decine e decine di firme: "Non temete la forza dei diritti e fate presto una scelta di civiltà". Approvare la legge attualmente in discussione al Senato (legge che è rimasta bloccata per oltre un anno e mezzo!) significa dare cittadinanza all’Italia del presente e del futuro, all’Italia come già è e come sarà. Approvare la legge non ha solo un’importanza simbolica, ma anche fattuale, concreta, perché snellirebbe molte pratiche burocratiche obsolete che la vecchia legge si trascinava dietro. Ci pare evidente che non approvare questa legge significherebbe invece negare non solo un diritto, ma la realtà di un Paese. Ci appelliamo ai senatori e alle senatrici affinché non temano la forza dei diritti e facciano presto una scelta di civiltà che vada al di là delle appartenenze politiche. Adesioni Dacia Maraini, Roberto Saviano, Susanna Tamaro, Erri De Luca, Gianni Amelio, Roberto Vecchioni, Serena Dandini, Sandro Veronesi, Zerocalcare, Daniele Vicari, Melania Mazzucco, Eraldo Affinati, Alessandro Portelli, Igiaba Scego, Paolo Di Paolo, Carola Susani, Valeria Parrella, Ivano Dionigi, Lidia Ravera, Lino Guanciale, Chiara Gamberale, Bruno Arpaia, Fabio Geda, Gianfranco Pannone, Alessandro Leogrande, Elvira Frosini, Daniele Timpano, Costanza Quatriglio, Andrea Bajani, Loredana Lipperini, Elena Stancanelli, Daria Colombo, Margaret Mazzantini, Francesca Fornario, Ilide Carmignani, Angelo Ferracuti, Giuseppe Caliceti, Roberta Mazzoni, Nadia Terranova, Christian Raimo, Ritanna Armeni, Francesca Melandri, Giuseppe Catozzella, Giordano Meacci, Francesca Serafini, Mario Fortunato, Lia Levi, Grazia Verasani, Helena Janeczek, Lisa Ginzburg, Gianluigi Ricuperati, Carlo Greppi, Beppe Sebaste, Giusi Marchetta, Carmen Pellegrino, Vincenzo Ostuni, Gaia Manzini, Darwin Pastorin, Andrea Di Consoli, Damiano Abeni, Romana Petri, Beatrice Masini, Paola Soriga, Biancamaria Frabotta, Carlo D’Amicis, Ilaria Beltramme, Frederika Randall, Graziano Graziani, Vanni Santoni, Anna Gialluca, Flavia Piccinni, Silvia Nono, Claudio Damiani, Tommaso Giagni, Giancarlo Liviano d’Arcangelo, Maura Gancitano, Rossella Milone, Raffaele Riba, Alessandro Chiappanuvoli, Federico Cerminara, Chiara Mezzalama, Sara Ventroni, Antonio Franchini, Gabriella Kuruvilla, Attilio Scarpellini, Katia Ippaso, Nicola Ravera Rafele, Francesco Forlani, Vanessa Roghi, Michela Monferrini, Alessandro Raveggi, Emiliano Sbaraglia, Francesco Marocco, Leonardo de Franceschi, Maria Grazia Calandrone, Renzo Paris, Roberto Carvelli, Girolamo Grammatico, Shaul Bassi, Filippo Tuena, Simon Levis Sullam, Tommaso Giartosio, Valentina Farinaccio, Teresa Porcella, Francesco Cordio, Tatjana Perusko, Rino Bianchi, Camilla Hawthorne, Angela Adrisano, Nicoletta Vallorani, Massimo De Nardo, Roberto Scarpetti, Barbara Nava, Karima Moual, Anna Folli, Marco Cassardo, Francesco Forlani, Walter Lazzarin, Paolo Piccirillo, Giampaolo Simi, Boris Sollazzo, Gabriele Frasca, Rossano Astremo, Francesco Trento, Susanna Mattiangeli, Vittorio Longhi, Fabrizia Giuliani, Rita Cavallari, Enrico Macioci, Vins Gallico, Maria Serena Sapegno, Licia Conte, Luciana Vannini, Marco Giovenale, Canio Lo Guercio, Cetta Petrollo Pagliarani, Graziano Arici, Fabio Visintin, Paola Zoffoli, Chiara Nielsen, Alessandra Di Maio, Jim Hicks, Anna Maria Giancarli, Elisabetta Liguori, Paolo Morelli, Francesca Izzo, Milena Locatelli, Francesca Marinaro, Maria Borio, Donatina Persichetti, Virginia Bramati, Yari Selvetella, Kossi Komla-Ebri, Emanuele Cerquiglini, Claudio Marinaccio, Stefano Lazzarini, Gianluca Lombardi d’Aquino, Nicola Boccola, Marco Bernini, Martino Ferrario, Enrico Remmert, Paolo Valoppi, Giorgio Specioso, Tezeta Abraham, Jonis Bascir, Suranga Deshapriya Katugampala, Cristina Lombardi Diop, Gabriele Proglio, Tatiana Petrovich Njegosh, Esther Elisha, Gaia Giuliani, Bruna Coscia, Giulia Villoresi, Annarita Briganti, Giovanni Dozzini, Elisabetta Mastrocola, Caterina Romeo, Elisa Donzelli "Rimandiamo l’ambasciatore in Egitto" versus "Verità per Giulio Regeni" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 giugno 2015 Ormai le voci che rappresentano il desiderio di normalizzare i rapporti diplomatici con l’Egitto, attraverso l’annullamento della decisione presa oltre un anno fa di richiamare temporaneamente a Roma l’ambasciatore italiano al Cairo, hanno dato vita a una vera e propria campagna di stampa che è arrivata anche sulle pagine del Corriere della Sera. Attraverso articoli sostanzialmente uguali gli uni agli altri, la campagna "Rimandiamo l’ambasciatore in Egitto" elenca una serie di ragioni e di "dossier" che meriterebbero una presenza diplomatica al completo al Cairo: l’immigrazione, il terrorismo, la Libia. Un altro argomento della campagna è quello dei contratti che sarebbero bloccati (quali, non è dato saperlo), provocando problemi a famiglie egiziane e italiane. Di certo, la cosa non riguarda il principale attore economico italiano in Egitto, Eni, i cui vertici hanno varie volte affermato pubblicamente che la tensione diplomatica non sta compromettendo le loro attività. Ma il "pezzo forte" della campagna, la sua verniciata etica, è questo: il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo favorirà la ricerca della verità su Giulio Regeni. Dobbiamo ricordare che proprio la mancata collaborazione delle autorità egiziane aveva spinto il nostro precedente governo a richiamare temporaneamente l’ambasciatore, come segno forte di scontentezza. E che proprio quella decisione, sebbene rimasta isolata e ignorata dal resto dell’Unione europea, ha fatto fare un piccolo passo avanti: dai depistaggi alla collaborazione, seppure tardiva e insufficiente. La campagna "Rimandiamo l’ambasciatore in Egitto" tutto è meno che un sostegno alla campagna "Verità per Giulio Regeni", che continua a essere adottata da comuni, università, scuole e tantissime persone (lunedì a Torino inizia la "Settimana per Giulio"). Rimandare l’ambasciatore al Cairo potrebbe portare un vantaggio rispetto ai "dossier" sopra citati ma verrebbe visto dal governo di al-Sisi come un cedimento del nostro paese, un accontentarsi del niente. Le autorità egiziane festeggerebbero la vittoria: a forza di depistaggi, ritardi e perdite di tempo, l’Italia si è stancata. Si dice: i rapporti diplomatici non possono essere regolati unicamente da una vicenda, per quanto terribile, accaduta a un cittadino italiano. La domanda alla campagna "Rimandiamo l’ambasciatore in Egitto" è allora la seguente: quanto valgono per loro i diritti umani? Quanto vale per loro conoscere i nomi di chi ha sequestrato, torturato e assassinato un cittadino italiano? Si assumano allora la responsabilità di rispondere: non molto. Ed evitino di fare di Giulio Regeni il postumo testimonial della loro campagna. L’Inghilterra pensa alle "carceri di riposo" di Ivano Abbadessa west-info.eu, 23 giugno 2015 Al sovraffollamento nelle carceri inglesi si aggiunge il problema dei detenuti sempre più anziani e bisognosi di cure. Il loro numero è infatti triplicato negli ultimi 15 anni. Un boom figlio non solo dell’aumento dell’aspettativa di vita. Ma anche dall’incremento si sentenze con condanne definitive all’ergastolo. Ecco perché il governo della Gran Bretagna sta seriamente valutando l’ipotesi di finanziare la costruzione di strutture penitenziarie ad hoc per gli over 65. Ai quali garantire, mentre scontano la loro pena dietro le sbarre, servizi e prestazioni tipiche di una casa cura. È solo uno delle più rilevanti proposte avanzate dal primo report istituzionale sulle condizioni della popolazione carceraria in età avanzata Oltremanica. Guinea Bissau. "Mani tese" continua il progetto "Il prigioniero ha valore" manitese.it, 23 giugno 2015 Venerdi 9 giugno 2017, presso gli spazi della Delegazione dell’Unione Europea in Guinea Bissau, sono stati presentati i risultati del progetto "Prisioneiro tene balur" ("Il prigioniero ha valore") a partner, finanziatori e altre entità interessate al lavoro di Mani Tese nelle prigioni. Il progetto, realizzato a Bafatà, Mansoa e nella cella di detenzione di Bissau, intende agevolare il reinserimento economico e sociale dei detenuti e tutelare i loro diritti, potenziando l’offerta educativa e formativa, favorendo la nascita di attività economiche dei detenuti all’interno degli istituti di pena e appoggiandone il proseguimento all’esterno. All’evento erano presenti, tra gli altri, rappresentanti dell’Unione Europea, del Ministero della Giustizia della Guinea Bissau, delle Nazioni Unite, della Croce Rossa Internazionale e i partner del progetto Adim, Engim Internazionale e Geioj. In collegamento skype dal Mozambico, presente anche la valutatrice esterna del progetto, Tina Lorizzo dell’organizzazione Reformar. Il progetto "Il prigioniero ha valore" prosegue quindi le sue attività di appoggio alle carceri della Guinea Bissau.