Dal carcere al volontariato stabile: la legge c’è, ora si faccia sistema di Claudia Farallo retisolidali.it, 22 giugno 2017 I detenuti che fanno volontariato fuori dal carcere scoprono impegno e gratuità, e ne sono arricchiti. L’appello di Ornella Favero: "Se funziona da noi, può funzionare anche nelle altre carceri". Anche con una semplice ricerca su Google è facile trovare tracce di diverse esperienze di detenuti volontari. Sono "uscite" per lo più legate ad eventi straordinari, come calamità naturali o grandi ricorrenze. Quello che pochi ancora sanno, invece, è che c’è anche la possibilità di impiegare detenuti in progetti di volontariato stabili, per esempio all’interno delle associazioni o delle organizzazioni a carattere sociale o sanitario. Il tutto grazie anche al riconoscimento, introdotto nel 2013, con la modifica dell’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario che affianca l’attività volontaria a quella, già prevista, di lavoro esterno al carcere. In particolare, come si legge sul sito del Ministero della Giustizia, la modifica prevede che i detenuti possano "prestare attività a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali, o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato" (comma 4-ter introdotto dalla legge n. 94 del 9 agosto 2013). Per capire le nuove prospettive e potenzialità di questo strumento, ne abbiamo parlato con Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti, giornale dal carcere di Padova. L’abbiamo incontrata a Roma in occasione della decima Assemblea della Conferenza e abbiamo poi deciso di raggiungerla telefonicamente per farci spiegare meglio questo nuovo campo d’azione, dove alla ricchezza materiale sempre rincorsa da molti detenuti si sostituisce una ricchezza interiore e sociale. Che sembra funzionare, tant’è che molti poi rimangono come volontari nelle associazioni. Detenuti volontari "non occasionali" nelle associazioni. Ci fa qualche esempio? "È un lavoro di volontariato più stabile, come succede con l’associazione Articolo 21 a Milano Bollate ma anche con la redazione di Ristretti Orizzonti a Padova. A Bollate ci sono detenuti impegnati in molteplici attività, tra cui quella a fianco delle persone malate di Alzheimer in un centro specializzato; da noi invece alcuni detenuti ed ex detenuti decidono di portare la propria testimonianza nelle scuole, per spiegare agli studenti come si può scivolare in comportamenti a rischio e poi in un reato. Sono esperienze che tracciano una prospettiva molto importante, soprattutto grazie alla modifica dell’articolo 21". Che è del 2013, ma per ora parliamo di progetti sperimentali. Perché? "Credo sia una forma di pigrizia delle istituzioni, perché la legge c’è e le esperienze sperimentali di detenuti volontari non dovrebbero restare isolate, anche se lodate, ma funzionare proprio da traino. Se da noi ha funzionato, può funzionare anche nelle altre carceri. Invece si avverte sempre un atteggiamento per il quale le innovazioni sono belle lì dove sono e si tende ad andare avanti con le solite prassi. Il che, in alcune carceri, si traduce in immobilismo". Le strutture esterne, tra cui le associazioni di volontariato, sono preparate ad accogliere detenuti volontari? "Per rispondere cito l’esperienza dell’Auser, un’associazione che si occupa di anziani e che, venendo a contatto con la nostra realtà, ha aperto a molte attività con il carcere. Il terreno va preparato, ma non c’è ostilità. Quando condividi, ti accorgi che c’è tanta volontà di capire e fare esperienze in questo campo". Il detenuto quindi si candida a diventare una vera e propria risorsa per le stesse associazioni, che spesso tra l’altro trovano difficoltà a raccogliere nuove forze. "Senz’altro. Alla nostra decima Assemblea Nazionale un detenuto ha raccontato del grande arricchimento che ha avuto facendo volontariato con le persone malate di Alzheimer. Le esperienze di volontariato fanno scoprire alle persone detenute un mondo di relazioni e di impegno, che magari le gratifica di più rispetto alle loro rincorse ai soldi e alla bella vita". Insomma è un’esperienza che capovolge completamente il senso percepito di "ricchezza". "Certo. Con il progetto "A scuola di libertà" abbiamo coinvolto molte persone che ancora oggi continuano a venire per parlare con gli studenti e partecipare alla vita dell’associazione. Ma lo vediamo anche con i lavori di pubblica utilità, dove si mettono alla prova persone che hanno compiuto reati del tenore della violazione del codice della strada. Sperimentando il volontariato, entrando nelle associazioni e scoprendo la gratuità, gli si è aperto un mondo a cui spesso poi sono rimaste legate". Certo è che, per definizione, non si può obbligare nessuno a fare volontariato. Allora come avviene il primo passo, qual è la reazione dei detenuti a questa prospettiva? "All’inizio talvolta sono diffidenti. È prevedibile che una persona che magari ha sempre inseguito i soldi si chieda perché mai dovrebbe fare un’attività gratuita. Ma la diffidenza cade rapidamente". Quali ostacoli ci sono per chi vuole impegnarsi nel volontariato? "In questo senso è significativo un incontro che ho avuto con alcune associazioni di Napoli, che mi hanno raccontato come i detenuti, una volta scontata la pena, abbiamo difficoltà ad avere un lavoro normale, una vita stabile, insomma si trovano schiacciati dal quotidiano. In questo contesto, le associazioni trovano più difficoltà a coinvolgerli in attività di volontariato. Dobbiamo pensare che i detenuti, quando escono, devono lottare per la sopravvivenza. Quindi capisco che è molto difficile, ma allo stesso tempo è una sfida molto importante. Bisogna creare le condizioni affinché le persone che iniziano ad avere una stabilità e un lavoro abbiano la possibilità di fare anche volontariato". Cosa chiedete alle istituzioni? "Chiediamo che i direttori delle carceri abbiano il coraggio di abbracciare le possibilità messe in campo dall’articolo 21, allargando l’orario delle persone che lavorano fuori così da permettergli di fare volontariato e offrire questa possibilità anche a quelle persone che, magari per motivi di età, hanno difficoltà a trovare un lavoro, ma che potrebbero trovare un’occupazione gratificante a partire dal volontariato. Da dentro, invece, chiediamo di facilitare le attività con un riscontro sociale esterno, come il nostro progetto "A scuola di libertà" che infatti stiamo tentando di estendere con in tutta Italia". Così da compiere il passaggio dallo sperimentale allo strutturale. Proprio per questo voglio lanciare un appello a tutta la rete territoriale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia affinché si attivi per coinvolgere altre associazioni, non necessariamente legate alla nostra realtà, e farle affacciare a questa possibilità di inserire persone detenute che facciano volontariato. Conosciamo quel mondo e sappiamo che ci vuole preparazione. Ci prendiamo l’impegno di aiutarle e accompagnarle in questo percorso. Sulle carceri intervento al riparo da emergenze di Glauco Giostra* Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2017 Le ricorrenti crociate compromettono il salto culturale. La delega sull’ordinamento frutto anche del lavoro fatto da tanti operatori con gli Stati generali dell’esecuzione. Sui contenuti della delega per la riforma penitenziaria si dovrà tornare spesso nei mesi a venire. Il compito che attende il legislatore delegato si presenta estremamente delicato e complesso, mentre il tempo a disposizione è poco: sarà indispensabile il contributo di tutti nell’indicare le migliori soluzioni attuative delle linee guida dettate dal Parlamento. Ora è importante cogliere il significato politico-culturale di questo progetto di riforma poiché l’effettiva applicazione e la stabilità nel tempo delle nuove norme dipenderanno da un radicale cambiamento nella percezione sociale della pena. L’approvazione del disegno di legge delega costituisce di per sé un indizio confortante. Dopo le "folate" riformistiche del biennio 2013-2014, seguite all’umiliante condanna inflitta al nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il trattamento inumano e degradante riservato ai detenuti, ci si poteva attendere - conoscendo lo sciagurato pendolarismo italico, soprattutto in questa materia - una "risacca legislativa" di segno opposto. Il Parlamento, invece, ha trovato la determinazione politica per approvare criteri di riforma che, pur con qualche genericità di troppo e con qualche ripensamento registrato nel corso dei lavori preparatori, vanno indubbiamente nel senso di una più piena realizzazione del principio costituzionale secondo cui le pene debbono tendere alla rieducazione sociale del condannato. Resta tuttavia difficile sfuggire alla sensazione di un "legislatore-Penelope", che oggi tenta, ancora una volta, di ritessere sul telaio costituzionale l’ordito della legislazione penitenziaria; una tela che, se non maturerà un’altra cultura della risposta penale, sarà presto corrosa dalla prassi quotidiana e sbrigativamente disfatta alla prima crociata securitaria, condotta sotto il redditizio vessillo della paura e dell’insicurezza sociale. Da troppo tempo, infatti, il potere politico affronta ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento più scontato, meno impegnativo e più inefficace: aumentare il numero dei reati e l’entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reinserimento del condannato nel consorzio civile. Una politica criminale del genere non può non risolversi, alla lunga, in una risposta penale "carcero-centrica", destinata a produrre un crescente sovraffollamento penitenziario e a minare alle fondamenta la credibilità stessa di ogni progetto di recupero sociale del condannato. Ma proprio su questo terreno si registra una consapevolezza politica importante che permette di sperare che qualcosa possa davvero cambiare nella nostra cultura della pena. Non solo nella Relazione alla delega si afferma che la necessità di una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario è dovuta al fatto che "in esso convivono, con inevitabili frizioni interne, l’istanza rieducativa e di risocializzazione con quella di sicurezza sociale". Ma coerentemente con questa consapevolezza il Ministro della giustizia ha voluto affiancare alla riforma legislativa una iniziativa inedita: gli Stati generali dell’esecuzione penale. Per circa un anno più di duecento persone, espressione di professionalità ed esperienze diverse in materia di esecuzione della pena, hanno lavorato intorno a diciotto Tavoli tematici. L’eredità di una tale mobilitazione non è costituita soltanto da un ricco giacimento di documentazione, di analisi e di proposte (consultabile sul sito del ministero della Giustizia e prezioso materiale per il legislatore delegato), ma anche, anzi direi soprattutto, da un lievito culturale che non smette di fermentare nel segno di una "nuova" idealità della pena; lo dimostrano anche le tante iniziative - di taglio, fattura e destinatari diversi - che hanno saputo realizzare un’osmosi tra carcere e società, affinché questa prenda coscienza del contributo che può dare e ricevere nella delicata opera di recupero del condannato. Difficile dire in che misura l’obbiettivo degli Stati generali di costituire una sorta di "placenta culturale" per la prossima riforma possa dirsi conseguito. Un ruolo fondamentale potranno svolgere i mezzi di comunicazione, anche per denunciare - come questo giornale ha fatto - la grande mistificazione secondo cui risocializzazione del condannato e sicurezza sociale sarebbero interessi tra loro confliggenti. Rigorosi studi statistici dimostrano, al contrario, che il condannato cui è stato offerto un progetto individualizzato di graduale ritorno in società ha una tendenza drasticamente inferiore alla recidiva rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere, e che dal carcere - a meno di non voler punire tutti con l’ergastolo - prima o poi comunque uscirà. Eloquente, l’esperienza di questi ultimi anni. Dopo lo sforzo compiuto nel biennio 2013- 2014 per restituire alla società i condannati meritevoli - operazione infelicemente definita "svuota-carceri", quasi si trattasse del cieco sversamento all’esterno del pericoloso materiale in esse contenuto - si è registrata una diminuzione sensibile degli indici di criminalità. *Docente di Procedura Penale - Università La Sapienza di Roma Niente misure alternative per i migranti di Simona Musco Il Dubbio, 22 giugno 2017 Il rapporto Migrantes Caritas: "giustizia troppo severa". Giustizia più severa e segregazione occupazionale: sono questi gli aspetti più bui del rapporto Migrantes della Caritas, che ha analizzato il fenomeno della migrazione in Italia. Un fenomeno di cui gli italiani stessi hanno una percezione sbagliata, spiegano i direttori di Caritas e Migrantes, don Francesco Soddu e monsignor Giancarlo Perego. Nessuna invasione, intanto: gli stranieri che arrivano sono per la stragrande maggioranza "di passaggio dalla nostra penisola". E pur salvando l’Italia dalla crisi demografica vengono "ricompensati" con condizioni di vita poco dignitose. Stranieri e giustizia penale. Sono diverse le forme di discriminazione alle quali i migranti sono sottoposti. Tra le più subdole c’è quella che riguarda l’aspetto giudiziario: sono pochi i migranti arrestati che riescono ad usufruire di misure alternative al carcere. A dicembre 2016 erano circa 18.621 i detenuti stranieri nelle carceri italiane, di cui 17.763 uomini e 858 donne, su un totale di 54.653 persone dietro le sbarre. Vengono arrestati principalmente per reati contro il patrimonio (8.607), per stupefacenti (6.922) e reati contro la persona (6.751). Ma mentre molti italiani riescono ad attendere il giudizio fuori dal carcere o a casa, per gli stranieri difficilmente c’è alternativa alla cella, dove finiscono prevalentemente uomini di età compresa tra i 25 i 39 anni (10.991). Dietro le sbarre, però, si trovano anche donne coi propri figli: sono 26 i bambini che vivono in cella con le madri detenute, su un totale di 37 bambini nelle carceri italiane. Un terzo dei minori che hanno a che fare con la giustizia sono stranieri: su 14.920 minori presi in carico dai servizi sociali al 15 marzo scorso, quelli stranieri sono 3.930, tra i quali 540 ragazze. Si tratta per lo più di ragazzi accusati di reati contro il patrimonio, in primis furti e rapine, con circa 13.282 reati su 42.065 attribuiti a stranieri, indotti a delinquere da diversi fattori, da individuare, secondo il rapporto, nelle disparità economiche, determinate da lavori spesso squalificanti e in condizioni di sfruttamento; nella ghettizzazione di chi vive ai margini delle città, trasformati in ghetti e nell’aspetto culturale, "come forma di protesta, di fronte al senso di sradicamento dalla cultura di origine e dal senso di imposizione di modelli cultura- li difformi dai propri". Un paese "salvato" dagli stranieri. Dal 1990 al 2015, il loro numero è aumentato del 59,7%, fino ad arrivare a oltre 5 milioni di migranti che vivono, studiano e lavorano in Italia, arrivati da 198 Paesi diversi. E senza di loro, emerge chiaramente dal rapporto, l’Italia non andrebbe avanti. Il calo demografico nel nostro Paese (- 0,2 per cento nel 2016) è infatti compensato dalla presenza dei migranti, in particolare dei giovani: sono 814.851 gli studenti stranieri nelle scuole nell’anno scolastico 2015/ 2016, cioè il 9,7% del totale. E di questi più della metà, ovvero il 58,7% è nata in Italia e vorrebbe sentirsi italiana. Numeri importanti, fotografati proprio mentre la discussione sullo "ius soli" è in discussione in Senato, ma spesso ignorati. Soddu e Perego lanciano così la sfida, indicando il modello della "convivialità delle differenze". La discriminazione sul posto di lavoro. Oltre a riempire le aule quasi vuote, i migranti ingrassano anche i datori di lavoro, ma incassando meno di un collega italiano. Su 4.125.307 persone in età da lavoro, il 51,8 per cento risulta inattivo. E per chi lavora, lo stipendio medio è di 965 euro, il 30 per cento in meno di un italiano, che guadagna 1.356 euro. Gli stranieri risiedono e lavorano prevalentemente al nord, continuando a fare i lavori più duri, con una quota di lavoratori non qualificati del 36,5%, rispetto al 7,9% degli italiani. Li si trova per lo più nelle attività commerciali e dei servizi (24,9% contro il 18,1% degli italiani) e artigiani, operai specializzati e agricoltori (20,5% contro il 14,6%). Una "segregazione occupazionale" ancora più evidente per le donne, che lavorano per lo più nel settore dei servizi collettivi o alla persona, part time, con minori tutele contrattuali anche rispetto alle donne italiane e minore accesso al mondo del lavoro. Anche il dato relativo alla mortalità sul lavoro dimostra la discriminazione subita dagli stranieri: gli incidenti mortali nel 2016 (196) sono aumentati rispetto al 2015 del 20,2 per cento. La probabilità di infortunarsi, dunque, "risulta notevolmente più elevata" per gli stranieri, che non vengono formati pur se impiegati in settori "particolarmente rischiosi e con maggiore incidenza di attività manuale". Ma nonostante ciò, la caccia allo straniero è sempre aperta. Lavoro in carcere. Se la mozzarella è galeotta di Carlo Valentini Italia Oggi, 22 giugno 2017 All’interno del carcere di Bologna è nato un caseificio. Il lavoro antidoto alla recidiva. I caseifici si lamentano: non riescono a trovare mano d’opera. Lavorare il latte e il formaggio è senza dubbio un mestiere duro e difficile. Sull’Appennino emiliano stanno assumendo indiani e pachistani, abili nel governare le bestie e nel produrre i formaggi. Di italiani disposti a sobbarcarsi a tanta fatica (si tratta di un’attività dove la meccanizzazione è assai limitata) non se ne trovano. Di qui l’iniziativa nata nel carcere bolognese della Dozza, dove è stato inaugurato un caseificio, con la prescritta certificazione dell’Asl. A regime 15 detenuti lavoreranno 150 quintali di latte a settimana da cui si ricaveranno 40 quintali di mozzarelle, impacchettate con lo stesso nome del carcere: Dozza. Un esperto casaro varca ogni giorno i cancelli per insegnare l’arte della mozzarella. Il latte è di bufala e proviene dalla Val d’Adda, nel Bergamasco, il metodo di lavorazione è quello antico, artigianale, senza lieviti. La direzione del carcere insieme a una società di distribuzione alimentare (I Freschi) e a un caseificio del Salento (impegnato in iniziative di solidarietà) hanno costituito Liberiamo i sapori, in pratica una start-up specializzata nella mozzarella. La gestisce Fabrizio Viva: "I ragazzi coinvolti in questa produzione", dice, "si stanno impegnando in una formazione che permetterà loro di avere sbocchi lavorativi nel futuro. Si tratta di un percorso fondamentale per supportare la riabilitazione dei detenuti, con l’abbassamento del rischio di recidiva". In effetti uno dei problemi delle carceri è il reinserimento lavorativo di chi ha scontato la pena, in modo da evitare una spirale che finisce per rendere irrecuperabili anche coloro che sarebbero invece in grado di ricostruirsi una vita onesta. Le statistiche Ue pongono l’Italia ai primi posti nella ripetizione dei reati (nonostante il sistema carcerario costi 3 miliardi di euro l’anno) e tra le cause vi è la scarsa importanza che viene attribuita al lavoro in carcere. Meno del 15% dei 54 mila detenuti negli istituti di pena italiani sono instradati verso reali attività lavorative, meno del 4% imparano un mestiere con cui possono presentarsi con successo sul mercato del lavoro. Per questo l’esempio della mozzarella Dozza è importante. Anche perché i caseifici della zona si sono già fatti avanti per assumere questi casari quando usciranno dal carcere. Inoltre si è formata una rete di solidarietà capeggiata dalla Confcommercio per diffondere il prodotto nei negozi e nei ristoranti. Dice Francesco Mafaro, che ha presieduto per anni l’associazione dei panificatori bolognesi, ora s’è messo a fare il ristoratore ed è stato il primo a servire a tavola nel suo locale (Adesso Pasta) la mozzarella che proviene dal carcere: "Vent’anni fa montammo un forno per fare il pane alla comunità di San Patrignano. A poco a poco sono cresciuti e adesso esportano i loro panettoni in tutto il mondo ma quello che è più importante è che molti panifici sono sopravvissuti grazie all’innesto di questi giovani usciti dalla comunità dopo avere imparato il mestiere". Il ministero della Giustizia ha dato il patrocinio a "Liberiamo i sapori". I macchinari e le attrezzature sono di proprietà dell’istituto penitenziario che le ha concesse in comodato d’uso gratuito alla start-up. "Al momento", dice Elena Realti, a capo de "I Freschi", che distribuisce la mozzarella, "proponiamo due confezioni, con la classica palla da 250 grammi o con cinque bocconcini. Lo scopo dell’iniziativa è comunque prima solidale che commerciale. Vorremmo che sempre più istituti penitenziari impiegassero al loro interno detenuti in attività lavorative serie. Anche in questo modo si può arginare la malavita e rendere più sicure le nostre città". Se il recupero e il reinserimento falliscono il danno per la collettività è notevole sia in termine di costi che di sicurezza. Il lavoro è l’argine alla recidiva. Secondo il ministro della giustizia, Andrea Orlando: "I detenuti che provengono da una precedente esperienza carceraria sono circa il 56 per cento; 67 per cento tra gli italiani e 37 per cento tra gli stranieri. La recidiva di coloro ai quali è stata applicata una misura alternativa (fuori dal carcere o lavorativa in carcere) è di circa il 20 per cento inferiore a quella di chi sconta l’intera pena in carcere e non svolge alcuna attività". I Radicali (impegnati tra l’altro in questi giorni nella Carovana per la Giustizia, partita dal carcere romano di Rebibbia, e con lo spazio RadioCarcere nella loro emittente) reclamano a gran voce il lavoro tra le misure di umanizzazione delle Case circondariali. Qualcosa si muove. A San Vittore e Bollate (Milano) 25 detenute cuciono in tre laboratori sartoriali, anche a Venezia è attivo un laboratorio sartoriale (7 detenute), a Rebibbia viene prodotto il Caffè Galeotto, a Padova la pasticceria Giotto sforna biscotti, panettoni e colombe, a Parma 16 detenuti gestiscono una lavanderia industriale che lavora 14 mila chili di biancheria a settimana per strutture alberghiere e sanitarie, a Gorgona (Livorno) il marchese Lamberto Frescobaldi cura una vigna attorno alla prigione e vi lavorano i carcerati. Spiega: "È un servizio alla società, quando usciranno, perché si tratta di detenuti a fine pena, avranno imparato un lavoro e la percentuale di reiterare si riduce notevolmente, come indicano le statistiche. Inoltre mettono da parte i soldi che guadagnano ed è un buon inizio per una nuova vita". Finalmente anche il ministero ha deciso di muoversi e nel sito www.giustizia.it (alla voce "strumenti") ha inserito la pagina "Vetrina dei prodotti dal carcere", con gli indirizzi ove acquistarli. New entry sarà la mozzarella di Bologna, che tra l’altro salverà i casari (e il Consorzio parmigiano-reggiano) dall’estinzione. I processi sono infiniti e pensano alla prescrizione di Francesco Petrelli* Libero, 22 giugno 2017 Assurdo allungare i tempi di decadenza del reato in un Paese in cui si può restare in attesa di giudizio per vent’anni. Se una riforma ha tratti di razionalità, se ne dovrebbe poter giudicare immediatamente la serietà e la bontà. Un giudizio "ponderato" di una riforma della giustizia che pretenda di avere una "natura strutturale" non dovrebbe avere bisogno di tempo. Si dovrebbe poter cogliere immediatamente il modello di processo che si vuole realizzare. Sfugge, invece, l’idea che ispira questa riforma, al contrario di quanto affermano autorevoli esponenti della maggioranza di governo. Né il tempo è necessario a sfumare qualche pregiudizio, in quanto le critiche mosse dall’Unione delle Camere Penali non sono mai state determinate da alcuna prevenzione. Prova ne sia l’opera di critica costruttiva, di riflessione e di stimolo compiuta dai penalisti all’interno delle Commissioni durante il lungo iter legislativo. Che lo "sbocco" sia stato "felice", come annota la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, è cosa da dimostrare. La questione non è né quella del "compromesso al ribasso", né di una soluzione che "ponderi e equilibri tutti gli interessi". L’errore è nelle premesse. La prescrizione nel nostro Paese è un problema non perché i termini di prescrizione sono troppo brevi, ma perché i processi sono troppo lunghi. Rispetto alla media europea i processi in Italia durano il doppio e risultano incompatibili con la durata di una vita umana e con i ritmi esistenziali di un qualsiasi individuo. Si sono allungati i termini di prescrizione perché si è messa questa riforma nel flusso di risposte populistiche fondamentalmente contrarie alle esigenze della collettività. Come ci è già capitato di rilevare, pensate che in Europa, e nelle multinazionali che dovrebbero investire nel nostro Paese, stiano brindando nell’apprendere che un amministratore delegato di una società, imputato per corruzione, potrà restare sotto processo per vent’anni? Basterebbe diffondere le statistiche sulla prescrizione nei nostri tribunali, per vedere che i reati si prescrivo- no dove gli uffici sono disorganizzati e dove i fascicoli restano nove anni in una cancelleria prima che sia fissato un appello. Dire pertanto che c’è una "incompatibilità logica" fra sentenza di condanna e prescrizione è davvero un azzardo, in un Paese nel quale i processi durano un tempo così infinito che solo la loro pendenza riesce a volte a mantenere la memoria del fatto. Si doveva, invece, insistere con strumenti di maggiore efficacia e dotati di una vera sanzione processuale per risolvere il problema di indagini preliminari troppo lunghe, responsabili del 60% delle prescrizioni. Non serve attendere nuove statistiche ministeriali per sapere che non è certo aumentando a dismisura le pene che si riduce la criminalità, illudendosi che in questo modo, con una riforma. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Il Csm, la polizia giudiziaria e le informative. Occorre difendere lo Stato di diritto di Pier Luigi Maria Dell’Osso* Corriere della Sera, 22 giugno 2017 Lo scorso gennaio è entrata in vigore una norma che introduce l’obbligo per la polizia giudiziaria di informare, unitamente al pm, la scala gerarchica fino al capo della Polizia, indipendentemente da quanto prescritto dal c.p.p. Una precedente circolare del capo della Polizia ha evidenziato l’obbligo di riferire non solo la prima informativa, bensì le successive, fino a conclusione delle indagini: il che estende la portata della norma. Avviene ora che il Csm deliberi di proporre al ministro della Giustizia l’adozione di ogni iniziativa per la modifica della norma, che faccia salvi gli obblighi prescritti dal c.p.p. e la renda compatibile con l’assetto ordinamentale e costituzionale del pm. Avviene altresì che il capo della Polizia, in un’intervista di qualche giorno fa, si dica offeso, come servitore dello Stato (e non del governo) dalle motivazioni con cui il Csm sollecita il governo alla modifica della norma. Puntualizza, poi, il prefetto che, per i Carabinieri, c’è un obbligo di riferire, in via gerarchica, al Comandante dal 2010. Siffatte asserzioni risultano, per vero, infondate, giacché il regolamento chiamato in causa non manca di contenere il principio generale di rispetto delle norme codicistiche: il contrario della norma in questione, che prevede, invece, l’obbligo di riferire, in deroga ad esse. Il prefetto parla, poi, di sconforto, che prova pensando al pregiudizio per il quale, quando si parla di Corpi dello Stato e Istituzioni, si ritiene che una categoria interpreti meglio il principio di fedeltà repubblicana di altre. Ciò stigmatizzato, si legge nel prosieguo delle dichiarazioni: Non credo di dire un’eresia se chiedo che alla catena gerarchica custode di notizie riservate vada garantita la stessa presunzione di innocenza (?) e buona fede che, in questo Paese, viene riconosciuta a qualsiasi pm. Precisa, ancora, il prefetto che si parla di sicurezza, prevenzione, nuovi modelli di difesa civile. E allora qualcuno mi dovrebbe spiegare di cosa si dovrebbe occupare un capo della Polizia o un vertice delle forze dell’ordine privo di qualsiasi notizia. Ormai, al mondo, non esiste più nessuno che non riconosca che l’unico principio cui ispirare strategie di prevenzione efficaci sia quello olistico che dimostra come organismi complessi, come nel caso della sicurezza, non siano riconducibili alla semplice somma delle loro parti. E puntualizza, che lo scambio di informazioni è fondamentale, ad esempio, nelle strategie antiterrorismo e di prevenzione e sicurezza: considerazione, invero, che nessuno, anche alla luce del semplice buon senso, potrebbe mai ardir confutare. A questo punto il discorso del capo della Polizia vira sulla recente notte di violenze a Torino, in occasione della partita di calcio. E il prefetto chiede se sia eversivo che il capo della Polizia venga informato in via gerarchica dal questore di Torino dello stato di avanzamento della ricerca della verità e se sia eversivo che il capo della Polizia invii una circolare in cui chiede a prefetti e questori che, di qui in avanti, le ragioni della safety debbano prevalere su quelle in senso stretto dell’ordine pubblico. Conclude, allora, il prefetto: Cosa c’è di antidemocratico in chi si assume delle responsabilità? Orbene, alla luce delle affermazioni che precedono, ritengo che sia doveroso, per chi abbia non certo marginali responsabilità istituzionali, offrire una serie di riflessioni all’attenzione tanto degli addetti ai lavori, quanto e ancor più dei cittadini, non senza rimarcare che non è certo il caso di parlar di eversione o antidemocraticità. Io, come rivendica il prefetto, servo - non meno di lui - lo Stato, che è, per miglior precisione, lo Stato di diritto, fondato su tre cardini: il legiferare, il governare, il rendere giustizia, senza possibilità di "invasioni di campo". Ove, al contrario, ciò avvenga, non può più parlarsi di Stato di diritto, bensì, nel migliore dei casi, solo di Stato - termine dalle infinite declinazioni -, che può essere lo Stato centralista di Hegel o quello militarista di Federico di Prussia. E anche in tali casi un capo della Polizia potrebbe legittimamente asserire che serve lo Stato. Non potrei, tuttavia, dirlo io, che servo lo Stato nella sua espressione giudiziaria autonoma e indipendente: uno Stato, appunto, dalle triplici fondamenta. E sorprende che il capo della Polizia si senta offeso dal Csm, quasi fosse stato egli stesso l’ispiratore della norma: circostanza cui io, mai più, avrei inteso volgere il pensiero. Tuttavia, con le sue parole, il prefetto rischia di offrire argomenti utili a qualcuno che, invece, l’ha pensata. Non meno sorprendente giunge il richiamo del "principio olistico", ben noto al colto ed all’inclita. E, peraltro, il richiamo è correlato all’esigenza di scambio di informazioni et similia. Ma io domando come si possa leggere la piana, esemplare prosa del Csm in termini di negazione di tale esigenza. Ebbene, olismi e solecismi a parte, io nego che una negazione siffatta possa lontanamente cogliersi nelle motivazioni del Csm. Lo nego fermamente e, quale magistrato, fieramente. E mi disturba a tal punto la locuzione, non provvida, qualsiasi pm, che desidero rivendicarla per me stesso, giacché mi identifico e mi riconosco, con orgoglio, in "qualsiasi pm" che svolga, con onestà intellettuale, probità e professionalità, le proprie funzioni. E ciò, non senza aver ben presente che, alla pur remota epoca (anni 1991-1993, all’incirca) in cui ero impegnato nella conclusione del dibattimento sul crack del Banco Ambrosiano e nella condivisione della fondazione della Dna, con altri 19 valenti colleghi e con il procuratore nazionale Siclari, il prefetto doveva già essere, come certo era, un degno e valente esponente di quelle istituzioni, di quel cardine dello Stato che è l’esecutivo, legitur il governo, non potendo pensare di rappresentare il legislativo né il giudiziario. E vorrei richiamare all’attenzione del capo della Polizia come lo scambio e la circolazione delle notizie investigative siano, da lungo tempo (nella loro ovvia perfettibilità), assicurati dal coordinamento del procuratore nazionale antimafia, dei procuratori generali e distrettuali, dall’opera di raccordo dei comandanti provinciali di CC e GdF, questori, capi di Squadre mobili, Digos e via elencando. E mi domando chi mai potrebbe negare siffatta realtà. Quello che precede intende costituire una voce, non men che ferma, nella discussione sorta intorno alla delicata problematica. E sono persuaso che in tal senso il capo della Polizia la percepirà. E così facendo rafforzerà il mio dire, allorché mi occorra di dibattere con qualche collega, amareggiato e riecheggiante, talora, l’incipit della prima catilinaria: Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Noi non abbiamo un Cicerone né un Catilina né l’animus ferox dei loro tempi. Abbiamo solo l’indomabile volontà di seguitare a difendere lo Stato di diritto: in tal nostro sentire io credo voglia ritrovarsi il capo della Polizia, il cui ruolo di servitore dello Stato non è oggetto di discussione. *Procuratore generale di Brescia Il Consiglio d’Europa all’Italia: "Sulla tortura legge inadatta" di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 giugno 2017 Il commissario Muižnieks al Parlamento: "Testo difforme dalle convenzioni Onu". Il ddl che torna alla Camera il 26 giugno "non rispetta la sentenza Cedu". Così non va. L’attuale testo di legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento penale e che dovrebbe (ma già si parla di rinvii) tornare all’esame della Camera il 26 giugno prossimo, in quarta lettura, non rispetta le Convenzioni Onu, né gli obblighi imposti dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza "Cestaro vs Italia" del 2015. A dirlo - anzi, a scriverlo con una lettera indirizzata alle più alte cariche del Parlamento italiano - è il Consiglio d’Europa, che già tre mesi fa aveva sollecitato Roma ad accelerare i tempi. In particolare è il Commissario Nils Muižnieks che, prendendo sul serio "l’impegno del Parlamento italiano" di varare finalmente una legge attesa dal 1989, e sfuggendo naturalmente alla logica dei veti incrociati, degli opportunismi elettorali e dei diktat delle destre, dentro e fuori i sindacati di polizia, si è preso la briga di comunicare la preoccupazione di Strasburgo sul ddl che è stato licenziato dal Senato il 17 maggio scorso e che dovrebbe tornare all’esame della Camera proprio nella Giornata internazionale contro la tortura. "Taluni aspetti - scrive il commissario per i diritti umani dell’organizzazione internazionale - sembrano essere disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte (Cedu, ndr), alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura". Nella lettera indirizzata ai presidenti di Camera e Senato, Boldrini e Grasso, e a quelli delle relative commissioni Giustizia, Ferranti e D’Ascola, nonché al senatore Luigi Manconi, presidente della commissione straordinaria Diritti umani, Muižnieks osserva "in particolare che, nell’attuale versione del ddl, perché si possa configurare il reato di tortura, sono necessarie "piú condotte" di violenze o minacce gravi, ovvero crudeltà". Inoltre, "la tortura psicologica è limitata ai casi in cui il trauma psicologico sia verificabile". E, "dato che l’attuale testo sembra divergere dalla definizione di tortura data dall’articolo 1 della Convenzione Onu anche per altri aspetti", il commissario del Consiglio d’Europa esprime la "preoccupazione" che una tale legislazione possa creare "situazioni in cui episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo pertanto a possibili scappatoie di impunità". Infine, "considerato che il testo adotta una definizione ampia di tortura, che ricomprende anche i comportamenti di privati cittadini - scrive ancora Nils Muižnieks - è importante garantire che tutto questo non indebolisca la garanzia di tutela a chi subisce tortura per mano di pubblici ufficiali, vista la natura particolarmente grave di questo tipo di violazione". Tanto più perché, tocca sottolineare al Commissario, ciò "tutelerebbe la reputazione della stragrande maggioranza dei tutori dell’ordine e di altri organi dello Stato che non commettono tali atti". Naturalmente quindi per il Consiglio d’Europa le "nuove disposizioni dovrebbero prevedere pene adeguate" e, come impongono tutti gli organismi internazionali e le Convenzioni che l’Italia ha firmato e ratificato ormai 28 anni fa, la nuova fattispecie di reato non deve essere "soggetta a prescrizione", né deve essere "possibile emanare in questi casi misure di clemenza, amnistia, perdono o sospensione della sentenza. Parimenti, non vanno previsti limiti temporali alla facoltà delle vittime di ottenere misure di risarcimento". Parole accolte con un silenzio di tomba. Unico plauso, quello dell’associazione Antigone e di Amnesty International (che già avevano criticato l’attuale testo), di Sinistra Italiana (che si era astenuta, al Senato) e dei deputati del M5S che ora parlano di "legge inefficace" e chissà perché (i senatori a 5 Stelle hanno votato a favore del testo) esultano: "Il Consiglio d’Europa ci dà ragione". Sul reato di tortura si misura la nostra credibilità La Repubblica, 22 giugno 2017 Se lo volessero, deputati e senatori potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi una norma all’altezza di un paese civile. Dopo anni di vani tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale, il 17 maggio scorso il Senato ha modificato il testo che gli era pervenuto dalla Camera, partorendo un contorto groviglio giuridico che torna dunque a Montecitorio. Occorre innanzitutto sgomberare il campo da un equivoco (che qualcuno ha alimentato ad arte). Il reato di tortura non è diretto ad ostacolare il lavoro delle forze dell’ordine! La sua finalità è unicamente quella di sanzionare penalmente la tortura, ovvero l’inflizione intenzionale di sofferenze acute ad una persona. Difatti quello previsto dall’attuale disegno di legge è un reato comune (punisce cioè la tortura anche quando viene commessa da privati), aggravato nel caso del pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Per definizione, dunque, la tortura non riguarda lesioni cagionate nell’esercizio legittimo della forza, che tale è quando risulta necessario e se messo in atto in modo proporzionato e con professionalità. La previsione contenuta nel testo modificato, secondo cui il reato di tortura non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, può ritenersi ammissibile se essa venga intesa in linea con l’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, il quale esclude dolore o sofferenze risultanti da sanzioni legittime. La tortura è altra cosa, sempre che non si voglia dare alle forze dell’ordine la possibilità di infliggere intenzionalmente sofferenze acute. Ci rifiutiamo però di credere che i nostri parlamentari e gli stessi vertici delle forze dell’ordine, nell’interesse della dignità della loro divisa e del pieno sostegno dell’opinione pubblica per il loro fondamentale servizio, vogliano abbassarsi ad un simile livello. Ciò premesso, il testo modificato approvato dal Senato è una informe creatura giuridica. Tra l’altro, la definizione di tortura recepita dal Senato è contorta e illogica, soprattutto dove prevede che il fatto è punibile "se è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". In particolare, il requisito (aberrante) di "più condotte" condurrebbe all’assurda conseguenza di escludere, ad esempio, la rilevanza penale come "tortura" di un’unica condotta protratta nel tempo. Ancora, il testo modificato limita in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura psicologica, esigendo che il trauma psichico sia verificabile: che cosa significa "verificabile" quando la vittima riesca a dimostrare di essere stata sottoposta a sevizie psicologiche qualificabili come tortura? Infine, il testo modificato tace in materia di prescrizione, laddove il reato di tortura dovrebbe essere accompagnato da un termine di prescrizione lungo o, meglio ancora, andrebbe reso imprescrittibile. Spetta dunque alla Camera di rimediare alle mancanze più gravi del pessimo testo varato dal Senato, a cominciare dalla definizione del reato di tortura, che deve essere chiara e rigorosa. Basterebbe del resto adottare una definizione essenziale (del genere: "chiunque, intenzionalmente e agendo con crudeltà, cagiona tortura...", con l’eventuale aggiunta di una clausola di esclusione per sanzioni legittime analoga a quella contenuta nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite). Se lo volessero, deputati e senatori, con l’impulso della presidente Boldrini e del presidente Grasso, potrebbero benissimo riuscire a varare in tempi rapidi un reato di tortura all’altezza di un paese civile. A loro ci permettiamo di ricordare che: a) la tortura è una delle violazioni dei diritti umani più gravi - per certi versi la più abominevole - e il nostro sistema di prevenzione e di repressione penale è privo di un deterrente efficace senza un reato configurato in termini seri; b) l’Italia si è impegnata a farlo da anni e anni, sia di fronte alle Nazioni Unite, sia a livello europeo; c) senza un reato di tortura serio non possiamo né estradare dei torturatori arrestati in Italia né perseguire, in quanto tali, atti di tortura commessi all’estero ai danni di un cittadino italiano. Ne va palesemente della serietà, e quindi della credibilità, dell’Italia, in Europa e nel mondo. Sottoscrivono Antonio Bultrini, Associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze; Pasquale De Sena, Ordinario di diritto internazionale nell’Università Cattolica di Milano e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Filippo di Robilant, membro del Comitato esecutivo dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea; Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale speciale per l’ex-Jugoslavia e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Giuseppe Nesi, Ordinario di diritto internazionale nell’Università di Trento e membro permanente del Comitato Interministeriale per i Diritti Umani; Tullio Padovani, avvocato, già Ordinario di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa; Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Più limiti all’utilizzo delle misure di sicurezza di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2017 A tre anni di distanza dalla legge n. 67/2014, la riforma del sistema sanzionatorio penale torna ad essere oggetto di una delega legislativa, che il Governo potrà attuare nel termine di un anno. Nel 2014 la legge delega mirava al riordino del "binario principale" di quel sistema: riguardava cioè le pene e aveva tra l’altro l’ambizione - rimasta tale - di introdurre pene detentive non carcerarie, da eseguirsi presso il domicilio (alla stessa legge si deve l’introduzione della non punibilità per particolare tenuità del fatto: articolo 131 bis del Codice penale). In questa nuova occasione è invece il "secondo binario" del sistema sanzionatorio a essere oggetto di un altrettanto ambiziosa riforma: quello delle misure di sicurezza e, in particolare, di quelle personali. Si tratta di misure applicate all’autore di reato socialmente pericoloso, che attualmente si aggiungono alla pena (per gli imputabili e i semi-imputabili), ovvero rappresentano l’unica misura applicabile (per i non imputabili): la libertà vigilata e l’espulsione dello straniero (tra quelle non detentive); la casa di lavoro, la colonia agricola, le comunità per i minori (già riformatorio giudiziario) e il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e di custodia (tra quelle detentive); le ultime due già oggetto di un ampio intervento di riforma, negli anni scorsi, che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e all’introduzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). La legge ora approvata mette a frutto i lavori del Tavolo 11 degli Stati generali dell’esecuzione penale promossi nel 2015/2016 dal ministro Orlando e coordinati dal professor Glauco Giostra, ai cui lavori si ispira. Il criterio direttivo di fondo è orientato non all’eliminazione (da più parti da tempo auspicata), bensì a una considerevole limitazione del sistema del doppio binario, a vantaggio di misure a carattere riabilitativo e terapeutico e del minor sacrificio possibile della libertà personale, fatte salve le esigenze di prevenzione e tutela della collettività. La legge delega distingue le posizioni dei soggetti imputabili, semi-imputabili e non imputabili (perché incapaci di intendere e di volere). Per i soggetti imputabili il regime del cosiddetto doppio binario (applicazione congiunta di pene e misure di sicurezza personali) viene limitato ai soli gravi delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) del Codice di procedura penale. Per i semi-imputabili (capacità diminuita) si prevede addirittura l’abolizione del sistema del doppio binario e la previsione di un trattamento sanzionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell’agente, anche mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative, sempre compatibilmente con le esigenze di tutela della sicurezza pubblica. Per i non imputabili, infine, si prospettano misure terapeutiche e di controllo ispirate all’esigenza primaria della cura, all’interno di strutture a ciò deputate, fuori dal circuito carcerario. In questa direzione si prevede di fare delle Rems il luogo di elezione della "sanità penitenziaria", destinandovi anche "tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell’articolo 32 della Costituzione". È una previsione criticata da alcuni fautori della chiusura degli Opg (compreso l’ex commissario governativo, Franco Corleone), considerato che potrebbe mettere in crisi il sistema delle Rems, specie se il loro prevedibile sovraffollamento non dovesse essere evitato mediante l’apertura di nuove strutture. Da segnalare, infine, che nel contesto di un così articolato intervento di riforma al Governo è stato altresì delegato l’ambizioso e arduo compito di "rivedere il modello dell’infermità, mediante la previsione di clausole in grado di attribuire rilevanza, in conformità a consolidate posizioni scientifiche, ai disturbi della personalità". *Ordinario di Diritto penale Università degli studi di Milano Strage di Brescia, un processo lungo mezzo secolo. Ancora due indagini aperte di Saverio Ferrari Il Manifesto, 22 giugno 2017 Piazza della Loggia. Due sono ora gli stralci ancora aperti. Entrambe le piste porterebbero nuovamente in Veneto e sarebbero compatibili con la sentenza appena emessa. L’esito di ieri era atteso, dopo l’appello-bis di Milano del 25 luglio 2015. In quel processo, scaturito dall’annullamento della Cassazione delle assoluzioni pronunciate in appello a Brescia nell’aprile 2012, emerse in modo incontestabile come Maurizio Tramonte di Ordine nuovo, al contempo informatore del Sid (il Servizio informazioni difesa) con il nome in codice di "Tritone", avesse partecipato, la sera del 25 maggio, alla riunione di Ordine nuovo ad Abano Terme, tenutasi, sotto la guida di Carlo Maria Maggi in preparazione della strage. Da qui la presenza dello stesso Tramonte in piazza Della Loggia la mattina del 28 maggio 1974. Le testimonianze di alcuni detenuti, che avevano condiviso con lui, tra il 2001 e il 2003, lo stesso carcere, erano state decisive. Due di questi avevano riferito delle confidenze dello stesso in ordine alla sua presenza in piazza al momento dello scoppio della bomba. Presenza confermata da una foto scattata pochi istanti dopo la strage. La sentenza emessa l’altra notte riguardava l’ultima tappa di una vicenda giudiziaria lunga ben 43 anni. Dopo il primo grado di giudizio del 2 giugno 1979, in cui la Corte d’assise di Brescia condannò all’ergastolo il neofascista Ermanno Buzzi, seguirono solo assoluzioni. Non migliore fortuna ebbe la seconda inchiesta apertasi nel marzo 1984 nei confronti di altri estremisti di destra: Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. Vennero tutti assolti tra il 1987 e il 1989. Bisognerà attendere il 1993 per l’avvio di nuove indagini quando si scoprì che alcuni appunti riservati del Sid, inizialmente anonimi, provenivano dalla fonte "Tritone", alias Maurizio Tramonte, ex-ordinovista di Padova, collaboratore del Sid dal 1972 al 1975. In una relazione in cui si erano riassunte tutte queste informazioni, stilata il 6 luglio 1974 dal maresciallo dei carabinieri Fulvio Felli del controspionaggio di Padova, si venne a sapere che ancor prima della strage si erano tenute riunioni di Ordine nuovo con Carlo Maria Maggi. Fu lì che si decise la messa a punto di una strategia volta a provocare attentati e stragi per "abbattere il sistema". Maurizio Tramonte venne tratto in arresto il 5 luglio 2001. Saranno alla fine le deposizioni di Carlo Digilio, l’armiere del gruppo (deceduto nel 2005), unite a quelle di Maurizio Tramonte, a far decollare l’istruttoria. Con l’accusa di concorso in strage, il 4 ottobre 2007, la procura di Brescia chiese il rinvio a giudizio di Delfo Zorzi, all’epoca a capo della cellula di Ordine nuovo di Mestre, oggi cittadino giapponese; di Carlo Maria Maggi, il "reggente" di Ordine nuovo nel Triveneto; di Maurizio Tramonte e di Pino Rauti, il fondatore di Ordine nuovo; dell’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, comandante del Nucleo investigativo di Brescia, e di Giovanni Maifredi, già coinvolto nelle vicende eversive del Mar di Fumagalli. Il 25 novembre ebbe così inizio il nono processo. Si concluse il 16 novembre 2010 con l’assoluzione di tutti i cinque imputati. Sentenza confermata in appello il 14 aprile 2012. La corte di Cassazione il 21 febbraio 2014 valutò con parole durissime l’operato dei giudici di secondo grado, definendo la sentenza mossa da "un’esasperata opera di segmentazione del quadro complessivo", tesa "alla ricerca ogni volta di un possibile ma improbabile significato", spesso "astruso". Da qui l’appello-bis di fronte a una nuova corte a Milano. Due sono ora gli stralci di indagine ancora aperti. Uno dalla Procura dei minori in cui si fa il nome di un altro ordinovista, Marco Toffaloni, un veronese all’epoca minorenne, ora in Svizzera con un’altra identità. L’altro riguarderebbe invece un notissimo dirigente sempre di Ordine nuovo. Entrambe le piste porterebbero nuovamente in Veneto e sarebbero compatibili con la sentenza appena emessa. Restano ancora sullo sfondo le responsabilità dello Stato e dei suoi apparati, ma il lavoro degli inquirenti non è ancora finito. Intanto, Maurizio Tramonte, resosi irreperibile prima della sentenza, è stato arrestato a Fatima in Portogallo. Una fuga durata poche ore. Omicidio Cucchi, i ministeri non pagheranno i danni civili Il Manifesto, 22 giugno 2017 La responsabilità civile della morte di Stefano Cucchi, nell’ambito dell’inchiesta bis che vede indagati cinque carabinieri, non potrà essere addossata ai ministeri della Difesa, della Giustizia e degli Interni. Saranno citabili i soli condannati per l’omicidio del 31enne geometra romano morto nel reparto "protetto" dell’ospedale Pertini il 22 ottobre 2009. Lo ha deciso il gup Cinzia Parasporo che, per il resto, ha rinviato al prossimo 10 luglio l’udienza preliminare che dovrebbe decidere se i militari saranno sottoposti a processo. Sarà una lunga udienza dove prenderà la parola il pm Giovanni Musarò, titolare della nuova inchiesta aperta dalla procura di Roma, i patrocinatori delle parti civili e della difesa. E la camera di consiglio si riunirà per decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco (accusati di omicidio preterintenzionale perché ritenuti dall’accusa autori del pestaggio di Cucchi, e di abuso di autorità per aver sottoposto il giovane "a misure di rigore non consentite dalla legge"), per il maresciallo Roberto Mandolini, comandante interinale della stazione di Roma Appia (accusato di calunnia e falso), e per Vincenzo Nicolardi (che insieme a Tedesco deve rispondere di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria che furono processati e assolti). Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco sono comunque già stati sospesi. Anche chi è ai domiciliari può accompagnare i figli a scuola di Roberta Lunghini west-info.eu, 22 giugno 2017 Corte di Cassazione, Sentenza n. 30349 - 2017. A un genitore che si trova agli arresti domiciliari non si può automaticamente negare il diritto di portare il figlio a scuola. Per questo motivo la Corte di Cassazione ha annullato il provvedimento emesso da un Magistrato di Sorveglianza, con il quale era stata rigettata la richiesta dell’imputato di poter uscire di casa per accompagnare il suo bambino in classe e a fare sport. Un rigetto giustificato dall’ampiezza delle autorizzazioni orarie di cui già fruiva per motivi di lavoro: tutti i giorni dalle ore 10 alle 16 e dalle 18 all’una di notte. Tuttavia, se nel nostro Paese chi beneficia di questa misura cautelare, non può neanche portare fuori la spazzatura o il cane per fargli fare la pipì, le cose cambiano quando si tratta dell’istruzione della prole. I Supremi Giudici, infatti, hanno chiarito che nella fattispecie deve prevalere il diritto-dovere del padre a garantire al figlio le attività di studio e le esigenze sanitarie. Per cui al condannato va concesso di allontanarsi dall’abitazione, nel caso in cui non ci sia nessun altro che riesca a far fronte a tale incombenza. Ha diritto alle prestazioni sociali l’extracomunitario con il permesso di lavoro Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2017 Cgue - Sentenza 21 giugno 2017 causa C-449/16. Il cittadino di un paese non Ue, titolare di un permesso unico di lavoro in uno Stato membro, beneficia, in via di principio, delle prestazioni di sicurezza sociale previste per i cittadini di tale Stato. Lo ha precisato la corte Ue con la sentenza 21 giugno 2017 causa C-449/16. Occasione della pronuncia la richiesta da parte di una cittadina extracomunitaria degli assegni al nucleo familiare, richiesta respinta dall’Inps perché la nostra normativa non lo prevede. La Corte Ue dichiara, innanzitutto, che l’assegno oggetto della richiesta costituisce una prestazione di sicurezza sociale riconducibile alla categoria delle prestazioni familiari di cui al regolamento dell’Unione sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. La Corte esamina, poi, se uno Stato membro quale l’Italia possa escludere i cittadini di un paese non Ue, titolari di un permesso unico di lavoro, dal beneficio di una siffatta prestazione ed esclude che sia possibile. La Corte ricorda che il diritto alla parità di trattamento costituisce la regola generale e che la direttiva elenca le deroghe a tale diritto che gli Stati membri hanno la facoltà di istituire. Tuttavia, le disposizioni della normativa italiana non possono essere considerate come volte a dare attuazione a tali deroghe. Di conseguenza, la direttiva osta a una normativa nazionale in base alla quale il cittadino di un Paese non Ue, titolare di un permesso unico di lavoro, non può beneficiare di una prestazione di sicurezza sociale come l’assegno familiare. Abuso d’ufficio solo se c’è la volontà del funzionario Pa di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2017 Gip di Catania, Ordinanza del 20 febbraio 2017. Il reato di abuso d’ufficio richiede, per la sua consumazione, una condotta ingiusta e un vantaggio o un danno ingiusto intenzionalmente voluto dal funzionario pubblico. Lo ricorda il Tribunale di Catania (giudice per le indagini preliminari Giancarlo Cascino) in un’ordinanza dello scorso 20 febbraio. La vicenda in esame riguarda la legittimità di un concorso pubblico per la copertura di un posto di professore di seconda fascia. La commissione esaminatrice aveva designato all’unanimità uno dei due candidati, ritenendolo prevalente sull’altro per le produzioni scientifiche e l’esperienza professionale maturata. Il candidato non vincitore aveva allora denunciato i componenti della commissione, sostenendo che gli stessi non avevano correttamente valutato i suoi titoli. La Procura aveva quindi aperto un fascicolo per l’ipotesi di concorso nel reato di abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del Codice penale; ma, a conclusione delle indagini preliminari, aveva domandato l’archiviazione del procedimento, ritenendo infondata la notizia di reato. Contro la richiesta del pubblico ministero, il denunciante aveva quindi presentato l’opposizione prevista dall’articolo 410 del Codice di procedura penale, chiedendo investigazioni suppletive. Nel respingere l’opposizione, il giudice ricorda che per aversi l’abuso d’ufficio non è sufficiente la violazione di leggi o regolamenti, ma è necessario che, con la propria condotta, il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico sevizio) intenzionalmente procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure provochi ad altri un danno ingiusto. In altri termini, l’articolo 323 richiede - prosegue il giudice, citando la sentenza 16895/2008 della Corte di cassazione - una doppia ingiustizia: "ingiusta deve essere la condotta" perché viola la legge, "e ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale" o di danno, nel senso che l’uno o l’altro non si sarebbe realizzato se fossero state rispettate le norme concretamente violate. Ma non basta. L’evento (vantaggio o danno) si deve configurare, nell’intenzione dell’agente, quale scopo perseguito e intenzionalmente voluto. E "l’intenzionalità, lungi dall’attestare l’esclusività del fine che deve animare l’agente, indica invece la preminenza data all’evento tipico rispetto al pur concorrente interesse pubblico", che dunque viene ad assumere "un rilevo secondario e, per così dire, derivato o accessorio". Infine, la prova dell’intenzionalità non richiede la dimostrazione di un comportamento in palese violazione di una norma di diritto, ma si può desumere anche da elementi sintomatici. Come, ad esempio, il contenuto della motivazione del provvedimento o i rapporti tra l’agente e i soggetti che ricevono il vantaggio (o il danno). Nel caso in esame, la commissione esaminatrice aveva valutato, innanzitutto, il contenuto dei lavori scientifici dei candidati, motivando adeguatamente "sulle differenze di autonomia e pregio dei due rapporti scientifici"; aveva quindi effettuato un giudizio comparativo delle attività professionali, valorizzando la maggiore esperienza "apicale del candidato prescelto". Così, avendo escluso che gli indagati avessero violato il codice penale, il giudice siciliano ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. Esercizio abusivo per il commercialista che si cancella dall’albo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 21 giugno 2017 n. 30827. Esercizio abusivo della professione di consulente del lavoro per il commercialista che si è cancellato dall’Albo. La Cassazione (sentenza 30827) respinge il ricorso del professionista che affermava di aver male interpretato, in buona fede, gli elementi materiali del reato, senza essere incorso in errore di diritto. Il ricorrente si era cancellato dall’albo dei dottori commercialisti pensando che la contestuale iscrizione all’istituto nazionale dei revisori legali fosse sufficiente per svolgere il lavoro. La Suprema corte spiega, invece che l’articolo 348 del Codice penale sull’esercizio abusivo della professione, è una norma in bianco "perché presuppone l’esistenza di altre disposizioni integrative del precetto penale, che definiscono l’area oltre la quale non è consentito l’esercizio di determinate professioni: l’errore sulle norme da esso richiamate è quindi parificabile all’errore sulla legge penale e non ha valore scriminante". Al ricorrente poi non era concesso di non sapere. Il professionista, dopo la cancellazione dall’Albo dei dottori commercialisti si era occupato per anni della tenuta e della trasmissione di documentazione fiscale, attività riservata agli iscritti. La buona fede va esclusa alla luce della sua "specializzazione". Al commercialista è, infatti, richiesto un maggior grado di diligenza della normativa in questione. Va dunque esclusa la pretesa inevitabilità di un errore che era di diritto. Una conclusione che vale a maggior ragione quando, come nel caso esaminato, non si è all’inizio della carriera professionale ma si lavora da molti anni nel settore. Emilia Romagna: Garante dei detenuti "prossimi progetti sul Pratello e su Castelfranco" di Cristian Casali cronacabianca.eu, 22 giugno 2017 La relazione di Marighelli in commissione Parità, 658 ristretti in più della capienza in regione. Marchetti e Mumolo del Pd sollecitano l’attivazione di percorsi sociali e di reinserimento lavorativo. "Tre gli impegni prioritari nel programma di lavoro 2017-2018: visitare con regolarità gli istituti di pena della regione, le Rems e gli altri luoghi di limitazione della libertà delle persone, con l’intento di prevenire quelle situazioni di rischio di ‘trattamenti inumani e degradanti’ purtroppo sempre presenti, oltre a concorrere d’intesa con l’Amministrazione penitenziaria a favorire il recupero e il reinserimento nella società delle persone detenute. E, da ultimo, ampliare l’area di osservazione anche a tutte le altre situazioni di limitazione della libertà personale". Il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, ha relazionato in commissione per la Parità e per i diritti delle persone, presieduta da Roberta Mori, sul programma di lavoro dell’organo di garanzia per il 2017-2018 e sull’attività svolta nel 2016. Gli ultimi dati sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna, al 31 maggio, mostrano una presenza di detenuti che raggiunge le 3.482 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 2.824 posti, 658 persone in più. Circa il 50 per cento dei ristretti sono stranieri (1.759) e 145 sono donne. "La sospensione - ha poi rimarcato il Garante - del procedimento penale con messa alla prova per gli adulti, l’ampliamento dell’ammissione al lavoro all’esterno per i detenuti come lavoro volontario gratuito, l’incremento di sanzioni alternative al carcere, come quella del lavoro di pubblica utilità, sono misure che vanno assumendo un ruolo sempre più importante e possono essere l’occasione per dare una nuova dimensione alla penalità, che, pur mantenendo una connotazione afflittiva, sposti il proprio centro dalla custodia della sofferenza legalmente applicata al ruolo attivo dell’imputato o autore di reato nella riparazione del danno". Marighelli ha poi affrontato il tema della vigilanza sulle condizioni di vita nelle carceri: "Le visite anche non annunciate, gli incontri, i colloqui e la corrispondenza con la popolazione ristretta, costituiscono l’attività prioritaria dell’Ufficio del Garante regionale e restano l’oggetto esclusivo della sua funzione, che non va confusa con altri pur altrettanto rilevanti obiettivi di tutela". Si provvederà, ha aggiunto, "alla segnalazione dei casi di comune interesse al Difensore civico e al Garante per l’infanzia e l’adolescenza, ricercando il coordinamento delle attività nell’ambito delle rispettive competenze". Da gennaio sono 101 le richieste di intervento pervenute al Garante regionale (da detenuti, legali, familiari e associazioni), di cui 35 pratiche già chiuse. Tra le iniziative prossime del Garante da evidenziare inoltre la programmazione di momenti di formazione e informazione dedicati agli operatori del settore e ai volontari, su temi quali residenza e documenti di identità, permessi di soggiorno e rimpatrio volontario assistito, ricerca del lavoro, curriculum, valorizzazione delle esperienze formative e lavorative in carcere, misure alternative alla detenzione, lavoro volontario gratuito in progetti di pubblica utilità. In più, è prevista l’implementazione di esperienze e progetti dedicati all’affettività e genitorialità in carcere, con particolare attenzione alla continuità affettiva, alle caratteristiche degli spazi preposti e alle modalità di incontro. Inoltre, relativamente al Pratello di Bologna, è in fase di rinnovo il protocollo d’intesa per garantire un’attività di ascolto sia nei confronti dei singoli minori e giovani adulti sia degli operatori della presa in carico. Protocollo che si vorrebbe anche estendere ad altre situazioni come quella della struttura modenese di Castelfranco Emilia, che ospita in grande prevalenza internati, persone in detenzione sociale. Questo tema è stato affrontato anche in un recente incontro che Marighelli ha avuto con l’Arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, uno scambio di idee sulla situazione della struttura (l’Arcidiocesi di Bologna comprende anche Castelfranco). Nel 2016 si è concluso il primo mandato quinquennale di Desi Bruno. Marighelli, in carica da dicembre, ha parlato, concludendo il suo intervento, di continuità con l’operato della precedente garante. Francesca Marchetti (Pd), citando il progetto di Er.go sull’istruzione universitaria nelle carceri, ha rimarcato la necessità, in collaborazione con i servizi sociali, di "fornire ai detenuti, contestualmente alla scarcerazione, gli strumenti per sfruttare le conoscenze acquisite nel periodo di restrizione, promuovendo percorsi di reinserimento lavorativo". La consigliera ha inoltre manifestato preoccupazione relativamente al numero di minori sottoposti a misure restrittive. Anche Antonio Mumolo (Pd) ha sollecitato l’attivazione di percorsi rivolti alle persone in uscita dagli istituti penitenziari, con "il coinvolgimento dei servizi sociali e delle associazioni di volontariato che operano nelle carceri". Roma: suicidio di Marco Prato, si sospendano i dirigenti del carcere di Luigi Manconi e Valentina Moro Il Manifesto, 22 giugno 2017 Come in un cupo dramma di ispirazione luterana o in un severissimo film di Margarethe von Trotta, ancora una volta il male riproduce fatalmente il male. L’orrendo assassinio di Luca Varani, commesso da Marco Prato e Manuel Foffo, ha generato nuovo dolore e strazio. Tragedia che si somma a tragedia. Con il suicidio di Marco Prato, avvenuto nella notte tra lunedì e martedì, in una cella del carcere di Velletri, sembra non aver fine questo intollerabile scialo di morte. Abbiamo scritto "fatalmente", ma il fato non può tutto senza il contributo degli umani e, nel caso in questione, quello offerto dall’amministrazione penitenziaria è stato davvero rilevante. A leggere la sua lettera di congedo, Marco Prato - probabilmente - si sarebbe ucciso comunque, a Regina Coeli come a Velletri: non sopportava l’accusa che gli era stata rivolta, la responsabilità attribuitagli, la sua pubblica rappresentazione. Ma ciò non esime dall’individuazione di quei fattori che possono aver incentivato la sua determinazione a farla finita e a sottrarsi a un nuovo giudizio penale e mediatico. Tra questi fattori, particolare peso sembra aver avuto quello sottolineato molto opportunamente dal Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Secondo quest’ultimo, per ben due volte Prato è stato trasferito dal carcere di Regina Coeli a quello di Velletri contro la sua volontà. E la seconda volta con una motivazione che il Garante, con pudore istituzionale, ha definito paradossale: "La permanenza in questo Istituto - scriveva un dirigente di Regina Coeli - è ormai un fattore a favore del soggetto che gli permette di adattarsi e crearsi un ambiente favorevole". Dunque, la possibilità di crearsi un ambiente favorevole a Regina Coeli sarebbe stato l’argomento decisivo per il trasferimento altrove del detenuto. Evidentemente perché un recluso non può trovarsi a suo agio in una prigione, dal momento che "un ambiente favorevole" deve essergli comunque negato. C’è da trasecolare, tanto più se si tiene conto che Prato già in passato aveva tentato il suicidio e che nel carcere di Velletri la cosiddetta "articolazione psichiatrica" semplicemente non esiste. Di conseguenza, Regina Coeli avrebbe potuto offrire al giovane una maggiore possibilità di tutela. Insomma, c’è una responsabilità ben precisa e non eludibile che fa capo all’Amministrazione penitenziaria. Il Garante, per una questione di stile, non indica nome e ruolo di chi abbia argomentato in quel modo scellerato la decisione di trasferimento di Prato. Ma non è difficile intuirli. Chiediamo, dunque, che sia reso noto il documento in cui sono contenute quelle parole e che, qualora ne sia confermata l’attribuzione alla direzione del carcere e al provveditorato regionale, si disponga immediatamente la sospensione di quei dirigenti. Non si può consentire che organismi che svolgono compiti tanto cruciali e delicati siano ancora diretti da chi ha dato prova di simile tragica spensieratezza. Un’ultima considerazione. Nel comunicato del Garante, così come nella lettera sopracitata dell’Amministrazione e, più in generale, in tutta la letteratura carceraria, ricorre frequentemente la categoria di "trattamento". Di essa si possono dare varie accezioni e interpretazioni, una delle più acute è quella proposta da Giovanni Maria Flick che, sulla scorta di quanto previsto dalla Carta Costituzionale, così scrive: in una "formazione sociale coatta", come è il carcere, "l’inviolabilità dei diritti, in funzione dello sviluppo della personalità, diviene profilo ancor più intenso e complesso". Ecco, dunque, apparire chiaro come quelle terribili parole dell’amministrazione non esprimano solo l’ottusità di una burocrazia stolida, ma rappresentino piuttosto il ribaltamento "illegale" di un principio costituzionale. Roma: Marco Prato, quando il suicidio è annunciato di Valter Vecellio lindro.it, 22 giugno 2017 Bernardini: "Migliaia i detenuti nelle stesse condizioni". Duro atto d’accusa del garante dei detenuti. Questo suicidio in carcere, per forza di cose, fa "notizia". Non saranno pochi quelli che con una scrollata di spalle liquideranno la vicenda con: "Un farabutto di meno". Quanto al fatto che si tratta di un farabutto, neppure a discuterne. Il detenuto in questione, Marco Prato, assieme a Manuel Foffo, è ritenuto il responsabile di un delitto particolarmente efferato, quello di Luca Varani: un ragazzo ucciso nel marzo del 2016, durante un festino a base di sesso e droga. Prato, detenuto nel carcere di Velletri, vicino Roma, si è tolto la vita alla vigilia dell’udienza del processo. Lo hanno trovato durante il giro di ispezione con un sacchetto di plastica in testa: asfissiato dal gas della bomboletta che aveva in dotazione. La procura di Velletri procede ora per istigazione al suicidio. L’indagine contro ignoti deve verificare anche se lo stato di detenzione di Prato fosse compatibile con le sue condizioni psicofisiche. Perché alla fine, è qui la carne del problema. Va molto al di là del singolo caso, di chi sia stato Prato, e cosa abbia commesso. Secondo lo psichiatra dell’Asl che lo aveva in cura, non c’era nessuna volontà suicida. Nella relazione inviata al Dipartimento per l’Amministrazione della Giustizia, si legge: "Visitato con regolarità dallo psichiatra dal 14 febbraio che ha effettuato le visite a cadenza settimanale non solo per il monitoraggio della terapia farmacologica in corso ma anche per colloqui di sostegno. Durante le valutazioni cliniche non sono state riferite intenzionalità anticonservative. Umore riferito come non depresso". L’ultima visita a cui Prato è stato sottoposto risale al 16 giugno scorso. La lettera che il suicida ha lasciato sembra dire altre cose: "Non ce la faccio a reggere l’assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente". Chi scrive non è giudice. Non è mio, il compito di giudicare e di stabilire colpevolezza o innocenza. I fatti, però, sono fatti. Prato aveva già tentato il suicidio. Almeno altre tre volte. Il primo tentativo risale al 2011 quando torna da Parigi in Italia in concomitanza con la fine di una relazione. Un episodio simile si verifica qualche mese dopo, rientrato a Roma. Il terzo tentativo è del marzo 2016, qualche ora dopo l’omicidio di Luca Varani. Il Garante dei detenuti è esplicito: "Il rischio suicidario per Marco Prato nel carcere di Velletri era elevato ed era stato segnalato alle autorità competenti, ma senza risultati. E quindi oggi nessuna sorpresa per un suicidio per molti versi annunciato". Già nello scorso anno il Garante nazionale era intervenuto perché Prato fosse riportato nel carcere romano di Regina Coeli: alla luce del fatto, a tutti noto e in particolare all’Amministrazione penitenziaria, che la cosiddetta "Articolazione psichiatrica" dell’Istituto di Velletri è inesistente, e che là una persona che già aveva nel passato tentato il suicidio avrebbe avuto minore assistenza di quella garantita nell’Istituto romano. "Nei mesi scorsi", si legge nel documento del Garante, "una sua legittima richiesta di poter essere trasferito a una sezione diversa al fine di svolgere attività è stata il pretesto per un suo nuovo invio da Regina Coeli a Velletri, avendo l’amministrazione penitenziaria ritenuto che questa richiesta fosse indicativa del fatto che "la permanenza in questo Istituto (Regina Coeli) è ormai un fattore a favore del soggetto che gli permette di adattarsi e crearsi un ambiente favorevole". Il Garante segnala alla direzione del carcere e al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria il paradosso di questa affermazione che, scrive "di ha di fatto penalizzato il processo di adattamento e di ambientazione all’interno dell’Istituto. Il positivo percorso trattamentale è stato usato come pretesto per il trasferimento in una situazione di peggiori condizioni. Al di là di rassicurazioni informali e generiche, nessuna di queste autorità responsabili ha voluto recedere dalla posizione presa, nonostante l’indicazione dell’inadeguatezza della collocazione a Velletri e del rischio suicidario ancora esistente. In ciò ignorando anche le indicazioni del ministro formulate proprio per ridurre il rischio di suicidio, nonché le indicazioni europee circa il dovere di consultazione del detenuto prima di procedere al suo trasferimento". Al di là dello specifico caso, destinato inevitabilmente a fare polemica (per qualche giorno almeno), opportunamente il Garante nazionale "osserva con preoccupazione il fatto che si tratti del ventiduesimo suicidio nel 2017 e che le dinamiche di trasferimento da un Istituto all’altro di persone detenute, spesso di personalità complessa, continuano ad apparire dettate da mere considerazioni di gestione al di là dell’effettiva possibilità di assicurare continuità terapeutica e trattamentale". Parma: il Garante "carcere sovraffollato oltre i limiti, investire nell’inclusione" parmatoday.it, 22 giugno 2017 Sopralluogo di Roberto Cavalieri in via Burla: "L’eccesso di presenze ha costretto la direzione a collocare i detenuti nel reparto di isolamento anche se questi non sono sottoposti ad alcun regime disciplinare o sanitario". Visita del Garante dei Detenuti del Comune di Parma all’interno del carcere di via Burla: "A causa del sovraffollamento detenuti in isolamento anche se non sono sottoposti a nessun regime disciplinare". "Nel corso della visita al penitenziario di Parma dedicata al reparto 41 bis, ai settori sanitari, di isolamento ed alla media sicurezza si è potuto registrare una impennata preoccupante delle presenze. Su un totale di 600 detenuti, 315 sono reclusi nel reparto di media sicurezza (con una presenza maggioritaria di stranieri) su una disponibilità effettiva del reparto di 280 posti. L’eccesso di presenze ha costretto la direzione a collocare i detenuti nel reparto di isolamento anche se questi non sono sottoposti ad alcun regime disciplinare o sanitario. Nel contempo l’autorità del penitenziario della città ha chiesto all’Amministrazione penitenziaria lo sfollamento di almeno 30 detenuti in altre carceri. Nei settori sanitari rimane critico il meccanismo della lunga durata dei ricoveri e dell’alto numero di assegnazioni a Parma, da parte della Amministrazione penitenziaria, di persone che necessitano di ricovero nel reparto sanitario interno che però non presenta disponibilità di posti e costringe la reclusione di persone ammalate nelle celle dei reparti ordinari. Sotto il profilo organizzativo lo scarso numero di uomini della Polizia penitenziaria rende complessa l’assicurazione dei servizi anche se si è potuto appurare che, per quanto possibile, sono attivi servizi trattamentali (corsi, teatro, cinema, etc.) anche nel periodo estivo. I processi di carcerizzazione, a Parma quasi esclusivamente dovuti ad eventi legati alla microcriminalità e ai crimini comuni, la lentezza dei meccanismi della giustizia e l’assegnazione al carcere cittadino di detenuti provenienti anche da altre città ha determinato un incremento del numero delle presenze che richiama ora l’amministrazione penitenziaria ad una urgente necessità di intervento. Il monitoraggio svolto dal Garante sulle presenze di stranieri indica che nel biennio 2015-2016 ad esempio i cittadini nigeriani condotti in carcere, quasi tutti per reati legati allo spaccio e traffico di droga o allo sfruttamento della prostituzione compiuti in città, sono stati complessivamente 91 per una detenzione media di 6 mesi. Sotto il profilo economico, tenendo conto di una media di costo giornaliero di 150,00 Euro a detenuto, questi dati si traducono per lo Stato in una spesa di oltre 1,7 milioni di Euro per il periodo indicato. Questi dati, estensibili anche a detenuti di altre provenienze, devono indurre ad una riflessione importante sul senso del carcere e sulla sua efficacia che sembrano rimanere legati alla esclusiva necessità di isolare persone dimenticando il ruolo e la finalità rieducativa della pena. Infine si rinnova l’attenzione alle autorità affinché si scelgano strategie e politiche di inclusione sociale quali azioni preventive ed alternative al crimine per le persone che vivono ai margini della società evitando così percorsi penitenziari sicuramente esigenti in termini di spesa pubblica". Busto Arsizio: un protocollo d’intesa per prevenire i suicidi in carcere di Silvia Bellezza informazioneonline.it, 22 giugno 2017 L’Asst Valle Olona e la Casa circondariale di Busto stipulano un accordo per tutelare i detenuti. "Il sovraffollamento della popolazione carceraria potrebbe indurre a compiere gesti estremi", afferma il direttore Orazio Sorrentini. Notizia di ieri il suicidio di Marco Prato, detenuto nel carcere di Velletri. Proprio per tutelare le persone a rischio di commettere atti autolesionistici o di togliersi la vita, è stato firmato un protocollo d’intesa tra l’Asst Valle Olona e la Casa Circondariale di Busto. L’accordo è stato presentato dal direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Giuseppe Brazzoli e dal direttore del carcere di via per Cassano Orazio Sorrentini. "Sono molto soddisfatto della qualità dei rapporti con la Casa Circondariale - evidenzia Brazzoli - siamo qui a testimoniare un segno importante per le persone che si trovano in situazione di restrizione della libertà personale, formalizzando un protocollo per il rischio suicidario, la prosecuzione di una strada tracciata". "L’amministrazione centrale dedica molta attenzione a questa tematica, c’è la tendenza ad un’attività di prevenzione il più completa possibile, per non avere alcun rimpianto - osserva Sorrentini - il suicidio del detenuto Marco Prato nel carcere di Velletri ha suscitato grande clamore. Si è registrato a livello nazionale un aumento dei suicidi in carcere (60 casi nel 2016). Qui a Busto, invece, non si registrano episodi negli ultimi cinque anni. L’ultimo risale a settembre 2012". Sorrentini individua tra le possibili cause che possono indurre al suicidio il sovraffollamento della popolazione carceraria: "Questo fattore incrementa i casi di suicidio rispetto alla società libera". Nella casa circondariale di Busto sono detenute attualmente 410 persone (circa 200 stranieri): "Un dato in calo - prosegue il direttore del carcere - in passato siamo arrivati a 437 ma è comunque molto superiore alla capienza massima del carcere che è poco meno di 300". Il protocollo d’intesa, spiega la dottoressa Ezia Iorio, prevede l’intervento di psicologi: "Ogni nuovo giunto sarà sottoposto, oltre alla visita medica, anche ad una visita psicologica. In caso di gesto autolesivo di una persona già detenuta saranno attivati, ogni quindici giorni, incontri con lo staff multidisciplinare e verranno presi provvedimenti per tutelare la persona, in accordo con le diverse aree interne del carcere". L’organizzazione della Casa Circondariale di Busto, a differenza di altre realtà della provincia, si avvale di un servizio sanitario operativo h24, rende noto Sorrentini; è presente uno staff composto da dieci unità di personale medico e sei di personale infermieristico, a stretto contatto con i detenuti. All’interno c’è anche un centro riabilitativo di fisioterapia in cui i pazienti, provenienti anche da altri istituti penitenziari d’Italia, possono svolgere un ciclo riabilitativo. Anche il personale di Polizia Penitenziaria si sta impegnando in corsi di formazione per intervenire in caso di emergenza. Prato: la Caritas lancia il progetto "Non solo carcere" tvprato.it, 22 giugno 2017 Per favorire pene alternative ai detenuti: "Con l’accompagnamento si abbassa la recidiva". "Non ci sono detenuti irrecuperabili, tutti hanno il diritto alla speranza". Ne è convinta la Caritas diocesana di Prato nel presentare "Non solo carcere", un progetto promosso in collaborazione con l’associazione Don Renato Chiodaroli, Gruppo Barnaba e Insieme per la Famiglia. E non solo, perché è la rete la forza con cui si intende raggiungere l’obiettivo primario dell’iniziativa, pensata per aiutare le persone detenute verso il fine pena che hanno bisogno di misure alternative prima di tornare in libertà. Accoglienza, reinserimento sociale e sensibilizzazione della cittadinanza. Sono i tre ambiti di impegno di "Non solo carcere", finanziato da Caritas Italiana con i fondi derivanti dall’8 per mille alla Chiesa Cattolica. Finalità e caratteristiche del progetto sono state illustrate questa mattina in palazzo vescovile, alla presenza del vescovo Franco Agostinelli e di tutti i soggetti promotori, tra i quali ci sono anche Cna Toscana Centro e Estra Spa, che hanno dato la propria disponibilità agli inserimenti lavorativi e alla realizzazione di attività di informazione rispetto al problema carcere. "L’obiettivo è quello di prendersi cura di queste persone, è vero - sottolinea la direttrice della Caritas diocesana Idalia Venco - si sono macchiate di uno o più reati ma se vogliamo che veramente possano riparare al danno che hanno commesso, ma soprattutto non delinquere più, allora dobbiamo accompagnarli". L’importanza di questo tipo di sostegno è confermata dal direttore del carcere La Dogaia di Prato Vincenzo Tedeschi: "i detenuti che una volta usciti hanno avuto opportunità lavorative, anche minime e in qualsiasi ambito, hanno un rischio di recidiva molto basso, lo dicono le statistiche e noi possiamo confermarlo". Accoglienza. Nel 1990 a Prato è stata aperta la casa Jacques Fesch, dedicata al criminale francese convertito in carcere, fortemente voluta dai cappellani del carcere per dare un tetto a quei detenuti che hanno ottenuto un permesso premio ma non hanno un posto dove stare. La Casa fornisce dunque un servizio di alloggio temporaneo alternativo all’istituto di pena. Un luogo protetto dove i carcerati possono incontrare i loro familiari. Oggi la struttura, che si trova a Narnali, grazie al progetto Caritas è in fase di ristrutturazione per aumentare la propria capacità di accoglienza. Già nell’estate tornerà in funzione e a settembre ci sarà l’inaugurazione ufficiale. Reinserimento sociale. Per favorire il ritorno nella società è necessario che il detenuto abbia un impiego. Questo serve anche a poter riallacciare le relazioni familiari interrotte durante il periodo di detenzione. In questo senso il progetto Caritas prevede percorsi individuali di orientamento, corsi di formazione e tirocini formativi all’interno di aziende del territorio. Ciò sarà reso possibile grazie alla collaborazione con Cna Toscana Centro e Estra Spa. "Abbiamo accolto con favore questa iniziativa - spiega Elena Calabria, presidente Cna Toscana Centro - perché è perfettamente in linea con la mission della nostra associazione, composta in gran parte da piccole e medie imprese, molte delle quali condotte a carattere familiare. Siamo sicuri che possano essere l’ambiente adatto ad un possibile reinserimento". Sulla stessa lunghezza d’onda Saura Saccenti di Estra, una società da tempo a fianco della Caritas nel sostenere l’Emporio della Solidarietà. "Siamo una azienda a carattere nazionale - afferma Saccenti - ma siamo strettamente legati al territorio, questo tipo di iniziative per noi traducono nei fatti il concetto di responsabilità sociale d’impresa". Sensibilizzazione della cittadinanza. Secondo la Costituzione le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (articolo 27). Per questo occorre che la detenzione sia un tempo utile per costruire percorsi esistenziali alternativi a quelli che hanno portato una persona a delinquere. Il progetto "Non solo carcere" si propone di realizzare azioni sul territorio mirate a informare sulle condizioni del carcere e delle pene alternative e a organizzare convegni, spettacoli e iniziative dedicate al tema rivolte alla cittadinanza, ai gruppi, alle associazioni e alle aziende coinvolte nel progetto. Tali iniziative saranno organizzate nei prossimi mesi. Questi percorsi saranno messi in campo grazie anche alla fattiva collaborazione delle istituzioni carcerarie: direzione casa circondariale di Prato, magistrature di sorveglianza, ufficio per l’esecuzione penale esterna e garante per i diritti dei detenuti. Padova: il Sappe "carceri sovraffollate, più agenti ed espulsione detenuti stranieri" padovaoggi.it, 22 giugno 2017 Il Sindacato, con il segretario generale Donato Capece e quello nazionale Giovanni Vona, martedì ha visitato il carcere di Padova: "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione penitenziaria e dalla giustizia minorile e di comunità". 2.338 detenuti presenti nelle carceri del Veneto, 2.201 uomini e 137 donne; uno su quattro tossicodipendente, 745 imputati, 1.593 condannati, 1.375 stranieri. E 500 agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto agli organici previsti nelle 9 carceri regionali venete. È la fotografia della situazione penitenziaria regionale denunciata dal Sindacato autonomo polizia Penitenziaria Sappe. Grazie ai poliziotti. Il Sindacato, con il segretario generale Donato Capece e quello nazionale Giovanni Vona, martedì ha visitato i il carcere di Padova e mercoledì quelli di Verona e Vicenza. Commenta Capece: "L’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe dire non una ma cento volte grazie ai poliziotti penitenziari in servizio nel Veneto, agli eroi silenziosi del quotidiano con il Basco Azzurro a cui va anche il ringraziamento del Sappe per quello che fanno ogni giorno, perché se le carceri regionali reggono alle costanti criticità penitenziarie è solamente merito loro". Episodi sottovalutati. "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane - sottolinea - episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione Penitenziaria e dalla Giustizia Minorile e di Comunità. In Veneto, in particolare, nel solo 2016 si sono contati 327 atti di autolesionismo, un decesso per cause naturali, 40 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 4 suicidi, 319 colluttazioni e 105 ferimenti. Ed il Corpo di polizia penitenziaria, che sta a contatto con i detenuti 24 ore al giorno, ha carenze di organico pari ad oltre 7mila agenti, 500 agenti in meno solamente in Veneto". Criticità. Capece e Vona evidenziano in particolare le gravi criticità operative del personale di polizia penitenziaria a causa delle carenze di organico nei Reparti: "Devono fare seriamente riflettere e pericolose condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari, che ogni giorno di più rischiano la propria vita nelle incendiarie celle delle carceri italiane. Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano, finanziando e potenziando i livelli di sicurezza delle carceri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché". Provvedimenti. "Le idee e i progetti dell’amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati. - conclude - La tensione resta alta nelle carceri: altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. Davvero non comprendo come si possa aver avuto il coraggio, nella recente legge di modifica della legge penale e penitenziaria, di estendere ancora di più la vigilanza dinamica nelle carceri, che vorrà dire più caos e violenza nei penitenziari. Non ci si ostini a vedere le carceri con l’occhio deformato dalle preconcette impostazioni ideologiche, che vogliono rappresentare una situazione di normalità che non c’è affatto: gli Agenti di Polizia Penitenziaria devono andare al lavoro con la garanzia di non essere insultati, offesi o - peggio - aggrediti da una parte di popolazione detenuta che non ha alcun ritegno ad alterare in ogni modo la sicurezza e l’ordine interno. È sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per fronteggiare le molte criticità del sistema penitenziario del Veneto". Verona: a Montorio cinque detenuti tentano il riscatto con il diploma alberghiero Corriere di Verona, 22 giugno 2017 È stata una delle prove più difficili a cui si sono dovuti sottoporre gli insegnanti chiamati ad esaminare i maturandi: una lunga trafila di burocrazia e permessi. Il tutto per poter consentire a cinque particolari studenti di sostenere gli esami laddove si trovano: in carcere. Per la prima volta nella sua storia ventennale, alla casa circondariale di Montorio arriva la maturità. Non tanto persone (com’è già accaduto in passato) che hanno deciso di portare avanti il proprio percorso di studi una volta condannati, ma per il primo corso collegato a una scuola superiore organizzato all’interno della prigione: quello dell’alberghiero Berti. La prima classe è partita in via sperimentale quattro anni fa: venti gli studenti, calati anno dopo anno. Scherzando, ma non troppo, si può dire che è la dispersione scolastica che tutti si augurerebbero: studi interrotti per fine pena. Ieri i commissari si sono recati in carcere: per i detenuti, naturalmente, le stesse prove degli altri maturandi, stessa ora di inizio e di conclusione. "È un risultato importante - commenta il preside Antonio Benetti - anche perché abbiamo dovuto superare diverse prove. È stato fondamentale il riconoscimento del ministero, che ha parificato il corso alla classe serale per adulti, rendendo possibile accorciare gli anni da cinque a tre". Dei cinque detenuti che si sottoporranno all’esame, tre sono stranieri, due italiani che avevano iniziato proprio l’alberghiero, abbandonando poi gli studi. A fare da apripista per l’esperimento il corso professionale per panificatori organizzato sempre nella casa circondariale di Montorio per diversi anni. "Abbiamo tutta l’intenzione di continuare - annuncia Benetti - l’esperienza è stata promossa anche dagli stessi docenti: ne sono stati coinvolti una ventina, tutti molto toccati dal percorso fatto assieme ai carcerati". Napoli: il carcere, un mondo di malavita solitudine e riscatto di Donatella Trotta Il Mattino, 22 giugno 2017 Oggi il dibattito sul libro di Antonio Mattone. Un mondo a parte. Un microcosmo, per parafrasare Remo Bassetti, di "derelitti e delle pene" dove male e bene si intrecciano in una complessità difficilmente decifrabile, dall’esterno. Il tema carcere è di quelli che gli stereotipi giornalistici definirebbero "scottante"; in particolare a Napoli, dove Poggioreale - per il suo sovraffollamento e non solo - è diventato il paradigma italiano delle condizioni detentive, costantemente in bilico tra bisogno di giustizia e domanda sociale di sicurezza, violenza e buone pratiche, abbrutimento e nostalgia d’innocenza. E di umanità. Eppure, "da qualche parte bisogna pur cominciare" per riprendere la discussione - in movimento, dopo gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando - sul sistema penitenziario italiano: perché "umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è", sottolinea Antonio Mattone nel suo bel libro "E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere", raccolta di articoli pubblicati sul "Mattino" dal 2010 ad oggi, appena uscita per le edizioni Guida (pp. 214, euro 15) con una partecipe prefazione proprio di Andrea Orlando e la presentazione del direttore del "Mattino", Alessandro Barbano. Il quale, parlando di "lezione di buon giornalismo", del libro elogia il valore di "azione di coraggio e di memoria diretta contro una grande rimozione collettiva", oltre che di efficace testimonianza costellata di domande esistenziali e civili, che fungono da "sveglia" e "medicina per tutti". Se ne discuterà oggi alle ore 17.45 presso l’Istituto di Cultura Meridionale (Palazzo Adotta, via Chiatamone 63), dove il volume sarà presentato dall’autore con Barbano, con il magistrato Francesco Cascini, già capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane e con un intervento del ministro Orlando, in un incontro moderato dal direttore di Rai Vaticano Massimo Milone dopo i saluti di apertura di Gennaro Famiglierti, presidente dell’Istituto di Cultura Meridionale, e dell’editore Diego Guida. Il titolo del libro è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore, che di missive di carcerati ne ha ricevute circa 500, selezionandone alcuni piccoli stralci in una struggente parte finale del voi urne. Il libro prende il via dalla storia del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia - e che Mattone frequenta come volontario della Comunità di Sant’Egidio dal 2006 - per poi affrontare con dovizia di dati, storie, riflessioni e con cifra stilistica asciutta la costellazione di problemi che abitano dentro le mura della casa circondariale: il sovraffollamento, penoso in particolare d’estate; la violenza (adulta e giovanile) e i suicidi in cella; la domanda di salute (attualissima, si pensi al caso Riina); la questione Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) dopo la loro chiusura; i diritti negati in alcune situazioni carcerarie e le luci del volontariato, con ima sezione specificamente dedicata al racconto della visita di Papa Francesco, due anni fa, ulteriore svolta nel cammino della speranza di umanizzazione dietro le sbarre. I contributi di Mattone - napoletano, direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli e invitato a partecipare come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale - raccontano cosi le "voci di dentro", i nodi e le vicende spesso oggetto di polemiche pubbliche raccolte dall’autore in dieci anni di esperienza militante sul campo, che Andrea Orlando definisce intrisa di "passione civile e di umana solidarietà". Doti indispensabili per guarire dal primo male di cui soffre, secondo il ministro della Giustizia, il nostro sistema penitenziario: "il colpevole disinteresse del resto della società, che pensa di poter distogliere lo sguardo". Pisa: bando al risparmio, il Festival Volterra Teatro si fa scappare gli attori detenuti di Camilla Tagliabue Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2017 Armando Punzo, direttore del Festival unico nel panorama teatrale italiano e mondiale: "I criteri della gara sono solo economici". Il Comune senese: "Dispiaciuti, ma la rassegna prosegue". Dopo vent’anni lascio la direzione del Festival VolterraTeatro perché sono venute meno le condizioni minime per poterlo gestire": non vuole fare "polemica" Armando Punzo, ma l’amarezza è tanta e il destino incerto, soprattutto il destino di un festival importante come quello di Volterra, un unicum nel panorama teatrale italiano e internazionale, essendo la Compagnia della Fortezza di attori-detenuti - la più importante in Italia - diretta da Punzo, il cuore pulsante della manifestazione. Tutto ha inizio lo scorso 6 giugno, quando il Comune indice una manifestazione di interesse pubblico, invitando cinque compagnie di artisti a concorrere alla direzione del Festival: "L’unico parametro chiaramente definito della procedura selettiva consisteva nella migliore offerta economica, senza tenere conto della qualità del progetto, della direzione artistica e della gestione organizzativa. La discriminante, quindi, era unicamente il ribasso economico, a partire da un budget di 39.800 euro, divenuto assolutamente irrisorio", spiega Punzo. "Per me è una questione tecnica, non polemica nei confronti dell’amministrazione. Non mi interessa attaccare nessuno, lo si capisce anche dai toni della mia lettera (postata ieri sui social network e diffusa via email, ndr). Voglio solo dire che le condizioni che si sono create quest’anno, e di cui non conosco la motivazione, sono per la mia compagnia impraticabili. Questa procedura di gara pubblica ci ha messo in crisi per due motivi: innanzitutto perché è una selezione al ribasso, ovvero si aggiudica il bando chi si presenta con un budget inferiore; in secondo luogo perché non ci sono i tempi tecnici di realizzazione del festival: quaranta giorni sono troppo pochi". Il sindaco di Volterra, Marco Buselli, si definisce "sorpreso dalla decisione di Punzo: per noi è stata un fulmine a ciel sereno. Nessuno ci aveva chiesto un incontro o un colloquio; ho appreso la notizia ieri notte su Facebook. Non è corretto poi affermare ‘lascio la direzione del festival’, poiché il direttore si decide di anno in anno, non è un ruolo fisso, anche se Punzo ha sempre vinto nelle ultime edizioni. A me spiace che Armando non abbia partecipato al bando, ma noi cosa potevamo fare? Cosa avremmo dovuto fare? L’investitura con la spada? Il settore pubblico ha le sue regole di erogazione dei fondi, e a quelle ci siamo attenuti. Mi rammarico di non aver avuto nemmeno un confronto con la Compagnia della Fortezza, la quale, va detto, è sostenuta anche da contributi comunali. Il festival, però, è un’altra cosa". Ribatte Punzo: "Proprio il grande rispetto che abbiamo per i soldi pubblici ci ha imposto di agire secondo coscienza, e di non partecipare a questa chiamata, che privilegia il risparmio a scapito della qualità artistica. Come si fa a realizzare in quaranta giorni scarsi un festival di respiro europeo? Il nostro non è un capriccio ma una questione tecnica. I criteri di selezione da parte dell’ente pubblico sono più che legittimi, e funzionano benissimo, ad esempio, per comprare i computer degli uffici comunali, ma non sono adatti per selezionare un progetto artistico. Io sono un artista, sono un regista e lavoro per l’arte, per avere cittadini migliori. Cosa sta succedendo alla cultura in Italia?". Dal Comune fanno sapere che il Festival si terrà regolarmente, come ogni anno, l’ultima settimana di luglio, dal 24 al 30, mentre il nome del nuovo direttore si conoscerà lunedì, giorno in cui saranno aperte le buste di gara. La rassegna, però, è innegabile, ha smarrito il suo cuore, il suo centro nevralgico, ovvero la Fortezza medicea, in cui lavora e si esibisce ogni anno la compagnia di attori-detenuti più blasonata del Paese. Il sindaco Buselli assicura che "non ci sarà competizione tra lo spettacolo in carcere e le pièce sui palchi cittadini. Sicuramente il lavoro di Punzo e della Compagnia della Fortezza è stato fondamentale e centrale per il festival, ma non va bene personalizzare". Intanto Punzo continua le prove dentro al carcere: quest’anno, dal 25 al 29 luglio, si vedrà il preludio del nuovo lavoro biennale, "Le parole lievi - Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato", ispirato all’opera di Jorge Luis Borges e parte del "Progetto Hybris": "Noi della Fortezza ci siamo tolti da Volterra Teatro ma il nostro lavoro va avanti", dentro o fuori dal cartellone festivaliero, dentro e fuori dalle sbarre. Catanzaro: "La città dolente 2.0", nel carcere un dibattito sul libro di Veltri catanzaroinforma.it, 22 giugno 2017 Alla presenza del consigliere regionale Wanda Ferro e dell’autore. Per una inversione di tendenza della Calabria occorre che ciascuno faccia la propria parte: la politica, innanzitutto, ma anche ogni componente della società civile - il mondo dell’economia, gli imprenditori, i professionisti, gli intellettuali, la scuola e l’università - che non devono abdicare al loro ruolo di stimolo. Solo se si uscirà dalla logica della lamentela per imboccare la strada dell’assunzione di responsabilità da parte di ciascuno si potrà dare alla Calabria uno scatto di orgoglio. È questo il principale messaggio che scaturisce dal libro del giornalista Filippo Veltri "la Calabria dolente" edito da Città del sole nel 2013 e poi aggiornato nel 2015 con l’edizione 2.0, in cui si affrontano i tanti e complessi problemi della regione, ma anche la mancanza del giusto approccio alle soluzioni. Nella sua riflessione Veltri ricorda come il panorama politico è sostanzialmente mutato, ma non sembra essere cambiata la percezione che si ha della Calabria anche in campo nazionale, mentre i calabresi sembrano non avere fiducia nella possibilità di un cambiamento. Di questi temi - e di quelli che saranno inseriti nel nuovo aggiornamento del lavoro di Veltri, di prossima pubblicazione con il titolo di "Cambia Calabria che l’erba cresce" - si è discusso nel corso di un incontro con circa 150 detenuti, ospitato ieri all’interno della casa circondariale "Ugo Caridi di Catanzaro" e al quale ha preso parte anche il consigliere regionale Wanda Ferro. L’iniziativa, voluta dalla direttrice dell’istituto Angela Paravati, è stata organizzata nell’ambito del laboratorio di scrittura e lettura curato dal prof. Nicola Siciliani De Cumis. "L’opportunità di parlare all’interno di un carcere - ha spiegato Veltri a margine dell’incontro - dimostra che c’è la possibilità di portare messaggi per quanto possibile positivi anche all’interno di una istituzione così complessa, e mi ha dato modo anche di constatare che ci sono istituzioni che si sforzano di dare input positivi all’esterno, innanzitutto alla classe politica, ma alla società intera, dimostrando che è possibile cambiare. Purtroppo la classe dirigente della Calabria non riesce sempre a dare il proprio contributo al cambiamento e, per restare sul piano della legalità, è evidente che se non viene supportata l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine sia nel contrasto alla criminalità organizzata che alla politica malata, finiremo per pestare acqua nel mortaio". Per Wanda Ferro il libro di Filippo Veltri racconta con onestà ciò che avviene in una Calabria "che resta dolente per la mancanza di risposte ai mali atavici che riguardano la sicurezza, la legalità, la sanità, e soprattutto la carenza di lavoro. Una Calabria che però non deve restare piegata su se stessa, ma deve fare sentire ciascuno parte di un percorso di crescita e di cambiamento. In questo processo deve essere chiamata in causa l’intera classe dirigente, ma anche la società civile, considerato che anche la mutazione del quadro politico, con l’arrivo al governo regionale di un ex comunista come Oliverio, non ha portato alcun cambiamento, anzi ha visto i problemi incancrenirsi ancor di più, a causa anche di una evidente incapacità di ascolto Modena: Festa della musica 2017, il jazz festival si apre in carcere giustizia.it, 22 giugno 2017 Le iniziative negli istituti penitenziari. Nata in Francia Il 21 giugno 1982 come manifestazione nazionale, popolare e gratuita, la Festa della musica è oggi celebrata in più di 60 paesi il giorno del solstizio d’estate. Musicisti di ogni fama e genere, solisti, cori, orchestre e band si esibiscono in strade, piazze, giardini, ma anche in luoghi "chiusi" come ospedali, case di riposo e carceri. Così oggi il Modena jazz festival sceglie di aprire la manifestazione con uno spettacolo proprio all’interno della casa circondariale di Sant’Anna dove alle 16,30 il "Collettivo amici del jazz" (Giulio Stermieri al pianoforte, Simone Di Benedetto al contrabbasso e Federico Negri alla batteria) va in scena in "Dal jazz al blues e ritorno". Una scelta, quella di inaugurare il festival dentro le mura di un carcere, dovuta- a quanto afferma Giulio Vannini, direttore artistico della kermesse - alla volontà di proporre "Lo swing come vera essenza del jazz, il jazz come musica di fratellanza". Nella casa circondariale di Milano San Vittore la Festa della musica è invece occasione per un concerto del coro gospel della sezione femminile accompagnato dalla cantautrice Ylenia Lucisano e dal chitarrista Renato Caruso. Il progetto è stato avviato nel mese di marzo 2016, promosso da Auser regionale Lombardia in collaborazione con la rete Camera del Lavoro metropolitana di Milano e con il supporto di Yamaha Music Europe Branch Italy. Festa dedicata a rap, hip hop e rock invece nell’istituto di Catanzaro dove ieri si sono esibiti Will, emergente dell’underground rap, accompagnato dal "giradischi" Dj Kerò, autore di dj set di culto, e Marco Polimeni, debuttante nonché ispiratore della performance. Marco è un detenuto che ha trovato nel rap la chiave espressiva adatta a raccontare sogni e delusioni, amore e rabbia dei "ragazzi baciati dalla sfortuna". Infine alcuni brani interpretati da "Soulshine", band che pratica un rock glorioso capace di sollevare entusiasmi nel pubblico composto da detenuti, operatori e familiari. Musicisti giovani dai molti meriti, non ultimo quello di aver contribuito a diffondere, aderendo all’iniziativa, il messaggio di partecipazione e integrazione di cui la musica è portatrice universale. [AB] Caserta: Festa della musica 2017, suoni anche in carcere di Biagio Salvati Il Mattino, 22 giugno 2017 Il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere e quello di Carinola, diretti rispettivamente da Carlotta Giaquinto e Carmen Campi, fra gli istituti carcerari italiani che ospiteranno oggi alcuni spettacoli in occasione della Festa internazionale della musica. La giornata dedicata alla musica, organizzata dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, sarà l’occasione per offrire agli ospiti un momento diverso da quello della routine dei giorni di reclusione. A Santa Maria Capua Vetere, nell’apposita sala teatro all’interno della Casa Circondariale intitolata al generale "Francesco Uccella" (ore 15,00) si terrà uno spettacolo canoro proposto dall’Associazione OP Music di Napoli, interpretato dal duo Mr. Hyde, con intermezzi di cabaret a cura di quattro artisti del format televisivo Rai, Made in Sud. Gli spettatori coinvolti saranno detenuti (sia gli uomini che le donne) appartenenti ai reparti cosiddetti di Alta Sicurezza, Tevere e Senna. Ludo Brusco e Rudy Brass, meglio conosciuti come Mr. Hyde hanno aderito all’invito dell’associazione Chiocciola Tv mentre sono impegnati in concerti ed esibizioni in tutta Italia con la promozione del nuovo singolo M’innamorerò di te 2.0, tratto dall’album Dove Sarai. Esattamente un anno fa, i Mr. Hyde affiancarono Gigi D’Alessio nello storico concerto allo stadio San Paolo di Napoli. Oggi i Ludo e Rudy saranno affiancati da numerosi comici di Made in Sud e da altri artisti durante l’evento fortemente voluto, oltre che dalla direttrice del carcere, anche dal dottor De Simone e dalla dottoressa Tesoro, educatori della casa circondariale. Diverse le autorità invitate alla kermesse, tra cui il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone; il direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Prap di Napoli, Domenico Schiattone: i magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere; la Garante Regionale dei detenuti professoressa Adriana Tocco; il responsabile della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, Antonio Mattone ed il direttore dell’Ufficio Esecuzione Penale esterna di Caserta. Una manifestazione simile si è svolta anche lo scorso anno nel carcere sammaritano e, sempre l’anno scorso, c’erano state iniziative simili in occasione della Giornata mondiale del teatro. Nel penitenziario di Carinola, dalle 9,30 del mattino, la Giornata della musica si svolgerà con un concerto allestito nel campo sportivo al quale assisteranno circa 300 detenuti. L’evento è stato organizzato grazie alla collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio, l’Istituto di Scuole Superiori "Agostino Nifo" di Sessa Aurunca (diretto dal professor Giovan Battista Abbate) e la Direzione della Casa di Reclusione. Per l’occasione, la consulenza artistica sarà curata dal maestro Filippo Morace (cantante di musica lirica e docente al Conservatorio Musicale di Salerno). Gli artisti che hanno dato la loro disponibilità ad esibirsi nel concerto sono: Francesco Buzzurro (uno dei più apprezzati e poliedrici chitarristi italiani, votato dalla rivista di settore musica jazz come uno dei più talentuosi del panorama); i ragazzi del liceo musicale dell’Istituto "Agostino Nifo" di Sessa Aurunca, diretti dal professore Gerardo Valente ed il gruppo canoro della Casa di Reclusione di Carinola. Con lo spirito di contribuire a veicolare il messaggio di cultura, integrazione, armonia e universalità contenuto nella musica, anche quest’anno, dunque, le case di reclusione hanno aderito all’evento mettendo a disposizione spazi per dare visibilità alle manifestazioni in programma. Comuni associati per i servizi Importanti iniziative, nel comparto delle Politiche Sociali, promosse e realizzate dai Comuni di Sparanise, Capua, Bellona, Vitulazio, Calvi Risorta, Pignataro Maggiore; Giano Vetusto, Pastorano, Camigliano e Rocchetta e Croce. Nell’ambito territoriale C9 è partita una short list di professionisti del sociale per agevolare la reperibilità di competenze non disponibili nei singoli Comuni. Un altro importante progetto è un campus estivo per 190 minori, tra i 6 e i 16 anni, anche disabili. "Ogni Comune - dichiara il vicesindaco di Capua Carmela Del Basso deve garantire alle fasce più deboli azioni concrete di tutela. Bisogna continuare a lavorare con serietà per individuare ulteriori progetti". "Con le risorse finanziarie sempre più scarse, bisogna - dice Anna Trabucco, assessore alle Politiche Sociali di Sparanise trovare soluzioni innovative alle necessità sempre più complesse di chi è esposto al rischio di marginalità e a un disagio socio-economico". Maggiori informazioni potranno essere reperite sul sito istituzionale degli enti municipali promotori. Napoli: al Teatro Festival Italia vittime e carnefici in scena sul palcoscenico della giustizia di Diletta Capissi Il Dubbio, 22 giugno 2017 Due spettacoli di Roberto Andò al Napoli Teatro Festival Italia. La suggestiva cornice del Maschio Angioino (più esattamente di Castel nuovo di Napoli) è solo il palcoscenico per un’intensa ma anche amara riflessione sulla giustizia, attraverso la messa in scena di "È una commedia? È una tragedia?" e In "Attesa di Giudizio". Due spettacoli nel progetto speciale intitolato alla Dea Bendata ideato e diretto da Roberto Andò che ha debuttato in anteprima assoluta al Napoli Teatro Festival Italia. Una scenografia efficace e piena di elementi simbolici e significativi della narrazione - a cui Andò ci ha abituati già dal primo spettacolo dedicato a Napoli e alla Ortese alla Darsena hanno impresso alla drammaturgia un carattere forte ed evocativo dei temi del processo e della giustizia. Diciotto toghe rosse appese simmetricamente, in file da tre, sulla facciata esterna della sala Carlo V, che fanno da sfondo all’impianto scenografico del palcoscenico che si estende nell’ampio cortile del Maschio Angioino e comprende spaccati di umanità varia, "vittime o carnefici" nel rapporto, mai risolto né risolvibile, con la propria ed intima, necessità di Giustizia. "È una commedia? È una tragedia?", di Thomas Bernhard, mai rappresentato in Italia, apre la rassegna. A seguire, In attesa di giudizio, dove Roberto Andò è anche autore del testo originale tratto da Il mistero del processo di Salvatore Satta. Un maestoso protagonista del teatro contemporaneo Fausto Russo Alesi diventa il giurista, l’io narrante ma anche scrivente di dubbi, perplessità sul trattato o sul mistero del processo nell’incontro con un altrettanto bravissimo interprete Giovanni Esposito, che vaga in modo ossessivo in vesti da donna. Insieme, profittando dell’incontro casuale, sviluppano un fitto dialogo sul teatro, di amore e odio per il teatro, appunto tragedia o commedia, che rimanda al ruolo del processo, alle tante similitudini che rivestono i protagonisti di un dibattimento in un’aula giudiziaria, accompagnati dalla bella voce della vocalist Simona Severini che, bendata, intona canzoni e musiche di grande intensità, (completano il cast gli attori Margherita Romeo e Giuseppe Russo). Mentre appaiono sullo scalone altri trentasei attori, alcuni in veste di Voltaire, Socrate, Pilato, Gesù di Nazareth, ma anche giudici, pm, avvocati difensori, un gorilla, e gente comune in attesa di giudizio. Nell’incontro casuale con lo sconosciuto, un giurista cerca la chiave di volta sul trattato del processo, questi rivela i dolorosi particolari di una vicenda singolare e complessa. Anni prima ha ucciso la sua donna, spogliandola delle vesti e gettando il corpo in un lago, ed è stato, per questo, arrestato, condannato e rinchiuso in galera. Ora, per la giustizia degli uomini è redento, ma i fantasmi e i rimorsi della coscienza non sono sufficienti per sentirsi espiato da una colpa irrisolta e irrisolvibile. "Il mondo è una unica giurisprudenza" è la riflessione che pongono i protagonisti sul trattato e si domandano se tra tragedia e commedia, in attesa di giudizio, è necessario verificare una possibilità per la giustizia. Dal singolare episodio scritto da Bernhard passa ad un’universale galleria sempre popolata di vittime e di carnefici, ancora affidato all’interpretazione di Fausto Russo Alesi e Giovanni Esposito, arricchito dalle voci di Renato Scarpa e Paolo Briguglia e da un "coro" che accoglie in scena quei 36 attori di diverse generazioni ma anche emblema di diversi episodi di cronaca, anche drammatici come la pedofilia. Ma che cosa è la giustizia, è il leit-motiv mentre si accendono i riflettori sul pubblico ministero e sull’avvocato difensore che si rimpallano ciascuno le motivazioni della condanna o della difesa in chiave volutamente grottesca. "Questo Paese - recita il protagonista è in attesa di un processo da 30 anni": prendono corpo le intercettazioni e l’uso dei contenuti privati che vengono diffusi. Sulle note di "Attenti al gorilla" di De Andrè si muovono in modo ritmico i protagonisti e i 36 attori assumono le vesti di giurati, desiderosi di emettere la condanna per crocifiggere Cristo sulla base della testimonianza di Barabba. Cosa è il diritto - si chiede Ponzio Pilato - cosa è la verità? A lui Cristo sembra un bravo uomo ma è la giuria a volerlo crocifiggere. E Ponzio Pilato se ne lava le mani. Il processo ha uno scopo. Ma il saggista Alessi replica che il processo e il giudizio sono atti, non scopi. Ma il processo tende a diventare fine a se stesso, appare come una partita infinita, un esercizio alimentato da una crisi spirituale, in cui si smarrisce la fede e dove l’umanità ha smarrito se stessa. Il diritto appare oggi come una entità inafferrabile. "Quando il direttore artistico Ruggero Cappuccio - sottolinea il regista Roberto Andò - mi ha invitato a partecipare al Napoli Teatro Festival Italia, ho subito pensato di riprendere il discorso dallo spettacolo Proprio come se nulla fosse accaduto: lì c’erano Napoli e la Ortese, mentre In attesa di giudizio ruota intorno a una riflessione sulla giustizia. Il nucleo fondante è il romanzo di Salvatore Satta in cui l’autore, essendo grande esperto di diritto, medita sul mistero del processo. Un concetto che corrisponde al mistero della vita vincolata all’idea che qualcuno un giorno darà un giudizio di noi". Lo spettacolo nasce dai fantasmi che si muovono nella mente di un giurista che convoca una moltitudine di persone, sia vittime che carnefici. Essi saranno tutti in scena: "Il pubblico - continua Roberto Andò - potrà vederli nel momento fatale in cui si incontrano facendo succedere tante cose, in quello che si rappresenta come teatro della mente. Del resto, il processo è una forma di teatro, di rappresentazione". Una requisitoria senza appello sul senso del processo. Una fuga sul giudizio, sull’angosciosa, e inane, pretesa del diritto di inseguire e bloccare nella norma il tumultuoso rinnovarsi della vita e dell’esperienza. Vi si alternano la voce di un assassino e quella di un giurista, entrambe impegnate a frugare nelle pieghe insensate e labirintiche dell’esistenza come forma giuridica". In attesa di giudizio conclude Andò - non è una riflessione cinica, ma tragica e amara: è dolorosa, ma lascia spazio alla pietà". L’installazione scenica e luci è di Gianni Carluccio, i costumi di Gianni Carluccio e Antonella D’Orsi, il suono di Hubert Westkemper, le musiche Marco Betta, assistente alla regia Luca Bargagna, prodotto da Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia e Nuovo Teatro diretto da Marco Balsamo. Antonio Mattone e l’umanità invisibile: 700 lettere dal carcere di Ferruccio Fabrizio articolo21.org, 22 giugno 2017 Intervista all’autore del libro "E adesso la palla passa a me" (Guida Editore). Uno dei killer del giudice Rosario Livatino, un giorno gli recapitò una busta. La penna più leggera di una pistola e la coscienza pesante come una montagna. Lettere dal carcere, senza l’istruzione e l’innocenza di Antonio Gramsci. Antonio Mattone, 56 anni, volontario storico della Comunità di Sant’Egidio, ne ha ricevute almeno settecento da assassini, trafficanti, rapinatori, estorsori. Anche balordi segnati da stupidi errori. Una compagnia poco simpatica avvicinata nel 2006 quando, timido e spaventato, mise piede la prima volta in una prigione. Un viaggio che sembrava al termine della notte, nell’umanità invisibile dove anche il respiro è sordo. Stazione di partenza Poggioreale, ancora oggi il carcere più affollato d’Europa con 2150 detenuti sui 57 mila sparsi nei 206 penitenziari italiani. Mattone li visita da dieci anni e ogni settimana, nei suoi circuiti incolori: detenuti protetti, alta sicurezza, isolamento. Sulmona, Secondigliano, Vasto. Celle con 16 uomini ammassati e inariditi dalla solitudine. E ci ha piantato un seme. Qualche ergastolano ha intravisto una luce, altri perfino il mare. Continuano a scrivergli, mentre il carcere ha cambiato anche lui. Quel lungo "viaggio" tra malavita e riscatto è diventato il suo primo libro, "E adesso la palla passa a me" (Guida Editore), citazione di un detenuto che così si rivolse a lui il giorno che uscì dalla prigione. La prefazione è del ministro della Giustizia Andrea Orlando, la presentazione del direttore del Mattino Alessandro Barbano. L’autore ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal ministro. Che cos’è la solitudine in una cella con dieci detenuti? "All’improvviso entri in un mondo sconosciuto, nel quale sei privato degli affetti più cari dove il tempo non passa mai e sei li a aspettare che succeda qualcosa, che ti chiami qualcuno, un avvocato, un agente. Significa essere anonimo nonostante la compagnia, tante volte poco raccomandabile. Chi entra in carcere per la prima volta ne resta segnato, se ne esce innocente non c’è risarcimento che tenga. È un’esperienza che devasta e marchia". San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale, differenze? "Più o meno l’ambiente è quello, si respira un clima cupo. Nel carcere si ritrova la legge della strada e se ci si accorge che una persona entra la prima volta, questo pesa. Un grande problema è quel 30 per cento di detenuti per esigenze di custodia cautelare, dunque in attesa di giudizio". Che cosa ti chiedono i carcerati? "Alcuni mi conoscono benissimo, chiedono gli arresti domiciliari, una visita, quelli che conosco in amicizia raccontano le loro pene, anche le gioie dentro un carcere, una condanna diminuita. Ma a volte non chiedono, esprimono solo la gratitudine per un incontro, per essere stati ascoltati". Innocenti dietro le sbarre, quanti ne hai conosciuti? "Quelli che hanno assolto difficile dire, tanti, non la maggioranza. Guarda c’è qualcuno che è stato condannato e mi sono convinto che è innocente, mi posso sbagliare ma dopo aver conosciuto la storia, la famiglia l’ho pensato. C’è anche chi è stato scagionato dopo anni di carcerazione preventiva o domiciliare. È l’aspetto più struggente, quello degli innocenti. Ma non mi sono mai posto come giudice, ero solo il volontario con il compito di sostenere e aiutare". Gli stranieri in carcere stanno peggio di tutti, scrivi "Una volta uno venne scalzo, dovemmo dargli delle ciabatte. Molti non hanno niente, la loro famiglia non sa nemmeno che sono stati arrestati e pensa che sia morto. Ne ho visti tanti privi di tutto, nemmeno il sapone per lavarsi, radunati per etnia, soprattutto magrebini, Gambia, Tanzania. La maggioranza è lì per droga, ma io non chiedo mai i reati, ne parlano loro. Poveri culturalmente, non comprendono la lingua italiana e non riuscivano a capire i diritti e i doveri del regolamento carcerario. Sottomessi psicologicamente ai detenuti esperti". Ricevi lettere da ergastolani calabresi e siciliani "Il male è un grande mistero. Dopo aver parlato con loro più volte, intavolato dibattiti, constatato prove di umanità e solidarietà mi sono chiesto come quelle persone avessero potuto compiere atti così spietati. L’incontro con ergastolani calabresi e siciliani mi ha illuminato, dopo decenni di galera erano stati declassificati dal regime del 41 bis. Hanno fatto un cammino, uno mi raccontava che stava male e si è messo a pregare, colpisce che sono tutti credenti. Una volta, dopo una strage di cristiani in Pakistan da parte di musulmani, dissi che non tutti i musulmani erano cattivi. E loro, gente che aveva ammazzato senza scrupoli, mi guardavano sorpresi: "Antonio ma mica ce l’hai con noi?", come a dire, mica siamo noi quelli cattivi". Totò Riina deve morire in carcere anche malato? "Si fanno semplificazioni, conosco detenuti poveri e malati morti in carcere da soli. A me Riina non fa nessuna simpatia, mi inquieta ma sarà un giudice di sorveglianza a valutare, non l’uomo della strada. In linea di principio se uno sta male e non nuoce a nessuno, è un fatto di pietà. Lo Stato non può essere come loro, come gli assassini". Gianni Morandi idolo a Poggioreale un anno fa, state pensando a un tour? "Evento storico, travolgente, anche adesso che ci sentiamo stiamo pensando a un altro concerto, un tour nelle prigioni è un po’ complicato ma ci pensiamo e vediamo se ci riusciamo. Morandi è molto intelligente e sensibile, rimase colpito e affascinato da quell’esperienza a Poggioreale e la sera mi richiamò, voleva continuare a parlarne. A Napoli è legato da quando girò film da militare, a Bologna proprio non vuole andare in carcere, mi dice: Io che sono bolognese, devo andare altrove…". L’esperienza più forte di questi dieci anni "Il clima del pranzo di Natale, centinaia di persone che hanno commesso errori, anche gravi reati, attorno alla stessa tavola, come fratelli". Il carcere è cambiato? "Poggioreale porta il nome di Giuseppe Salvia, il direttore che Cutolo fece uccidere. Cutolo costruì il suo potere in carcere, anni in cui tra le sbarre si sentivano gli spari delle mitragliette e ci si ammazzava a coltellate. Oggi non è così, c’è stata la reazione dello Stato con le squadre speciali a picchiare duro e da lì e nato poi un clima di sopraffazione degli agenti e si è passati a un altro eccesso. Oggi sta cambiando". Che cosa c’è da fare subito? "Più lavoro e un ambiente migliore. Meno personale di polizia, più educatori e volontari. E l’ergastolo bianco è una vergogna che il Parlamento deve eliminare: dopo la pena i detenuti vanno in una casa di lavoro e aspettano che un giudice decida se sono ancora pericolosi. È un modo per tenere reclusi senza scadenza gli ultimi, i più scartati". In Germania l’80 per cento dei detenuti ogni giorno va al lavoro "Un conto è il lavoro ed è bene che ci sia, un altro la casa di lavoro che equivale all’ergastolo bianco per 3-400 dimenticati sistemati soprattutto a Vasto in Abruzzo, la più grande d’Italia". Tutte queste critiche le hai girate al ministro Orlando che ti ha scritto la prefazione del libro? "Guarda, il mio libro non sono tutte rose e fiori, a Orlando gliele dico eccome, sull’ergastolo bianco per esempio mi risponde che purtroppo l’opinione pubblica non è pronta a eliminarlo". La politica seria non cavalca l’opinione pubblica "Sono d’accordo, il problema non è tanto lui o il singolo ministro ma il Parlamento. Finora più della politica han fatto le minacce dell’Unione europea sullo stato inaccettabile delle nostre carceri". Intanto nelle celle continuano a suicidarsi "I suicidi sono in diminuzione. Restano i momenti più a rischio: quando si entra e quando si esce e sale la paura di non farcela in un mondo che non si riconosce più. Il carcere è una cosa terribile, un posto brutto, eppure il più sicuro. Ma proprio come in un film, Le ali della libertà, chi dimostra di cercare il riscatto deve avere la speranza di rivedere una luce". Come battere i terroristi di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 22 giugno 2017 Per difenderci affidiamoci alle indagini di polizia, non alla retorica di guerra. Una considerazione su come combattere il terrorismo. L’Europa è stata colpita ripetutamente da atroci attentati terroristici, e forse lo sarà ancora. Chi compie e chi istiga queste azioni evidentemente le ritiene efficaci, ma non si tratta di efficacia militare perché non si vincono guerre così. L’efficacia è politica: un’azione terroristica riempie le prime pagine dei giornali, le aperture dei telegiornali, i leader politici reagiscono accorati, pieni di indignazione, cordoglio e fermezza. L’impatto è enorme. Il pubblicò reagisce con emozione. Cambiano le politiche delle nazioni, cambia la percezione dello stato del mondo. I terroristi ottengono quello che cercano: appaiono potenti, protagonisti della Storia. Arrivano ad affascinare giovani disadattati e ispirarli ad arruolarsi alla loro causa. Per combattere questo male, c’è una domanda che credo sarebbe utile porci. Ogni essere umano che muore ci tocca da vicino. Il dolore delle persone che lo hanno amato ci strazia. Di più, se la morte ha un colpevole. La domanda è questa: perché non ci commuoviamo egualmente per altre morti causate da crimini? Ci sono passanti uccisi da giovani che escono ubriachi da una discoteca, donne uccise da mariti gelosi, cittadini uccisi durante rapine, operai uccisi da direttori di cantiere che trascurano la sicurezza, neri americani uccisi da poliziotti spaventati, passanti uccisi in sparatorie di camorristi, e via via innumerevoli. Un padre a cui è annunciato che sua figlia è stata uccisa mentre attraversava la strada da uno che guidava ubriaco tornando da una discoteca, prova forse meno dolore dal padre di una ragazza uccisa in un attentato terroristico? Non possiamo fare la contabilità dei morti perché ogni vita umana ha valore infinito. Ma proprio per questo, non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che ci sono morti ammazzati in numero molto superiore alle vittime del terrorismo, e non ci commuovono altrettanto. Forse dobbiamo chiederci perché. La risposta è proprio il risalto enorme che viene dato al terrorismo da media e politici. Sono questi che ci mettono davanti agli occhi in maniera così bruciante e intollerabile i morti per terrorismo, e non altrettanto gli altri. La realtà non è che politici, giornali e televisioni dedichino grande spazio al terrorismo perché questo ci inquieta personalmente; è il contrario: sentiamo il terrorismo toccarci personalmente perché politici e media gli dedicano estrema attenzione. In fondo, i morti per terrorismo sono notizia non perché siano comuni, ma perché sono rari. Dove i morti sono tanti, non fanno più notizia. Il risultato è paradossale: molti di noi hanno paura ad andare a Parigi perché temono una bomba, quando in Francia finiscono all’ospedale per lesioni gravi moltissime più persone morse da grossi cani che per bombe. Abbiamo paura ad andare a Londra temendo attentati, senza renderci conto che per un europeo a Londra il rischio di essere investito per aver guardato dalla parte sbagliata attraversando la strada è enormemente maggiore del rischio di trovarsi in un attentato. Ci sono stati negli ultimi anni mediamente dieci volte più morti per incidenti stradali che per terrorismo, a Londra. Questa diffusa percezione così esageratamente distorta del pericolo indica, io credo, che qualcosa nella comunicazione non è corretto. Finisce per fare danni anche la sola paura, come è successo a Torino. Credo allora che esista una ricetta semplice per sconfiggere il terrorismo: smorzare la parossistica reazione che gli accordiamo. Ridurlo alla proporzione del dolore che causa. Trattarlo come trattiamo i mariti che uccidono mogli, i pirati della strada e i rapinatori che sparano. Lati disgustosi della società, da combattere, come gli altri, non più degli altri. Non dargli l’importanza che gli stiamo dando. Polizia, servizi segreti, e chi di dovere, lo combattano al meglio che possono, come fanno con gli altri criminali. Muniamoci di leggi efficaci, se servono. Ma smettiamo di trattare i morti ammazzati in un modo in maniera così diversa dai morti ammazzati in un altro. Molte delle esagerate risorse impiegate oggi in Europa per la sicurezza antiterrorismo sono completamente inefficaci; non solo non "rassicurano", come si vorrebbe, ma anzi, aumentano l’inquietudine. Ci proteggerebbero di più se usate per combattere pericoli più reali, come la sicurezza stradale, dove i morti in Europa sono decine di migliaia ogni anno. Se riduciamo i terroristi a piccoli assassini di serie B, che è quello che in realtà sono, togliamo al terrorismo la sua efficacia, e disarmiamo la sua unica vera arma: la spettacolarizzazione. Se invece continuiamo a ingigantirlo, facciamo il gioco dei terroristi: diamo loro potere, li glorifichiamo, facciamo loro pubblicità, li aiutiamo. È duro dirlo, ma in larga parte è colpa nostra se poi ci sono giovani affascinati dalla potenza di un coltello. Chi dovrebbe smetterla di dare importanza al terrorismo? Due categorie, secondo me: giornalisti e politici. Le notizie su attentati terroristici non vanno certo censurate. Ma vorrei vederle relegate nelle pagine di cronaca nera in fondo al giornale, dove ci sono altrettanti dolori e altrettanti strazi, invece che focalizzare l’attenzione per settimane, facendo da cassa di risonanza al gioco di specchi di cui vive il terrorismo. Vorrei appellarmi al senso di responsabilità del giornalismo, senso di responsabilità che in altre occasioni ha saputo manifestarsi, e chiedere che si abbia l’onestà di parlare egualmente delle vittime di tutti i crimini, di tutti i dolori che ci straziano. Ma i giornalisti spesso non fanno che rispondere al peso che i politici di tutti paesi danno al terrorismo. Perché i politici lo fanno? Lo fanno d’istinto, da sempre. Usare il sangue per eccitare le emozioni e presentarsi come leader a cui affidarsi quando "il nemico ci attacca" è, dalla notte dei tempi, strategia usata senza pudore da chi cerca potere. Un attacco terroristico è l’evento simbolico ideale per riunire le comunità attorno ai loro leader, scatenando istinti tribali profondi: quelli che lo psicologo Ronald Lang chiamava "Loro contro Noi, Noi contro Loro". E noi ci facciamo incantare da questa antica favola devastante, senza pensare che fra "Loro" c’è un sacco di brava gente, come da noi; e fra "Noi" ci sono assassini, come da loro. Quando c’è un attacco terroristico, i politici mostrano la loro commozione, il loro sdegno, la loro determinazione, la loro risolutezza a vincere, e ci chiedono di votare per loro. Ma ogni volta che un politico gonfia di importanza un atto terroristico fa esattamente il gioco dei terroristi. Glorifica e ingigantisce una piccola azione ignobile. Dà potere al terrorismo. Spinge un altro giovane disadattato a ripeterla. Vorrei che le persone ragionevoli sapessero vedere questo gioco di tanti politici, e sapessero dare fiducia invece ai politici seri che sanno pensare al bene comune e non usano paroloni sul terrorismo per farsi belli. Dichiarazioni altisonanti che la nostra intera civiltà è sotto attacco, che noi non cederemo, che non ci faremo piegare, e simili, non significano nulla, se non dare immenso peso politico a dei piccoli assassini. Ogni vita è infinitamente preziosa, e aspetto un politico che non ingigantisca l’importanza di alcuni omicidi rispetto ai molti altri, per trasformarla in una crisi planetaria. Per trasformarla, per calcolo politico, nel sanguinario "Noi contro Loro". Per difenderci dal terrorismo, affidiamoci alle indagini della polizia, non alla retorica di guerra. Non cadiamo nel loro gioco. Caporalato. Schiavizzate e insultate, retata anti-caporali in Puglia di Gianmario Leone Il Manifesto, 22 giugno 2017 Otto indagati, un arresto in carcere e due ai domiciliari. Un’azienda di Ostuni che reclutava braccianti costrette a lavorare oltre 10 ore al giorno, contro le 6,5 dichiarate in busta paga con tanto di truffa all’Inps, a volte dalle 3 del mattino a mezzanotte, finanche 7 giorni su 7. Come non bastasse, i lavoratori impiegati in provincia di Bari nei campi di Polignano a Mare erano costretti a versare 10 euro a testa per ogni giornata lavorativa, a titolo di rimborso spese carburante. In pratica, una vera e propria tangente. È una storia di sfruttamento senza limiti e regole, di dignità calpestata oltre ogni decenza, quella svelata ieri dalla Procura di Brindisi, che ha arrestato Anna Maria Iaia (50 anni, di San Vito dei Normanni), dipendente dell’azienda 2 Erre srl, che secondo l’accusa gestiva un giro di associazione per delinquere dedita allo sfruttamento. Ai domiciliari Giuseppe Bello (49 anni, di San Michele Salentino) e Anna Errico (73), rispettivamente autista del pulmino che conduceva le braccianti nei campi dove erano richieste e la madre della presunta caporale. Secondo l’inchiesta, Bello esercitava anche l’attività di vigilanza sulle prestazioni lavorative della squadra di braccianti che lui controllava, impegnata nel magazzino o nelle campagne, per conto dell’azienda brindisina. Nelle carte dell’inchiesta si legge che l’uomo concordava con la stessa Iaia le assunzioni. Fra il gennaio 2015 e nel novembre 2016 avrebbero reclutato 22 braccianti agricoli trasportandoli quotidianamente da San Vito dei Normanni a Carovigno a bordo di un veicolo Fiat Ducato intestato proprio alla 2 Erre srl, e di un veicolo Fiat Scudo di proprietà della donna. L’attività di caporalato sarebbe proseguita anche tra il 4 novembre 2016 e l’1 marzo 2017, quando avrebbero reclutato almeno altri 28 operai, dai quali si sono fatti consegnare copia dei documenti di identità e dei tesserini di Codice fiscale da utilizzare per li contratti di lavoro e le buste paga. Gli inquirenti hanno visionato i registri delle presenze e delle paghe dove, a fronte di un totale complessivo di salario lordo pari a 131,97 euro, veniva invece corrisposta la paga giornaliera di appena 59,53 euro. I braccianti ricevevano ogni mese dalla Iaia l’assegno dello stipendio e relativa busta paga, insieme con un bigliettino scritto a mano sul quale era annotata la somma da dover restituire in nero per onorare il debito dei 10 euro giornalieri. Quindi, dopo aver incassato l’assegno in banca tornavano a casa della donna per consegnare l’importo da restituire. Addirittura, è stato documentato, secondo quanto riferito dal procuratore facente funzioni di Brindisi, Raffaele Casto, un tentativo di inquinamento delle prove, provando a costringere alcuni braccianti a negare di aver corrisposto i 10 euro per il trasporto. Indagate a piede libero altre quattro persone: tra questi il titolare dell’azienda, Francesco Semerano di Ostuni. I tempi recenti dell’inchiesta hanno consentito agli inquirenti di fare riferimento anche all’ultima normativa in materia di caporalato, quella del 2016. La nota lieta, se così si può dire, è che l’inchiesta è partita grazie alla denuncia delle stesse braccianti. I carabinieri hanno effettuato anche intercettazioni telefoniche e ambientali, hanno acquisito tabulati telefonici e usato i sistemi gps. E proprio da queste intercettazioni emerge il lato più oscuro e drammatico di questa vicenda. "Zoccola, puttana, fai veloce che stasera è tardi sennò facciamo notte": questo il torno con il quale il Bello si rivolgeva alle braccianti, censurate dal gip Paola Liaci nell’ordinanza di custodia cautelare. Con la Iaia che non era da meno: "Tu non capisci un cazzo di quante giornate hai fatto", dice rivolta ad una delle braccianti in una conversazione telefonica. "Quando ti arriva la disoccupazione un bacio in fronte mi devi dare, hai capito? Un bacio in fronte". Una stretta intorno al caporalato da parte della procura di Brindisi, che aveva tratto in arresto altre quattro persone, tutte di origini italiane, appena due giorni fa, per aver sfruttato nei campi di ciliegie e nelle vigne di Turi, in provincia di Bari, almeno 15 donne (italiane e due straniere) originarie del brindisino e del tarantino. Anche in questo caso, orari ben oltre le 6 ore e mezza del contratto e paghe decurtate: ancora una volta il tutto partito dalle denunce delle lavoratrici. Ed i soliti, orrendi insulti intercettati che lasciano sgomenti: "Alle femmine pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano", e "femmine, mule e capre tutte con la stessa testa". Il "pianeta migranti", l’istantanea dei nuovi italiani di Vladimiro Polchi La Repubblica, 22 giugno 2017 Chi sono, quanti sono, da dove vengono. Gli oltre 5 milioni di migranti che vivono, studiano e lavorano nel nostro Paese guadagnano in media il 30% in meno degli italiani, oltre 800mila vanno ancora a scuola, 350mila fanno impresa. Vivono per lo più al Nord. In testa ci sono i romeni (22,9%), seguiti dagli albanesi (9,3%) e dai marocchini (8,7%). Provengono da 198 Paesi diversi, vivono per lo più al Nord, guadagnano in media il 30% in meno degli italiani, oltre 800mila vanno ancora a scuola, 350mila fanno impresa. Sono i "nuovi italiani": gli oltre 5 milioni di migranti che vivono, studiano e lavorano nel nostro Paese. A fotografarli, mentre in Senato si discute di ius soli (leggi come funziona negli altri paesi europei) è l’ultimo Rapporto immigrazione di Caritas e Migrantes, giunto quest’anno alla XXVI edizione. Il "pianeta immigrazione". Nel 2015 sono 243,7 milioni le persone che nel mondo vivono in un Paese diverso da quello d’origine. Dal 1990 al 2015, il loro numero è aumentato del 59,7%. Dopo la crisi del 2008 anche gli stranieri residenti nell’Unione europea hanno continuato a crescere, arrivando a quasi 37 milioni, con un’incidenza sulla popolazione totale del 7,3%. I dati diffusi dall’Istat mostrano che al 1° gennaio 2016 risiedevano in Italia 60.665.551 persone, di cui 5.026.153 di cittadinanza straniera (8,3%). Il 58,6% degli immigrati vive al Nord, il 25,4% al Centro, il 15,9% nel Mezzogiorno. In Italia sono presenti 198 nazionalità, su un totale mondiale di 232 (fonte Onu): poco più del 30% proviene da un Paese dell’Unione. In testa ci sono sempre i romeni (22,9%), seguiti da albanesi (9,3%) e marocchini (8,7%): nel complesso, queste tre nazionalità rappresentano il 40,9% del totale degli stranieri residenti. Cittadini non comunitari. Al 1° gennaio 2016, con un aumento di sole 1.217 persone rispetto alla stessa data del 2015, sono stati concessi 3.931.133 permessi di soggiorno, di cui il 48,7% riguarda donne. Rispetto alla durata, 1.681.169 permessi sono "con scadenza" (40,5%) e 2.338.435 "di lungo periodo" (59,5%). Nuove cittadinanze. Al 31 dicembre 2015 su un totale di 178.035 acquisizioni di cittadinanza, 158.891 riguardano non comunitari e 19.144 comunitari, con un aumento rispetto al 2014 del 37,1%. Coloro che acquisiscono la cittadinanza per trasmissione dai genitori (dopo che uno di loro l’ha ottenuta) e coloro che, nati nel nostro Paese al compimento del diciottesimo anno di età scelgono la cittadinanza italiana, sono passati da circa 10mila nel 2011 a oltre 66mila nel 2015. Scuola e famiglia. A fine 2015, i matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera sono 24.018, pari al 14,1% delle nozze totali. Nell’anno scolastico 2015/2016, gli alunni con cittadinanza non italiana sono 814.851 (il 9,2% del totale). I nati in Italia sono il 58,7%. Mercato del lavoro: luci e ombre. La quota di lavoratori non qualificati tra gli immigrati è del 36,5%, contro il 7,9% degli italiani. Non solo. Mentre la retribuzione media mensile dichiarata dagli italiani è di 1.356 euro, quella degli stranieri scende a 965 euro, pari al 30% in meno. Secondo i dati Unioncamere, le imprese di cittadini non comunitari al 31 dicembre 2015 sono 354.117: un aumento rispetto al 2014 del 5,6%. Gli stranieri in carcere. La popolazione carceraria straniera, secondo i dati del Dap aggiornati al 31 dicembre 2016, è di 18.621 detenuti, di cui 17.763 uomini e 858 donne, su un totale di 54.653 detenuti (34%). Il Marocco è la nazione più rappresentata negli istituti di pena (3.283 detenuti, pari al 17,6%), seguita dagli stranieri di nazionalità romena (2.720, il 14,6%), albanese (2.429, il 13%), tunisina (1.998, il 10,7%), nigeriana (904, il 4,9%), egiziana (705, il 3,8%), senegalese (461, il 2,5%) e algerina (408, il 2,2%). Sui detenuti stranieri pendono condanne soprattutto per reati contro il patrimonio (8.607). Seguono imputazioni per violazione delle norme sugli stupefacenti (6.922) e le condanne per i reati contro la persona (6.751). Migranti. Ius soli, ecco come funziona nel resto d’Europa di Monica Rubino La Repubblica, 22 giugno 2017 Ogni Paese ha le sue regole. L’Ue non ha competenza in materia. Le norme attualmente vigenti in Italia sono tra le più restrittive. La riforma ci permetterebbe di allinearci a Francia, Germania e Gran Bretagna. Le norme per acquisire la cittadinanza nei diversi Paesi dell’Unione europea variano notevolmente a uno Stato all’altro. Questo perché la materia è di stretta competenza nazionale e l’Ue non ha voce in capitolo a riguardo, come sottolineano anche dalla Commissione rispondendo alla richiesta del M5S di fare dello Ius soli una "questione europea". Non c’è dunque alcune legge dell’Unione che stabilisca dopo quanti anni, o a quali condizioni, uno Stato membro debba concedere la cittadinanza. L’Italia. Le norme attualmente vigenti in Italia sono tra le più restrittive d’Europa. In base a una legge del 1992, infatti, chi nasce nel nostro Paese da genitori stranieri può già diventare cittadino italiano ma soltanto quando ha compiuto 18 anni. Nel testo in discussione al Senato si prevede uno Ius soli temperato: i figli di migranti nati in Italia potranno diventare cittadini italiani se i genitori hanno il "permesso di soggiorno di lungo periodo", riconosciuto a chi abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per 5 anni sul territorio nazionale. Per gli extra Ue sono richiesti anche reddito minimo, alloggio idoneo, superamento di un test di conoscenza della lingua. Lo Ius soli temperato permetterebbe a 600mila ragazzi nati dal ‘98 a oggi di diventare cittadini italiani. La riforma introduce, inoltre lo Ius culturae, secondo cui può ottenere la cittadinanza il minore straniero arrivato prima di 12 anni che abbia frequentato in Italia uno o più cicli scolastici. In questo caso i potenziali nuovi cittadini italiani sono circa 200mila. L’approvazione definitiva della nuova legge permetterebbe di allinearci a Paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna. Vediamo allora come è regolata la cittadinanza negli altri principali Paesi europei. Francia Ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni. Germania È cittadino tedesco automaticamente chi nasce in Germania, se almeno uno dei genitori risiede regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. Regno Unito Ha la cittadinanza chi nasce da un genitore con un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Percorso facilitato per i figli di stranieri residenti da 10 anni. Spagna L’acquisizione della cittadinanza per la seconda generazione è piuttosto semplice: se il soggetto nasce in Spagna e i genitori sono nati all’estero è sufficiente un anno di residenza nel paese. La procedura di naturalizzazione per tutti gli altri soggetti comporta la residenza per un periodo di 10 anni e la rinuncia alla cittadinanza precedente. Il tempo di residenza in Spagna si riduce per alcune categorie: 5 anni per i rifugiati, 2 anni per i cittadini dell’America Latina e le persone originarie di Andorra, Filippine, Guinea Equatoriale, Portogallo. Belgio La cittadinanza è automatica se si è nati sul territorio nazionale, ma quando si compiono 18 anni o 12 se i genitori sono residenti da almeno dieci anni. Paesi Bassi In base alla legge del 2003, la cittadinanza è prevista non solo per i soggetti nati in Olanda ma anche per quelli che vi risiedono dall’età di 4 anni. Danimarca Per la naturalizzazione servono 9 anni di residenza e bisogna superare esami su lingua, storia, struttura sociale e politica del Paese. Grecia I figli di immigrati acquisiscono la cittadinanza se i genitori sono residenti da almeno 5 anni. Portogallo Ius soli automatico alla terza generazione di immigrati. La seconda generazione può accedere alla cittadinanza dalla nascita su richiesta. Svezia La legge si basa sullo ius sanguinis, ma la riforma del 2006 prevede la cittadinanza svedese per i minori che hanno vissuto per 5 anni in Svezia. Austria La naturalizzazione richiede 10 anni di residenza, perché viene considerata come il riconoscimento di un’integrazione riuscita. Migranti. L’Italia cerca ascolto in Europa di Carlo Lania Il Manifesto, 22 giugno 2017 Gentiloni: non possiamo continuare a cavarcela da soli. Ieri una conferenza internazionale, oggi il vertice dei capo di stato e di governo dove Roma proporrà di sbarcare anche in altri paesi le persone salvate nel canale di Sicilia. "Dobbiamo andare molto rapidamente verso una politica comune nei confronti dell’Africa. Noi abbiamo aperto una strada e l’abbiamo aperta prendendoci le nostre responsabilità. Quello che vogliamo sapere dall’Unione europea è se su questa strada c’è, a livello politico e con le sue risorse, o se dobbiamo continuare a cavarcela da soli". Sono passati ormai più di due anni dall’inizio della crisi dei migranti, e al di là delle dichiarazioni di intenti quello tra Roma e Bruxelles continua a essere un dialogo tra sordi. O almeno con alcune delle istituzioni europee, come il Consiglio Ue. Proprio in vista del vertice dei capi di stato e di governo che si terrà oggi e domani a Bruxelles, ieri Paolo Gentiloni ha alzato i toni, lasciando intendere come l’incontro non sarà una passeggiata per nessuno. Sempre a Bruxelles, però, ieri si è tenuta una conferenza internazionale sull’immigrazione voluta dal presidente del parlamento europeo Antonio Tajani proprio come strumento di pressione verso i leader europei che tra i temi da trattare in agenda hanno sì Brexit e sicurezza ma anche l’immigrazione. "Non possiamo perdere altro tempo, serve agire rapidamente e con grande determinazione" ha detto Tajani aprendo i lavori della conferenza alla quale hanno partecipato anche il presidente della commissione Ue Jean Claude Juncker, l’alto rappresentante della politica estera Federica Mogherini, il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e il leader libico Serraj (sarà un caso ma il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, invitato, non si è fatto vedere). E forse anche per questo Tajani non ha gradito le accuse del premier italiano: "Parlare di Europa è troppo generico, Gentiloni dovrebbe prendersela con i suoi colleghi capi di stato e di governo". Il che non è detto che non accada nelle prossime ore. Riforma del diritto di asilo europeo, a partire da Dublino, e ricollocamenti, sono temi sui quali lo scontro se non sicuro, è quanto meno molto probabile, specie con i quattro di Visegrad, per nulla contenti della procedura di infrazione avviata nei confronti di Ungheria e Polonia per non aver accolto finora neanche un rifugiato. Su Dublino, Tajani loda la riforma preparata dalla commissione di Juncker e annuncia che il parlamento è pronto ad approvarla entro l’estate. Si vedrà poi se passerà il vaglio del Consiglio Ue ma soprattutto se si supererà l’ipocrisia della "solidarietà flessibile" proposta dai paesi dell’Est che continua a penalizzare i paesi di primo sbarco. Al vertice di oggi, l’Italia si presenta comunque anche con un pacchetto di proposte che il premier ha discusso nei giorni scorsi con il presidente della Repubblica Mattarella compresa, se confermata, la nuova regola in base alla quale, una volta salvati nel Canale di Sicilia, i migranti possono essere sbarcati anche in un altro paese europeo e non solo in Italia come avviene oggi. Ce n’è abbastanza per rendere il clima incandescente. Ma nel dibattito europeo sull’immigrazione è sempre più al centro quanto accade sull’altra sponda del Mediterraneo. "Il punto vero è l’investimento massiccio sullo sviluppo dell’Africa", ha spiegato ieri Mogherini intervenendo alla conferenza di Bruxelles. "È indispensabile un piano europeo per il sviluppo economico e sociale, con la lotta contro il terrorismo e contro i cambiamenti climatici, per la democrazia e per i diritti umani"ha proseguito la rappresentante della politica estera dell’Ue. Su questo sembra esserci l’accordo di tutti, Consiglio Ue compreso. Nelle scorse settimane a Berlino si è tenuta una conferenza sull’Africa voluta dalla cancelliera tedesca e il continente sarà al centro anche del prossimo G20 che si terrà il 7 luglio ad Amburgo, sotto la presidenza tedesca. Un’attenzione voluta principalmente dalla cancelliera Merkel (che ha già stanziato 300 milioni di euro in progetti di formazione professionale e occupazione destinati inizialmente a Tunisia, Ghana e Marocco) e che trova pienamente d’accordo Gentiloni. Anche Tajani ha sottolineato come investire nei paesi di origine e di transito dei migranti possa aiutare a limitare i flussi diretti in Europa, spiegando come dal Fondo per l’Africa possono arrivare fino a 40 miliardi di euro da destinare in investimenti. "Se non agiamo subito, rischiamo di avere flussi dall’Africa di decine di milioni di persone", ha aggiunto. Ma davvero sarebbe un problema? Secondo alcuni studi a causa dell’invecchiamento della sua popolazione per evitare il collasso economico l’Europa avrà bisogno di almeno 100 milioni di migranti entro il 2050. Vista così, la questione ha tutto un altro aspetto. Migranti. Il piano dell’Italia: "non sbarchino solo da noi" di Marco Bresolin La Stampa, 22 giugno 2017 Oggi il vertice Ue, Roma vuole una gestione collegiale dei salvataggi in mare. Mogherini a Tusk: fare di più per aiutare i libici a pattugliare le coste. Nuovi criteri per aumentare il numero dei richiedenti asilo da redistribuire in Europa. Più fondi e un maggiore impegno delle altre capitali per gestire i flussi dalla Libia. Ma soprattutto la possibilità di far sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo anche nei porti degli altri Paesi europei. Paolo Gentiloni ha una missione ben precisa nella due giorni al Consiglio Europeo di Bruxelles che inizia oggi: tornare a casa con una serie di progressi sul fronte immigrazione (ma non sulla riforma di Dublino, su cui non c’è accordo). E sulla Libia gli fa da sponda il numero uno della diplomazia europea Federica Mogherini che in una lettera al presidente del Consiglio Ue Donald Tusk chiede maggiore sostegno per sostenere gli sforzi dell’Italia. Più ostica per Gentiloni l’altra sfida, che si aprirà questa sera e proseguirà forse nella notte. Ci sarà una riunione a 27 (senza Theresa May) dedicata al futuro delle due agenzie Ue attualmente a Londra, quella bancaria e quella del farmaco. Vanno definiti i criteri con cui scegliere le nuove destinazioni: l’Italia, che vuole portare l’Ema a Milano, si è opposta alla metodologia messa a punto da Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, su cui invece c’è accordo tra gli altri governi. La proposta prevede la definizione di alcuni criteri e la scelta tra tutte le città candidate attraverso un complesso meccanismo di votazioni tra i governi. Roma punta invece ad accorciare la lista e a dare l’ultima parola ai leader al Consiglio Europeo di ottobre. Stanotte toccherà a Gentiloni dare battaglia, ma il rischio di rimanere isolati è altissimo. Anche se il tema verrà affrontato solo domani (oggi i leader si concentreranno su Difesa e lotta al terrorismo), ieri in Parlamento il premier ha "caricato" le aspettative sul dossier immigrazione. "La velocità con cui l’Ue si muove è al di sotto delle esigenze", "ci dica se è con noi oppure se dobbiamo continuare a cavarcela da soli". Il motivo di tale enfasi è giustificato dal fatto che il lavoro diplomatico di questi giorni ha preparato un terreno molto fertile: nelle conclusioni l’Italia riuscirà a infilare due-tre passaggi che aprono spiragli. "Riusciremo a far passare il concetto secondo cui quella dell’immigrazione è una sfida strutturale e non più emergenziale" spiega una fonte diplomatica. In parallelo Federica Mogherini, con una lettera indirizzata a Donald Tusk, si è mossa nella sua veste di Alto Rappresentante per spingere il Consiglio a sostenere gli sforzi dell’Italia. Bisogna fare più per aiutare i libici a pattugliare le proprie acque, per migliorare le condizioni dei migranti nei campi in Libia, per aumentare i rimpatri volontari (4.500 dalla Libia in questi primi mesi del 2017, obiettivo 10.000 entro fine anno) e per pattugliare la frontiera libica meridionale. Richieste ribadite ieri dal premier Fayez al-Sarraj, a Bruxelles per una conferenza sull’immigrazione. C’è anche il progetto di creare un centro di coordinamento marittimo, per una gestione dei salvataggi in mare che coinvolga tutti i Paesi dell’area. Su questo fronte l’Italia spera di fare un ulteriore passo avanti e di arrivare a rompere un tabù: far sbarcare i migranti nei porti degli altri Paesi Ue che si affacciano sul Mediterraneo. Francia e Spagna in primis. Non sarà un percorso breve, ma gli sherpa che hanno lavorato alla preparazione del vertice sono convinti che la formulazione messa nero su bianco nelle conclusioni vada in quella direzione. Ci sarà poi l’invito alla Commissione: "Esplorare possibili soluzioni per ridurre il carico che grava sugli Stati in prima linea". L’Italia vuole una "soluzione-ponte" che permetta di allargare le maglie dei criteri con cui vengono scelti i richiedenti asilo che devono essere redistribuiti, allungando la lista nelle nazionalità. Di questo e altro (c’è anche l’aspetto conti pubblici) parlerà stamattina Gentiloni con Juncker, che ha messo sul piatto 1,2 miliardi di aiuti per le zone terremotate del Centro Italia. Migranti. Cara Mineo: "chiudere subito e revocare il direttore indagato per truffa" di Antonio Fraschilla La Repubblica, 22 giugno 2017 La commissione nazionale sul sistema di accoglienza approva all’unanimità, da Forza Italia al Pd, la relazione sul centro di accoglienza: "Sprechi fin dalla nascita del sito". Nel mirino gli alfaniani, Palazzotto di Sinistra Italiana: "Il sottosegretario Castiglione si dimetta". Anche Corrao dei 5 stelle chiede un passo indietro dell’esponente di Alternativa popolare. Una relazione durissima che evidenzia sprechi, assunzioni clientelari e la gestione di un sito del tutto fuori controllo, in mano a bande interne e con strani commerci in nero. La commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza migranti approva all’unanimità, dal Pd a Forza Italia e ai 5 stelle, "la relazione sul Cara di Mineo". E arriva a una sola conclusione: "La struttura va subito chiusa e va revocato l’incarico al direttore indagato per truffa per aver attestato falsamente la presenza di immigrati ricevendo i conseguenti corrispettivi". "Il cara di Mineo va chiuso nel più breve tempo possibile - dice il deputato di Sinistra italiana Erasmo Palazzotto - per la prima volta si affronta un problema che la politica per troppo tempo ha voluto ignorare a partire dal ministro Alfano che ha sempre protetto quel sistema. Non è compito della politica accertare le responsabilità penali, ma non possiamo accettare che chi è stato responsabile di un disastro di questa portata continui a ricoprire incarichi di governo. Il sottosegretario Giuseppe Castiglione si deve dimettere". Anche i 5 stelle chiedono le dimissioni del sottosegretario alfaniano: "I nuovi dettagli sul presunto coinvolgimento del sottosegretario all’agricoltura - dice l’eurodeputato 5 stelle Ignazio Corrao - nell’ambito dell’inchiesta che riguarda assunzioni nel Cara di Mineo in cambio di tessere elettorali Ncd, gettano ombre che non possono appartenere ad un uomo di governo. Castiglione deve dimettersi, se non lo fa lui, sia Gentiloni ad accompagnarlo alla porta. Su questa gravissima vicenda si registra un silenzio indecente anche da parte di un altro esponente di governo ed ex compagno di partito, ovvero il conterraneo Angelino Alfano, che dovrebbe prendersi la responsabilità politica di quanto accadeva al Cara di Mineo e dei rapporti palesati dall’inchiesta denominata Mondo di Mezzo in cui Odevaine tira in mezzo lo stesso Castiglione sull’affidamento di appalti per la gestione del grande centro di accoglienza catanese". Il dem Giovanni Burtone, relatore di maggioranza, prova a gettare acqua sul fuoco: "La relazione sul Cara di Mineo approvata quest’oggi all’unanimità dalla commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza è molto più complessa di quello che alcuni componenti lasciano intendere con le loro dichiarazioni. La relazione affronta i nodi di un modello che va superato ma pone anche una serie di questioni che non possono essere eluse ideologicamente". Le conclusioni della relazione parlamentare sono comunque chiare. La scelta del sito con costi fuori mercato - A partire dalla scelta del sito, un terreno privato del gruppo Pizzarotti, sono stati fatti sprechi e autorizzate spese fuori mercato. "Fin dalla requisizione della struttura - si legge nel documento - nella fase dell’emergenza Nord Africa, la scelta del residence degli Aranci appare discutibile non solo per la sua dimensione ma anche per il costo di gran lunga superiore a quello di mercato, e non è chiaro perché si sia rinunciato a reperire beni demaniali o ricercare soluzioni comunque meno onerose. Questa anomalia si protrae pure nella successiva fase di passaggio alla gestione ordinaria, fino a determinare - con l’ingresso della società Pizzarotti nell’associazione d’imprese candidata alla gestione del centro - una totale convergenza di interessi fra la proprietà immobiliare e le società incaricate della gestione del centro stesso". La gara anomala e le indagini su Castiglione - La relazione fa il punto sulle indagini che hanno messo nel mirino i bandi che hanno affidato la gestione del sito sempre allo stesso raggruppamento di imprese. "In relazione alla citata vicenda - si legge nella relazione - è stato richiesto il rinvio a giudizio dell’onorevole Giuseppe Castiglione da parte della Procura di Catania per il reato di turbata libertà degli incanti, in connessione all’appalto triennale bandito dal Consorzio dei comuni nel 2014". Come riportato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catania, Carmelo Zuccaro, nell’audizione del 24 gennaio 2017 "l’ipotesi accusatoria è la seguente: che sin dall’inizio, sin da quando è stato designato da parte della presidenza del Consiglio dei ministri il soggetto attuatore per la realizzazione del Cara di Mineo, si sia individuato in determinate imprese - in particolare all’inizio nell’impresa Sisifo - il soggetto che, attraverso un consorzio o un’associazione temporanea di imprese (Ati), avrebbe dovuto aggiudicarsi la gara. La scelta di requisiti estremamente specifici, ma soprattutto il fatto di aver deciso di affidare servizi eterogenei tra di loro in uno stesso contesto e, quindi, con una stessa gara a evidenza pubblica, tagliando fuori imprese di piccole e di medie dimensioni che avrebbero potuto offrire condizioni migliori per i singoli servizi, ha creato i presupposti per poter arrivare alla scelta di questo candidato che doveva vincere a tutti i costi. L’ATI è stata creata apposta per poter arrivare a questo risultato". Le assunzioni - Altro tema è quello del reclutamento del personale: "La Commissione ha potuto rilevare, nel corso dei suoi sopralluoghi, scarsa trasparenza e molte opacità nell’amministrazione: dalle assunzioni del personale per chiamata diretta e senza alcuna verifica dei requisiti professionali alla scelta clientelare dei fornitori, a prescindere da ogni criterio di concorrenza, per arrivare alla gestione poco trasparente del pocket money e alle irregolarità nella comunicazione alla Prefettura del numero delle presenze giornaliere, questione che ha causato l’avvio di una specifica indagine giudiziaria sull’ipotesi del reato di truffa da parte della procura di Caltagirone". Il direttore da rimuovere - La commissione chiede la rimozione del direttore: "Fermo restando il rispetto dei diritti delle persone coinvolte dal seguito giudiziario riferito alle vicende del centro di Mineo, la Commissione ritiene che risulti fortemente inopportuno che le funzioni di direttore del centro restino affidate a Sebastiano Maccarone, sotto processo per truffa aggravata, per aver attestato falsamente, in concorso con altri, la presenza di immigrati presso il centro, ricevendo i conseguenti corrispettivi. Si chiede pertanto che il delicato incarico sia affidato a persona estranea alle vicende processuali, destinando il signor Maccarrone ad altra attività". Mafia Capitale e le indagini delle procure - Nella lunga relazione si fa il punto anche sulle inchieste. "Ma ci sono ancora i legami con la vicenda di "Mafia capitale" e il ruolo svolto da Odevaine come tramite fra i tavoli romani e il territorio catanese, la nascita del consorzio Calatino Terre d’accoglienza - si legge nel documento - la sua trasformazione in stazione appaltante fortemente sollecitata dalle imprese locali, la gara dichiarata illegittima dall’Anac perché preconfezionata allo scopo di favorire l’affidamento a un unico concorrente. Infine, appare evidente l’intreccio fra il Consorzio appaltante, le cooperative vincitrici e alcuni politici locali, che lascia trasparire una gestione clientelare del centro anche al fine di acquisire e distribuire vantaggi economici e scambiarli con consensi elettorali. Fatti che, come abbiamo ampiamente illustrato, sono stati oggetto di indagine della Procura della Repubblica di Catania, la cui richiesta di rinvio a giudizio per reati che vanno dalla turbativa d’asta alla corruzione, al falso ideologico fino alla cosiddetta corruzione elettorale è stata accolta dal Gup di Catania". La sicurezza - "Anche le norme di sicurezza risultano approssimative - si legge nella relazione - nonostante il fatto che 200 dei 400 operatori siano dediti alla sorveglianza, non sembra che tutto ciò che avviene nel centro sia effettivamente sotto controllo. Ad esempio, nell’assegnazione degli alloggi viene lasciato spazio ad una sorta di autogestione da parte dei gruppi etnici, dietro la quale sembra celarsi una qualche sorta di caporalato. Alcuni edifici ospitano attività? non autorizzate ma tollerate dalla direzione. Nel centro è evidente la presenza di un’economia sommersa in cui circola merce di dubbia provenienza, ed è forte il dubbio, riscontrato anche nelle audizioni di organizzazioni umanitarie che hanno operato all’interno del centro, che ci siano forme di sfruttamento, traffico di droghe e prostituzione. Le forze dell’ordine sono a conoscenza del fatto che si sono verificati abusi e violenze, ma si limitano a vigilare a distanza ritenendo tale fenomeno in parte fisiologico in quel contesto". Le condizioni igienico sanitarie - "Le condizioni igienico-sanitarie della struttura sono precarie, gli appartamenti spesso fatiscenti - continua la relazione - "gli ospiti lamentano di non ricevere regolarmente i prodotti per la pulizia della casa e l’igiene personale. Il servizio medico è deficitario, con screening superficiali, prese in carico dei pazienti frammentarie e ambulatori scarsamente attrezzati. É insufficiente rispetto al numero degli ospiti la disponibilità di figure professionali adeguate e sono deficitari i servizi di mediazione linguistico-culturale, consulenza legale, sostegno psicologico, le attività di formazione e orientamento all’integrazione. La mancanza di spazi di socialità costringe gli ospiti a vagare per il villaggio costretti di fatto all’inattività forzata, spesso per mesi, e questo produce uno stato alienante di attesa, di isolamento fisico e morale che rappresenta uno dei più diffusi problemi riscontrati. I migranti sono liberi di uscire ma non ci sono mezzi di trasporto per arrivare a Mineo. Tutto va fatto dentro il centro e l’integrazione col territorio è praticamente impossibile". La richiesta di chiusura del sito - "Considerate le caratteristiche e la storia del centro di accoglienza di Mineo, la Commissione non può che prendere atto con soddisfazione dell’annuncio dello stesso prefetto Pantalone, che ha dichiarato superato l’orientamento volto all’insediamento di un hotspot nel centro, come invece sembrava si fosse intenzionati a fare solo pochi mesi fa. Per le stesse ragioni, la Commissione ritiene che il Cara di Mineo debba essere chiuso nel più breve tempo possibile". Darfur. L’appello delle esuli: non lasciateci sole di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 giugno 2017 "Amina aveva 16 anni quando nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre del 2014 è stata violentata da tre soldati. Era sola nella capanna di fango nel suo villaggio, Tabit, a 45 km dalla capitale del Nord Darfur, Al-Fasher. L’hanno picchiata e violentata a sangue, a turno, più e più volte. In duecentodieci, tra cui 79 adolescenti e 8 bambine, quella notte furono brutalmente stuprate. Amina è riuscita a lasciare il Sudan e oggi vive in Germania, cercando di rifarsi una vita". A raccontare la storia di questa giovanissima sudanese vittima di stupro è Antonella Napoli, giornalista e presidente di Italians for Darfur, durante l’iniziativa promossa da un gruppo di donne esuli africane nell’ambito della Giornata mondiale del rifugiato. Napoli, autrice di Il mio nome è Meriam, il libro (tradotto in sei lingue e presto anche in arabo) che racconta la vicenda di una donna cristiana incinta all’ottavo mese condannata a morte per apostasia salvata grazie alla mobilitazione internazionale e all’Italia che le ha dato asilo, ha raccolto e rilanciato l’appello di sudanesi, congolesi, eritree, insieme al Circo Massimo, a pochi passi dalla Fao e dal Colosseo, la prima istituzione che richiama l’importanza degli aiuti umanitari, il secondo monumento simbolo dei diritti umani, per chiedere di non chiudere le porte a chi "come noi donne senza diritti nei nostri Paesi, non vuole altro che vivere dignitosamente". "La condizione femminile in realtà in cui una donna è considerata meno di una mucca - sottolinea la giornalista e attivista per i diritti umani che nel 2008 ha raccolto le testimonianze delle donne vittime di stupro utilizzato come arma di guerra in Darfur - espone a continue vessazioni, violenze. A queste donne, e a tutti coloro che non hanno altra scelta che fuggire, non si può negare il diritto all’accoglienza. Lo status di rifugiato è in questi casi sacrosanto ed è nostro dovere garantirlo. Sempre". Insieme, profughi e attivisti delle associazioni per i diritti umani, tra cui Italians for Darfur, Migrare e le organizzazioni che fanno riferimento alla rete "Illuminare le periferie" chiedono che l’Italia si doti di una legge organica per il riconoscimento dello status di rifugiato e che si rivedano le politiche di respingimento. "Il governo italiano non ci lasci soli - hanno affermato le rappresentanti delle comunità di rifugiati africani a Roma - e riveda i trattati tra Italia e Libia sottoscritti dal governo Berlusconi e confermati via via dagli altri ad esso esecutivi seguiti, faccia nuove vittime. Questi accordi hanno favorito l’aggravarsi della situazione delle morti in mare". Siria. Torna la poliomielite, vaccinarsi è un sogno impossibile di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 giugno 2017 L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala per l’ennesima volta il dramma dei bambini non vaccinati nella Siria in guerra. Molti sono già ammalati di poliomielite, tanti vorrebbero vaccinarsi ma non riescono. Alcuni di noi, nelle comode città protette, invece deridono il vaccino e addirittura fanno campagne per abolirlo. Fa riflettere questo mondo curioso, dove chi ha tanto spreca e butta via con disprezzo ciò che invece chi non ha vorrebbe disperatamente. Siamo talmente viziati dai nostri privilegi che neppure sappiamo più apprezzarne il valore. Parliamo dei vaccini. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala per l’ennesima volta il dramma dei bambini non vaccinati nella Siria in guerra. Almeno 17 nelle regioni orientali sono rimasti paralizzati dalla poliomielite. Altri 200 sono infettati dal virus, che continua a diffondersi. Motivo? Il caos del conflitto che infuria dal 2011: i bombardamenti criminali e sistematici di cliniche e ospedali (in cui si sono distinti il regime di Assad e i suoi alleati), l’assassinio programmato di medici, infermieri e farmacisti hanno impedito la somministrazione su larga scala del vaccino. Così, malattie che anche in Siria erano scomparse da decenni stanno tornando a colpire. Noi, nel comodo delle nostre città, dall’alto di privilegi che erroneamente diamo per scontati, neppure più sappiamo cosa sia la poliomielite. L’incubo dei nostri avi sino a solo tre generazioni fa è svanito. Possiamo persino arrogarci il diritto di sfidarlo, di deriderlo, tanto da mettere a rischio i nostri figli. Invece, la poliomielite è un virus terribile, altamente contagioso, si diffonde per via orale-fecale, infiamma il midollo spinale, paralizza le gambe, arriva al cervello, trasforma l’esistenza in un inferno. E non è l’unico virus "di ritorno". Altre malattie, una volta considerate battute grazie alle campagne di prevenzione, sono massicciamente tornate nelle aree di guerra. Andate a chiederlo ai bambini siriani. Che non sono i soli. Da tempo lo stesso tipo di allarme viene lanciato dalle organizzazioni umanitarie operanti in Iraq, Afghanistan, nelle aree tribali pakistane, nel profondo dell’Africa. I talebani e le organizzazioni jihadiste in nome di un folle primitivismo anti-occidentale danno la caccia alle équipe mediche che cercano di vaccinare i minori nelle zone rurali. Per tanti il vaccino sta diventando un sogno impossibile. Lo cercano, si disperano per averlo. Alcuni di noi invece lo deridono e addirittura fanno campagne per abolirlo.