"Non è vero che i collaboratori di Ristretti Orizzonti hanno benefici" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2017 Ornella Favero, direttrice della rivista del carcere di Padova, difende l’operato della Associazione. Dopo l’indagine sull’ex direttore del "Due Palazzi", le cooperative che lavorano nell’istituto sono oggetto di una campagna mediatica che punta a screditarle. Ennesimo attacco alla redazione di Ristretti Orizzonti e, in generale, a chi compie delle vere e proprie opere trattamentali per i detenuti. Questa volta l’attacco proviene dal Movimento Cinque Stelle. Infatti durante le dichiarazioni di voto sul decreto per la riforma del codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, il deputato grillino Vittorio Ferraresi ha dichiarato: "E arrivano queste notizie molto gravi: il 17 maggio, l’ex direttore del carcere di Padova indagato per falso: classificava mafiosi e spacciatori come detenuti comuni, assolutamente condizionato dall’associazione "Ristretti Orizzonti" e da una cooperativa. Questa è l’indagine che è partita. Ancora: due detenuti vicini alla camorra gestivano nel carcere uno spaccio di droga e comunicavano con telefoni cellulari; sono due detenuti che avevano fatto parte proprio della squadra di questi "Ristretti Orizzonti", la stessa squadra con cui il ministro della Giustizia Orlando ha appena siglato un accordo per il volontariato nelle carceri". Questa dichiarazione prende spunto dalle notizie pubblicate nel mese scorso da alcuni giornali locali relative all’ex direttore del carcere di Padova Salvatore Pirruccio, finito sotto indagine per aver - così scrivono - declassato 12 detenuti dall’alta sicurezza al regime comune istituendo la commissione di valutazione a cose già fatte. Ma non solo, a questo si aggiunge il sospetto che la redazione di Ristretti Orizzonti, assieme alla cooperativa Giotto, avesse condizionato il direttore per far declassare i detenuti che lavoravano per loro. Ma il direttore ha il potere decisionale per effettuare le declassificazioni? Ed è vero che alcuni detenuti che fanno del volontariato a Ristretti Orizzonti sono stati declassificati? La risposta è no. Per capire meglio la vicenda, ripercorriamo la storia fin dall’inizio. Tutto nasce da un’inchiesta generica della procura di Padova che mise sotto la lente d’ingrandimento le declassificazioni, come se dietro ci fosse qualcosa di anomalo o ambiguo. Un’inchiesta legata a quella del traffico di droga e cellulari che avveniva all’interno del carcere. Eppure è difficile capire quale sia il legame tra le due cose. Il traffico di droga e di purtroppo, avviene in molte carceri italiane e indistintamente tra detenzione dura o tenue. Gli ultimi casi riguardano l’istituto penitenziario romano di Rebibbia e quello di Frosinone. In realtà le declassificazioni non le decide il direttore del carcere. La procedura è chiara: prevede che le singole direzioni penitenziarie, d’ufficio o a richiesta di parte, inoltrino alla direzione generale detenuti e trattamento le proposte di fuoriuscita dal circuito di alta sicurezza, corredate dal parere fornito dal gruppo di osservazione e da tutta la documentazione giudiziaria posseduta, nonché le informazioni all’uopo assunte presso organi investigativi qualificati. Ciò significa che la proposta di declassificazione che giunge sul tavolo del Dap - deputata ad accogliere o meno i declassamenti - è comunque completa, compresa della valutazione della commissione. In sintesi, non è il direttore del carcere a decidere chi declassificare o meno. Ma in quale contesto avvennero le declassificazioni? Nell’aprile del 2015 è stato chiuso il reparto di alta sorveglianza (As3), il regime duro riservato a condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga a livello internazionale, sequestri di persona, reati di terrorismo) per una sorveglianza più stretta rispetto ai "comuni" in quanto inseriti nella criminalità organizzata. È stato un duro colpo per molti di quei detenuti che avevano intrapreso un percorso di cambiamento legato al territorio padovano e, interrompendolo, hanno subito un forte danno. Inoltre c’è da ricordare che da qualche anno - proprio all’interno del carcere di Padova - vengono organizzati dalla redazione di Ristretti Orizzonti dei convegni con docenti universitari, giuristi e persone esterne, ai quali intervengono anche le persone detenute in sezioni di alta sicurezza. Detenuti che collaborano attivamente sia con la redazione di Ristretti Orizzonti, sia con la cooperativa Giotto considerata un esempio virtuoso anche dall’ex premier Matteo Renzi quando visitò il carcere di Padova. Secondo quanto riportato da alcuni organi della stampa, l’attuale inchiesta che ha puntato i riflettori nei confronti dell’ex direttore Pirruccio, pone sotto accusa anche la coincidenza che tutti i detenuti "salvati" dal trasferimento lavorassero proprio nelle cooperative Giotto e Ristretti Orizzonti. In realtà, Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, raggiunta da Il Dubbio, respinge questa ricostruzione spiegando che nessuno dei 12 declassificati collabora con loro. Anzi, ci sono cinque reclusi in As1 (sezione di alta sorveglianza che attualmente ospita 18 detenuti) che non sono declassificati e partecipano attivamente alla loro attività. In alcuni giornali locali poi viene riportato scritto anche questo passaggio: "Guida è il secondo detenuto che viene trasferito d’urgenza dopo aver approfittato dei benefici concessi a chi fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti per gestire l’attività di spaccio o i contatti con il mondo esterno via telefono". Ornella Favero respinge anche questa accusa, specificando che i detenuti della sua redazione non godono di nessun beneficio particolare, ma soprattutto non riesce a spiegarsi perché viene messa sotto accusa l’intera redazione per il solo fatto che uno dei loro detenuti volontari spacciasse droga. "È come se - spiega Ornella Favero, dopo la condanna di alcuni agenti di Polizia penitenziaria per spaccio e traffico di telefonini, purtroppo avvenuta di recente a Padova, io scrivessi: "Negli uffici della Polizia penitenziaria le condizioni erano particolarmente favorevoli per gestire un traffico di tal genere". La direttrice di Ristretti la considera una miserevole semplificazione, perché "le persone che sbagliano ci sono persino fra le forze dell’ordine. Tanto più - continua - ci sono fra chi ha vissuto per anni in ambienti malavitosi, non mi aspetto che diventino improvvisamente dei bravi cittadini, mi aspetto che ci provino, so che potranno avere ricadute e ritorni indietro, ma continuo la mia battaglia perché queste persone provino a capire che l’onestà paga. Anche se fatico a insegnarglielo, con certi esempi che vedo nella "società libera". La strage dietro le sbarre: mille detenuti suicidi di Francesca Angeli Il Giornale, 21 giugno 2017 Morire di carcere. Se il suicidio è un tema difficile e doloroso quello del suicidio tra le sbarre è argomento scomodo al punto da essere per lo più taciuto, ignorato. Eppure in prigione a togliersi la sono in tanti e non soltanto i detenuti perché è un fenomeno che coinvolge pure gli agenti di polizia penitenziaria. Dal 2000 ad oggi sono quasi mille i detenuti che si sono tolti la vita in cella in base ai dati forniti da Radio carcere e Ristretti Orizzonti. Dopo il picco di 72 suicidi nel 2009 i casi sono scesi ai 45 del 2016 mentre da gennaio 2017 ad oggi sono già 23 i prigionieri che si sono tolti la vita. Precisamente dal 2000 si contano 956 suicidi e un totale di 2.663 morti, molte delle quali non hanno cause certe e chiarite. Chi si toglie la vita come nel caso che oggi raccontano le cronache molto spesso ha dato chiari segnali in questo senso. Il detenuto si isola, smette di mangiare, compie atti sempre più forti di autolesionismo. Ci sono dunque in quasi tutti i casi indizi precisi di un comportamento che probabilmente porterà ad un gesto estremo. In carcere ci si toglie la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere. I casi monitorati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dap, per il 2016 registrano le modalità con le quali i detenuti si tolgono al vita: quasi tutti per impiccagione e qualcuno con il gas. Colpisce anche che ci siano alcuni istituti di pena dove i suicidi si ripetono. Nel carcere di Rebibbia a Roma ma anche a Poggioreale a Napoli e a Verona. Non è difficile verificare "come" si sceglie di morire ma il perché è assai più complesso. Sempre attenendosi ai dati registrati nel Dossier di Ristretti Orizzonte si scopre che sono gli italiani a scegliere di togliersi la vita con maggiore frequenza rispetto agli stranieri. Con una presenza straniera di oltre il 30 per cento sul totale i casi ricostruiti con certezza che hanno come protagonista uno straniero sono "solo" il 16 per cento. A togliersi la vita sono soprattutto i tossicodipendenti che rappresentano il 31 per cento di casi di suicidio a fronte di una presenza sul totale del 30 per cento. Alla dipendenza dalla droga si affianca il disagio mentale o vere e proprie patologie psichiatriche. La radicale Rita Bernardini ha raccolto l’eredità di Marco Pannella che tra le tante battaglie combattute aveva sempre messo in primo piano quella per i diritti dei detenuti. Tra le cause del disagio indica il sovraffollamento ma soprattutto la mancanza di prospettiva. La Bernardini aveva incontrato Marco Prato nel marzo scorso e ritiene non abbia avuto una adeguata assistenza psicologica. "Ho motivo di credere che nelle carceri italiane ci siano migliaia di persone a rischio suicidio - afferma la Bernardini - e la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ha aggravato la situazione". Il sovraffollamento è diminuito ma resta ancora un problema in molti istituti. Sono 56.436 i detenuti dei 190 istituti di pena in Italia e il numero degli stranieri è in continuo aumento. Nel 2017 sono saliti a 19.268, il 34,1 per cento della popolazione carceraria. Suicidi in carcere, ragioni e numeri di un’emergenza continua di Lorenzo Mantelli lettera43.it, 21 giugno 2017 Prato è il 23esimo detenuto a togliersi la vita da inizio anno. Per alcuni un gesto annunciato. Ma gli psicologi non lo credevano in pericolo. Scarsa collaborazione e carenza di personale: alle radici del problema. Un suicidio annunciato. Non ha dubbi Mauro Palma, Garante nazionale per le persone detenute e private della libertà, sulla tragica fine di Marco Prato, il 31enne che si è tolto la vita nel penitenziario di Velletri, alla vigilia dell’udienza del processo per l’omicidio di Luca Varani, il giovane brutalmente assassinato a marzo del 2016 durante un festino a base di sesso e droga. "Al di là di rassicurazioni informali e generiche", sostiene Palma, "nessuna delle autorità responsabili ha voluto recedere dalla posizione presa, nonostante l’indicazione dell’inadeguatezza della collocazione a Velletri e del rischio suicidario ancora esistente". Da inizio anno 23 casi di suicidio. Come Prato, sono 22 le persone che hanno scelto di farla finita dietro le sbarre dall’inizio dell’anno. Numeri certificati dal dossier "Morire di carcere" che nel solo 2016 ha registrato 45 suicidi dopo i 43 dell’anno precedente. Un’emergenza autentica, di fronte alla quale è difficile dare risposte. Per restare al caso di Prato, infatti, a detta del garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, "il ragazzo aveva colloqui settimanali con uno psichiatra della Asl. Non c’era però alcun segno che potesse far prevedere un fatto del genere, motivo per cui non era soggetto a una sorveglianza speciale". Un carcere in piena emergenza. Nessun istinto autolesionista sembra essere mai stato manifestato dal trasferimento a Velletri dal carcere di Regina Coeli, malgrado i messaggi lasciati dopo il delitto potessero fare intendere il contrario. Lo ribadisce a Lettera43.it anche Carmine Olanda, agente in servizio al penitenziario laziale, per il quale il gesto di Prato non era assolutamente prevedibile. Un’evenienza che non esclude, tuttavia, le difficoltà di un istituto a corto di organico e alle prese con i cronici problemi di sovraffollamento. "Ospitiamo 587 detenuti di fronte ai 411 che prevede la capienza del carcere. E il numero degli agenti in servizio si ferma a 77, decisamente insufficiente". Suicidio Prato: pm indaga su istigazione - Come ogni detenuto, al suo ingresso in cella, Prato ha affrontato un colloquio che lo ha assegnato a un’area precauzionale, vale a dire non a contatto con i responsabile di reati efferati, ma non ha riscontrato disturbi psichici che necessitassero di una sorveglianza a vista al termine dei sette giorni di prima accoglienza. "È difficile per noi agenti capire cosa passa per la testa dei detenuti, per questo servirebbe un numero maggiore di psicologi e psichiatri con i quali stringere una collaborazione più attiva". "Nel carcere", continua Olanda, "esiste un reparto apposito per accogliere e curare i detenuti alle prese con patologie psichiche, fattispecie diversa da quella in questione, ma senza alcuna spiegazione risulta ancora chiuso". Così com’è altrettanto inspiegabile l’assenza di un’assistenza sanitaria h24 per uno dei due padiglioni della struttura. Carenze e inefficienze comuni a molte altre strutture e che, gioco forza, non aiutano a prevenire episodi di autolesionismo o tentativi di togliersi la vita. Abuso di psicofarmaci. Nel complesso, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), vale a dire le strutture che dovrebbero accogliere i detenuti con problemi psichiatrici, sono troppo poche e troppo piene. Lo ribadisce anche Simona Filippi, difensore civico dell’associazione Antigone: "Ogni caso fa storia a sé", spiega a Lettera43.it, "e spesso il primo confronto all’ingresso del carcere può mascherare disturbi che si presentano in un secondo momento". Per questo la presenza di più personale medico è indispensabile. Si abusa di farmaci, spesso, o della sorveglianza a vista, che "però non risolve il problema e grava il lavoro degli agenti". Secondo recenti stime delle associazioni a tutela dei detenuti, citate dall’Espresso, quasi il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci o potenti sedativi che inibiscono il normale funzionamento psichico. E non è poi così difficile procurarsi oggetti coi quali potersi fare del male, come dimostra la bomboletta del gas utilizzata da Prato. "Ormai i carcerati possono comprarsi qualunque cosa", spiega Olanda. Rassicurazioni che non convincono. La procura di Velletri, intanto, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio a carico di ignoti per verificare, tra le altre cose, se lo stato di detenzione di Prato fosse compatibile con le sue condizioni psicofisiche. Mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria "un rapporto dettagliato per vedere se il protocollo di prevenzioni dei suicidi sia stato rispettato", ricordando come negli ultimi tempi siano state rafforzate le misure di sostegno psicologico dei detenuti e il numero dei suicidi sia sceso. Anche se dati e testimonianze sembrano contraddirlo. "In overbooking i reparti del 41 bis" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 giugno 2017 Il Sostituto procuratore della Dna Maurizio de Lucia relaziona all’Antimafia sui numeri dei detenuti sottoposti al regime duro. Le carceri italiane scoppiano di mafiosi al 41 bis, tanto che ci sono una decina di proposte di regime di carcere duro in sospeso. A dirlo, davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, è il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Maurizio de Lucia appena nominato procuratore della Repubblica di Messina. Ai componenti la commissione de Lucia ha illustrato quella che ha definito una situazione di sostanziale "overbooking" dei reparti che, nelle carceri di massina sicurezza, sono in grado di assicurare le restrizioni previste dal regime di carcere duro. "Oggi - ha detto de Lucia - sono 729 i detenuti sottoposti al regime del 41 bis e abbiamo raggiunto il numero limite. La popolazione è prevalentemente espressione di Cosa nostra ma con un buon numero di campani e di ‘ndranghetisti". Una decina di proposte di applicazione del 41 bis - ha aggiunto Maurizio de Lucia - "non sono state ancora avviate perché’ sostanzialmente siamo in overbooking. Non c’è stato un incremento negli ultimi anni, la popolazione si aggira intorno a questo numero. Un punto delicato resta quello della proroga". De Lucia ha ribadito che il regime di carcere duro è uno strumento irrinunciabile nella lotta alle mafie. "Il regime speciale crea grossi problemi alle organizzazioni - ha detto. È lo strumento attraverso il quale si pongono in isolamento i grandi capi, soprattutto per strutture come Cosa nostra diventa importante troncare le comunicazioni fra il boss e l’esterno. L’espressione "Grand hotel Ucciardone" - ha spiegato De Lucia - è stata coniata dai collaboratori perché i capimafia da lì dentro continuavano a comandare". Certo, non c’è da illudersi che il 41 bis possa recuperare questo tipo di detenuti. "Esempi di riabilitazione a mia memoria non ci sono, ci sono esempi virtuosi, come le lauree conseguite nel corso del regime speciale". Opg, svelato l’imbroglio, la lotta continua di Stefano Cecconi Il Manifesto, 21 giugno 2017 Non siamo riusciti a cancellare quel comma maligno (art. 1 comma 16 lettera d), che rischia di riportare in vigore le norme dei vecchi Opg, contenuto nella Legge "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" approvata alla Camera la settimana scorsa. Infatti, ponendo la questione di fiducia, il Governo ha impedito l’approvazione degli emendamenti che diversi deputati, della maggioranza e dell’opposizione, avevano presentato, accogliendo l’invito di StopOpg e di tutti coloro (più di duecento persone in 49 giorni) che hanno partecipato alla staffetta "Io Digiuno perché non devono tornare gli Opg". Ma la discussione alla Camera, anche nelle posizioni espresse dal relatore, l’on. Ferranti e dal sottosegretario Ferri per il Governo, ha segnalato che la nostra mobilitazione ha colpito nel segno. Entrambi hanno ammesso che quella norma va in qualche mondo "disinnescata". Ne sono una prova tangibile gli otto (ben otto) Ordini del Giorno approvati per condizionare l’attuazione della norma - ricordiamo che si tratta di una legge delega per la cui attuazione sono previsti decreti legislativi del Governo - sui quali abbiamo espresso un chiaro apprezzamento, e un ringraziamento alle/ai deputate/i che li hanno proposti. Tra questi segnaliamo l’Ordine del Giorno presentato dal Presidente della Commissione Affari Sociali Marazziti, insieme al Presidente della Commissione Ambiente Realacci, che afferma testualmente: "limitare per casi eccezionali e transitori" il ricovero in Rems sia dei detenuti (con sopraggiunta malattia mentale o in osservazione) che delle persone con misure di sicurezza provvisoria. Questo è davvero importante: infatti quasi la metà delle presenze in queste strutture è con misura provvisoria, segnale (come ricorda l’ex Commissario Corleone) di un uso improprio e abnorme delle Rems, al punto che si è creata una lista d’attesa. Invece queste strutture dovrebbero essere "extrema ratio", come dichiara senza mezzi termini anche una recente delibera del Consiglio Superiore della Magistratura. L’Odg, come auspicavamo, afferma che il diritto alla salute e alle cure dei detenuti va garantito con un adeguato potenziamento delle sezioni di cura nelle carceri e attraverso misure alternative alla detenzione, e sempre con la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale delle Asl. Gli Ordini del Giorno, pur vincolanti e chiari, sono soggetti alla lealtà del Governo, e per questo abbiamo voluto incontrare il Presidente Marazziti per aprire un confronto con il Ministro. Chiederemo ai deputati e ai senatori che si sono impegnati, durante il dibattito in parlamento in difesa della riforma, di vigilare. Questa vicenda ci conferma che per far vivere la grande conquista ottenuta con la chiusura dei vecchi manicomi giudiziari, è necessario mantenere alta l’attenzione sul processo di superamento della logica manicomiale, sulle criticità aperte, sull’esperienza delle Rems e sullo sviluppo delle pratiche di cura e riabilitazione che consentono l’adozione delle misure alternative alla detenzione, nello spirito della legge di Riforma 81/2014 e della stessa Legge 180. Per questo noi continueremo il Viaggio nelle Rems. E per questo chiediamo sia riconvocato l’Organismo nazionale di monitoraggio (composto da rappresentanti dei Ministeri Salute e Giustizia, di Regioni e Magistratura e che va aperto alla partecipazione delle associazioni impegnate sul tema e al neonato coordinamento delle Rems) e che venga istituita una cabina di regia nazionale e in ciascuna regione. Il Governo deve mantenere l’impegno a presentare subito la Relazione al Parlamento. La mobilitazione di StopOpg non si ferma. Telefono Azzurro. Il progetto "Bambini e carcere", premiato dal Papa, cerca volontari padovaoggi.it, 21 giugno 2017 Telefono Azzurro Onlus seleziona 20 giovani, tra i 18 e i 28 anni, all’interno del Servizio Civile Nazionale 2017. Si occuperanno del Progetto "Bambini e Carcere", l’attività recentemente premiata da Papa Francesco e che in Italia coinvolge 500 bambini e adolescenti ogni mese. Telefono Azzurro Onlus seleziona 20 giovani volontari, tra i 18 e i 28 anni, all’interno del Servizio Civile Nazionale 2017 con il progetto "Bambini e Carcere" per le sedi di Bologna, Milano, Roma, Padova e Massa Carrara. In tutto l’opportunità sarà rivolta a 4 candidati per ogni città. Il progetto. "Bambini e Carcere" è il progetto nato 25 anni fa e condotto su scala nazionale da Telefono Azzurro in 10 regioni e 16 Istituti penitenziari. Si propone come obiettivo il migliorare la situazione dei minori che vivono indirettamente la condizione di detenzione di un loro genitore detenuto, in tutte quelle strutture dove i genitori detenuti ricevono la visita dei loro figli. È volto ad attenuare l’impatto con la realtà carceraria prima, durante e dopo il colloquio che i bambini hanno con il genitore, attraverso il coinvolgimento dei bambini in una situazione ludica, affettiva, logistica e organizzativa a misura di bambino. Coinvolge circa 500 bambini e ragazzi al mese in tutta Italia, grazie al lavoro e all’assistenza offerti da 250 volontari. Come funziona. L’opportunità offerta da Telefono Azzurro riguarda l’occasione di vivere un periodo di 12 mesi in tale ambito, affermando in prima persona i diritti dei bambini e degli adolescenti, attraverso un’esperienza di crescita, di formazione, di acquisizione di capacità e di competenze, ponendo allo stesso tempo l’attenzione verso i bisogni del territorio in cui il progetto si inserisce e al positivo impatto di questa attività sull’intera società civile. I volontari saranno chiamati ad affiancare e supportare tutte le figure professionali coinvolte attraverso la gestione di spazi autonomi gestionali, una volta acquisite buone conoscenze di base e padronanze comunicative relazionali. Il Servizio Civile prevede un impegno di c.a. 30 ore distribuite su 5 giorni a settimana, compresivi di sabato, domenica e festivi, il riconoscimento di un contributo mensile di € 433,80 e la partecipazione a un percorso formativo, al termine del quale verrà rilasciato un attestato di partecipazione con l’indicazione delle attività svolte durante l’anno e le competenze acquisite. Le candidature dovranno essere consegnate entro le ore 14:00 del 26 giugno 2017 attraverso le modalità e con la documentazione indicate sul sito www.azzurro.it alla sezione Azzurro Blog, mentre maggiori informazioni potranno essere richieste agli indirizzi e-mail serviziocivile@azzurro.it e bambiniecarcere@azzurro.it. Proprio nelle scorse settimane, in occasione dei 25 anni del progetto "Bambini e Carcere", Telefono Azzurro si è recato dal Papa in Vaticano, rappresentato da un centinaio di volontari e una delegazione di agenti della Polizia Penitenziaria che operano costantemente con l’associazione. Quello di "Bambini e Carcere" rappresenta uno dei progetti più delicati all’interno dell’associazione, giacché unisce il tema della tutela dei minori a quello della continuità degli affetti nonostante l’esperienza della detenzione, peraltro il linea con l’Art. 27 della Costituzione. Il ministro Orlando: "riforma penitenziaria, decreti attuativi emanati entro agosto" Italia Oggi, 21 giugno 2017 I decreti attuativi sulla parte penitenziaria della riforma penale approvata di recente dalla Camera verranno emanati entro il mese di agosto. Lo ha detto a Radio Radicale il ministro della giustizia Andrea Orlando, interpellato sullo sciopero della fame di Rita Bernardini (iniziato il 25 maggio scorso), volto ad assicurare il varo della parte penitenziaria della riforma penale. "Sulla questione dell’attuazione", ha detto Orlando a margine della conferenza stampa tenuta ieri al Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, "sulla questione della vicenda penitenziaria io do massima priorità a questo, vorrei chiudere entro il mese di agosto anche perché il lavoro di elaborazione era già stato fatto anticipatamente nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale". "Spero che la Bernardini la smetta prima di agosto. Do la mia parola che entro agosto voglio finire perché poi entriamo in un periodo in cui sarebbe più difficile fare una discussione serena. Quindi abbiamo un lavoro che è stato già fatto e a cui ha partecipato anche Rita Bernardini ai tavoli di elaborazione degli Stati Generali", ha concluso Orlando. Rita Bernardini sospende lo sciopero della fame ma annuncia "lo riprenderò il 16 agosto" Il Dubbio, 21 giugno 2017 "Spero che Rita Bernardini smetta lo sciopero della fame prima di agosto". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha assicurato che sull’attuazione dell’ordinamento penitenziario "do la massima priorità, vorrei chiudere entro il mese di agosto anche perché il lavoro di elaborazione era già stato fatto anticipatamente nell’ambito degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Do la mia parola che entro agosto voglio finire perché poi entriamo in un periodo in cui sarebbe più difficile fare una discussione serena. Quindi abbiamo un lavoro che è stato già fatto e a cui ha partecipato anche Rita Bernardini ai tavoli di elaborazione degli Stati Generali". E Rita Bernardini ha annunciato la sospensione dello sciopero della fame di 25 giorni, che ha fatto seguito ai due precedenti di 30 giorni portati avanti in occasione delle marce per l’amnistia del 6 novembre 2016 (giubileo dei carcerati) e di Pasqua 2017, iniziative che hanno registrato la mobilitazione di più di 25.000 detenuti e loro familiari, associazioni di tutti gli orientamenti, professionalità del mondo penitenziario, sindaci, rappresentanti delle istituzioni, giuristi. "Lo riprenderò il 16 d’agosto - ha dichiarato Bernardini - e mi auguro che divenga un Grande Satyagraha collettivo assieme a tutti coloro che hanno a cuore gli obiettivi intermedi che come Partito Radicale ci siamo dati: riforma dell’ordinamento penitenziario, effettività dell’accesso alla cannabis terapeutica e informazione dei grandi media sui temi ignorati che riguardano sempre gli ultimi, i dimenticati, a partire dai detenuti". Riforma del processo penale. Sanzioni più severe per furti e rapine di Pier Francesco Poli Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 La riforma appena approvata ha introdotto modifiche al Codice penale con riferimento alle sanzioni previste per i reati di furto, rapina ed estorsione. Con riferimento al delitto di furto, articolo 624 Codice penale, il legislatore ha parzialmente inasprito le pene nel caso di sussistenza di una delle aggravanti previste dall’articolo 625. La pena minima, infatti, passa in questi casi da 1 a 2 anni di reclusione, mentre quella massima, pari a 6 anni di reclusione, rimane invariata. Modifiche sono state altresì introdotte con riferimento alla pena pecuniaria prevista per queste ipotesi, la cui cornice edittale viene cambiata, dall’attuale minimo di 103 e massimo di 1.032 euro ad un minimo di 927 ed un massimo di 1.500 euro di multa. Con riferimento ai delitti di furto in abitazione e furto con strappo previsti dall’articolo 624 bis, poi, è stato concepito un aumento della pena minima della reclusione da 1 a 3 anni, rimanendo inalterata la pena massima, pari a 6 anni di reclusione, nonché un aumento della pena pecuniaria della multa la cui cornice edittale cambia dagli attuali 309 di minimo e 1.032 euro di massimo a 927 di minimo e 1.500 euro di massimo edittale. Nell’ipotesi aggravata di tale delitto - che si realizza nel caso in cui sussista una delle circostanze di cui all’articolo 625 le quali puniscono maggiormente condotte che in sostanza denotino una maggiore pericolosità dell’agente o lo sfruttamento di situazioni in cui la vittima ha meno capacità di difendersi, ovvero sussistano più aggravanti comuni previste dall’articolo 61 Codice penale - la riforma ha inserito un aumento della pena detentiva minima, che passa da tre a quattro anni di reclusione, restando invariata la pena massima di 10 anni di reclusione, ed un aumento della pena pecuniaria della multa che passa dall’attuale forbice di 206 di minimo e 1.549 euro di massimo a 927 euro di minimo e 2.000 euro di massimo edittale. Inoltre, con riferimento a questo reato è stato introdotto un divieto di prevalenza o equivalenza per le circostanze attenuanti diverse dalla collaborazione con l’autorità giudiziaria nell’individuazione dei correi e dalla minore età, in maniera tale che, nel caso di sussistenza di tali circostanze, la diminuzione dalle stesse prevista debba essere operata successivamente all’aumento per le aggravanti. Anche con riferimento al delitto di rapina, articolo 628 Codice penale, l’intervento riformatore ha innalzato la pena detentiva minima prevista per l’ipotesi base di cui al comma 1 da 3 a 4 anni di reclusione, non modificando la pena massima, pari a dieci anni di reclusione, ed ha aumentato la pena pecuniaria della multa, la cui cornice va ora da 927 a 2.500 euro a fronte della precedente forbice che prevedeva un minimo di 516 ed un massimo di 2.065 euro. La riforma ha inoltre innalzato la pena detentiva minima prevista dal comma 3 nell’ipotesi in cui ci si trovi in presenza di alcune circostanze aggravanti - le quali prevedono un aumento di pena nel caso in cui il reato sia stato posto in essere con particolari modalità che rendono il fatto maggiormente riprovevole - dagli attuali quattro anni e sei mesi a cinque anni di reclusione, mantenendo invece inalterata la pena massima pari a venti anni di reclusione, e la pena pecuniaria minima, che passa da 1.032 a 1.292 euro, rimanendo anche in tal caso invariata la massima pari a 3.098 euro. Infine, la riforma ha inserito un nuovo quarto comma, per il quale se concorrono due o più delle circostanze di cui al terzo comma, o se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61, la pena è della reclusione da 6 a 20 e della multa da euro 1.538 a euro 3.098. L’ipoteca della giustizia sulla corsa dei partiti di Massimo Franco Corriere della Sera, 21 giugno 2017 La campagna elettorale potrebbe presto avere i due bastioni giudiziari dai quali Pd e Movimento 5 Stelle potranno combattersi. La richiesta di processare per falso la sindaca di Roma, Virginia Raggi, fiore all’occhiello della formazione di Beppe Grillo, sarebbe in arrivo: proprio mentre al Senato ieri si scriveva un’altra pagina torbida e convulsa del caso Consip. L’azienda di forniture della pubblica amministrazione è sotto i riflettori per un’inchiesta nella quale sono coinvolti anche esponenti vicinissimi all’ex premier e segretario dem, Matteo Renzi. Significa che, di qui al voto, l’ipoteca della giustizia graverà sulla discussione e ne condizionerà i contorni. È verosimile che riemergeranno le accuse reciproche di "doppio standard" tra i propri indagati e quelli avversari. Si chiederanno dimissioni. Alla fine, tuttavia, l’impressione è che le accuse si elideranno a vicenda. Un Pd col ministro Luca Lotti implicato nel caso Consip difficilmente potrà invocare l’uscita di scena di Raggi, se ci sarà la richiesta di processarla; e viceversa. Il fatto che ieri il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, abbia anticipato che la sindaca non dovrebbe comunque dimettersi, conferma un larvato patto di non aggressione con Grillo: almeno fino ai ballottaggi di domenica per le Comunali. L’unica conseguenza di uno scontro senza tregua sarà un tentativo di delegittimazione reciproca, da consegnare al giudizio di un elettorato già disorientato e deluso. Con la magistratura compagna di strada, suo malgrado, del viaggio verso le Politiche del 2018. La sensazione è che i Cinque Stelle si rifiuteranno di equiparare le due vicende. Ieri in Senato hanno attaccato il governo sulle presunte responsabilità di Lotti; e sulla volontà del vertice del Pd di insabbiare tutto. Alessandro Di Battista accusa Renzi di volere elezioni anticipate solo per "risolvere i guai giudiziari della sua combriccola". La lettera con la quale il ministro dell’Economia, Pier Le conseguenze L’impressione è che le accuse su Consip e Campidoglio si elideranno a vicenda. Ma ci sarà un tentativo di delegittimazione reciproca Carlo Padoan, ha spiegato al Senato che il Cda di Consip è dimissionario, non ha placato le polemiche. La richiesta di un rinvio al 27 giugno, avanzata dal capogruppo del Pd, Luigi Zanda, non è passata. E Padoan si è sentito rivolgere critiche ruvide da parte sia di Forza Italia che degli scissionisti dem del Mdp. Motivo: l’8 marzo Padoan aveva dichiarato che non c’erano le condizioni perché l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, decadesse. Ma, al di là delle polemiche, il governo e la maggioranza hanno incassato come minimo un po’ di tempo. Le mozioni più a rischio sono state bocciate. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, si è preso la sua dose di attacchi per avere respinto quella dei Cinque Stelle, nella quale si chiedeva la revoca delle deleghe a Lotti, ministro dello Sport; e quella dell’Mdp, per il quale le vicende di Lotti e di Marroni sono "legate indissolubilmente". Non è finita, anche perché la questione finora è stata maneggiata in maniera piuttosto maldestra. Il problema è che le ombre di Consip e del Campidoglio non si proiettino su una campagna elettorale che già si presenta intossicata e confusa. Il pm sottoposto al potere politico di Alfredo Guardiano La Repubblica, 21 giugno 2017 Non me ne vorrà l’avvocato Massimo Krogh, se non condivido le riflessioni da lui svolte su queste pagine a proposito della necessità di separare le carriere di pubblico accusatore e di giudice e di rivedere il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’articolo 112 della Costituzione, riforme funzionali, a suo dire, ad uniformare l’ordinamento italiano a quello dei principali paesi europei. In realtà, come è stato acutamente osservato, nell’ambito degli studiosi di diritto processuale comparato, da Mauro Mazza, non è possibile individuare nel diritto comunitario, né, tantomeno, nel sistema delineato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, una nozione unitaria di magistratura e/o di ordinamento giudiziario, disponendo ogni Paese di proprie tradizioni, sia sul piano del diritto processuale, che su quello delle istituzioni giudiziarie. È possibile, piuttosto, per limitare lo sguardo agli ordinamenti europei di civil law, rinvenire sistemi giudiziari nei quali giudici e pubblici ministeri appartengono al medesimo corpo o ordine giudiziario (come in Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo) ovvero modelli in cui i magistrati del pubblico ministero fanno parte di un ordine distinto da quello dei giudici (come in Spagna ed in Portogallo). I diversi modelli sono, invece, accomunati dalla tendenza a rafforzare, anche laddove manchi una dimensione unitaria del corpo giudiziario, l’indipendenza istituzionale del pubblico ministero, attraverso la predisposizione di adeguate garanzie. Il nodo da sciogliere, dunque, se si vuole che il dibattito non si riduca ad una mera contrapposizione di clausole di stile, non è tanto quello delle separazione della carriere, non potendo certo dubitarsi che una tale opzione sia assolutamente compatibile con l’organizzazione democratica dei poteri dello Stato, ma come assicurare che ai pubblici ministeri sia garantita un’effettiva indipendenza dalle invasioni e dai condizionamenti che il potere politico può esercitare su di essi, attraverso l’azione del potere esecutivo. Sotto questo profilo mi chiedo quale ulteriore separazione sia possibile, rispetto a quella già prevista sul versante delle funzioni dalla normativa vigente, senza compromettere definitivamente l’indipendenza dei pubblici ministeri e la loro appartenenza alla cultura della giurisdizione, innestando un pericoloso processo, che potrebbe condurre alla loro subordinazione gerarchica nei confronti del ministro della Giustizia, come, del resto, auspicava, nel dibattito in Costituente, Giovanni Leone, trovando la fiera opposizione di Piero Calamandrei. Attenti, dunque, a non creare un clima favorevole a soluzioni che farebbero arretrare la magistratura italiana verso esperienze di sottoposizione del pubblico ministero al potere politico, che sembravano abbandonate per sempre, ma che, invece, ancora oggi appaiono come un obiettivo perseguito (in forme, naturalmente, più sottili, anche attraverso un’accentuazione della gerarchizzazione degli uffici di Procura) da chi considera il principio costituzionale di eguaglianza davanti alla legge, con il suo corollario dell’obbligatorietà dell’azione penale, un pericoloso intralcio al dominio dello Stato di eccezione. Intercettazioni tra diritto di cronaca e riservatezza di Bruno Ferraro* Libero, 21 giugno 2017 Quello delle intercettazioni è un tema ricorrente e quasi tutti concordano sulla necessità di una riforma. In un paio di occasioni, rivestendo ruoli istituzionali confacenti, ebbi a proporre possibili correttivi, partendo dalla premessa, non contestata, che lo stallo agevola oscure manovre destabilizzanti che possono, a seconda dei casi favorire questa o quella parte politica. I tentativi non coronati da successo mi hanno lasciato il forte dubbio che le intercettazioni incontrollate costituiscono una sorte di mina vagante, consentendo a chi lo voglia di avvalersene per finalità estranee al procedimento giudiziario nell’ambito del quale sono state raccolte. La recente vicenda relativa alla Consip ed al ruolo dei Renzi, padre e figlio, ne costituisce la conferma, con la conseguenza che in un ‘intercettazione priva di rilevanze penali ha finito per contrapporre due procure: quella di Napoli che l’ha disposta ed utilizzata e quelle di Roma che l’ha valutata come irrilevante ed ha aperto un fascicolo per individuare e colpire l’autore o gli autori della divulgazione. Al momento è passato a maggioranza alla Camera, dopo l’approvazione in Senato, un disegno di legge di revisione che prevede una delega per il Governo della durata di 3 mesi per il riordino della disciplina. Di rilevante annoto l’introduzione di una nuova fattispecie penale, punita con la reclusione fino a 4 anni, per chiunque diffonda il convenuto di conversazioni fraudolentemente captate al solo fine di arrecare danno alla reputazione del soggetto intercettato. Si dà il caso però che la punibilità è esclusa quando la registrazione è utilizzabile in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Di significativo mi piace segnalare le recenti aperture di alcune parti dello scacchiere politico-giudiziario che in passato avevano mostrato avversione ad ogni ipotesi di revisione, con particolare riferimento alle accuse "legge bavaglio" rivolte al Governo di Centro Destra presieduto da Silvio Berlusconi. Alludo al mondo della sinistra, in passato contrario; ai titolari di importanti Procure (Napoli, Roma, Reggio Calabria); al Vice Presidente del Csm che fin dal 2015 si è dichiarato favorevole ad una riforma che maggiormente salvaguardi il diritto alla riservatezza. Ed allora, partendo dalla premessa che le violazioni provengono in buona sostanza dagli stessi ambienti giudiziari, provo ad indicare i paletti che mi sembrano necessari: -Revisione del reclutamento degli agenti preposti alle intercettazioni e delle ditte private incaricate della trascrizione; -Accentramento del servizio, di gestione e di controllo dell’archivio con le intercettazioni nelle mani di pochi individuati soggetti (Procuratori e Procuratori aggiunti), per evitare la circolazione all’interno dei relativi uffici; -Divieto assoluto di diffusione per le conversazioni estranei all’oggetto del procedimento o intervenute con terzi estranei; -Divieto assoluto di diffusione integrale nell’ambito di talk televisivi; -Divieto di pubblicazione fino alla chiusura delle indagini preliminari o, in alternativa, subordinazione di essa ad una decisione del capo dell’ufficio giudiziario competente; -Procedimenti disciplinari a carico dei giornalisti che si rendono responsabili di violazioni gravi o che ricorrono a mezzi non leciti per l’acquisizione delle conversazioni. Una cosa è certa. Il malcostume da tempo imperante non ha nulla da spartire né con la giustizia che richiede equilibrio e trasparenza, né con il diritto all’informazione che esige comportamenti lineari e corretti nel rispetto delle esigenze di riservatezza che sono il bene primario da tutelare. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Il femminicidio va punito, ma solo se ci sono prove di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2017 Le responsabilità devono essere accertate. Altrimenti si riempiono le carceri di gente che si querela a vicenda. Tanti anni fa, in un convegno: "Quando muore un operaio qualcuno deve pagare". Applausi. Io: "Sì, se ci sono prove della sua responsabilità". Silenzio. Qualcuno disse: "Stai parlando come uno di destra". Oggi si ragiona (?) nello stesso modo per gli omicidi di donne in ambito familiare. Si è coniato un nuovo termine, femminicidio. Maschicidio non lo usa nessuno, non lo riconosce nemmeno il correttore automatico; eppure su 100 omicidi in ambito familiare, i maschi uccisi sono il 39%. Tant’è, le crociate integrano socialmente. Oggi godimento generale: il Tribunale di Messina ha stabilito che la morte di Marianna Manduca, uccisa dal marito Saverio Nolfo, era dovuta a colpa dei magistrati, inerti pur dopo 12 denunce della donna. Fossero intervenuti, la poveretta sarebbe ancora viva. Una crociata appunto. Marianna e Saverio non vanno d’accordo. La donna, il 27/9/2006, denuncia il marito per maltrattamenti: è - dice - un tossicodipendente; e il 10/10 chiede la separazione. Poi altre querele: 12/10 (mi ha detto "bugiarda" e ha sbattuto il portone); 14/10 (ha sbattuto una porta e ha rotto un vetro); 7/11 (mi ha cagionato lesioni); per lo stesso episodio il marito la querela a sua volta: sono stato aggredito da mia moglie e dai suoi genitori, le lesioni le ho subite io. Il Tribunale dà torto alla moglie: il Sert dice che il marito non è tossicodipendente, una perizia esclude patologie psichiatriche, i figli sono affidati al padre. Il 4,15,16,17/1 e il 4/3/07 Marianna presenta altrettante querele: mio marito non mi fa vedere i bambini, ha buttato le mie cose in strada, mi ha dato uno schiaffo (non visto da un testimone presente ai fatti). Il 20/3 è il marito che querela: Marianna ha danneggiato la porta della mia casa con una bombola del gas e ha tentato di investirmi con la macchina. Il 31/8 è la volta della moglie: ha danneggiato la mia macchina con calci e pugni (i CC non constatano alcun danno). Nessuno di questi reati consente misure cautelari: il reato di stalking sarà introdotto solo il 25/2/2009. E poi: chi sta perseguitando chi? Però, il 2/6 e il 3/9, nelle querele della moglie compare un coltello: mio marito lo ha estratto con aria di sfida e ci si è pulito le unghie; mi sento minacciata. E, il 4/10, Saverio uccide Marianna con un coltello. Carmelo Cali (ha adottato i tre figli della Manduca) chiede un risarcimento danni: la morte è avvenuta per colpa dei magistrati che non hanno messo in prigione Saverio, non lo hanno sottoposto a Tso, non lo hanno internato in ospedale psichiatrico e non hanno disposto una perquisizione che avrebbe consentito di sequestrare il coltello. Il Tribunale respinge le prime tre argomentazioni: per i reati denunciati dalla Manduca, ammesso fossero sussistenti, non erano consentite misure cautelari; Nolfo era sano di mente e dunque non era consentito né il Tso né il ricovero in ospedale psichiatrico. Però la perquisizione... quella sì. Se fatta, il coltello sarebbe stato trovato e Nolfo non avrebbe ammazzato la moglie. Dissennato. Manca ogni prova che l’arma del delitto sia stata quello stesso coltello oggetto delle querele del 2/6 e 3/9/2007. Ma poi, chi può dire che, se quel particolare coltello fosse stato sequestrato, Nolfo non avrebbe compiuto l’omicidio con altro coltello o addirittura con altri mezzi? Dunque l’omessa perquisizione non ha avuto alcun effetto causale sull’omicidio. E infatti il Tribunale costruisce la sentenza sul concetto di probabilità: è probabile che sia stata ammazzata con quel coltello; è probabile che, se fosse stata disposta una perquisizione, questo sarebbe stato trovato; è probabile che Nolfo, privo di quel coltello, non avrebbe ucciso la moglie. Si condannasse con questi criteri, le carceri sarebbero piene. Gli errori capitano anche nelle sentenze, non c’è da scandalizzarsi. Lo scandalo vero è la crociata: "quando c’è un femminicidio qualcuno deve pagare". Codice antimafia: prevenzione, si allarga la confisca di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 Misure di prevenzione a tutto campo con il nuovo Codice antimafia. Il provvedimento, è da ieri sera in discussione in Aula al Senato, dopo avere ricevuto già il via libera della Camera. E tra i punti qualificanti del testo, che è stato modificato e quindi si renderà necessario un nuovo passaggio parlamentare, c’è proprio l’estensione delle misure di prevenzione previste per l’attività di contrasto alla criminalità organizzata. Sia personali (sorveglianza speciale, rimpatrio, avviso orale), sia, soprattutto, patrimoniali (confisca e sequestro). Nell’ultimissima versione del testo, infatti, le misure potranno essere applicate a tutti gli indiziati dei principali reati contro la pubblica amministrazione, dalla corruzione alla concussione, passando per l’induzione indebita e la truffa per ottenere finanziamenti pubblici; ma, e si tratta di modifiche approvate proprio in commissione Giustizia, si è dato il via libera all’applicazione per i reati legati al terrorismo, anche nella sua versione internazionale, e per lo stalking. Un allargamento che appare considerevole e in quanto tale assai contestabile. Ed è il punto di vista delle Camere penali che sottolineano come la semplice esistenza di ""indizi", neppure qualificati, infine, quale presupposto per la sola applicabilità delle misure, in assenza sia del carattere di abitualità delle condotte che della componente patrimoniale dell’eventuale illecito per il quale si ritenesse sussistere un fumus, mostra tutta l’assurdità del sistema normativo che si verrebbe a delineare per effetto delle modifiche legislative, che diverrebbe un facile strumento per infliggere pesanti sanzioni a carattere patrimoniale al di fuori del processo". Insomma, misure pesanti. Ma se per i penalisti l’allargamento è eccessivo, per i magistrati è troppo poco e, comunque, fuorviante. Il punto di vista è stato chiarito dall’audizione del Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti: "l’esplicita previsione dei delitti contro la pubblica amministrazione, potrebbe legittimare la tesi della esclusione dall’applicazione del sistema della prevenzione per tutte le altre tipologie di delitto, pur se riconducibili a soggetti che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose (come ad esempio, l’evasore fiscale abituale - il truffatore abituale - il ricettatore abituale)". Preoccupazione peraltro, quest’ultima, condivisa anche dal procuratore aggiunto a Milano Ilda Boccassini. Roberti ha messo in luce come siamo in presenza di un’evoluzione del sistema della prevenzione. Si è passati cioè dalla pericolosità della persona alla pericolosità dei beni e del patrimonio, con misure che puntano a colpire, non direttamente il soggetto ritenuto pericoloso, ma le ricchezze utilizzate o ottenute attraverso l’attività criminale. Niente ricorso in Cassazione contro l’archiviazione per particolare tenuità del fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 giugno 2017 n. 30685. Contro il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto non si può fare ricorso in Cassazione. L’archiviazione per il suo carattere non definitivo non viene, infatti, iscritta nel casellario giudiziale facendo venire meno l’interesse ad impugnare un provvedimento che non lede alcun interesse dell’indagato. La Corte di cassazione, con la sentenza 30685, bolla come inammissibile, perché non poteva essere proposto in sede di legittimità, il ricorso contro l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto l’archiviazione di un procedimento, relativo al reato di immissioni in atmosfera, per la particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del codice penale. Un verdetto che non era "piaciuto" all’indagata che puntava al riconoscimento dell’infondatezza della notizia di reato. La ricorrente sottolineava, infatti, che l’applicazione della non punibilità, in base all’articolo 131-bis, presuppone una responsabilità che lei riteneva di non avere. La Suprema corte spiega però che il divieto di ricorso in Cassazione può costituire un vulnus degli interessi dell’indagato, di rilievo costituzionale, solo nel caso in cui il provvedimento di archiviazione fosse iscritto nel casellario. I giudici delle terza sezione penale citano la giurisprudenza della Corte (sentenza 12306/2016) secondo la quale "il potere di opposizione trova giustificazione nel possibile interesse delle parti ad un diverso esito del procedimento, potendo l’imputato, in particolare mirare a un’assoluzione nel merito o auna diversa formula di proscioglimento per evitare l’iscrizione nel casellario giudiziale della dichiarazione di non punibilità ex articolo 131-bis del codice penale". Ma la tutela non scatta quando la non punibilità è disposta con l’archiviazione, perché nel casellario vengono iscritti solo i provvedimenti definitivi e l’archiviazione non lo è perché lascia comunque aperta la possibilità di riapertura delle indagini in caso di fatti nuovi. L’interpretazione della Cassazione trova conferma nell’articolo 651 del codice di rito che prevede l’efficacia di giudicato della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno, ma non nell’archiviazione. Stupefacenti, l’ospite del pusher non è punibile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 Tribunale Ivrea, penale - Sentenza 21 febbraio 2017, n. 62. Il solo fatto di essere ospite di una persona nella cui abitazione venga ritrovata sostanza stupefacente non è una circostanza sufficiente affinché possa scattare il concorso nel reato. La fattispecie concorsuale richiede, infatti, un contributo positivo partecipativo all’altrui condotta criminosa che non sussiste in caso di mera ospitalità nell’appartamento dello spacciatore. A precisarlo è il Tribunale di Ivrea nella sentenza 62/2017 con la quale ha mandato assolto dal reato di detenzione di sostanze stupefacenti un ragazzo colpevole solamente di essere ospite di un suo amico pusher. Il caso - Il procedimento penale trae origine da un controllo effettuato dai Carabinieri che avevano perquisito l’appartamento di un ragazzo rinvenendo alcune dosi di Ketamina e Marijuana, nonché un bilancino e altri strumenti per il confezionamento della droga. Nell’abitazione si trovava, oltre all’inquilino, anche un suo amico che era ospite da lui da qualche giorno. I due venivano così processati separatamente per concorso nel reato di detenzione di stupefacenti di lieve entità, prevista dall’articolo 73 comma 5 del Dpr 309/1990. La decisione - Il Tribunale si trova nella specie a dover affrontare la posizione del ragazzo che non viveva nell’abitazione perquisita ma, come da sua stessa ammissione, vi soggiornava da un paio di giorni, dopo aver abbandonato la sua abitazione per un litigio familiare, e non era a conoscenza del tipo di sostanze che il suo amico deteneva in casa. Ebbene, il giudice ritiene credibile la versione dell’imputato e lo assolve. L’ipotesi concorsuale, afferma il Tribunale, non sta in piedi: "la circostanza che l’odierno imputato fosse ospite dell’amico da alcuni giorni non è di per sé sola idonea a fondarne un concorso punibile". Difatti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto "va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, privo cioè di qualsivoglia efficacia causale, il secondo richiede, invece, un contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino la detenzione, l’occultamento ed il controllo della droga, assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare". E nel caso di specie, dal rapporto di mera ospitalità non può trarsi alcuna indicazione utile quanto ad un eventuale contributo nella commissione del reato. Dichiarazioni infedeli, dopo la riforma spazio alla revocabilità delle condanne di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 20 giugno 2017 n. 30686. L’errata imputazione nell’esercizio di competenza di ricavi come l’illegittima deduzione di costi, se reali, non integrano più il reato di dichiarazione infedele con la conseguenza che eventuali condanne ancorché passate in giudicato devono essere revocate. A precisarlo è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 30686 depositata ieri. L’amministratore di una società era stato condannato in via definitiva per dichiarazione infedele (articolo 4, Dlgs 74/2000), per aver imputato ricavi nell’anno 2003 in luogo che 2004. L’interessato, in conseguenza delle modifiche normative intervenute dal 22 ottobre 2015, chiedeva al giudice dell’esecuzione la revoca della condanna, in quanto la condotta al tempo censurata non costituiva più reato. In passato, infatti, la norma prevedeva che gli errori di competenza non potessero costituire fatti penalmente rilevanti per il reato di dichiarazione fraudolenta ovvero infedele, solo se commessi sulla base di metodi costanti di impostazione contabile. Con la riforma dei reati tributari, invece, tutti gli errori di competenza non rilevano ai fini della dichiarazione infedele, a prescindere cioè che derivino da metodi costanti di imputazione contabile o meno. Il giudice dell’esecuzione rigettava la richiesta di revoca ritenendo, tra l’altro, la condotta dell’amministratore connotata da fraudolenza. La Suprema Corte, riformando la decisione, ha innanzitutto precisato che il giudice dell’esecuzione deve rigorosamente limitarsi ad accertare il contenuto e la portata della sentenza di condanna, astenendosi da valutazioni di merito dei fatti accaduti. Di conseguenza il comportamento dell’imprenditore non poteva essere più oggetto di valutazione. Il giudice doveva, infatti, limitarsi a confrontare la struttura della vecchia incriminazione rispetto alla nuova, per poi valutare se il fatto contestato e riconosciuto in sentenza, avesse rilevanza penale. Nella specie, in passato l’articolo 4 del Dlgs 74/2000 prevedeva che per l’integrazione del reato di dichiarazione infedele non occorresse la sussistenza di fraudolenza, poiché era sufficiente l’indicazione di elementi attivi o passivi non effettivi superando specifiche soglie di punibilità. In vigenza di tale previsione, l’articolo 7 (ora abrogato) disponeva che non fossero punibili le rilevazioni di costi o ricavi in violazione dei criteri di competenza, ma commessi sulla base di metodi costanti di impostazione contabile. Con la riforma, è stata ridisegnata la fattispecie della dichiarazione infedele, prevedendo in estrema sintesi al superamento delle soglie la rilevanza penale di omessa annotazione di ricavi, sotto fatturazioni e deduzione di costi solo se inesistenti. In ogni caso non integra il delitto l’errata imputazione temporale, senza però subordinarla, come avveniva in passato, alla derivazione di metodi costanti di impostazione contabile. Ne consegue così, che il reato non è integrato se la condotta è realizzata in violazione dei criteri di competenza, inerenza ed indeducibilità. Nella specie, dal testo della sentenza impugnata emergeva chiaramente che il fatto contestato riguardava esclusivamente la violazione del principio di non corretta imputazione dei ricavi e la condanna era stata pronunciata sul presupposto che ciò non rispondesse a metodi costanti di impostazione contabile. Poiché la nuova norma, esclude che tale comportamento costituisca ora reato, va revocata, in applicazione del favor rei, la sentenza di condanna a suo tempo emessa. Velletri (Rm): Marco Prato suicida in carcere, era atteso alla prima udienza di Cristiana Mangani Il Messaggero, 21 giugno 2017 Marco Prato si è suicidato all’una e dieci della scorsa notte nel carcere di Velletri dove era stato trasferito a marzo da quello romano di Regina Coeli in attesa di giudizio. Il giovane pierre finito in cella insieme con Manuel Foffo per l’atroce delitto di Luca Varani, si è recato in bagno, ha infilato la testa in un sacchetto di plastica e ha respirato il gas contenuto nella bombola che è in dotazione ai detenuti. Il suo compagno di cella stava dormendo e non si è accorto di nulla. In cella Prato ha lasciato un messaggio per spiegare il gesto: si sarebbe suicidato per "le menzogne dette" su di lui e per "l’attenzione mediatica" subìta. Il giovane aveva scelto di farsi processare con il rito ordinario, mentre il complice Foffo era già stato condannato a trenta anni di carcere con l’abbreviato. Il processo nei confronti di Prato è iniziato ad aprile scorso. In carcere Prato aveva scoperto di essere sieropositivo. Continuava a professarsi innocente dicendosi succube di Foffo. Il 4 marzo 2016 i due giovani avevano straziato, dopo un festino a base di alcool e droga, il corpo di Varani. Durante le indagini, condotte dal pm Francesco Scavo, si sono accusati a vicenda. Il pierre aveva scelto di parlare con il magistrato solo dopo molti mesi. Il carcere, la vita senza futuro, il rimorso, devono avergli fatto decidere che era meglio morire. Prato aveva già provato a togliersi la vita: nella stanza d’albergo in cui si rifugiò subito dopo l’omicidio furono trovati dei biglietti indirizzati ai suoi genitori. "Chiedo scusa a tutte le persone a cui ho fatto qualcosa - si leggeva in uno dei messaggi. Vi scrivo mentre me ne sto andando". "Sto male o forse sono sempre stato così, ho scoperto cose orribili dentro di me e nel mondo. Fa troppo male la vita" scriveva ancora il giovane. "Una notizia tragica ma noi avevamo lanciato l’allarme mandando fax e presentando istanze in cui segnalavamo il rischio a cui poteva andare incontro anche Manuel Foffo", afferma ora l’avvocato Michele Andreano che ha seguito Foffo nel processo abbreviato. "Ci tengo a precisare che io non sono più l’avvocato di Foffo, ma questa vicenda - riapre la questione del controllo che alcuni detenuti devono necessariamente avere all’interno delle carceri. Attualmente Foffo è detenuto a Rebibbia in una struttura sorvegliata. Per Prato non so qualche fosse il regime cui era sottoposto ma i controlli sono assolutamente necessari". Velletri (Rm): il Garante dei detenuti Mauro Palma "un suicidio annunciato" di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2017 "Era stato trasferito per due volte a Velletri, un carcere non adeguato per una persona che ha problemi psicologici. noi lo avevamo segnalato subito". "Nessuna sorpresa per un suicidio per molti versi annunciato" : è chiara la posizione del professor Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, sul suicidio di Marco Prato, nel carcere laziale di Velletri. Ora la procura di Velletri procede per istigazione al suicidio contro ignoti: "Credo sia un semplice atto formale, non penso sia stato istigato - commenta al Dubbio Palma - quello che bisogna fare è invece riflettere su come bisogna farsi carico dei soggetti che, pur avendo commesso dei reati orribili, hanno delle difficoltà psicologiche più grandi di quelle degli altri detenuti". Vi era già stato un trasferimento a Velletri per Prato? Nell’agosto dell’anno scorso, in occasione di una visita di controllo al reparto dei protetti (quello che ospita reclusi per reati di natura sessuale, ndr), uno dei più fatiscenti di Regina Coeli, avevamo conosciuto Prato e più in profondità la sua situazione; appena saputo del primo trasferimento a Velletri pochi giorni dopo, siamo intervenuti manifestando la situazione difficile del detenuto e in quell’occasione l’amministrazione penitenziaria ci aveva dato retta e Prato era ritornato dopo pochissimo a Regina Coeli. Quindi da tempo si conoscevano le criticità relative alla detenzione del ragazzo? Il caso di Marco Prato si conosceva bene. Avevamo scritto al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e al Dap stesso e avevamo ricevuto risposte genericamente rassicuranti, in cui si precisava che non sarebbero tornati indietro nella decisione del trasferimento ma che comunque la situazione a Velletri era monitorata. Ma questo non è l’unico aspetto problematico. Una criticità sta anche nell’aver spostato una persona con problemi psicologici rilevanti, che aveva manifestato tendenze suicidarie, da un istituto ad un altro non sulla base di una valutazione di tipo diagnostico né discutendone con il detenuto stesso, come previsto dalle regole europee. Questa procedura non è stata seguita nonostante sia richiamata in una circolare del ministro della Giustizia volta proprio a ridurre il rischio suicidario. La seconda criticità sta nel fatto che il trasferimento a Velletri è avvenuto a seguito di una richiesta di Prato stesso di essere inserito in un reparto dove svolgere attività, come corsi di lingua inglese e francese per detenuti, diverso quindi da quello dei protetti, all’interno del quale si trovano una decina di reclusi. Le autorità dell’Istituto avevano rifiutato la richiesta, anche legittimamente nel senso che non per forza vanno accolte le istanze. Tuttavia in questa operazione, l’ipotesi di Marco Prato fu interpretata come una pretesa e quindi si innescò un meccanismo che oltre al rifiuto comportò il trasferimento a Velletri. Invece di potenziare il percorso intrapreso dal detenuto, lo hanno interrotto, quasi con la mentalità burocratica di chi dice "decidiamo noi, punto e basta". La terza criticità sta proprio nel carcere Velletri che non ha una articolazione psichiatrica, è un istituto molto sovraffollato, dove al personale già fortemente stressato viene chiesto tanto. Nella decisione di non riportarlo nel carcere romano ha giocato un ruolo la sovraesposizione mediatica del caso? Secondo me sì, la paura che potesse sembrare un privilegio nei suoi confronti ha comportato un rifiuto. Tuttavia voglio ricordare che ci sono stati nel 2017 altri 22 suicidi di cui però nessuno si è occupato. Velletri (Rm): sovraffollamento e poche guardie, le celle da "maglia nera" di Michela Allegri Il Messaggero, 21 giugno 2017 Un carcere in difficoltà, con problemi di sovraffollamento e con una grave carenza a livello di personale. Nella casa circondariale di Velletri, dove il pr Marco Prato si è tolto la vita soffocandosi con una busta di plastica e una bomboletta di gas, i detenuti restano molto tempo rinchiusi nelle celle, perché scarseggiano sia le guardie penitenziarie, sia gli educatori. C’è poco tempo per i percorsi di reinserimento, per i lavori, per i laboratori, per lo sport, visto che la vigilanza da coprire con un organico ridotto sarebbe troppo difficoltosa. Tenere i reclusi dietro le sbarre, quindi, è il modo più ovvio per evitare incidenti, per scongiurare tentativi di evasione, per rendere più agevoli e rapidi ispezioni e controlli. Ma è anche la dinamica che più di tutte rischia di rendere gli arrestati soli con il loro senso di colpa, affiancati per ore interminabili da un compagno di cella che non è in grado di aiutarli. Uno scenario di questo tipo, in una psiche già prostrata dal peso dei reati commessi e dal rimorso, potrebbe favorire atti di autolesionismo e suicidio. A Velletri, il problema del sovraffollamento si fa sentire con insistenza. Secondo le ultime stime, i detenuti attualmente ospitati sono 585, cioè 170 in più rispetto alla capienza massima dell’istituto, che è di 411 soggetti. Questo dato, collegato alla mancanza di personale, ha risvolti preoccupanti. Il rapporto tra organico e reclusi è basso: c’è una guardia in servizio ogni tre persone. "A Velletri c’è il più basso rapporto tra personale e detenuti del centro Itala", ha dichiarato il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Sul punto, e sulle modalità con cui è stato sorvegliato Prato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha avviato un’istruttoria di verifica che correrà parallela all’indagine della procura, aperta per istigazione al suicidio. I punti da chiarire sul decesso del killer del Collatino sono tanti. Uno su tutti: perché Prato, che era detenuto a Regina Coeli in regime di massima sorveglianza e che già in passato aveva tentato di togliersi la vita, è stato trasferito a Velletri? Il giovane aveva chiesto di abbandonare la sezione romana dove era recluso dal giorno del delitto, per poter iniziare a lavorare. Una richiesta "legittima", ha specificato il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. "L’Amministrazione penitenziaria - ha aggiunto il Garante - ha ritenuto che questa richiesta fosse indicativa del fatto che la permanenza a Regina Coeli fosse ormai un fattore a favore del soggetto, che gli permetteva di adattarsi e crearsi un ambiente favorevole". Palma aveva segnalato alla direzione del carcere e al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria "la paradossalità di quell’affermazione che ha di fatto penalizzato il processo di adattamento e di ambientazione all’interno dell’Istituto. Il positivo percorso trattamentale è stato usato come pretesto per il trasferimento in una situazione di peggiori condizioni". Prato, infatti, era stato spostato a Velletri in attesa della prima udienza del processo a suo carico, prevista per questa mattina. Il problema, per il Garante, è che a Velletri "l’articolazione psichiatrica" è molto ridotta rispetto a quella prevista nella casa circondariale romana. Quindi, una persona incline al suicidio rischia di trovarsi in una situazione di difficoltà e con un’assistenza più limitata. In risposta alle segnalazioni, Palma ha detto di non aver notato segnali concreti: "Al di là di rassicurazioni informali e generiche, nessuna delle autorità responsabili ha voluto recedere dalla posizione presa, nonostante l’indicazione dell’inadeguatezza della collocazione a Velletri e del rischio suicidario ancora esistente". Tutte queste circostanze, saranno valutate nelle indagini della procura e del Dap. Roma: "malori in cella", a Regina Coeli due detenuti morti in una settimana di Nicola Campagnani La Repubblica, 21 giugno 2017 Morti in cella, a distanza di pochi giorni, nel carcere di Regina Coeli. Il primo dei due detenuti sarebbe deceduto venerdì scorso, l’altro nella giornata di ieri. A dare le prime informazioni sull’acaduto il garante per i detenuti della regione Lazio Stefano Anastasia. "Il detenuto morto venerdì scorso - ha spiegato il Garante - è italiano e secondo le prime informazioni sarebbe deceduto per un aneurisma. Il secondo, un detenuto straniero, è morto oggi per un infarto". Due casi avvenuti in una manciata di giorni, che richiederanno tutti i dovuti approfondimenti: "Saranno avviati gli accertamenti - ha dunque concluso Anastasia - ma queste morti dimostrano, una volta di più, come sia difficile gestire particolari condizioni di salute nei penitenziari". Lecce: il progetto "Made in Carcere" festeggia 10 anni di attività di Enza Moscaritolo Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2017 Fatto dalle donne. Fatto con il cuore. Made in Carcere festeggia dieci anni, ma cammina con l’entusiasmo dei primi giorni. A trainare questo progetto nato a Lecce, che sta lentamente espandendo i suoi confini, è Luciana delle Donne, ex manager di una multinazionale, che ha messo la sua esperienza più che ventennale nel campo dell’economia e della finanza al servizio delle donne detenute. Nel laboratorio del penitenziario del capoluogo salentino quindici detenute (ma il numero oscilla a seconda del turn over), tra italiane e straniere, cuciono scampoli di stoffa e rammendano pezzi di esistenza, provando a costruirsi un’identità nuova che le veda protagoniste al positivo. Sono regolarmente assunte per un impiego part-time di sei ore e hanno una busta paga di settecentocinquanta euro, con cui riescono ad essere economicamente autonome e ad aiutare le famiglie al di là delle sbarre. Come dire, le donne sostengono sempre la famiglia, anche in condizioni oggettivamente difficili. Per tutte loro questo progetto è di vitale importanza: rappresenta l’obiettivo con cui si alzano la mattina o grazie al quale si sentono finalmente impegnate in qualcosa di costruttivo, sperimentando una collaborazione creativa. Sono loro stesse a candidarsi. La materia prima è a costo zero perché le aziende che credono e sostengono Made in Carcere regalano gli scarti di stoffa che altrimenti sarebbero andati al macero. Così nascono braccialetti, borse, shopper bag, accessori, custodie tech colorati e con una spiccata personalità. Alcune hanno nomi originali come "Doppio Panico" o "Doppia Faccia", con qualche evidente riferimento alla storia di chi li produce. Il progetto, un’idea semplice e allo stesso tempo efficace sta portando i suoi frutti: conta anche una decina di collaboratori esterni e sta cercando "ambassadors", procacciatori di affari per allargare il giro di vendite con nuovi contratti. A questo mondo, un modo per provare a coniugare business e anima si può trovare. Basta volerlo e rimboccarsi le maniche. Made in Carcere rappresenta la possibilità di dare una nuova vita alle cose, ma soprattutto alle persone. Come avere etica ed estetica in un colpo solo. Quali obiettivi si pone Made in Carcere? "Noi puntiamo a cambiare la vita delle persone, non vendiamo solamente le borse, quello forse è un pretesto. Stiamo vicino alle donne del nostro laboratorio per aiutarle in un percorso di nuova consapevolezza di sé, e in un secondo momento di auto imprenditorialità, quando saranno fuori dal carcere. Devono reinventarsi un mestiere, oltre che un percorso nella vita di tutti i giorni. E non è facile. Proprio qualche giorno fa ho convinto una ragazza che voleva gettare la spugna, ma alla fine è tornata a far parte dei nostri. L’istinto ad arrendersi è sempre in agguato. Infine, il nostro obiettivo è "contagiare" gli altri, innescando un circuito virtuoso di buone prassi di volontariato, invogliando al bello e al bene". Perché è nato Made in Carcere? "Sentivo l’esigenza di restituire tutta la ricchezza e il bene che avevo ricevuto nella mia vita precedente. Così mi è venuto in mente Made in Carcere. Ho lasciato Milano e sono tornata nella mia città per dare vita a questo progetto. In fondo, è una seconda vita anche per me" "Made in Carcere" è il simbolo dell’etica del riuso, un invito ad un nuovo stile di vita anche per noi consumatori? "Sicuramente il messaggio che vogliamo far passare è quello di diffondere la filosofia della "Seconda Opportunità" sia per le donne detenute sia per la "Doppia vita" per i tessuti. A questo mondo siamo ancora troppo consumisti. Con una nuova iniziativa avviata al carcere minorile di Bari, dove i ragazzi confezioneranno biscotti, siamo riusciti ad ottenere vecchi macchinari per la produzione che abbiamo restaurato e rimesso a nuovo. Anche questo è un messaggio di concretezza, di solidarietà, ma anche di rispetto per l’ambiente". Come festeggerete questo decimo compleanno? "Al primo piano del penitenziario abbiamo avuto un’ala che sarà tutta per noi. Una sorta di "maison" di Made in Carcere, con annesso ufficio, sala musica e sala riunioni. Un ambiente unico, con sorveglianza con telecamere, dove le detenute avranno più agio per muoversi, confrontarsi, lavorare e rigenerarsi". Taranto: progetto "UPPark", così il volontariato trasforma i detenuti in falegnami cronachetarantine.it, 21 giugno 2017 Quattro detenuti della Casa Circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, negli ultimi otto mesi, hanno frequentato il laboratorio di falegnameria allestito all’interno del carcere dall’associazione di volontariato "La Mediana". Un detenuto spiega, con quel disagio di chi vive una detenzione in un carcere, che "costruire una sedia nel laboratorio di falegnameria, o un tavolo o una libreria, ci ha dato la possibilità di imparare un mestiere e, soprattutto, tenerci impegnati per qualche ora "evadendo" dalla monotonia della nostra "stanza". Poi - prosegue- ci ha anche consentito di entrare in contatto e diventare amici con persone che, venendo da fuori, ci hanno portato un po’ di quella libertà che oggi noi non possiamo respirare". Il laboratorio di falegnameria è una delle azioni del Progetto "UPPark" che, sostenuto da Fondazione con il Sud nell’ambito del Bando Ambiente 2015, da oltre un anno vede tredici organizzazioni e istituzioni, riunite in un partenariato con capofila il WWF "Trulli e Gravine", impegnate in azioni per la valorizzazione del Parco Naturale Regionale "Terra delle Gravine" e la salvaguardia del suo ecosistema. I risultati ottenuti dall’iniziativa sono stati presentati in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Luciano Mellone, direttore della Casa Circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, Giovanni Lamarca, commissario capo della Polizia penitenziaria, Gianni Grassi, presidente del WWF Trulli e Gravine, e Lucia Longo, presidente de La Mediana. Presenti anche i veri protagonisti del laboratorio di falegnameria: gli architetti Michele Loiacono e Mariangela Bruno che, con il dottor Giuseppe Frisino, sono stati i tutor e conduttori dell’iniziativa, nonché tre dei quattro detenuti che hanno seguito il corso, il quarto ha recentemente riacquistato la libertà. Due giorni a settimana, nel pomeriggio del giovedì e del venerdì, negli otto mesi di attività nel laboratorio sono stati costruiti gli arredi lignei (sedie e tavoli) con cui sarà allestito il Centro Visite del Parco "Terra delle Gravine" nell’Oasi Wwf Monte Sant’Elia", ubicato in una antica masseria in corso di restauro, una delle principali azioni del progetto UPPark teso a rendere pienamente fruibile il parco alla popolazione. Il laboratorio ha rappresentato un’officina solidale che ha permesso ai detenuti di apprendere saperi e conoscenze legate ai mestieri artigianali, con l’auspicio che possano essere utili per il loro futuro reinserimento nella società. Nell’ambito del laboratorio si sono instaurati una serie di rapporti positivi di cooperazione, basati sull’empatia e la fiducia, fra detenuti, formatori e volontari de La Mediana che hanno partecipato alle attività. Si è cercato di aumentare l’autostima dei detenuti rendendoli protagonisti attivi di questa esperienza e valorizzando il loro potenziale umano, tra l’altro sono stati retribuiti con i fondi del Progetto UPPark. I detenuti hanno dimostrato di saper costruire bene i mobili, chissà se qualcuno fuori dal carcere, animato da autentico spirito solidale, saprà investire per costruire un rapporto capace di dare loro una speranza: guardare con un po’ più di fiducia al loro futuro reinserimento nella società. Napoli: domani un dibattito sulle carceri con il ministro Orlando di Pippo Calaiò cinquecolonne.it, 21 giugno 2017 "E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere" è il titolo del libro di Antonio Mattone che il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenterà all’Istituto di Cultura meridionale, giovedì 22 giugno, alle 17:45, nella sede partenopea di palazzo Arlotta. Il volume, pubblicato da Guida editori, con la prefazione del ministro Orlando e la presentazione di Alessandro Barbano, direttore responsabile de il Mattino, analizza il mondo del carcere e le possibilità di riscatto, sulla scorta dell’esperienza maturata in oltre dieci anni di incontri con i detenuti di varî penitenziarî italiani, tra cui quello di Poggioreale. "Questo libro toglie il velo di una comoda cecità e mostra la condizione di uomini come noi, che vivono insieme, diversamente da noi, la vita e la morte. La vita che è sopravvivenza, desiderio, sogno, illusione", scrive nella presentazione Barbano. "La morte che è la contro faccia di ciascuna di queste cose, perfettamente combaciante con esse - prosegue Barbano -. Morte fisica, esistenziale, civile. […] Questo libro è una sveglia. Salvifica ma ultimativa, che ci offre ancora una residua possibilità di capire. Capire che il dolore degli altri, così simile al nostro, è sostenibile se riusciamo a dargli un senso". "Questo libro, ricco di passione civile e di umana solidarietà, […] riparte dalle carceri, riparte da un impegno di cui offre una testimonianza intensa e autentica - scrive il ministro Orlando nella prefazione -. Possiamo e dobbiamo voltarne le pagine, certo non possiamo voltarci da un’altra parte". Introdurrà l’incontro Gennaro Famiglietti, presidente dell’Istituto. Moderati da Massimo Milone, direttore di Rai Vaticano, con Andrea Orlando interverranno Alessandro Barbano, il magistrato Francesco Cascini, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Sarà presente l’autore. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di sant’Egidio, dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del centro storico. Dal 2006 visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziarî italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penale. Editorialista de il Mattino sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’ufficio di Pastorale sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. Pistoia: sette detenuti in pellegrinaggio a Roma con la Confraternita di San Jacopo gonews.it, 21 giugno 2017 Un pellegrinaggio di straordinario valore simbolico e spirituale sulle vie della fede per riflettere sulla propria vita, i propri errori ed avere la possibilità di redenzione. È questa l’idea che sta alla base dell’iniziativa che vede coinvolti Diocesi di Pistoia, Confraternita di San Jacopo di Perugia e alcune carceri del Lazio: domani, 21 giugno, nella memoria liturgica di Sant’Atto, partirà dalla Cattedrale di San Zeno un gruppo di sette carcerati romani per compiere un pellegrinaggio piedi sino a Roma lungo la via Francigena. Una data significativa perché fu proprio il vescovo Atto a far arrivare a Pistoia da Santiago di Compostela nel 1144 la reliquia di San Giacomo Apostolo. L’iniziativa nasce dalla cooperazione tra Diocesi di Pistoia, Confraternita di San Jacopo di Compostela (con sede a Perugia) e le strutture penitenziarie Rebibbia Nuovo Complesso; Terza Casa Reclusione e Rebibbia Casa Circondariale, coordinate dalla dr.ssa Cinzia Calandrino, Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio l’Abruzzo e il Molise. La Confraternita di San Jacopo, il cui rettore è il prof. Paolo Caucci von Saucken, professore di letteratura spagnola presso l’Università di Perugia e massimo conoscitore del Cammino di Santiago, ha messo a disposizione mezzi, strutture di accoglienza e volontari allo scopo di rendere possibile il cammino fisico, ma anche spirituale dei pellegrini, onde offrire una possibilità di cambiamento e redenzione. I pellegrini in arrivo da Roma saranno a Pistoia nel tardo pomeriggio di oggi (martedì 20), quando verso le ore 19 verranno fraternamente accolti sotto il portico antistante la cattedrale e ospitati per la notte a cura della diocesi pistoiese. Domani, festa di Sant’Atto, parteciperanno nella mattina alla solenne celebrazione liturgica in cattedrale per poi iniziare il loro pellegrinaggio a piedi lungo il percorso Jacopeo toscano e poi sulla Via Francigena sino a Roma, accompagnati da un gruppo di volontari. "Lo scopo dei pellegrinaggi giudiziari è essenzialmente favorire il processo di reinserimento dei detenuti nella società civile - spiega Marina Binda, avvocato, volontario carcerario e membro della Confraternita di San Jacopo -. La reiterazione dei reati rappresenta un altissimo costo per lo Stato e anche per questa ragione le istituzioni civili sono interessate a questi progetto". "Durante il pellegrinaggio non ci sono detenuti, non ci sono volontari - continua l’avvocato Binda -; diveniamo, o tentiamo di diventare, un’anima sola. Tutti al servizio l’uno dell’altro, senza distinzioni". Inoltre, sempre nella serata di domani, per celebrare la festa di Sant’Atto vescovo di Pistoia (1133-1153) il Comitato di San Jacopo ha organizzato una serata di approfondimento che inaugura un ciclo di incontri dedicati all’approfondimento e alla conoscenza del Vescovo Atto e di altri personaggi illustri della Chiesa Pistoiese. Nella sala del Capitolo dei Canonici, presso la Cattedrale di san Zeno, alle ore 16.30 sono previsti due interventi: il prof. Silvestrini dell’Università di Firenze, medievista, parlerà della figura di Sant’Atto come abate generale Vallombrosano, mentre la Prof.ssa Maria Valbonesi illustrerà l’importante ciclo figurativo seicentesco con le Storie di Sant’Atto, esistenti nella chiesa della Badia di Passignano. Alle ore 18 seguirà la Santa Messa. Al termine è previsto un momento conviviale. Aversa (Ce): il 7 luglio manifestazione benefica, si esibiscono anche i detenuti di Livia Fattore Il Mattino, 21 giugno 2017 Toghe e note atto secondo. La manifestazione a fini benefici, in programma per la sera del 7 luglio, a favore della Caritas diocesana di Aversa, promossa e organizzata dalla Presidenza del Tribunale e dalla Procura della Repubblica di Napoli Nord nonché dalla Camera civile di Aversa, nel quale potranno esibirsi, suonando, cantando, recitando o declamando poesie, gruppi composti anche da avvocati, magistrati, personale del Ministero della Giustizia, quest’anno avrà una doppia novità. Si esibiranno, infatti, anche commercialisti e, soprattutto, detenuti. Quest’anno, infatti, vi è la significativa novità, possibile grazie al successo della precedente edizione ed alla disponibilità della Direzione del Carcere di Santa Maria Capua Vetere, dei Magistrati dell’Ufficio di Sorveglianza sammaritani, della Presidenza del Tribunale e della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, di far esibire alcuni detenuti in una performance teatrale che sarà svolta, sotto la regia del vivace Marco Puglia, magistrato di sorveglianza, con l’intervento della direttrice del carcere, di educatori carcerari, di Magistrati e della Garante Regionale dei detenuti, a dimostrazione della funzione rieducativa della pena e del lavoro che l’istituzione giustizia svolge per il reinserimento dei cosiddetti diversamente liberi. In proposito, il dottor Puglia ha dichiarato che "il teatro in carcere apre nuove prospettive culturali e di vita ai detenuti e si è rivelato strumento privilegiato per adempiere al mandato costituzionale della funzione rieducativa della pena". La manifestazione, patrocinata dai Consigli dell’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli, dal Consiglio dell’Ordine dei Commercialisti e degli Esperti Contabili di Napoli Nord, dal Comune di Aversa, dalla Diocesi di Aversa, dalla Camera di Commercio Industria e Artigianato di Caserta, dall’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere e dall’Unicef, ha ricevuto il patrocinio ed il sostegno di quasi tutte le associazioni forensi del Circondario, della sezione di Napoli Nord dell’Associazione Nazionale Magistrati, della sezione di Napoli Nord dell’Unione Nazionale dei Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, continuando a perseguire lo scopo di consolidare, anche al di fuori delle aule d’udienza, la comunità creatasi tra gli operatori del settore attorno al nuovo Tribunale e di evidenziare alla collettività il ruolo sociale svolto dai giuristi. É possibile accreditarsi, fino ad esaurimento dei posti, presso le Agenzie Legal Service e Lex Open - site presso il Tribunale di Napoli Nord - entro il prossimo 29 giugno. Il programma di quest’anno è ancora più ricco ed interessante. Carinola (Ce): "Oltre le sbarre, così ogni giorno puntiamo alla riabilitazione" di Livia Fattore Il Mattino, 21 giugno 2017 "La musica linguaggio universale è veicolo di valore, rafforza le relazioni, educa e forma e quella di oggi è un’occasione per arricchire il programma per la socialità". Parole della direttrice Carmen Campi, della Casa di Reclusione di Carinola dove oggi si terrà un concerto in occasione della Festa mondiale della Musica. Il carcere, che ospita 400 detenuti, tra cui molti a fine pena o in breve custodia, di recente ha aderito ad un’iniziativa che ha anche coinvolto 8 detenuti impegnati in lavori di pubblica utilità nella Reggia di Caserta. "Un’esperienza che ha mostrato tutta la sua efficacia e il suo valore sociale", ha ricordato la dottoressa Campi, direttrice di un istituto che in passato aveva avuto una destinazione all’alta sicurezza. Attualmente, si caratterizza per la sperimentazione di modelli di "sorveglianza dinamica" e di "custodia attenuata". "Sono forme d’arte e iniziative alle quali aderiamo per una riforma culturale, ancor prima che normativa che vanno sostenute ed accompagnate nella loro dinamica", ha spiegato la direttrice impegnata fino alla tarda serata di ieri a mettere a punto gli ultimi dettagli. La Casa di Reclusione "G.B. Novelli" di Carinola, nata il 5 marzo 1982 inizialmente come colonia agricola è diventata verso la fine degli anni 80 carcere di massima sicurezza rimanendo tale fino a giugno 2013 quando è stato riconfigurato come Istituto a custodia attenuata, con reparto di recente costruzione a sorveglianza dinamica, e adibito esclusivamente alla detenzione di detenuti del circuito media sicurezza. A Santa Maria Capua Vetere, con oltre mille ospiti, "l’evento è una delle tante iniziative realizzate al fine di alleviare l’esecuzione della pena e di incrementare le relazioni con la comunità esterna", afferma la direttrice Carlotta Giaquinto. "Il teatro è una delle attività che riscuote maggiore interesse da parte dei ristretti che vi partecipano non solo in qualità di spettatori, ma in veste di attori. È stata infatti realizzata in tutti i reparti una rappresentazione ispirata al teatro classico napoletano, da Viviani a De Filippo a De Simone, che ha riscosso notevole successo nel pubblico esterno", continua la dottoressa Giaquinto. "L’istituto è attivo anche sotto il profilo sportivo - aggiunge Giaquinto - grazie alla convenzione con le Acli con tornei di pallavolo e calcio". Numerose iniziative sono in corso: dal frutteto didattico in convenzione con il Crea al corso di street art: laboratori di scrittura creativa, cucito e ricamo; corso di ballo, creazione di bigiotteria, laboratorio di cucina, orientamento al lavoro e mediazione culturale con il Cidis Onlus. "Queste attività ? conclude la direttrice - si aggiungono alle ordinarie scolastiche che prevedono 4 classi di alfabetizzazione, 10 di scuola media, 5 di scuole superiori, nonché ai laboratori autogestiti dagli stessi detenuti presepiale, mosaico, pittura, laboratorio della carta, giardino fiorito, musica". Diverse anche le iniziative in previsione di realizzazione attraverso protocolli con la Fondazione Carditello, il Comitato Don Peppe Diana, il Presidente di Casartigiani e l’Unicef. Gorgona (Li): l’ex carcerato diventato cardinale a tu per tu con i detenuti di Mauro Zucchelli Il Tirreno, 21 giugno 2017 Era un semplice prete albanese perseguitato dalla dittatura: per trent’anni fra galere e lavori forzati Nello scorso ottobre papa Francesco l’ha fatto cardinale. Hanno pregato insieme cristiani e musulmani. Quando i detenuti dell’isola-carcere di Gorgona l’hanno guardato negli occhi, nel cardinal Ernest Simoni non hanno visto un ecclesiastico di altissimo rango bensì "uno di noi". Il solito modo di dire? No, e non solo perché fino all’ottobre scorso era un umile prete albanese, classe 1928: per trent’anni è stato in prigionia e ai lavori forzati, spaccando le pietre di una cava con una mazza da venti chili, poi minatore e stasa-fogne. Colpevole di cosa? Di aver celebrato la messa in memoria di John Fitzgerald Kennedy: era un perseguitato nell’Albania del tiranno Henver Hoxha che aveva deciso di fare del "paese delle aquile" il primo stato al mondo con l’ateismo obbligatorio. È stato il porporato di Santa Romana Chiesa, ormai quasi novantenne, a andare in Gorgona, struttura carceraria che è diventata un "unicum" su scala europea. Il cardinale abita in Toscana, nell’arcidiocesi di Firenze, è entrato in contatto con il mondo dell’isola-penitenziario e tanto dall’una come dall’altra parte è nata l’idea di incontrarsi di persona. Siamo nel segno di un doppio simbolo: da un lato, eccoci in Gorgona, il luogo dove arriva il corpo di Giulia, una ragazza nordafricana dopo il martirio quando non era ancora né santa né patrona di Livorno; dall’altro, l’ha fatto nel giorno del Corpus Domini, e questo ha richiamato alla memoria del prelato un fotogramma dei suoi anni nel gulag albanese, come ha raccontato ai detenuti. Quand’era in carcere, celebrava messa di nascosto dai secondini utilizzando a mò di ostie alcune briciole di pane trovate chissà come e come vino la spremitura di qualche chicco d’uva che riusciva a fargli avere la moglie di un musulmano. Il rapporto con gli islamici l’ha ritrovato anche in Gorgona: alla messa celebrata dal cardinal Simoni ha voluto esser presente anche un gruppo di musulmani. Dai detenuti (e dal personali di polizia penitenziaria) dell’isola è stata consegnata all’ecclesiastico una lettera da portare a papa Francesco: la Gorgona invita il pontefice a passare un giorno sull’isola-carcere. Non è stata resa nota ma, a quanto è stato possibile ricostruire sulla base delle testimonianze raccolte, risulta che più o meno il tono sia questo: sappiamo che il Papa si mette al fianco di chi soffre e sappiamo che in molti casi sono state le nostre azioni a causare sofferenza, ma se il pontefice volesse venire ad ascoltarci saremmo contenti di invitarlo. Impossibile sapere ora se dal Vaticano arriverà una risposta: per singolare coincidenza, proprio oggi il pontefioce sarà in Toscana a Barbiana per una visita in forma privata alla tomba di don Lorenzo Milani, una sorta di "papa Francesco prima di papa Francesco". Del resto, papa Bergoglio ha ormai abituato il mondo ai colpi a sorpresa. Fatto sta che intanto è stato il cardinal Simoni ad andare di cella in cella in virtù di una speciale autorizzazione e poi ha incontrato nel cortile l’insieme dei 90 carcerati e della cinquantina di operatori di polizia penitenziaria presenti in questo scoglio in mezzo all’Alto Tirreno che dall’Ottocento è stato tramutato in carcere, niente strutture ricettive né commerciali ma solo e soltanto la colonia penale. Chissà cosa dev’esser passato per la testa a quest’anziano prete, finito sotto i riflettori solo negli ultimi anni. Il carcere non gliel’hanno raccontato, l’ha vissuto sulla propria pelle: negli anni ai lavori forzati, lo spedivano giù nelle gallerie dentro la montagna. E guai fermarsi: la "cura" era un bel "massaggio" ai talloni a suon di manganellate. A quanto si sa, è il primo cardinale ad aver messo piede su quest’isola che formalmente fa parte del territorio municipale di Livorno eppure sembra all’altro capo del mondo. Come ricordano dall’entourage dell’alto prelato, i detenuti in semilibertà seguono progetti che, seguiti dagli educatori, rappresentano il "fiore all’occhiello" in questo campo a livello nazionale fra agricoltura, pesca, allevamento, produzione di miele, formaggi e ortaggi. Inutile dire che il cardinal Simoni ha usato le parole e le immagini della fede per parlare ai detenuti: come quando ha affidato alla Madonna i suoi interlocutori ma, di qualsiasi orientamento religioso siano, devono averlo capito benissimo quando ha assicurato che "Dio non lascia mai solo nessuno, anzi raccoglie a se tutte le pecore e anche per solo una smarrita, lascia le altre al sicuro custodite e va in cerca di quella spersa e sola". Anche in galera. Catanzaro: nel carcere iniziative per la Festa europea della musica catanzaroinforma.it, 21 giugno 2017 Ieri nell’auditorium dell’Istituto penitenziario "Ugo Caridi" grazie alla volontà della direttrice Angela Paravati, alla collaborazione del comandante Aldo Scalzo e dell’associazione "Promocultura". "Chi fermerà la musica?" si chiedevano i Pooh diversi anni fa. E la risposta a questa loro domanda è stata sempre la stessa: "nessuno". Perché la musica rompe le barriere, supera ogni ostacolo, fossero anche le sbarre di una carcere. In quello di Catanzaro, ad esempio, si è celebrata la Festa europea della musica. Un appuntamento che si rinnova ogni anno in tutte le città, in ogni luogo. Anche nell’auditorium dell’Istituto penitenziario "Ugo Caridi" grazie alla volontà della direttrice Angela Paravati, alla collaborazione del comandante Aldo Scalzo e dell’associazione "Promocultura", presieduta dal maestro Tommaso Rotella. "La musica - ha spiegato Paravati introducendo lo spettacolo - è sempre un fattore positivo, soprattutto in carcere. Ho ascoltato con interesse le motivazioni di un giovane detenuto che, all’inizio di quest’anno, mi ha raccontato del suo amore per la musica rap. Mi ha detto che gli sarebbe piaciuto esibirsi davanti ai suoi compagni, alla sua famiglia. E oggi esaudisce questo suo desiderio, convinti che questa straordinaria passione lo abbia aiutato a superare la sua timidezza". Si chiama Marco Polimeni, ha poco più di trent’anni e in cella, oltre a studiare per ottenere la licenza media, ha scritto "fiumi di parole". Quando arriva sul palco l’emozione è tanta. Ma non appena parte la base, chi lo ferma più. Canta la sua rabbia per gli amici che ti tradiscono, per la solitudine che spesso ti circonda, per tutti quei "ragazzi baciati dalla sfortuna". Mette dietro uno dopo l’altro temi di vita reale: il sesso, la droga, le delusioni. L’importante "è cadere ma sapersi risollevare". Il pubblico lo apprezza, si alza in piedi, lo applaude convinto. Così come il magistrato di sorveglianza, Laura Antonini, che ha accettato l’invito a partecipare a questa straordinaria esibizione. Straordinaria perché sul palco la musica fa miracoli. Con Marco c’è Will, conosciutissimo rapper calabrese, accompagnato dal suo giradischi Dj Kerò. Nemmeno un’esitazione quando gli è stato chiesto: "Te la senti di vivere questa esperienza? Di aiutare a realizzare un sogno di un giovane detenuto?". La risposta è stata subito "sì". Un po’ del loro tempo libero sottratto dalla prove e poi sul palco, a condividere la gioia di uno stile "che nasce dalla strada - ricorda a tutti Will - ma che ha conquistato il mondo e consacrato artisti di grande popolarità". Canta tre dei suoi successi, strappa consensi anche lui così come i giovanissimi talenti della band "Soulshine": Salvatore Servino alla batteria, Guglielmo Lucia alla chitarra, Amerigo Rolli al basso, Martina Valataro chitarra e voce. Sono rockettari e il repertorio è un susseguirsi di brani che hanno fatto la storia di questo genere. Piovono applausi anche per loro come i "grazie" dei detenuti presenti per un momento di spensieratezza che solo la musica può regalare. Milano: oggi a San Vittore concerto il coro gospel della sezione femminile agensir.it, 21 giugno 2017 La musica che salva, che rieduca, che va "oltre le mura": domani, mercoledì 21 giugno presso la casa circondariale di San Vittore (Mi), si terrà un concerto molto speciale, che avrà come protagonista il coro gospel della sezione femminile del carcere milanese accompagnato dalla cantautrice Ylenia Lucisano e dal chitarrista Renato Caruso (ingresso ore 14.30 - inizio concerto ore 15.30). Il progetto del coro è stato avviato nel mese di marzo 2016, promosso da Auser regionale Lombardia in collaborazione con la Camera del Lavoro metropolitana di Milano e con il supporto di Yamaha Music Europe Branch Italy - che ha concesso una tastiera elettronica professionale - e di Auser Bergamo - la rete delle associazioni bergamasche di Auser, che ha effettuato una donazione a copertura delle spese vive dell’iniziativa. Una decina le detenute attualmente nel gruppo vocale. "Le ragazze sono eccezionali - spiega Matteo Magistrali, uno dei responsabili artistici del progetto - studiano anche durante la settimana e hanno una velocità d’apprendimento impressionante. L’unico problema è il turn over, nel senso che il trasferimento da San Vittore ad altri istituti è frequente e dunque è nostro compito, oltre a regalare un po’ di serenità alle detenute, è mantenere sempre la stessa buona qualità di esecuzione dei brani nonostante la formazione corale non sia fissa. L’idea è sempre stata quella dell’educazione alla bellezza, alla cooperazione, al buonumore: sono tutti elementi che la piccola comunità del coro garantisce, ma soprattutto dissemina". "Ombre della sera", un film documentario sul difficile reinserimento detenuti Dire, 21 giugno 2017 Quanto è difficile rientrare in famiglia e inserirsi nel mondo del lavoro dopo un periodo trascorso in carcere, in particolare all’interno di quello romano di Rebibbia? Tornare al mondo esterno dopo anni di lontananza forzata è il tema del film documentario "Ombre della sera". L’articolo 27 della Costituzione italiana assegna alla pena detentiva una funzione precisa: sostenere e accompagnare i cittadini reclusi in un percorso di rieducazione e di riabilitazione che dovrebbe metterli in grado, scontata la condanna, di reinserirsi nella società civile, anche grazie al lavoro. Di questo percorso, di questo cammino che passa dalla condanna alla liberazione, la società conosce ben poco perché è ancora condizionata da una visione del carcere come luogo di espiazione fine a sè stesso. Il film documentario "Ombre della Sera", interpretato dai detenuti in misura alternativa e dagli ex detenuti di Rebibbia (Roma), nasce per raccontare il percorso di reinserimento familiare e sociale che intraprendono i "liberanti", uscendo dal carcere. L’associazione "Altro Diritto Pisa" collabora da tempo con il garante per i detenuti del Comune di Pisa, Alberto di Martino, docente di diritto penale alla Scuola Superiore Sant’Anna. "Ombre della sera" è stato realizzato con il sostegno del ministero della Giustizia e del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. "Trattare della questione penitenziaria, grazie al messaggio veicolato da questa pellicola- commenta l’avvocato Annarosa Francini del Foro di Pisa - è adesso di vitale importanza, vista l’attenzione mediatica sull’argomento, provocata anche dai recenti sviluppi della vicenda penitenziaria di Totò Riina. Credo che si debba approfittare di ogni occasione di sensibilizzazione culturale ed etica sul tema carcerario. Ombre della sera è una di queste rare e coraggiose occasioni". Cittadinanza. Combinare diritti e doveri di Sabino Cassese Corriere della Sera, 21 giugno 2017 Dobbiamo preoccuparci per il cauto riconoscimento del diritto alla cittadinanza di chi è nato in Italia da stranieri residenti da più di cinque anni e di chi vi ha studiato continuativamente per cinque anni? Ha fondamento razionale l’acredine di chi oppone cittadini a non cittadini, uomini, donne e bambini che vivono gli uni e gli altri nella stessa società, spesso nella stessa casa? Vediamo innanzitutto le proporzioni del fenomeno. Quasi il 4 per cento della popolazione mondiale vive in un Paese diverso da quello di cui è cittadino. Questa percentuale è cresciuta rapidamente in mezzo secolo ed è destinata ad aumentare velocemente. I non cittadini (o i nati in altri Paesi) costituiscono in alcuni Stati un quarto della popolazione, in altri (ad esempio, Regno Unito, Francia, Germania) un decimo, in Italia solo un dodicesimo. I minori che acquisirebbero il diritto a ottenere la cittadinanza italiana, se passasse la legge in esame al Senato, sarebbero circa 800 mila. Prima conclusione: il fenomeno è di proporzioni mondiali e in Italia si presenta in termini molto meno preoccupanti che in altri Paesi. Se passiamo, poi, ad esaminare più da vicino la situazione italiana, si può notare che gli stranieri residenti legalmente rappresentano l’8 per cento della popolazione, più del 10 per cento degli occupati, l’8 per cento dei contribuenti; questi ultimi concorrono - secondo una stima - per circa il 5 per cento alle entrate dello Stato. Agli stranieri viene richiesto, quindi, l’adempimento dei doveri normalmente legati alla cittadinanza, primo tra tutti il rispetto dell’obbligo tributario, senza che ad essi vengano riconosciuti i diritti collegati, quelli così ben riassunti nella formula no taxation without representation (nessuna tassazione senza rappresentanza). Terza contraddizione: a coloro che risiedono stabilmente e legalmente sul territorio nazionale riconosciamo i diritti sociali, quelli civili, quelli economici, perché consentiamo loro di lavorare, di esprimersi liberamente, di istruirsi nelle scuole pubbliche, di farsi assistere negli ospedali, ma neghiamo la possibilità di godere dei diritti politici, il primo dei quali è quello di partecipare attivamente alla vita della collettività di cui fanno parte. Tutti i Paesi sviluppati hanno dovuto affrontare queste contraddizioni, e le hanno risolte riconoscendo progressivamente il diritto a diventare membri a pieno titolo della società in cui vivono (in questo consiste la cittadinanza) a coloro che hanno messo radici stabili sul proprio territorio. Tutti gli Stati moderni hanno compreso che la tensione tra cittadini e non cittadini si risolve solo a patto di riflettere nuovamente su una grande questione: che cosa è un popolo e come si distingue una nazione? Schiavi, negri, donne hanno sempre fatto parte delle società in cui vivevano, ma a lungo sono stati privati del diritto di partecipare alla vita collettiva (ad esempio, del diritto di voto). Non si riproduce ora la stessa situazione per gli stranieri legalmente e stabilmente residenti nello Stato? Nel diritto romano si formò il principio quod omnes tangit ab omnibus approbetur (quel che riguarda tutti deve essere approvato da tutti). Quel principio passò poi nel diritto canonico. Regge oggi le moderne democrazie: ad esempio, la nostra Costituzione stabilisce che i diritti dell’uomo (dell’uomo, non del cittadino soltanto) siano riconosciuti e garantiti anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Perché alla preparazione delle regole non debbono concorrere anche coloro che - come i non cittadini in possesso dei requisiti disposti dalla legge - vi debbono sottostare? Hannah Arendt coniò, in un suo scritto, la formula "diritto ad avere diritti", che dovrebbe spettare a tutti. Molte corti, nazionali e internazionali, hanno riconosciuto che non si può essere privati del diritto alla cittadinanza, che è la porta per vedersi riconosciuti altre aspettative. A quale titolo Paesi che si preoccupano del rispetto dei diritti umani in altri Stati non riconoscono a chi legalmente e stabilmente vive nel proprio territorio il diritto di far parte a pieno titolo della collettività alla cui vita contribuisce quotidianamente? Ius soli, Grasso: "Da fare entro l’anno". M5s: "Fumo negli occhi" La Repubblica, 21 giugno 2017 Il presidente del Senato spera in un’approvazione "per chiudere la legislatura con un certa dignità". Grillo vuole trasferire il dibattito a livello europeo ma per i dem "spaccia fake news". Avramopoulos: "Criteri con cui gli Stati decidono di concedere la cittadinanza sono di competenza esclusivamente nazionale". Il via libera per lo Ius soli? "Spero entro l’anno". Il presidente del Senato Pietro Grasso, intervenuto a Un giorno da pecora su RadioUno, si augura che si arrivi presto a una conclusione, anche nei prossimi tre mesi. Prima dell’estate? "Spero di sì", risponde, ma ammette "bisogna vedere come sarà approvato dal Senato". Grasso ha ricordato che sul ddl la Lega Nord ha presentato per l’Aula 50 mila emendamenti, "fatti con intenti ostruzionistici. Bisognerà superare questo ostacolo" ha concluso. A chi gli fa notare che Grillo dice che è un "pastrocchio invotabile", risponde: "Non mi pare" e sottolinea come la legge tenga "conto non solo della nascita, ma anche dello ius culturae". E proprio a favore dello ius culturae ieri si è espresso il leader di Ap, Angelino Alfano, che ha annunciato che "se questo provvedimento arriverà all’esame finale del Senato, chiederò al mio partito che si voti per il sì". Ostruzionismo e opposizioni. Oltre all’ostruzionismo della Lega c’è da superare anche l’opposizione di Beppe Grillo e dei Cinque Stelle. "C’è solo una cosa da fare: fermarsi e chiedere un orientamento alla Commissione Ue, coinvolgere nel dibattito anche il Parlamento Ue e il Consiglio. Discutere di cittadinanza senza una concertazione a livello europeo è propaganda, è fumo negli occhi dei cittadini", sottolinea un post a firma del M5S sul blog di Beppe Grillo dal titolo Per uno ius Europeum. "In tutta l’Ue la cittadinanza si acquisisce principalmente attraverso lo "ius sanguinis". In nessuno Stato europeo esiste lo "ius soli puro", sostiene il leader M5s, che definisce la riforma ‘una sòlà (una presa in giro, ndr). La replica di Pd. "Grillo continua a prendersi gioco dei suoi elettori e dei cittadini. L’unico fumo negli occhi è quello che lui diffonde abbondantemente per confondere le acque e giustificare il suo europeismo a giorni alterni". Così Marilena Fabbri, deputata dem e relatrice alla Camera del provvedimento, sul post di Grillo. "La legge che si sta discutendo in Parlamento riguarda uno ius soli temperato, che dunque prevede il riconoscimento della cittadinanza ai bambini che sono nati qui da genitori autorizzati a risiedere nel nostro Paese con un permesso di soggiorno a tempo indeterminato e che qui lavorano e pagano le tasse, e lo ius culturae per quei ragazzi che non sono nati in Italia ma studiano qui da almeno cinque anni. Con questa legge l’Italia sarebbe in linea con Francia, Germania e Gran Bretagna. Dunque di cosa parla Grillo?...spaccia fake news. Sarebbe opportuno che il leader M5s studiasse le legislazioni europee oltre che i compiti della Commissione Ue". La replica dell’Europa. Alla richiesta di M5s replica il commissario europeo alle Migrazioni e agli Affari Interni, Dimitris Avramopoulos, che sottolinea come i criteri in base ai quali l’Italia decide di concedere la cittadinanza sono "chiaramente una competenza nazionale. È una responsabilità nazionale: mi chiedo per quale motivo qualcuno dice che noi dovremmo reagire su questo. Noi non giochiamo nel campo di gioco della politica interna", ha detto a margine di una conferenza stampa a Bruxelles. Libia. Voci dal limbo: "perché siamo qui" di Federica Iezzi Il Manifesto, 21 giugno 2017 Dietro le sbarre del centro di detenzione Abu Salim, dove migliaia di migranti, donne e bambini inclusi, aspettano per mesi, in condizioni estreme, una risposta alle loro domande. Storie di persone in fuga da guerre e fame, che dopo aver attraversato il deserto subiscono lunghe detenzioni illegali, private di ogni diritto. Si sentono ripetere le stesse domande come una martellante litania, in attesa di una risposta che nella migliore delle ipotesi arriva dopo mesi. Le detenzioni arbitrarie in Libia sembrano legalizzate. Silenzio, oscurità e solitudine accompagnano il già duro viaggio di migliaia di famiglie che provano a fuggire da guerra, persecuzione, violenza, fame. Tra gabbie, sbarre e temperature che sfiorano i 38 gradi, le voci dei migranti scandiscono nei vari dialetti "Perché sono qui? E quando posso uscire?". Siamo bloccati nel vortice dell’Abu Salim Detention Centre, nell’omonimo distretto di Tripoli, dove le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), parlano di almeno 6 mila migranti detenuti. L’ottenimento di decine di permessi rallentano l’attività sanitaria, monitoraggio e iter giudiziari nei 44 centri di detenzione dichiarati dai libici, di cui 24 gestiti direttamente dal governo di al-Sarraj. Ore e ore di inutile attesa, il tempo non esiste. Il tempo è lo stesso momento che si vive. Le partenze dei migranti dalle coste libiche non si fermano mai. Migliaia di persone continuano ad arrivare in Libia ogni giorno. Molti cercano di nascondersi, aspettando di salire su un vecchio peschereccio, dopo aver pagato la somma richiesta dal trafficante di turno, per affrontare i 470 chilometri di mare che separano la Libia dall’Italia, diventati un cimitero per più di 4.500 persone nel 2016 e già quest’anno per più di 1.500 persone. Ma la maggior parte della gente rimane intrappolata nel limbo dei centri di detenzione. La situazione legale in Libia si districa tra leggi incostituzionali e leggi transitorie, frutto del conflitto in corso e dell’eredità dell’era Gheddafi. Il risultato è che oggi migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono tutti considerati illegali, e dunque soggetti a multe, detenzione e espulsione, in base a vecchie leggi del 1987 e del 2004. Le multe arrivano fino a 1.000 dinari libici (circa 700 euro), che salgono alle stelle se si è sprovvisti di documenti d’ingresso. Le detenzioni prevedono lavori forzati e si concludono praticamente sempre con l’espulsione dal territorio libico. La durata della prigionia per un migrante è arbitraria e imprevedibile, può durare da qualche mese a due anni. Lo spazio di una cella pensato per quattro persone, viene condiviso da 20 donne e 20 bambini, stipati uno accanto all’altro. Anche i quattro angoli della stanza sono occupati da decine di materassi buttati caoticamente a terra. Le mamme pettinano i capelli alle bambine che disorientate mostrano fiere i piedi nudi. Non ci sono giocattoli, né acqua sufficiente per tutti. 5 bagni per 150 persone. I detenuti sono spesso costretti a defecare e urinare nelle loro celle. "Ho partorito il mio bambino in uno di questi lerci gabinetti. Era ricoperto di sangue e stava morendo soffocato". Ce lo racconta in piedi di fronte all’odore nauseabondo di quelle latrine, un odore che brucia perfino gli occhi. Un misto di acido, escrementi e urina, lavati da secchiate di acqua stagnante. "Quell’immagine mi perseguita" continua. Nessun medico è corso a raccogliere Natalia e suo figlio quel giorno. Nessun trattamento privilegiato: il pasto era sempre di 400 calorie e il latte era giallastro e allungato con l’acqua delle pozze. Ogni guardia carceraria ha il suo kalashnikov in mano, ci giurano che portano fuori i bambini una volta al giorno. In verità i bambini escono una volta ogni quattro. Fuori c’è una grande area aperta, dove rimangono a fare niente per un paio di ore, circondati da recinzioni di filo spinato. Ci sediamo accanto al materasso su cui ha dormito per dieci mesi e Victor ci racconta: "Mi hanno arrestato a Garabulli". Vorrebbe dire alla sua famiglia che è ancora vivo, ma non può. All’arresto i soldati libici confiscano tutti i telefoni, così l’unica forma di comunicazione rimasta viene interrotta. Victor arriva dalla città di Kano, nord-ovest della Nigeria. "Ho pagato 2 mila dollari per attraversare il Niger, sulla via di Agadez. Poi sono arrivato a Sabha in Libia e per altri 700 mi hanno portato a Garabulli". Prima di rischiare la morte nel Mediterraneo e prima di attraversare i campi di battaglia della guerra civile libica, la maggior parte degli immigrati dall’Africa occidentale passa per Agadez, dove si può arrivare in autobus da qualunque località. È il bordo più settentrionale della cosiddetta zona Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale), simile alla nostra area Schengen, in cui si può viaggiare senza il visto. A Agadez tutti i conducenti di bus si fermano e inizia il contrabbando di persone alla volta del deserto. Solo alcuni selezionati autisti locali sanno quali dune conducono al Sahara e quali alla morte. In due settimane si arriva a Sabha, senza cibo né acqua. Fino a 2 mila migranti provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana attraversano la Libia ogni settimana, dal posto di controllo di frontiera del villaggio di Tumo, tra Niger e Libia, uno dei tre punti principali di ingresso, pattugliati dall’esercito libico, insieme a Ghat e Ghadames. Quando Victor racconta i dettagli del suo viaggio i suoi occhi sembrano persi nel vuoto. "Nessun medico viene al centro", ci dice. Non si riesce ad avere un elenco dettagliato di quanti si trovano nelle celle dell’Abu Salim. Nessuno viene informato della ragione per cui viene rinchiuso. Non esiste alcuna registrazione formale, nessun processo legale viene espletato e non è consentito parlare con le autorità giudiziarie. Solo una volta al mese in una clinica mobile vengono controllate malattie della pelle, episodi di diarrea, infezioni respiratorie e urinarie. Il sistema sanitario in Libia è prossimo al crollo con mancanza cronica di medicinali, apparecchiature medicali e personale. Victor intanto continua il suo racconto: "Dopo 4.000 chilometri, a Garabulli ero pronto ad imbarcarmi insieme a centinaia di altri poveri cristi. Spesso la guardia costiera, costantemente minacciata dai trafficanti, chiude gli occhi. Quella volta ci hanno presi e ci hanno portati a Abu Salim". Lì ha lavorato per la loro agricoltura, ha trasportato con le catene alle mani sabbia e pietre, ha partecipato alla pavimentazione delle loro strade e alla costruzione dei collettori per i rifiuti. Schernito, maltrattato, violentato e picchiato. È stato trattenuto in prigione perché non aveva soldi sufficienti per pagare la polizia corrotta, custode di sporchi fili spinati. Come ne escono? Le guardie forniscono un telefono super-lusso au dernier cri ai detenuti e li forzano a chiamare i propri parenti per chiedere loro di trasferire ingenti somme di denaro e comprare così la libertà. E si continuano ad ascoltare in silenzio queste storie con il gelo che si infiltra nelle ossa. La sensazione è solo quella che ciascuna detenzione sia completamente illegittima. Stati Uniti. "Il carcere negli non funziona, andrebbe abolito" tpi.it, 21 giugno 2017 È la tesi del giurista americano Peter Salib. Sostiene che le prigioni sono troppo costose e sprecano risorse utilizzabili per misure più efficaci nella lotta alla criminalità. Nel film del 2001 "Blow", il protagonista interpretato da Johnny Depp sosteneva che la prigione in cui era detenuto fosse una scuola di crimine. "Entrai con un diploma in marijuana, ne uscii con un dottorato in cocaina", racconta nel film. Un nuovo studio, pubblicato sul Berkeley Journal of Criminal Law, mostra quanto la permanenza dei detenuti in carcere non solo sia un costo per la collettività, ma esponga gli stessi al rischio di incontrare altri criminali e prenderne esempio. Peter Salib, cancelliere e assistente giudiziario presso la corte d’appello federale di Chicago e autore della ricerca, sostiene che sarebbe meglio cercare approcci alternativi alla detenzione, per evitare che i detenuti commettano altri crimini una volta usciti di prigione. Queste pene alternative permetterebbero ai condannati di pagare effettivamente il proprio debito con la società senza obbligare i contribuenti a sostenere il costo della loro reclusione. Il denaro risparmiato attraverso l’abolizione del carcere potrebbe così essere reimpiegato in misure più efficaci nella lotta alla criminalità, come programmi di assistenza sociale o l’aumento di fondi per le forze di polizia. Una delle differenza tra il sistema penale americano e quello italiano risiede nell’obiettivo della pena detentiva. In Italia, la Costituzione prevede, all’art. 27, che la reclusione deve tendere alla rieducazione del condannato. Negli Stati Uniti d’America non esiste una specifica previsione costituzionale riguardo il diritto alla riabilitazione del detenuto. Al contrario, la logica della guerra al crimine ha acuito l’aspetto punitivo della reclusione come mezzo di deterrenza per prevenire altri crimini. Secondo Salib, la collettività dovrebbe preoccuparsi dei costi di un tale sistema, la cui poca attenzione ai programmi riabilitativi non diminuisce ma aumenta il rischio che i detenuti tornino a delinquere una volta fuori. Nel suo studio, il giurista fornisce l’esempio di un ragioniere che, per ripicca, dà fuoco all’ufficio del suo capo. Se fosse in vigore il sistema proposto da Salib, l’uomo non verrebbe arrestato e condannato a 30 anni di carcere come prevede la legge attuale, gravando così sulle tasche dei cittadini e diventando poi incapace, una volta scarcerato, di reinserirsi nella società. L’ipotetico ragioniere piromane dovrebbe essere obbligato a lavorare per tutta la vita per pagare il suo debito con la collettività, con una multa pari all’80 per cento del suo salario mensile. "Se sono un membro produttivo della società e finisco in prigione, una parte del prezzo che devo pagare è che non posso più godere dei frutti del mio lavoro. Ma tale spesa viene pagata dai contribuenti", ha dichiarato Salib. "Esistono altre opzioni che non impediscono alle persone di lavorare e rimanere membri produttivi della società. Non parlo quindi di uno spreco di risorse, ma piuttosto di un vantaggio per la collettività". In Italia, una proposta simile era stata avanzata nel 2015 da Luigi Manconi in un libro edito da Chiarelettere e intitolato "Abolire il carcere". La proposta del senatore del Partito democratico prevede l’abolizione dell’ergastolo, di comminare la pena detentiva come misura estrema, la diversificazione del sistema delle pene e il ricorso alla custodia cautelare solo in casi di reale pericolosità dell’imputato. Il dato che ha impressionato il senatore e i suoi collaboratori - e che l’ha spinto a proporre un sistema di pene alternativo - riguarda il numero delle persone che, una volta finito di scontare la pena in carcere, dopo poco tempo tornano in prigione. Secondo l’Istat sono quasi il 70 per cento. Tunisia. In Italia il 67 per cento dei tunisini reclusi all’estero Nova, 21 giugno 2017 Il numero maggiore dei detenuti tunisini all’estero si trova nelle carceri italiane, che ne ospitano 2.037, circa il 67 per cento del totale. Lo riferisce il deputato e presidente della Commissione dei tunisini all’estero, Ibtissem Jbabli. Il numero di tunisini detenuti all’estero ha raggiunto 3.246 unità, di cui 3.207 uomini e 39 donne. Secondo le statistiche del ministero degli Esteri, nei penitenziari di Genova, Milano, Palermo e Napoli si trova il maggior numero di detenuti tunisini all’estero. I reati principali per i quali si trovano in carcere sono: consumo e vendita di droga; violenza; furti; omicidi; traffico di esseri umani ed immigrazione clandestina, ha affermato Jbabli. Le carceri della capitale siriana, Damasco, ospitano 42 detenuti tunisini; quelli delle città algerine di Annaba e Tebessa rispettivamente 23 e nove; quello di Gedda, in Arabia Saudita, sette e altrettanti nel carcere canadese di Montreal ed emiratino di Dubai. Il carcere marocchino di Rabat ospita quattro detenuti tunisini; quello saudita di Riad due; uno quello sudcoreano di Seul. Inoltre, il carcere giapponese di Tokyo ospita nove cittadini tunisini; quello polacco di Varsavia sei e altrettanti quello statunitense di Washington. Il carcere austriaco di Vienna ne ospita 12. Circa il 17 per cento dei detenuti tunisini all’estero (522 persone) si trova nelle carceri francesi di Lione, Parigi, Grenoble, Pantin, Nizza e Strasburgo. Altri 230 cittadini tunisini sono rinchiusi nelle carceri tedesche di Bonn, Amburgo e Monaco di Baviera. Corea del Nord. Morto lo studente Usa rilasciato in coma Ansa, 21 giugno 2017 È morto dopo meno di una settimana dal suo rientro negli Stati Uniti Otto Warmbier, lo studente universitario americano di 22 anni rilasciato in stato di coma dalla Corea del Nord per "ragioni umanitarie". Lo ha reso noto la famiglia in un comunicato diffuso dall’ospedale di Cincinnati, Ohio dove era ricoverato. La famiglia ha ringraziato l’ospedale ma ha osservato che "sfortunatamente il terribile trattamento di torture ricevuto da nostro figlio per mano dei nordcoreani ha fatto sì che non fosse possibile altro esito di quello triste avvenuto oggi". Il presidente americano Donald Trump ha definito la Corea del Nord un "regime brutale" dopo aver appreso la notizia della morte di Otto. Il padre del giovane aveva tenuto una conferenza stampa nei giorni scorsi accusando pubblicamente Pyongyang di averlo seviziato e di aver tenuto a lungo segrete le condizioni di salute del giovane. Le autorità americane non si sono pronunciate su queste accuse, limitandosi a vantare il successo di aver riportato a casa un connazionale, anche se altri tre restano detenuti. I genitori della vittima avevano ricevuto telefonate sia da Donald Trump che dal segretario di stato Rex Tillerson e avevano ringraziato sentitamente, senza risparmiare una velata critica alla precedente amministrazione Obama che li aveva consigliati di tenere un basso profilo nella vicenda. Warmbier era uno studente dell’università della Virginia. Era stato condannato a 15 anni per attività anti statale dopo aver confessato tra le lacrime di aver rubato uno striscione di propaganda. Si trovata in carcere da 17 mesi. Le sue condizioni si erano deteriorate rapidamente dopo la sentenza. Le autorità nordcoreane hanno spiegato il coma del detenuto col botulismo e e l’assunzione di sonniferi. Ma i medici americani non hanno trovato alcuna prova di botulismo attivo, una malattia rara e grave causata da cibo contaminato o da ferite sporche. Hanno invece accertato una grossa perdita di tessuto cerebrale in tutte le regioni del cervello, compatibile con un arresto respiratorio che ha bloccato l’ossigeno. Nessun segno invece di fratture, magari legate a percosse. Resta quindi ancora sconosciuta la causa del trauma, anche se i sospetti puntano sulle tecniche di tortura. La morte dello studente rischia di alimentare la tensione tra i due Paesi, salita dopo i ripetuti test balistici del regime e le minacce di Trump di una reazione americana.