Patrie Galere senza cuore e senza testa di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2017 Dopo cinque anni in regime di tortura del 41bis, sono stato detenuto nei circuiti di Alta Sicurezza per ben 19 anni. La notizia dell’apertura di un procedimento penale contro l’ex direttore del carcere di Padova per la declassificazione di alcuni detenuti dal circuito di "Alta Sicurezza" a quello di "Media Sicurezza" sulla base delle relazioni degli ispettori del Ministero che due anni fa fecero visita all’istituto, mi ha molto indignato. L’Italia è veramente uno strano paese se uno dei pochi direttori illuminati di un carcere viene indagato per avere rispettato la Costituzione e la legge, mi chiedo se, paradossalmente, sia stato inquisito proprio per questo! Nessuno però indaga sul "porto delle nebbie" dell’Amministrazione penitenziaria centrale di Roma che ha trasformato le nostre "Patrie Galere" in un inferno dantesco dove ci sono molti detenuti privi di un posto letto regolamentare. Oppure in luoghi dove ci sono prigionieri che si tolgono la vita perché vengono deportati in regioni lontane dai loro affetti. E penso che per alcuni di loro la morte sia l’unica arma che hanno a disposizione per non morire davvero e per dire al mondo "ci siamo anche noi". Nessuno, però, indaga sui molti funzionari dell’Amministrazione penitenziaria centrale di Roma che fanno vivere i detenuti come pezzi di legno accatastati in cantina costringendoli a vegetare nel corpo e nell’anima in nome della sicurezza. Secondo me, sarebbe meglio dire in-sicurezza sociale perché obbliga i detenuti a vivere una non vita come fossero cani ciechi rinchiusi in un canile. Eppure questi funzionari non pagano mai per il loro crimini e non vengono mai inquisiti neppure quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per atti inumani e degradanti. Penso che la società dovrebbe stare più attenta a quello che accade nelle nostre "Patrie Galere" perché il carcere in Italia è un pò come l’ospedale, dove chiunque ci può finire in un attimo. La società dovrebbe anche sapere che molti prigionieri, dopo anni di angherie e d’ingiustizie, usciranno più cattivi e pericolosi di quando sono entrati. La galera in Italia, purtroppo, non cambia le persone in meglio, ma piuttosto le distrugge. Dentro queste mura t’insegnano spesso a odiare. Nient’altro. Questo è il luogo più diseducativo esistente sulla terra. Spreca la vita dei suoi prigionieri ed il tempo di chi ci lavora senza alcuno scopo. I detenuti hanno tanto tempo libero, ma pochissime opportunità per riempirlo perché sono costretti a fare-a volte perfino a pensare-quello che dicono gli altri. S’invecchia senza vivere. Spesso i prigionieri si sentono in guerra, una guerra sporca e senza regole. Non puoi vincere e lotti solo per continuare a sopravvivere. Le nostre "Patrie Galere" senza testa e senza cuore non fanno emergere il senso di colpa perché ben presto il detenuto si accorge che i suoi governanti sono più cattivi di lui. Per gli ergastolani, in particolare, non è facile vivere sapendo che la propria cella diventerà la sua tomba. Per me non è facile trasmettere la solidarietà al direttore di una prigione; ma posso dire che l’ex direttore del carcere di Padova è stato, fra tutti quelli che ho incontrato durante un quarto di secolo di carcere, un direttore a cui riconosco di aver fatto il suo lavoro senza dimenticarsi di avere a che fare non con numeri, ma con esseri umani. La salute diritto costituzionale per tutti. Anche per Riina di Alessio Scandurra* sanita24.ilsole24ore.com, 20 giugno 2017 Il 21 marzo scorso, la prima sezione penale della corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza del Tribunale di Bologna che negava a Totò Riina il differimento della pena per motivi di salute. La Cassazione scarcera Riina? Certamente no. Anzitutto perché la Cassazione non è stata chiamata ad esprimersi sul merito dell’ordinanza di Bologna, non è questa d’altronde la sua funziona, ma solo sulla sua legittimità. La funzione della Cassazione nel nostro ordinamento è infatti appunto quella di verificare che quanto deciso da altri giudici sia l’esito di una procedura pienamente conforme al diritto. Lana caprina? Proprio per niente. In uno stato di diritto, in cui la sovranità popolare si esprime anzitutto nel potere di fare le leggi, e in cui tutti gli organi e i poteri dello Stato sono sottoposti a quelle leggi, il tema del rispetto delle leggi è chiaramente un tema centrale. È il cuore della democrazia. E non riguarda solo i criminali, ma anche i poteri pubblici. E tanto più è delicata la materia su cui questi poteri intervengono, tanto più è importante che lo facciano nel rispetto della legge. Ma allora cos’ha detto la Cassazione? - Nella sentenza la Suprema corte dice varie cose, ma tutte discendono da un principio importante: anche quando si tratta del Capo dei capi, del boss Riina, le decisioni che un tribunale prende nei suoi riguardi devono essere prese nel pieno rispetto delle leggi, come per gli altri detenuti. Per questo anche nel suo caso la pericolosità sociale deve essere "attuale" e non astratta, anche nel suo caso le cura fornite devono essere adeguate e anche nel suo caso la detenzione non può concretizzarsi in misure contrarie al senso di umanità. E infine, anche nel suo caso, prima di rigettare la sua istanza il Tribunale deve motivare adeguatamente su tutti questi punti. Come ciascuno di noi auspicherebbe se si trovasse al suo posto (non di Capo dei capi, ma di condannato con seri problemi di salute. E in carcere, di detenuti ammalati ve ne sono molti). Ma Riina, è attualmente pericoloso? Può essere curato in regime di detenzione? Viene attualmente lesa la sua dignità? Questo sarà, nuovamente, il tribunale di Bologna a dirlo. Per una realtà come Antigone (ndr l’associazione Onlus che da 30 anni si batte "per i diritti e le garanzie nel sistema penale") questa però è una occasione importante per allargare il discorso, e dire qualcosa sulla tutela della salute di tutte le persone detenute nelle nostre carceri. Sulla carta (quasi) tutti concordano che da una condanna al carcere non può discendere la negazione del diritto fondamentale alla salute, sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione. Eppure (quasi) tutti sanno che in carcere l’accesso alle cure incontra enormi difficoltà. Le condizioni di vita in carcere sono decisamente malsane - Negli ultimi 4 mesi l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione ha visitato oltre 40 carceri. In tre non funzionava il riscaldamento, in 20, circa la metà, non c’era acqua calda in cella. Nel 60% delle celle visitate non c’è la doccia e in circa la metà i detenuti non avevano accesso ad una palestra nemmeno una volta alla settimana. Condizioni igieniche e uno stile di vita simili sono chiaramente una minaccia per la salute, e in questo ambiente le cure a disposizione sono spesso inadeguate. Nel 68% degli istituti visitati da noi in questi mesi non esiste una cartella clinica digitale e nel 54% non ci sono spazi per i detenuti disabili. Gli esiti di un quadro simile sono verosimilmente una presa in carico della salute delle persone detenute del tutto inadeguata, ma il tutto avviene in un mondo a noi invisibile, e che dunque non fa notizia. Eppure il dossier "Morire di Carcere" del Centro Studi di Ristretti Orizzonti mette a disposizione i dati relativi a 75 decessi nel corso del 2016, di cui 36 non imputabili a suicido. Tra questi 18 riguardano persone che avevano meno di 50 anni. Tre erano ragazzi di meno di 30 anni. Questo spiega la presenza in giudizio di Antigone in casi come quello di Alfredo Liotta, morto a 41 anni nel carcere di Siracusa per un "collasso cardiocircolatorio causato da evento emorragico innestato in una grave condizione anoressica". Secondo il difensore Civico di Antigone, che acquisì tutte le carte sullo stato del detenuto, il personale medico e infermieristico avrebbe ignorato i sintomi e il decorso clinico che ha portato al decesso. Il 6 aprile Antigone si è costituita parte civile. O come in quello di Stefano Borriello, morto a 29 anni nell’agosto 2015, nel carcere di Pordenone per una banale polmonite, per il quale sono state riaperte le indagini dopo un nostro esposto scritto. Il tema della tutela del diritto alla salute è un tema delicato, spesso trascurato, ed è giusto pretendere che i tribunali di sorveglianza si documentino adeguatamente prima di decidere in materia, e motivino di conseguenza i propri provvedimenti. A tutte la di tutte le persone detenute, incluso Riina. Un’ultima domanda, che non riguarda la valutazione dei tribunali, ma quella di tutti noi. La morte di Riina in detenzione domiciliare sarebbe un segno di debolezza? Di cedimento alla mafia? È una prova di forza, o è forse un segno di paura? Io non ho una risposta, ma quello che so è che in molti Paesi non solo non esiste il carcere duro a vita, ma non esiste nemmeno il carcere a vita. In Norvegia, Croazia, Serbia, Bosnia e Portogallo l’ergastolo è stato abolito del tutto. A torto o a ragione, questi sono paesi che hanno meno paura della criminalità di quanta ne abbiamo noi. E a me questo certamente pare un segno di forza. *Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione Studiare in carcere fa rinascere un detenuto, l’ignoranza fa fare cose cattive di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2017 Nero della parte più profonda e povera dell’Africa, giramondo clandestino, tossicodipendente e spacciatore: che ci si può aspettare? Giustamente finisce in galera e, dopo qualche anno di turismo carcerario in giro per istituti, approda a Rebibbia. Dove, ci si creda o no, racconta di aver avuto una catarsi, "una rinascita". Complici, stavolta, la custodia attenuata della Terza Casa Circondariale a Roma, le molte opportunità offerte, un lavoretto interno e soprattutto l’incontro con il mondo della scuola, della cultura. Appena nato, nel Ruanda degli anni peggiori, la sua famiglia si trasferisce in Tanzania, da cui scappa ancora minorenne. Africa, America, Cina, infine Europa, ne ha viste di nefandezze nel mondo. È convinto che se ci fosse più istruzione, più "educacione" dice lui con radici anglofone, molti problemi non sorgerebbero: "È l’ignoranza, prof, che fa fare tante cose cattive". Infatti si appassiona allo studio, divora ogni ora di lezione, ogni approfondimento, ogni lettura proposta. Vuole imparare a scrivere, comunicare al mondo l’equilibrio che gli sembra di aver raggiunto. In carcere si è sentito finalmente più libero di quanto credeva di essere fuori, in strada, dove trovava facilmente soldi, donne, contatti, tutto quel che poteva desiderare. Vorrebbe trovare il modo migliore di esprimersi per mettere in guardia i bambini, come il suo che non vede ormai da dieci anni; avvertirli che droga, alcool e soldi facili sono tutte illusioni, cose che non arricchiscono se non in maniera superficiale, apparente. In carcere si fa ben volere: tutti sanno che tra i compagni di detenzione, ex tossicodipendenti tra cui sono diffusissimi gravi problemi psicologici, gioca un ruolo di fondamentale importanza. Con la sua disponibilità, il suo sorriso, la sua buona parola, sempre pronto a disinnescare conflitti, a ridimensionare le fonti d’ansia. Grazie alla sua buona condotta, dallo scorso autunno gli viene concesso di finire di scontare la pena in una comunità di recupero. Anche lì si fa apprezzare e trova un aiuto per tentare di mettere a posto le sue carte, avere l’asilo politico per poi cercarsi un qualunque lavoro onesto. Però, prima di ogni cosa vuole finire il suo percorso scolastico e diplomarsi. Dalla tarda primavera, gli viene concesso di uscire per alcune ore e tornare da noi a Rebibbia. L’appuntamento è nel punto vendita del forno della Terza Casa, dove lavorano molti suoi ex compagni detenuti. Si tratta di una specie di limbo, uno spazio del carcere dove il muro è stato aperto e anche gli esterni possono entrare a degustare ciò che viene cucinato all’interno. Noi professori ci siamo accordati, con la "flessibilità", per alternarci a impartire lezioni. Il problema all’inizio è stato che non si riusciva a tenere il filo del discorso: vedendolo attraverso la telecamera collegata a un monitor della adiacente portineria del carcere, troppe persone venivano a salutarlo. Abbracci, battute scherzose, risate, non solo da parte di altri docenti, volontari, educatrici, psicologhe ma soprattutto di molti agenti di polizia penitenziaria. Ecco, questa cosa mi è apparsa davvero straordinaria: un altro muro è stato abbattuto. Nelle parole di una "guardia" di lunghissima esperienza: è uno di quei rari casi in cui il carcere ha fatto veramente bene. Tutti noi operatori "trattamentali" possiamo dire, per una volta, che i nostri sforzi hanno avuto buon esito nel reinserimento, forse. Molto più comune, purtroppo, il caso di quell’altro suo compagno di classe e di detenzione che, appena fuori, è stato preso a fare una rapina al supermercato. 41 bis e "Protocollo Farfalla": un’inutile ricerca di regie occulte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2017 Un’operazione fallimentare dei servizi segreti tra il 23 giugno 2003 e il 18 agosto 2004. Avvocati penalisti attenzionati per il solo fatto di aver esercitato legittimamente il diritto alla difesa dei reclusi al 41 bis, monitoraggio dei movimenti di protesta all’interno e all’esterno delle carceri che predicavano l’abolizione del regime duro, tentativo di aggancio (fallito) con alcuni reclusi al 41 bis per ottenere informazioni. Parliamo del cosiddetto "Protocollo Farfalla", un’operazione fallimentare dei servizi segreti effettuata tra il 23 giugno 2003 ed il 18 agosto 2004 in collaborazione del Dap con l’allora capo Giovanni Tinebra. La denominazione "farfalla" prende ispirazione dall’ associazione "Papillon", creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni della casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie non violente in collaborazione dei movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie, come ad esempio i Radicali. Ma come mai proprio "Papillon"? Nell’agosto del 2002, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu ritrovato un volantino di Papillon Rebibbia Onlus. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. In parole semplici, quell’operazione di intelligence nacque a seguito del sospetto che dietro le proteste contro il 41 bis ci fosse una regia mafiosa. Ancora meglio lo spiega la relazione del Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) redatta a conclusione di un approfondito lavoro: "Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario indicato nella relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista". In sintesi, si era trattata di una sorta di "dietrologia di Stato" che intravvedeva le forze politiche garantiste in combutta con le organizzazioni criminali. Per capire meglio, bisogna inquadrare il contesto storico e la criminalizzazione mediatica delle proteste contro il 41 Le norme dell’articolo 41 bis furono inizialmente adottate con un carattere temporaneo per una durata limitata a tre anni (fino al 1995). Il 41 bis fu prorogato per ben tre volte e il 31 dicembre 2002 fu reso ordinario. Con l’approssimarsi dell’ultima scadenza, si riaccese il dibattito, anche politico, sul carcere duro. Ricordiamo ad esempio l’inchiesta sul 41 bis dei radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia che documentarono seri problemi di legittimità. Anche i detenuti al 41 bis si fecero parte attiva di questo dibattito e nel marzo 2002 il noto mafioso Pietro Aglieri inviò al procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso una lettera sullo speciale regime carcerario; nella missiva si auspicavano "soluzioni intelligenti e concrete" al problema del carcere duro così come fino a quel momento applicato. Nel luglio 2002 Leoluca Bagarella, durante il processo presso la Corte d’assise di Trapani, rilasciò dichiarazioni spontanee nelle quali chiedeva una riconsiderazione, in termini politici, del regime previsto dall’articolo 41 bis. Nello stesso periodo, in una decina di istituti di pena in cui si applicava il carcere speciale, si verificarono iniziative di protesta e scioperi della fame dei detenuti. Il caso mediaticamente più eclatante fu, però, l’esposizione di due striscioni: il primo, "Uniti contro il 41- bis", esposto allo stadio di Palermo e il secondo su iniziativa dei tifosi del Bologna in cui si esprimeva solidarietà ai tifosi palermitani per la libertà di parola. I media dell’epoca diedero risonanza a tali manifestazioni e alimentarono il dibattito. Al centro delle polemiche vi erano anche alcuni parlamentari, indicati dai criminali al carcere duro come traditori, poiché, una volta eletti, avrebbero cambiato il proprio pensiero sull’articolo 41 bis. Si ricordano, a tale proposito, le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè in riferimento ai parlamentari Nino Mormino e Antonino Battaglia. Tali polemiche furono ribadite da una lettera firmata da alcuni detenuti di Novara, tra cui Francesco Madonia e Giuseppe Graviano (oggi ritornato in auge per via delle intercettazioni), i quali rimproveravano avvocati penalisti entrati in Parlamento di aver cambiato posizione: "da avvocati avevano deprecato il 41 bis, da parlamentari invece non avevano combattuto il carcere duro". È in questo contesto che si avviò l’operazione di intelligence. Non è ancora del tutto chiaro come si sia svolta tale operazione e se sia stata del tutto legale. Restano punti oscuri ancora non del tutto chiariti. Durante l’audizione del Copasir, c’è stata l’inquietante testimonianza del senatore Roberto Castelli, all’epoca dei fatti ministro della Giustibis. zia, che ha raccontato il seguente episodio: "Venni a conoscenza che all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi. Io ho sempre cercato di fare il ministro occupandomi anche dell’apparato, per cui la cosa non mi piacque assolutamente, perché poteva anche avere altri risvolti, magari a priori assolutamente legittimi. Ma volli vederci chiaro, anche per testimoniare un pò il fatto che, se fossi stato informato su questioni di questa gravità, sarebbe stato meglio. Senza avvisare l’allora capo del dipartimento Tinebra del blitz, chiesi di fare il giro della palazzina e entrai in un reparto in cui c’erano non ricordo più se tre, quattro o cinque centrali di ascolto, con persone che indossavano delle cuffie e che ascoltavano non so chi". Prosegue il senatore Castelli: "Diedi incarico all’allora mio capo di gabinetto di svolgere indagini di natura puramente informale. Lui, dopo qualche tempo, mi disse che effettivamente era tutto regolare e che tutto avveniva sotto l’egida della magistratura. Non so se questa centrale sia ancora attiva o se sia stata smantellata; non me ne occupai più, anche perché ripeto che non è assolutamente compito del ministro della Giustizia occuparsi delle indagini". Sappiamo che l’operazione "Farfalla" si concluse con un nulla di fatto: non c’era nessuna regia occulta dietro le legittime proteste. Resta però un interrogativo: si dice che tale operazione si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura. Ciò però cozza con la testimonianza dell’ex ministro Castelli. Intanto la relazione del Copasir conclude che tale operazione non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e probabilmente anche della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. Si legge nella relazione che l’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività, ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate su una ipotetica trattativa tra lo Stato e la criminalità organizzata. Carcere, sale la raccolta differenziata dei rifiuti: +29 per cento Redattore Sociale, 20 giugno 2017 Nel 2016 erano 113 istituti su 191 ad averla adottata (il 59%, in prevalenza negli uffici del personale), mentre oggi sono 168 su 191 (l’88%). Rilevante è il numero delle sezioni detentive interessate dalla raccolta differenziata: sono 844 su 1.130 complessive. Poco meno di un anno fa il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ha sollecitato le direzioni degli istituti penitenziari di tutto il territorio nazionale a incrementare la differenziazione della raccolta dei rifiuti. A oggi, la diffusione di questa buona pratica è aumentata di ben 29 punti percentuale rispetto alla situazione di partenza. Nel 2016 infatti erano 113 istituti su 191 ad averla adottata (il 59%, in prevalenza negli uffici del personale), mentre oggi sono 168 su 191 (l’88%). Rilevante è il numero delle sezioni detentive interessate dalla raccolta differenziata: attualmente si registra che sono 844 su 1.130 complessive sezioni detentive, rispetto alle 16 sezioni iniziali, con un incremento quindi dall’1 al 75%. Considerato che le sezioni e gli spazi di vita detentivi coinvolti sono distribuiti in 127 Istituti penitenziari, emerge che il 66%, delle strutture sull’intero territorio nazionale ha adottato la raccolta differenziata dei rifiuti in tali spazi. A oggi i detenuti occupati nelle attività lavorative del settore sono 718, di cui 46 sono esclusivamente impiegati nel compostaggio. Per il Dipartimento il tema è stato considerato trainante sotto diversi aspetti: rappresenta in primo luogo la possibilità di introdurre elementi di educazione alla protezione e alla salvaguardia dell’ambiente, perché interviene nelle abitudini comportamentali quotidiane della popolazione ristretta. L’auspicio è che l’acquisizione di tale sensibilità ed abitudine da parte delle persone detenute possa trasferirsi anche all’esterno una volta riacquistata la libertà. "La pratica della raccolta differenziata - si legge in una nota del Dap - vuole essere un modo per incrementare le possibilità di occupazione lavorativa e di acquisizione di nuove competenze spendibili sul mercato del lavoro libero". Il Dap, inoltre, evidenzia che "la raccolta differenziata ha, tra gli obiettivi, la diminuzione dei costi del servizio di raccolta e, pertanto, rappresenta anche una modalità di razionalizzazione delle risorse pubbliche di cui l’Amministrazione penitenziaria dispone". "Si tratta di un programma di ampio respiro che abbisogna di tempi medio-lunghi per raggiungere tutti gli obiettivi connessi ma che mostra già tutta la forza delle sue potenzialità nei risultati finora ottenuti". Carovana per la Giustizia: Rita Bernardini prosegue il suo sciopero della fame Agenparl, 20 giugno 2017 Ieri conferenza stampa, convocata dal Partito Radicale, durante la quale è stato fatto il bilancio della Prima Carovana per la Giustizia, che si è svolta in Calabria dal 9 al 17 giugno. Durante la Carovana, promossa insieme all’Unione delle Camere Penali, in cui sono stati percorsi 3000 km, sono state raccolte 2500 firme per la proposta di legge per la separazione delle carriere tra pm e giudici e 36 iscrizioni al Partito Radicale. Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito radicale, al 24esimo giorno di sciopero della fame ha dichiarato: "Proseguo lo sciopero della fame iniziato 24 giorni fa per scandire i tempi del governo sull’attuazione del ddl penale. Ritengo sia un atto di responsabilità vigilare sui tempi dei decreti delegati che, anche se emanati domani, devono passare al vaglio delle commissioni competenti di Camera e Senato, dopodiché occorrerà attendere la risposta del Governo, la quale sarà poi nuovamente esaminata dalle stesse commissioni. Per quanto concerne la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere è bene ricordare che già nel 2000 ai tempi del referendum 10 milioni di italiani dissero sì, peccato poi non aver raggiunto il quorum per colpa di chi invitò ad andare al mare. La cosa grave dell’aumento del sovraffollamento nelle carceri è che la struttura (agenti, educatori, sanitari) non riesce a fronteggiare quello che va oltre la capienza regolamentare. Sulla giustizia c’è bisogno di fare informazione: il carcere e l’esecuzione penale sono purtroppo all’ultimo posto dell’agenda mediatica. Sui farmaci cannabinoidi: grazie anche ad Andrea Trisciuoglio con il quale avevamo denunciato la sparizione dalle farmacie del Bediol, l’onorevole pentastellata Mara Mucci ha presentato una interpellanza urgente per il question time e una interrogazione parlamentare a risposta scritta". Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino ha dichiarato: "La Carovana per la Giustizia ha tutti i connotati del Partito Radicale: quello nonviolento per lo sciopero di Rita Bernardini e quello transpartito perché si sono iscritti e hanno firmato cittadini di diversi schieramenti politici, come l’onorevole del PD Enza Bruno Bossio. Entro il 31 dicembre dobbiamo raggiungere i 3000 iscritti, in media 10 iscrizioni al giorno. Non ci arrendiamo e chiediamo a tutti quelli che hanno creduto e vogliono continuare a credere nelle lotte di Marco Pannella di aiutarci a raccogliere le iscrizioni". Maurizio Turco, Partito Radicale e Lista Marco Pannella ha dichiarato: "In 8 mesi abbiamo fatto 2 marce per l’amnistia, abbiamo visitato 200 carceri, Rita Bernardini, Irene Testa, Paola Di Folco, Maurizio Bolognetti hanno fatto lo sciopero della fame per giorni e giorni, a cui è corrisposto un vero processo di censura nei confronti delle iniziative del Partito Radicale. C’è un diritto nostro ad essere conosciuti e un diritto dei cittadini a conoscere le nostre iniziative. La questione giustizia è stata cancellata dall’informazione. Dove sono i dibattiti televisivi? Ci sono milioni di processi accumulati di cui nessuno parla e i primi a pagarne le conseguenze sono le vittime dei reati. Ci auguriamo che oltre a dar conto delle nostre iniziative si facciano approfondimenti sulle radici delle iniziative". Giuseppe Belcastro, Coordinatore per l’Unione Camere Penali della raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, ha dichiarato: "Era difficile immaginare alla partenza una risposta così entusiastica e convinta: oltre 44.000 firme in poco più di 40 giorni danno la misura della soddisfazione, ma pure della responsabilità che gli avvocati penalisti italiani hanno assunto. Nemmeno al giro di boa e con questi numeri all’attivo, diventa ancora più importante chiarire un punto: questa non è una iniziativa contro qualcuno. Ne abbiamo sentite tante, in questi giorni, di reazioni ingiustificate e, a volte, anche francamente scomposte. È importante allora ribadire con estrema chiarezza che l’obiettivo non è mai stato quello di una contrapposizione, men che mai con la magistratura. È una battaglia in favore di qualcosa, per qualcosa: per la vera autonomia del giudice dalle parti processuali; per garantire le condizioni indispensabili all’adozione di decisioni imparziali; per ripristinare un equilibrio interno fra le parti del processo che, chiunque frequenti le aule dei tribunali, percepisce oggi come gravemente compromesso; per preservare, insomma, il diritto dei cittadini ad un giusto processo. È un segnale forte quello che 44.000 firme già lanciano e direi che, visti gli ultimi eventi sul tema giustizia, ce n’è davvero bisogno". Appello, con la riforma del processo penale rischio di ripetizione del primo grado di Massimo Ceresa-Gastaldo Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Un giusto processo d’appello, riservato a pochi. Questo il dichiarato obiettivo di alcune delle più significative disposizioni in tema di giudizio di secondo grado contenute nella riforma varata mercoledì scorso dal Parlamento: assicurare la piena conformità del mezzo ai principi della Cedu e allo stesso tempo (e soprattutto) ridurre drasticamente il lavoro delle corti. Un risultato al quale negli ultimi tempi aveva già mirato la Cassazione. Impazienti di fronte al ritardo del legislatore nel licenziare norme concepite sin dal 2013 (da apposita commissione ministeriale, assai vicina a Piazza Cavour), le Sezioni unite avevano decretato applicazioni ante litteram dei nuovi congegni, desumendone in via interpretativa l’esistenza nel codice. Ma le disposizioni appena varate vanno (consapevolmente o meno) ancora più in là. L’appello penale, sinora strutturato non come ripetizione del processo, ma come riesame critico e selettivo della decisione di primo grado, condotto tendenzialmente sugli atti, è destinato a cambiare radicalmente connotati. Quando ad impugnare l’assoluzione è il pubblico ministero, si dovrà reiterare l’intera istruttoria dibattimentale, e non solo la singola prova "decisiva" che giustifichi il ribaltamento. Benché riferita al solo appello del proscioglimento, è chiaro che la nuova norma non potrà che avere portata più ampia. Una volta affermata la necessità della "prova viva", perché mai la si dovrebbe negare all’imputato che chieda la riforma della condanna? O allo stesso pubblico ministero, che pure invochi la riforma della condanna, ma in peius? L’ingigantimento del giudizio, trasformato in una riedizione del primo, è evidente. Resta da capire se un simile effetto risponda davvero ad esigenze di garanzia o ai dicta di Strasburgo. In realtà, né alle une né agli altri. Che ripetere l’esame di un testimone, già sottoposto in precedenza ad esame incrociato, porti ad un risultato più attendibile è tutto da dimostrare. Anzi: il fattore tempo e il pesante condizionamento che la prima esperienza irrimediabilmente esercita sulla fonte, fanno ritenere il contrario. Ma non è vero neppure che la replica della prova dichiarativa sia un imperativo della Cedu. Ancora di recente (caso Kashlev v. Estonia del 2016) la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha ribadito che lo "statuto convenzionale" della rinnovazione istruttoria non è affatto rigido. Nessuna violazione dell’articolo 6, se l’ordinamento comunque assicura adeguate garanzie (come l’obbligo per il giudice di appello di "motivazione rafforzata", previsto da tempo anche nel nostro sistema) contro arbitrarie o irragionevoli valutazioni della prova. Per contro, mentre il processo viene appesantito, senza in fondo migliorarne la qualità, si pretende di recuperare l’efficienza perduta tagliando drasticamente il numero dei giudizi. Sotto le mentite spoglie della semplificazione, si innalza la soglia di accesso al rimedio, grazie all’irrigidimento dei requisiti formali. L’atto di appello, da strumento per attivare un riesame di merito della vicenda, diventa una sorta di ricorso per vizio di motivazione della sentenza, sotto la spada di Damocle dell’inammissibilità per difetto di forma. Sprovvisto com’è di adeguati limiti, il filtro rischia di diventare un mezzo di selezione arbitraria dei processi, affidato al concetto, pericolosamente vago e relativo, di "specificità" dei motivi. Riforma del processo penale. Reati fiscali prescritti in 13 anni di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Le disposizioni sulla prescrizione si applicano ai fatti commessi dopo la data di entrata in vigore della nuova legge. Ipotizzando la pubblicazione in Gazzetta nell’arco di qualche giorno, le regole peggiorative si applicano ai seguenti illeciti: dichiarazioni fraudolente; infedele e omessa presentazione, se interessano le imposte sui redditi, già con i modelli redditi relativi al periodo di imposta 2016, da presentare entro la fine del mese di settembre di quest’anno; omesso versamento Iva anno 2016, che si consuma con la scadenza dell’acconto annuale (27 dicembre 2017); omesso versamento ritenute di acconto anno 2016, che si consuma con la presentazione del modello 770 (31 luglio 2017); emissione di fatture false, se successive all’entrata in vigore della legge. Seguiranno invece le attuali e più favorevoli regole prescrizionali, gli eventuali illeciti penalmente rilevanti commessi nelle dichiarazioni annuali Iva per il periodo di imposta 2016, in quanto già presentate. Da segnalare, poi, che le nuove norme introducono anche un nuovo atto interruttivo della prescrizione: l’interrogatorio reso alla polizia giudiziaria, su delega del Pm. Tale modifica, per inciso, dirime un contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità, in ordine all’effetto interruttivo di tale interrogatorio, risolto negativamente dalle Sezioni Unite, in ragione del carattere tassativo della elencazione degli atti interruttivi (Cassazione - Sezioni Unite - 11 settembre 2001, n. 33543). Si ricorda che, verificandosi uno degli atti previsti dall’articolo 160 del Codice penale, la prescrizione si può interrompere, tenendo però presente che in nessun caso l’interruzione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere (fatta eccezione per i casi di recidiva, o di delinquenza abituale e/o professionale, nonché per determinate categorie di reati). Per i delitti tributari, l’interruzione si verifica non solo per gli atti previsti dal Codice (sentenza di condanna; ordinanza misure cautelari personali; interrogatorio; richiesta di rinvio a giudizio; decreto di fissazione dell’udienza preliminare), ma anche in presenza del verbale di constatazione e dell’atto di accertamento. Nonostante per la maggior parte dei reati tributari - dal momento che scaturiscono da controlli fiscali - l’interruzione della prescrizione sia determinata dal Pvc, o dall’accertamento, nelle ipotesi in cui l’illecito emerga da attività di polizia giudiziaria (e quindi non vi sia, nell’immediatezza, né Pvc, né accertamento), l’eventuale interrogatorio della Pg (in questi casi normalmente la Guardia di Finanza), su delega del Pm, interromperà in futuro il decorso della prescrizione, comportando così che gli ordinari otto e sei anni, diventino rispettivamente dieci anni e sette anni e sei mesi. Reati fiscali prescritti in 13 anni La prescrizione per la maggior parte dei reati tributari commessi in futuro potrà arrivare fino a 13 anni, cui occorrerà aggiungere ulteriori sei mesi in ipotesi di rogatorie internazionali. Sono gli effetti sui delitti previsti dal decreto legislativo 74/2000, in conseguenza delle modifiche alla disciplina della prescrizione nel processo penale, approvate definitivamente dal Parlamento. I precedenti - Inizialmente il decreto 74/2000 non aveva introdotto specifiche regole sui termini prescrizionali dei delitti tributari, per cui si applicava la disciplina generale prevista dal Codice penale. Tali reati, quindi, si prescrivevano nel termine di sei anni che, a seguito di eventuale interruzione, diventavano sette anni e mezzo. Con la legge 148/2011, dal 17 settembre 2011 è stata introdotta una disciplina ad hoc nel decreto 74/2000 per gli illeciti penali tributari, con cui i termini di prescrizione per alcuni delitti sono stati elevati di un terzo. Ciò significa che il termine precedente di sei anni, aumentato di 1/3, è diventato di otto anni, oppure di dieci, in caso di interruzione. Attualmente, pertanto, per gli illeciti penali tributari commessi dopo il 17 settembre 2011, esiste un regime prescrizionale differenziato e, in particolare: per i reati di omesso versamento delle ritenute, dell’Iva, per l’indebita compensazione e la sottrazione fraudolenta, si applica il termine di sei anni, o di sette anni e mezzo in caso di interruzione; per tutti gli altri reati (dichiarazioni fraudolente con utilizzo di falsi documenti, o mediante altri artifici; dichiarazione infedele; omessa presentazione; occultamento o distruzione di scritture contabili; emissione di fatture false), scatta il termine di otto anni, che diventa di dieci, in presenza di cause interruttive. Ne consegue, quindi, che dal 2011 buona parte dei reati tributari hanno termini prescrizionali più lunghi rispetto agli altri delitti comuni, puniti con la medesima pena. Il nuovo corso - Le modifiche al Codice penale approvate dal Parlamento hanno introdotto - all’articolo 159 del Codice penale - ulteriori ipotesi di sospensione del corso della prescrizione, alcune delle quali con effetti sui reati tributari. In concreto, il corso della prescrizione in futuro sarà sospeso anche: per richiesta di rogatoria all’estero; in questo caso, il termine massimo di sospensione è pari a sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria; dal termine per il deposito della motivazione della sentenza di condanna in primo grado e/o in secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, fino alla pronuncia del dispositivo che definisce la sentenza del grado successivo e comunque per un tempo non superiore a un anno e sei mesi. Ne consegue che, in ipotesi di condanna nei vari gradi di giudizio per un delitto tributario, i termini prescrizionali passeranno dagli attuali dieci a 13 anni, ovvero da sette anni e sei mesi, per i reati di omesso versamento e sottrazione fraudolenta, a dieci anni e sei mesi. Va da sé che, in ipotesi di sentenza assolutoria, l’incremento del termine non si verifica. Nel caso in cui vi sia stata la necessità di avanzare una richiesta di rogatoria internazionale all’estero, i termini saranno ulteriormente sospesi dalla data del provvedimento che dispone la rogatoria, fino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dalla rogatoria. Per il Csm troppo pochi 2 giorni di impegno a settimana per i magistrati onorari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Csm, parere sullo schema di decreto legislativo recante la riforma organica della magistratura onoraria. Maggiore flessibilità nell’utilizzo dei magistrati onorari. Lo chiede il Csm, nel parere approvato dal plenum, in sintonia peraltro con la commissione Giustizia del Senato. Si stringono i tempi sull’approvazione definitiva della riforma della magistratura onoraria. Il decreto legislativo è stato approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri e le commissioni parlamentari, con il voto al parere di Palazzo Madama, ne hanno concluso l’esame. Anche il Csm però ha messo a punto un pacchetto di richieste di modifica. Che si concentrano, dopo avere ascoltato le forti preoccupazioni da parte delle Procure, su una richiesta di impiego meno rigida rispetto a quanto previsto dal decreto. Quest’ultimo, infatti, stabilisce che "l’incarico di magistrato onorario ha natura inderogabilmente temporanea, si svolge in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali e non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego. Al fine di assicurare tale compatibilità, a ciascun magistrato onorario non può essere richiesto un impegno superiore a due giorni a settimana". È vero, ammette il Csm, che la temporaneità e non esclusività dell’attività dei magistrati onorari è in linea sia con la disciplina costituzionale, sia con la legge delega, sia, anche, con quanto già espresso dal Consiglio in altre circostanze, tuttavia i punti critici messi in luce dal parere sono sia formali sia di sostanza. A partire dalla nozione di impegno, che appare al Consiglio troppo generica; ne andrebbe invece precisato il contenuto, chiarendo se ci si intende riferire all’attività di udienza o al lavoro complessivo da svolgere, in udienza e fuori udienza, o, anche entrambi i parametri. Ma il punto fondamentale è che l’utilizzo part time dei magistrati onorari, appare "come inadeguato rispetto alle effettive esigenze degli uffici, requirenti e giudicanti. Infatti, attualmente, sia ai vice procuratori onorari sia ai giudici onorari di Tribunali si chiede un impegno lavorativo che va molto spesso al di là dei due giorni di lavoro a settimana sicché limitarne l’impiego in questi termini (un giorno d’udienza ed un giorno - o anche un giorno e mezzo - per la preparazione dell’udienza e/o per lo studio dei relativi fascicoli e la stesura dei provvedimenti) determinerebbe una grave contrazione della produttività degli uffici, con conseguente (ulteriore) rallentamento del servizio giustizia". Analogo discorso può poi essere fatto per i giudici di pace ai quali oltretutto vengono pure aumentate le competenze. E allora, il parere del Csm è che i paletti devono essere riferiti a un complessivo impegno lavorativo non superiore a tre giorni a settimana, comprensivo della partecipazione a non più di due udienze a settimana. Il Senato, invece, a titolo di condizione (quindi rafforzato rispetto alla camera), chiede di prevedere dal secondo quadriennio dall’entrata in vigore della riforma la possibilità di rafforzare l’utilizzazione dei magistrati onorari già oggi in servizio (oltre, quindi, le due giornate previste a regime) attraverso la valorizzazione della professionalità già acquisita e il conseguente aumento dell’indennità. Il Csm, poi, chiede di ridurre l’incremento delle competenze previste nel settore civile, sottolineando la portata dell’intervento messo in campo con il decreto, sia pure a partire dal 2021: si tratta, per esempio, quanto alla competenza per valore di un innalzamento di 6 volte per le cause su beni mobili e di 2 e mezzo per le liti sul risarcimento del danno da circolazione. Sì alla prescrizione se il ricorso è ammissibile perché la giurisprudenza è spaccata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Non può essere considerato inammissibile il ricorso per cassazione se il problema di fondo non può contare per la sua soluzione su una giurisprudenza consolidata ma, al contrario il tema è oggetto di un contrasto: la non manifesta infondatezza apre la strada dunque alla rilevazione della prescrizione maturata nel corso del giudizio. La Corte di cassazione, con la sentenza 30627 ricorda che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso è un passo particolarmente delicato e il giudice di legittimità deve farlo in maniera non arbitraria. Per la pronuncia di inammissibilità dei motivi, mera o manifesta, il giudice è tenuto a fare una serie di valutazioni che la Suprema corte non manca di ricordare. Per quanto riguarda i motivi con i quali si lamenta l’inosservanza o un’errata applicazione della legge è necessario valutare se l’errore non sia invece stato commesso proprio dal ricorrente nell’interpretare la norma posta alla base del ricorso. E certamente si sbaglia quando: si invoca una norma inesistente nell’ordinamento, si nega l’esistenza o il senso assolutamente univoco di una disposizione di legge o si ripropone una questione già costantemente decisa dalle Sezioni unite in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente senza fornire motivi nuovi a sostegno della propria tesi. I giudici precisano anche il lavoro che il giudice di legittimità deve fare quando nel mirino della difesa entra la motivazione che si presume viziata. In tal caso l’inammissibilità può scattare se le critiche sono prive di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali, come accade, ad esempio, quando alla motivazione contestata nel ricorso si attribuisce un contenuto letterale, logico e critico del tutto diverso da quello reale. Il "riassunto" della Cassazione sui motivi di inammissibilità, precisano i giudici della seconda sezione penale, è quanto mai doveroso in considerazione della delicatezza del tema esaminato e delle sue possibili ricadute innanzitutto sui principi dell’equo processo e della certezza del diritto dettati dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dalla Costituzione. Tutele che sarebbero violate, nel caso di una non corretta lettura, in un sistema nel quale la prescrizione, non dipende solo dal decorso del tempo e dal susseguirsi di eventi che possono sospenderla o interromperla, ma anche dalla corretta valutazione del giudice della fondatezza dei motivi di ricorso. Dall’elencazione dei casi è evidente che non può essere considerato inammissibile, come era invece avvenuto, nel caso esaminato un ricorso la cui definizione presupponga la soluzione di un problema oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità. E detto questo la Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello e dichiara la prescrizione del reato. Associazione per delinquere: la prescrizione non elimina la confisca di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 16 giugno 2017 n. 30255. L’estinzione per la prescrizione dei reati non autorizza a pensare che vengano azzerate anche le misure cautelari reali relative a ulteriori delitti che non siano caduti in prescrizione. Questo il significativo principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 30255/2017. La Cassazione si è trovata alle prese con una vicenda in cui la Corte di appello di Genova aveva dichiarato estinti per prescrizione i reati ascritti all’imputato e nel caso particolare si trattava di sei reati di interposizione fittizia. Contro il provvedimento l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione in quanto, in riferimento al reato presupposto di riciclaggio di denaro provenienti, secondo l’accusa, dalla partecipazione a un’associazione per delinquere semplice e non di stampo mafioso, non si sarebbero potuti generare profitti. L’appello è stato rigettato dalla Cassazione. Autonomia dei profitti illeciti - Secondo i giudici di legittimità, infatti, il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare profitto illecito, come tale suscettibile di confisca in via del tutto autonoma da quello conseguito dai reati-fine perpetrati in esecuzione del programma criminoso con riferimento alle utilità percepite dagli associati per il contributo da essi prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio. Proprio in funzione di questo principio la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva confermato il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme erogate alla società di persona indagata di partecipazione a un’associazione per delinquere transnazionale finalizzata alla consumazione di reati fiscali e di riciclaggio per importi ulteriori e non coincidenti con quelli riferibili ai reati fiscali posti in essere. Il principio di diritto - In definitiva sulla scorta delle precedenti considerazioni è stato espresso il principio di diritto secondo cui "in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’articolo 129, comma 2, cpp soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento", e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento". Ulteriore precisazione : "nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato, non sono rilevabili né nullità di ordine generale, né vizi di motivazione della decisione impugnata". Omicidio stradale, se è colpa della mancata manutenzione responsabilità del gestore di Fabio Piccioni Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Tribunale di Firenze. Sentenza 3 aprile 2017 n. 1446. Esclusa la responsabilità penale per l’evento letale derivante dalla condotta del conducente, laddove si inseriscano fattori causali autonomi in grado di interrompere il nesso di causalità preesistente. È quanto deciso dal tribunale di Firenze con la sentenza 1446/2017. L’imputato veniva tratto a giudizio per rispondere del delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, per aver cagionato la morte della passeggera a causa della perdita di controllo del veicolo che, uscito di strada, andava a impattare contro il guard-rail di una piazzola di sosta che penetrava nell’abitacolo per tutta la lunghezza del veicolo. La sentenza - Nel caso di specie, la sola violazione della regola cautelare non può considerarsi sufficiente al fine di presumere l’esistenza del rapporto di causalità. L’evento realizzatosi non è una conseguenza normale e prevedibile dell’urto, posto che un impatto di media entità contro un guard-rail ben saldato difficilmente avrebbe causato danni alle persone. Per tali motivi, la morte della vittima deve ritenersi causata dal sopravvenuto e imprevedibile malfunzionamento delle strutture di contenimento, le quali, comportandosi in modo anomalo, hanno causalmente determinato l’evento letale innescando un pericolo nuovo e diverso da quello precedentemente attivato. Pertanto, l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste, mentre gli atti devono essere trasmessi alla Procura della Repubblica, affinché valuti le eventuali responsabilità dei soggetti incaricati della corretta installazione e manutenzione delle barriere coinvolte nel sinistro. L’impianto normativo - L’indagine da compiere involge l’analisi esegetica dell’articolato impianto normativo in materia. L’articolo 589 comma 2 del Cp, applicabile ratione temporis - al pari del comma 1 del nuovo articolo 589-bis Cp- punisce l’evento letale cagionato da "chiunque" (quindi, anche non conducente) violi le "norme sulla disciplina della circolazione stradale", id est con qualunque condotta colposa nell’attività connessa alla circolazione. Infatti, la Grundnorm di cui all’articolo 140 del codice della strada, recante il "principio informatore della circolazione" di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio e da salvaguardare la sicurezza, è rivolta a tutti "gli utenti della strada", e non solo ai conducenti. Possono essere chiamati a rispondere dell’evento (ex articolo 40 cpv. Cp) anche coloro che devono garantire "la sicurezza delle persone nella circolazione stradale" (secondo l’incipit dell’articolo 1 del Cds). Si tratta dei soggetti a carico dei quali grava, per il ruolo ricoperto, un obbligo di garanzia finalizzato alla tutela della sicurezza (cfr. Cassazione penale, sez. IV, 3/5/2012, n. 23152). Sussiste in capo all’ente proprietario di una strada destinata a uso pubblico una posizione di garanzia da cui deriva l’obbligo di vigilare affinché quell’uso si svolga senza pericolo per gli utenti (neminem laedere), che permane anche in caso di concessione di appalto per l’esecuzione di lavori di manutenzione stradale (cfr. Cass. Pen., sez. IV, 29/3/2016, n. 17070). È, peraltro, l’articolo 14 del codice della strada a prescrivere che gli "enti proprietari" o "concessionari delle strade" devono provvedere: "a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze; c) alla apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta". In merito all’identica figura base prevista dal nuovo omicidio stradale, il Ministero dell’Interno, con circolare del 25/3/2016, nel fornire indicazioni operative per l’uniforme applicazione delle attività di polizia in merito al nuovo reato, ha affermato che "il reato ricorre … anche se il responsabile non è un conducente di veicolo. Infatti, le norme del Codice della Strada disciplinano anche comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli". Avverso tale circolare, Anas s.p.a., ritenuto tale orientamento lesivo perché estenderebbe in maniera indiscriminata l’ambito soggettivo di applicazione del reato anche nei confronti di chi non è conducente di un veicolo, ad esempio coloro che, addetti alla sicurezza e alla manutenzione della strada, hanno violato le norme del codice della strada, ha proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato. La prima sezione del Consiglio di Stato, con provvedimento del 7 marzo 2017 n. 567, ritenuto che - le circolari amministrative costituiscono atti interni, diretti agli organi e agli uffici periferici, che vincolano solo i comportamenti degli organi operativi sotto ordinati; - la circolare impugnata contiene l’interpretazione di una norma di legge la cui applicazione è rimessa all’autorità giudiziaria; - per l’assenza di un’immediata lesività, non è configurabile un interesse concreto e attuale all’impugnazione; - la circolare non vincola il giudice penale, oltre a poter essere disapplicata dal giudice amministrativo; - ha dichiarato (evidentemente) il ricorso inammissibile per inesistenza di carattere immediatamente lesivo per gli interessi dell’ente ricorrente. In conclusione, la mancata o cattiva manutenzione delle strade e della relativa segnaletica, risulta idonea a integrare l’ipotesi delittuosa a carico del gestore. Fondamento della prognosi del Gup su inutilità del dibattimento. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2017 Processo penale - Indagini preliminari e udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - Presupposti - Valutazione dell’inutilità dibattimentale. La prognosi di inutilità del dibattimento va formulata dal giudicante secondo l’operatività della regola del giudizio valevole ai fini della sentenza di non luogo a procedere ex articolo 425 c.p.p. Infatti, pur nel quadro generale di una disomogeneità di indirizzi, si riscontra una sostanziale uniformità su alcuni principi in base ai quali deve quanto meno potersi affermare che l’eventuale insufficienza e contraddittorietà degli elementi acquisiti debbano essere tali da risultare ragionevolmente insuperabili in giudizio. Il quadro probatorio di insufficienza e contraddittorietà, infatti, non deve essere suscettibile di implementazione dibattimentale né attraverso l’acquisizione di nuove prove o né grazie ad una diversa valutazione del materiale del materiale probante già raccolto. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 1 giugno 2017 n. 27593. Udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - In genere - Valutazione del GUP - Parametro di riferimento - Idoneità a sostenere l’accusa in giudizio - Necessità - Fattispecie. Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il Gup deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi probatori acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, esprimendo un giudizio prognostico circa l’inutilità del dibattimento, senza poter formulare un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato. (Nella fattispecie la Corte ha annullato con rinvio la sentenza con la quale il Gup, sulla base di una valutazione nel merito dei risultati probatori aveva prosciolto l’imputato, ritenendo che la sua condotta difettasse "degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa ipotizzata"). • Corte cassazione, sezione V, sentenza 5 gennaio 2017 n. 565. Udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - Valutazione del Gup - Parametro di riferimento - Inutilità o superfluità del dibattimento - Conseguenze. Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza dell’imputato, ma l’inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi probatori contraddittori od insufficienti; ne consegue che, nell’ipotesi di diverse ed opposte valutazioni tecniche, non spetta al Gup decidere quale perizia sia maggiormente attendibile, dovendo egli solo verificare se gli elementi acquisiti a carico dell’imputato risultino irrimediabilmente insufficienti o contraddittori, in ragione di eventuali manifeste incongruenze del contributo dell’esperto posto a sostegno dell’accusa o dell’errata piattaforma fattuale assunta ovvero della palese insipienza tecnica del metodo o dell’elaborazione. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 27 luglio 2016 n. 32574. Udienza preliminare - Sentenza di non luogo a procedere - Giudice - Contraddittorio- Inutilità del dibattimento - Innocenza dell’imputato - Sostenibilità dell’accusa. Se è vero che il giudice deve pronunziare sentenza di non luogo a procedere soltanto qualora sia ragionevolmente prevedibile che gli elementi di prova siano destinati a rimanere contraddittori o insufficienti all’esito del giudizio e, quindi, il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza dell’imputato, ma l’inutilità del dibattimento, tuttavia, il gup è legittimato a verificare la sostenibilità dell’accusa in dibattimento anche con riferimento all’elemento psicologico del reato. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 14 luglio 2016, n. 29974. Paola (Cs): due morti in carcere, il Governo Gentiloni risponde in Parlamento emilioquintieri.com, 20 giugno 2017 Per il Ministro Andrea Orlando non ci sono responsabilità del personale penitenziario. Il Governo Gentiloni, per il tramite del Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, nei giorni scorsi ha risposto alle Interrogazioni a risposta scritta presentate il 16 novembre 2016 dai Senatori della Repubblica Peppe De Cristofaro, Loredana De Petris, Francesco Molinari, Ivana Simeoni, Serenella Fucksia e Giuseppe Vacciano. Lo rende noto Emilio Enzo Quintieri, esponente dei Radicali Italiani, da tempo alla guida della delegazione visitante gli Istituti Penitenziari della Calabria. Con gli atti di sindacato ispettivo n. 4-06659 e 4-06665, scrive il Ministro della Giustizia, si segnalano le vicende di Youssef Mouhcine e di Maurilio Pio Massimiliano Morabito, deceduti rispettivamente il 24 ottobre ed il 29 aprile 2016, mentre si trovavano detenuti presso la Casa Circondariale di Paola. L’argomento investe, evidentemente, su un tema di estrema delicatezza, su cui è concentrato il massimo impegno da parte del Ministero. Sugli episodi segnalati, la competente articolazione ministeriale ha avviato le opportune attività di accertamento ispettivo, parallelamente alle indagini preliminari disposte dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola. L’attività ispettiva, secondo quanto comunicato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha consentito di ricostruire la vicenda relativa alla morte di Youssef Mouhcine nei seguenti termini. Il detenuto, tratto in arresto il 5 marzo 2016, con ingresso presso la Casa Circondariale di Paola il successivo 29 aprile, stava scontando una pena definitiva a 10 mesi di reclusione, con fine pena fissato al 15 novembre 2016. Fin dall’accesso in istituto, il detenuto aveva manifestato problematiche relazionali, su sua richiesta era stato collocato da solo in una camera detentiva e manteneva, sia pur sporadici, contatti telefonici con il padre. Egli è stato seguito dai servizi sanitari e di supporto all’interno dell’istituto e la psicologa ha relazionato i risultati della sua osservazione nei seguenti termini: il detenuto ha riferito un passato di abusi di alcol, eroina e cocaina, in relazione ai quali era stato preso in carico dal Sert di Bassano del Grappa; ha manifestato durante la detenzione, fluttuazioni del tono dell’umore, con fasi di innalzamento dei livelli di ansia nel corso delle quali ha messo in atto gesti autolesionistici che, tuttavia, non sono mai parsi sintomatici di un reale desiderio suicidario, ma connessi ad un transitorio discontrollo dell’impulsività; in concomitanza di tali eventi è stata intensificata l’attività di supporto e la frequenza delle visite psicologiche e psichiatriche, anche con prescrizione di terapia farmacologica; nel corso dei colloqui più recenti, l’ultimo dei quali del 20 ottobre 2016, aveva raggiunto un buon equilibrio psicoemotivo, anche in vista della prossima scarcerazione. La mattina del 24 ottobre 2016 il personale di Polizia Penitenziaria, aprendo la sua cella e facendovi ingresso, ha rinvenuto Youssef Mouhcine privo di vita, con la testa avvolta in una busta di plastica al cui interno si trovava il fornellino in uso con inserita la bomboletta del gas. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, all’esito degli accertamenti ispettivi, ha comunicato che non sono emerse responsabilità in capo al personale. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, dal canto suo, ha comunicato di essere ancora in attesa delle risultanze della consulenza medico-legale disposta per l’accertamento di cause e mezzi del decesso nell’ambito del Procedimento Penale iscritto a carico di ignoti al n. 3385/16 R.G.N.R. Mod. 44. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che la Direzione dell’istituto penitenziario ha informato dell’evento il Consolato del Marocco, non riuscendo a contattare direttamente al numero disponibile i congiunti, i quali venivano finalmente contattati il 27 ottobre per la partecipazione della notizia. In quella sede, i familiari avrebbero rappresentato difficoltà economiche per il trasporto della salma in Marocco e prestavano assenso alla sepoltura del congiunto in Italia, con oneri sostenuti dal Comune di Paola. Ancora, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha riferito che non risulta che il detenuto sia mai stato sottoposto a maltrattamenti o a trattamenti degradanti o inumani né risulta che presso la Casa Circondariale di Paola siano utilizzate "celle lisce". Per quanto attiene alla vicenda relativa al decesso del detenuto Maurilio Pio Massimiliano Morabito, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che, dopo aver fatto ingresso alla Casa Circondariale di Reggio Calabria in data 1 marzo 2016, egli era stato trasferito presso la Casa Circondariale di Paola il 1 aprile, in seguito a spontanee dichiarazioni rese con le quali manifestava timori per la propria incolumità. All’ingresso presso l’istituto di Paola, il detenuto ha confermato i propri timori e, conseguentemente, è stato collocato in una cella singola, con divieto di incontro con il resto della popolazione detenuta. In data 11 aprile Morabito ha dato fuoco al materasso in dotazione, dichiarando poi al Comandante di Reparto che il suo gesto aveva rappresentato il tentativo estremo di attirare l’attenzione sui suoi timori per l’incolumità personale. Il detenuto temeva che i compagni di detenzione avessero intenzione di ucciderlo e di far apparire tale gesto come un suicidio. Dopo tale evento, la direzione della Casa Circondariale aveva avanzato richiesta al Provveditorato Regionale di trasferimento del detenuto per motivi di ordine, sicurezza ed incolumità personale. La competente articolazione ministeriale ha comunicato che Morabito era stato preso in carico dagli Operatori Penitenziari e Sanitari e che durante un colloquio condotto in data 13 aprile 2016, dallo Psichiatra e dallo Psicologo, egli ha manifestato uno stato di ansia diffusa, paura, tensione e un atteggiamento di circospezione e di sospettosità nei confronti dell’ambiente circostante, ha espresso il desiderio di essere trasferito in un istituto dotato di sezioni per appartenenti alla categoria "protetti" ed ha negato l’intenzione di compiere atti di autolesionismo. Contrariamente a ciò, in data 22 aprile 2016 è stato sventato un tentativo di suicidio ed in merito il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riferito di aver invitato la direzione della Casa Circondariale all’applicazione delle circolari in materia di prevenzione dei suicidi, in particolare nella parte relativa alle corrette modalità di allocazione dei soggetti che manifestano situazioni di criticità o disagi psichiatrici. Riferisce ancora il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che nei giorni antecedenti alla morte il detenuto è stato oggetto di molteplici interventi sanitari quotidiani. Il 29 aprile 2016, alle ore 00,50 circa, tuttavia, il personale penitenziario, durante il giro di controllo, giunto davanti alla camera detentiva, dava l’allarme ed il medico di turno, dopo aver praticato le manovre rianimatorie, non poteva che constatare il decesso per impiccamento di Maurilio Pio Massimiliano Morabito alle ore 01,25. Sul caso dall’Amministrazione Penitenziaria non sono stati riscontrati elementi di responsabilità del personale addetto alla Casa Circondariale. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, per quanto comunicato dalla competente articolazione ministeriale, ha aperto sulla vicenda il Procedimento Penale n. 1167/2016 R.G.N.R. Mod. 44 che, dopo il deposito della relazione di consulenza medico-legale ed all’esito degli accertamenti disposti, è stato oggetto di richiesta di archiviazione non avendo la Procura ravvisato responsabilità di terzi ed essendo emersa una condotta suicidaria del detenuto. Al 22 febbraio 2017 la richiesta di archiviazione risultava pendente presso l’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari di Paola. Con riguardo alle condizioni di vita detentiva presso la Casa Circondariale, l’Amministrazione Penitenziaria ha comunicato che al 16 febbraio 2017 il numero dei detenuti presenti è pari a 219 a fronte di una capienza regolamentare di 182 posti detentivi. Nonostante l’esubero dei presenti rispetto alla capienza regolamentare, risultano rispettati i parametri previsti dalla Cedu per garantire lo spazio vitale di ogni singolo detenuto. Presso l’istituto penitenziario la sorveglianza è garantita così come il servizio di guardia medica, presente 24 ore su 24. L’elevato tasso di presenza di stranieri detenuti presso il Carcere di Paola (in numero di 83), in maggioranza appartenenti alla comunità islamica, l’Amministrazione Penitenziaria ha riferito che è prossima la realizzazione di un protocollo con il mondo associativo che, oltre al progetto di mediazione culturale, possa offrire ulteriori aspetti di collaborazione. A questo ultimo riguardo ed in un’ottica generale, si rileva che in data 5 novembre 2015 è stato siglato un protocollo d’intesa fra questo Ministero e l’Unione delle comunità ed organizzazione islamiche italiane (Ucoii) con l’obiettivo di migliorare il modo di interpretare la fede islamica in carcere, fornendo un valido sostegno religioso e morale ai detenuti attraverso l’accesso negli istituti di persone adeguatamente preparate. Il progetto, attualmente in fase di sperimentazione presso 8 istituti penitenziari, da un lato ha l’obiettivo di agevolare l’integrazione dei detenuti di fede islamica e garantire loro l’esercizio del diritto di culto, dall’altro stabilisce una connessione tra gli operatori volontari e gli operatori penitenziari, anche nella prospettiva del contrasto alla radicalizzazione. Nel mese di settembre 2016, inoltre, è stato rivolto al presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI), alla luce della convenzione appositamente stipulata dal Ministero il 27 gennaio 2016, l’invito ad interpellare gli istituti di arabistica e di scienze islamiche delle università degli studi della Repubblica per raccogliere la disponibilità di ricercatori e dottorandi di ricerca ad operare, quali volontari, negli istituti penitenziari al fine di accrescere la comprensione e migliorare le relazioni umane con i ristretti di lingua e cultura araba. I casi di Youssef Mouhcine e Maurilio Pio Morabito, pur con le loro specificità, rappresentano tristi manifestazioni di un fenomeno che è alla costante attenzione del Ministro e che lo vede direttamente impegnato in ogni iniziativa necessaria ed utile alla prevenzione del rischio di gesti di autolesionismo in ambiente carcerario. Finalità alla cui attuazione certamente concorre l’istituzione e la nomina, con decreti del Presidente della Repubblica 1° febbraio e 3 marzo 2016, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Nella consapevolezza della drammaticità di ogni atto di autolesionismo, occorre osservare, sotto il profilo statistico, che a partire dal 2013 il numero di suicidi all’interno degli istituti penitenziari ha avuto un sensibile decremento. Tra il 2009 e il 2012, infatti, il numero di casi è stato sempre annualmente superiore a 55, con un picco di 63 nel 2011, mentre pari a 45 e 46 sono stati gli eventi degli anni 2007 e 2008. Grazie al miglioramento della situazione nei penitenziari, il numero si è ridotto in maniera significativa, registrando 42 casi di suicidio nel 2013, 43 nel 2014, 39 nel 2015, 39 nel 2016 e 10 sino al 28 febbraio 2017. Sul piano comparativo, poi, l’Italia, secondo le statistiche ufficiali del Consiglio d’Europa, registra uno dei tassi più bassi di casi di suicidio. Nell’ultima rilevazione del 2013, si registra un tasso di 6,5 su 10.000 casi in Italia, di 12,4 in Francia, di 7,4 in Germania, di 8,9 nel Regno Unito. I dati restano, in ogni caso, allarmanti e impongono un eccezionale sforzo dell’amministrazione penitenziaria, cui è demandata l’attuazione dei modelli di trattamento necessari alla prevenzione di ogni pericolo. Nella delineata prospettiva e alla luce delle analisi e delle riflessioni svolte nell’ambito degli stati generali dell’esecuzione della pena, il 3 maggio 2016 il Ministro ha adottato una specifica "direttiva sulla prevenzione dei suicidi", indirizzata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, prescrivendo la predisposizione di un organico piano d’intervento per la prevenzione del rischio di suicidio delle persone detenute o internate, il puntuale monitoraggio delle iniziative assunte per darvi attuazione e la raccolta e la pubblicazione dei dati relativi al fenomeno. In attuazione della direttiva, il Dipartimento ha predisposto un "piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in ambito penitenziario", cui hanno fatto seguito circolari attuative trasmesse ai provveditorati regionali. Le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria attengono alla formazione specifica del personale, alla raccolta ed elaborazione dei dati ed all’aggiornamento progressivo dei piani di prevenzione. Sono state, inoltre, impartite istruzioni ai provveditorati regionali ed alle direzioni penitenziarie per la conclusione di intese con Regioni e servizi sanitari locali, al fine di intensificare gli interventi di diagnosi e cura, nonché l’attuazione di misure di osservazione e rilevazione del rischio. L’amministrazione ha anche operato sul piano dell’organizzazione degli spazi e della vita penitenziaria, con incentivazione di forme di controllo dinamico volte a limitare alle ore notturne la permanenza nelle celle, in modo da rendere agevole l’osservazione della persona in ambiente comune e ridurre le condizioni di isolamento. Allo stesso scopo, sono state adottate misure volte a facilitare, anche attraverso l’accesso protetto ad internet, i contatti con i familiari. Al fine di verificare lo stato di attuazione delle misure intraprese e delle modalità di esecuzione, al livello locale prossimo agli istituti penitenziari, delle disposizioni contenute nella direttiva sulla prevenzione dei suicidi e sollecitarne, ove necessario, la completa e rapida attuazione, il 3 marzo 2017 si è svolta presso il Ministero una riunione nel corso della quale il Ministro ha incontrato, con il capo di gabinetto, tutti i referenti centrali e periferici dell’amministrazione penitenziaria. Sono state, inoltre, programmate attività di monitoraggio e verifica periodica degli interventi di prevenzione delineati, attività che saranno svolte istituto per istituto. Con la riunione si è dato l’avvio ad un tavolo in convocazione permanente che esaminerà costantemente i dati relativi allo stato di attuazione della direttiva che ogni referente è tenuto a raccogliere ed a trasmettere attraverso apposito monitoraggio. Le successive riunioni del tavolo, a partire dalla prima, si svolgono con stringente cadenza periodica. Il tema è stato, inoltre, affrontato anche nella riunione con i referenti dei tavoli tematici degli stati generali dell’esecuzione penale che, nell’ambito delle attività di monitoraggio dell’attuazione delle linee di intervento, si è tenuta il 22 marzo 2017. L’azione sin qui intrapresa risulterà ulteriormente rafforzata dalle misure contenute nella riforma dell’ordinamento penitenziario, appena approvata dal Senato, che permetterà di introdurre strumenti adeguati per garantire una funzione davvero recuperatoria e risocializzante, in chiave costituzionalmente orientata, all’esecuzione penale. Salerno: Alessandro Landi morì in carcere, per gli inquirenti fu omicidio colposo di Clemy De Maio La Città, 20 giugno 2017 Chiuse le indagini sui due medici che visitarono il 36enne. Il pm: "Omisero analisi e ricovero, negando cure adeguate". Alessandro Landi poteva forse salvarsi, se i medici del carcere che lo visitarono per un persistente dolore al torace avessero eseguito altri accertamenti o avessero deciso per il ricovero in ospedale. Invece ne disposero per due giorni di seguito il ritorno in cella, "così definitivamente precludendo alla persona offesa - si legge negli atti dell’inchiesta - la possibilità di ricevere adeguate cure". È la conclusione a cui è giunta il sostituto procuratore Elena Cosentino, che ha notificato a due medici in servizio nella casa circondariale l’avviso di conclusione delle indagini. Toccherà adesso a loro provare a farle cambiare idea, chiedendo di essere interrogati oppure depositando memorie difensive e consulenze tecniche. Era il 23 dicembre dello scorso anno quando il 36enne di Matierno chiese l’aiuto dei medici. Era stato arrestato a settembre, nell’ambito del blitz Italo che aveva sgominato un vasto giro di spaccio; gli inquirenti gli avevano contestato il reato di sfruttamento della prostituzione perché una delle assuntrici di eroina era finita sulla strada per pagarsi le dosi e pare fossero gli stessi spacciatori a procurarle alcuni clienti. Così, sebbene incensurato, Landi fu lasciato in carcere dal Tribunale del Riesame, che confermò l’ordinanza cautelare. Tre mesi dopo, nella sera di Natale, morì per una dissezione aortica, e la moglie decise di rivolgersi all’autorità giudiziaria per capire come fosse stato possibile che quel giovane all’apparenza in salute fosse venuto meno d’improvviso per un malore cardiaco, lasciandola sola con un bimbo di 11 anni da crescere. Il legale Agostino Allegro presentò denuncia in Procura e ora, dopo sei mesi d’indagine, il magistrato ha chiuso il cerchio ritenendo responsabili di omicidio colposo entrambi i medici che visitarono Landi nelle 48 ore prima della morte. La prima richiesta di aiuto è del 23 dicembre, quando il 36enne chiese di essere accompagnato in infermeria lamentando un forte dolore al petto. Il medico di guardia, G.B., lo visitò ma non ritenne che fossero necessari né gli esami per la ricerca di enzimi cardiaci né un elettrocardiogramma a dodici derivazioni, che avrebbero consentito una diagnosi corretta della patologia. Secondo gli inquirenti non avrebbe tenuto conto di quanto veniva riferito in termini di insorgenza e durata della patologia e soprattutto omise, "a fronte di un dolore toracico atipico", di prescrivere un ricovero in ospedale che avrebbe potuto garantire al paziente un monitoraggio costante e un immediato trasferimento in terapia intensiva in caso di emergenza. Il giorno dopo il copione si ripete con un altro medico, N.C., che visita anche lui il detenuto ma non ritiene necessario né il ricovero né ulteriori accertamenti diagnostici. Così Alessandro Landi torna in cella, ma poche ore dopo, alle 23.30 del 25 dicembre, muore per una dissezione aortica. Bolzano: carcere, "mancano spazi vitali" di Mario Bertoldi Alto Adige, 20 giugno 2017 La direttrice Nuzzaci però rassicura: "Garantiti i diritti dei detenuti". "Il problema - dice Rita Nuzzaci - è legato alla struttura ormai troppo vecchia. Ma tutti i diritti dei detenuti sono garantiti". "Non ho mai detto che il carcere di Bolzano è totalmente fuori norma. Probabilmente sono state fraintesa: il carcere di Bolzano è inadeguato rispetto alla normativa vigente ed è per questo motivo che si sta lavorando alla costruzione di un nuovo carcere". La puntualizzazione è della dottoressa Anna Rita Nuzzaci, direttrice del carcere di Bolzano. La necessità di fare chiarezza sulla situazione nelle celle di via Dante è emersa anche a seguito di alcune valutazioni del senatore Francesco Palermo, del consigliere provinciale verde Riccardo Dello Sbarba e dell’avvocato radicale Fabio Valcanover che venerdì hanno effettuato una visita all’interno della vecchia struttura. Si è parlato di carcere fuori norma, di presunte autorizzazioni provvisorie ministeriali a proseguire nonostante le pecche, di detenuti disperati che arrivano al punto di cucirsi bocca e occhi per ottenere l’attenzione di un magistrato o una visita medica. Insomma un piccolo inferno. Ma è proprio così? "No - spiega la direttrice - è ovvio che un carcere non sia un posto ove si possa vivere bene e felici ma da qui a considerare il carcere di Bolzano un inferno ce ne passa. Ripeto: la struttura è inadeguata nel senso che non ci sono gli spazi per tutte le attività trattamentali che dovrebbero essere offerte al detenuto in vista di un ritorno alla libertà a fine pena. Si tratta di iniziative in materia di lavoro, istruzione, religione (in quanto portatrice di valori e di principi di solidarietà), attività ricreative e sportive. Questa struttura, come tutte le strutture antiche, non offre spazi per queste attività perché fu concepita con un’idea diversa di condanna. Alla fine dell’800 la pena era fine a stessa e dunque il carcere doveva adempiere ad un ruolo di mera custodia". Ora il concetto di pena è cambiato. Ovviamente è sempre legato ad un periodo temporale di limitazione della libertà personale mail tempo trascorso in carcere dovrebbe essere utilizzato in modo fruttuoso. È sotto questo profilo che il carcere di Bolzano è ormai inadeguato. "Ad esempio noi possiamo solo offrire un lavoro interno domestico - spiega ancora la direttrice - cioè il lavoro che serve per mantenere la struttura come cucina, pulizia, piccola manutenzione". Chi lavora (una ventina di detenuti in tutto) viene regolarmente pagato e le opportunità di lavoro vengono distribuite a rotazione tra i carcerati, perché tutti possano avere la possibilità di collaborare e guadagnare qualcosa. "Noi però - spiega ancora la direttrice - non siamo in grado di gestire commissioni di lavoro di ditte esterne come invece accade in istituti di pena moderni. A Padova, ad esempio, i detenuti lavorano per produrre valigie, biciclette, mobili. Noi non abbiamo gli spazi e dunque un’attività simile non è possibile". C’è poi il problema sovraffollamento. Per realizzare una seconda palestra è stata recentemente eliminata una cella ed è stata realizzata anche una piccola "sala socialità " con "calcio balilla e tavolo da ping pong" (che viene anche utilizzata dai detenuti musulmani per pregare). Gli spazi, dunque, si sono ristretti. Ieri i detenuti erano 109 a fronte di una capienza ufficiale di 87. "Cerchiamo di risolvere il problema creando spazi di libera circolazione all’interno della struttura. Abbiamo cioè ridotto le ore in cui i detenuti sono rinchiusi in cella. Le celle restano aperte 9 ore al giorno" spiega la direttrice. Le celle prive di bagno separato sono singole. Le altre, più capienti sono tutte dotate di bagno separato. Ed in tutte le celle è garantito lo spazio minimo di 3 metri a detenuto. Pescara: dal carcere a Rigopiano, detenuti nei boschi per riaprire i sentieri devastati La Repubblica, 20 giugno 2017 A cinque mesi dalla strage dell’hotel distrutto dalla valanga, un gruppo di detenuti di Pescara è al lavoro nei boschi attorno a Farindola per riparare i danni nel parco colpito da terremoto e nevicate. Detenuti al lavoro, dal carcere di Pescara ai boschi di Rigopiano, nel parco del Gran Sasso, per riaprire i sentieri danneggiati dal maltempo, sistemare le staccionate e ricucire le ferite del terremoto. A cinque mesi dalla tragedia, quando una valanga spazzò via un hotel di lusso provocando la morte di 39 persone, si riparte da un progetto solidale per poter riaprire uno dei sentieri più importanti del parco del Gran Sasso e dei monti della Laga. Un progetto frutto di un protocollo d’intesa sottoscritto dal ministero della Giustizia, il provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise e l’Ente parco e Comune. Questa mattina otto detenuti hanno lasciato il penitenziario su un pulmino diretti al comune di Farindola e fino al 30 luglio, cinque giorni alla settimana, raggiungeranno la località montana con l’impegno di occuparsi del recupero delle risorse naturalistiche, sotto la direzione degli esperti, per riaprire sentieri, rimettere a posto staccionate, preparare il parco all’arrivo, al ritorno dei turisti, perché gli abitanti della zona possano godere di nuovo dei boschi. E nei progetti, nei loro compiti c’è anche quello dei riaprire la strada per Rigopiano dopo le valanghe mortali di gennaio. Uno scambio, un gesto di solidarietà reciproco, tanto che se i detenuti lavoreranno per il bene del parco e delle popolazioni colpite dal terremoto, come già accaduto per Amatrice, l’associazione locale degli alpini si occuperà del loro pranzo. "È una seconda opportunità per tutti: per Farindola, per i suoi sentieri, per i detenuti, addirittura per il legno che sarà rigenerato e utilizzato per le staccionate. Questa iniziativa può essere un esempio di collaborazione istituzionale replicabile soprattutto nel settore della giustizia riparativa: un settore che fa fatica a decollare proprio perché realizzare progetti di questo tipo vuol dire mettere in gioco più istituzioni e più interessi", dice il sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, Federica Chiavaroli. Massa Carrara: gruppo di detenuti conquista l’abilitazione di bagnino professionale di Camilla Palagi Il Tirreno, 20 giugno 2017 Hanno anche ottenuto l’attestazione di rianimatore. La soddisfazione della direttrice: cammino di integrazione. Sognano di avere una seconda possibilità una volta usciti dalla casa di reclusione di Massa, e grazie al corso di abilitazione professionale promosso dal progetto "A Nuoto Libero" che hanno frequentato, l’opportunità che stavano aspettando ora diventa più viva che mai. Si parla di integrazione e di piano sperimentale nella direzione della casa di reclusione di Massa; ieri, alla presenza del sindaco di Massa Alessandro Volpi e dell’assessore alle politiche sociali Mauro Fiori, a 17 detenuti del carcere sono stati consegnati i brevetti di abilitazione professionale di bagnino di salvataggio e le attestazioni di rianimatore cardiopolmonare di base. Dei 40 che hanno presentato domanda, 17 sono risultati idonei per la partecipazione al progetto, scelti per buona condotta e per l’aver superato la prova di acquaticità. Un programma avviato dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana e Umbria e dalla Società Nazionale di Salvamento. Soddisfazione per la direttrice della casa di reclusione di Massa Maria Martone, che sottolinea l’importanza dell’avere attivi progetti sperimentali e all’avanguardia per il carcere della zona. "Per il territorio che rappresentiamo, - afferma la Martone - a forte vocazione turistica, è molto importante individuare un settore idoneo per facilitare l’integrazione dei detenuti una volta usciti dal carcere". Ripensare ai detenuti, insomma, come a persone da reinserire nel mondo del lavoro; per evitare che ricadano nelle situazioni di illegalità causa della reclusione. Assistiti per tutta la durata del corso, sia nella parte teorica che nella parte pratica, dalla Capitaneria di Porto di Carrara, i partecipanti hanno approfondito le nozioni necessarie per il primo soccorso in ambiente acquatico, lo studio dei principali fenomeni fisici e meteorologici che caratterizzano l’ambiente marino costiero e non solo. Materia di studio è stata anche la gestione degli stabilimenti balneari, tanto che la direttrice Martone pensa già a progetti futuri relativi alla pulizia dei bagni sul litorale massese. Un’iniziativa che visto la partecipazione anche delle future unità cinofile, che hanno accompagnato i detenuti lungo tutto il corso di abilitazione, dal primo approccio con l’acqua all’addestramento per il conseguimento del brevetto. A differenza della mera operatività dell’unità cinofila di soccorso nautico, l’affiancamento dei cani nel progetto di soccorso punta alla funzione emotiva e relazionale, affinché i detenuti sviluppino un rapporto emotivo con il cane scelto per affiancarli, alla ricerca di quella relazione che spesso viene persa durante la detenzione. Torino: abbandona la figlia ed evade dal carcere, è accusata di aver ucciso un motociclista La Repubblica, 20 giugno 2017 Era in una casa per mamme detenute, la protesta dei figli della vittima. Laura Sulejmanovic, 22 anni, arrestata per omicidio stradale e omissione di soccorso per esser fuggita dopo avere causato un incidente mortale alla guida di un camper in strada dell’Aeroporto, nei pressi del campo nomadi in cui vive, è evasa dalla sezione Icam - le case per mamme detenute con attenuata sorveglianza - del carcere di Torino, dove ha abbandonato la figlia di pochi mesi. Ha scavalcato la recinzione e si è allontanata. Lo rende noto l’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. Con il camper aveva fatto un’improvvisa inversione a U alla periferia di Torino proprio mentre sopraggiungeva un motociclista, il cinquantottenne Oreste Giagnotto, che si era schiantato contro il mezzo. La donna subito dopo l’incidente era fuggita, salvo ripresentarsi mezz’ora più tardi sul luogo della tragedia per raccontare che si era allontanata per paura. La sua versione non ha però mai convinto del tutto gli inquirenti, i quali sospettano che la Sulejmanovic coprisse qualcuno. Un testimone si dice infatti sicuro di aver visto alla guida un uomo. La donna, che non ha la patente, è già stata fermata sei volte per quel motivo. "Se non la trovano prima, andiamo a prenderla noi stanotte": è stata questa la reazione dei parenti di Oreste Giagnotto alla notizia dell’evasione dal carcere della donna accusata di aver causato l’incidente in cui è morto il loro caro. I figli della vittima, nei giorni scorsi protagonisti di diverse proteste contro il campo nomadi in cui la giovane viveva, hanno appreso la notizia dell’evasione mentre partecipavano nel centro di Torino ad una manifestazione di Casapound e Forza Nuova proprio contro i campi nomadi. "È uno schifo, una vergogna", le urla dei manifestanti. Il loro corteo, partito da piazza Palazzo di Città, di fronte al Comune, ha raggiunto la prefettura, dove una delegazione è stata ricevuta dal prefetto, Renato Saccone. Lungo il tragitto si sono registrati momenti di tensione quando i manifestanti hanno incrociato un gruppo di persone con lo striscione "I rom torinesi come noi!". Un gruppo di giovani, affacciati a un balcone, ha iniziato a gridare contro la gente in strada e gli ha gettato addosso dell’acqua. Sul posto è presente la polizia. Pesaro: il cuore dei detenuti "batte" per le donne malate di tumore ospedalimarchenord.it, 20 giugno 2017 Partita la collaborazione tra la Casa Circondariale di Pesaro e l’Azienda Ospedaliera: inserite le detenute nel percorso di screening senologico, e manufatti realizzati dalle donne del carcere destinati alle pazienti operate al seno. Da una parte ci sono le donne che affrontano un percorso difficile legato alla diagnosi, dall’altra quelle che affrontano, giorno dopo giorno, la vita del carcere. Qualunque sia la prospettiva, le protagoniste del percorso avviato dalla Casa Circondariale di Pesaro e dalla Direzione Generale dell’Azienda ospedaliera Ospedali Riuniti Marche Nord sono le donne che non mollano. Il progetto, battezzato "Un cuore per le donne", vede due scenari diversi trovare una sponda comune. I detenuti del carcere hanno confezionato circa 100 cuscini e 400 tracolline destinati alle pazienti della Senologia di Marche Nord: i cuscini, tutti a forma di cuore, verranno usati dalle donne sottoposte a chirurgia maggiore della mammella durante il periodo di convalescenza, posizionati sotto l’ascella al fine di proteggere le parti coinvolte; le tracolline, invece, saranno il contenitore discreto del sistema di drenaggio post operatorio. Due specifici ausili, in grado di offrire maggiore confort alle pazienti operate al seno quando lasciano l’ospedale, difficilmente reperibili sul mercato. Il progetto - Da qui l’idea della coordinatrice del reparto di Senologia Nathalie Choulet, abbracciata dal direttore della struttura Cesare Magalotti, dalla Case Manager Fabiola Rumeni, condivisa da tutto il personale e sposata dalla Direzione Generale dell’azienda ospedaliera: far realizzare i manufatti alle donne della Casa Circondariale di Pesaro impegnate nel laboratorio sartoriale guidato dall’associazione Aed (Associazione Evangelica Detenuti). Dall’altra parte, gli specialisti ospedalieri effettueranno visite senologiche alle detenute e alle dipendenti del carcere. Una iniziativa che, quindi, raggiunge due obiettivi: incidere sul percorso di guarigione delle donne che hanno subìto intervento al seno, e garantire alle detenute del carcere di Pesaro uno standard migliore di salute e benessere tramite l’inserimento nel percorso di screening senologico. Già sono state visitate da Cesare Magalotti, direttore della Senologia/Breast Unit, 15 detenute e 10 dipendenti del carcere, mentre la Direttrice della struttura penitenziaria, Armanda Rossi, è al lavoro per far confezionare dal laboratorio di falegnameria una bacheca espositiva da collocare all’interno degli spazi dell’unità operativa. E questo è solo l’inizio: l’impegno dell’Azienda Ospedaliera e della Casa Circondariale conta di durare nel tempo offrendo alle donne, quelle che combattono contro la malattia e quelle che lottano contro l’emarginazione, una spinta verso la guarigione e il reinserimento sociale. I numeri della Senologia - La struttura di Senologia/Breast Unit, operativa dalla metà di giugno del 2016, in meno di un anno di attività ha già eseguito 574 interventi di cui 346 per neoplasia maligna. Non solo: l’attività ambulatoriale è stata pari a 889 accessi tra prime visite, controlli e medicazioni. Livorno: denuncia della Cgil "Le Sughere, un carcere con gravissime irregolarità" costaovest.info, 20 giugno 2017 Infissi che lasciano passare non solo spifferi ma copiosi scrosci d’acqua; servizi igienici di uso promiscuo, "arricchiti" dalla presenza di inflorescenze vegetali; ferraglia, materiale cartaceo e oggetti di scarto accumulati nei corridoi e in locali privi di mezzi antincendio; il solaio della sezione detentiva "Transito" pericolosamente sostenuto da numerosi "cristi": è solo un primo, parzialissimo elenco, delle numerose irregolarità in materia di tutela della sicurezza e salubrità sul lavoro riscontrate presso il carcere livornese de "Le Sughere" da una delegazione del sindacato Fp Cgil, guidata dal segretario Mauro Scalabrini. Certamente il carcere non può che essere un luogo difficile sia per chi è condannato a scontare una pena, sia per chi ci lavora, ma la quantità e "qualità’" delle carenze riscontrate dai rappresentanti Cgil, va ben oltre quanto in un paese civile si dovrebbe vedere. Nessun problema di bilancio può infatti giustificare che gravi e diffuse carenze strutturali mettano a rischio la vita di detenuti e operatori in caso di emergenza; né possono essere tollerate minacce alla salute come, per esempio, la discesa lungo le pareti di acque sporche provenienti dalle docce detenuti, docce che, oltre ad essere insufficienti nei numeri, appaiono inoltre tanto sporche e fatiscenti da rendere preferibile praticare la cura della propria igiene personale evitando di metterci piede. Una struttura, dunque, quella del carcere Le Sughere che, nel segno del rispetto dei diritti umani prima ancora che costituzionali, dovrebbe semplicemente essere chiusa per evitare a detenuti e lavoratori l’esposizione a rischi inaccettabili per la sicurezza e la salute loro, delle loro famiglie e dell’intera cittadinanza livornese. L’intento della Delegazione Cgil della Funzione Pubblica è dunque quello di denunciare la gravissima condizione riscontrata, ma anche di sollecitare ogni istituzione preposta (l’Amministrazione Penitenziaria nelle persone del Provveditore Regionale e del Capo Dipartimento; l’Amministrazione comunale; le istituzioni del Garante dei detenuti Comunale e Regionale; la Asl livornese) a operare ogni intervento necessario per portare finalmente i diritti di cittadini e di lavoratori, oltre le mura di cinta del carcere livornese. Mura che, intanto, hanno visto tornare a crescere il numero di detenuti presenti, tanto da aver reso necessario il ricorso alla "terza branda", anche in celle che, secondo le norme successive alla ben nota "sentenza Torreggiani", prevedrebbero al massimo la presenza di due detenuti per cella. Tutto questo mentre continua a diminuire il numero di operatori presenti sia di Polizia Penitenziaria, ma soprattutto del Comparto Ministeri e, in particolare degli Educatori, ridotti a tre sole unità, che dal prossimo 1° Luglio diverranno appena due, rendendo di fatto impossibile l’erogazione del servizio previsto. Milano: "ora d’acqua" dietro le sbarre, quando si rema in carcere di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 20 giugno 2017 L’idea è nata alla Canottieri Milano che l’ha messa in pratica al Beccaria e a San Vittore grazie alla collaborazione della Fondazione Candido Cannavò, ma che potrebbe essere esportato in tutta Italia. "La grande soddisfazione è vedere come da uno sport che amo ci siano giovani che traggono beneficio. Cercando di raggiungere un obiettivo tutti assieme. All’inizio vengono soltanto solo per divertirsi, se trovano un pallone lo calciano, poi si incuriosiscono e iniziano a provare il remo ergometro. L’idea di fare qualcosa tutti assieme (è uno degli esercizi su cui puntiamo di più) piace molto, con gare fra di loro e spirito di competizione. La sfida è importante, ma non è fine a se stessa, perché l’obiettivo lo devono raggiungere tutti assieme. Si sviluppa quindi uno spirito di squadra, i ragazzi fanno il tifo fra di loro. E questo serve a superare anche le differenze o le singole nazionalità che si confrontano in un ambiente come il carcere". Donata Minorati, azzurra a Los Angeles 1984 nel canottaggio, istruttrice, ha trovato una nuova medaglia d’oro da inseguire nel progetto Ora d’acqua varato nei carceri milanesi del Beccaria e a San Vittore, da un progetto della gloriosa Canottieri Milano, realizzato assieme alla Fondazione Candido Cannavò per lo sport. "Quando mi hanno proposto di fare canottaggio al Beccaria avevo delle perplessità - racconta Olimpia Monda, direttore dell’istituto penitenziario minorile. Come si può fare una cosa del genere senza acqua, ma poi pensandoci abbiamo cambiato idea. Per far fare a questi ragazzi esperienze diverse. Erano tutti giovani che non sapevano neppure che cosa fosse il canottaggio. Per loro l’unico orizzonte era il calcio. Poi un’attività sportiva per adolescenti, pieni di energia, è fondamentale, per non dire indispensabile. Lo sport è regole, è rispetto: una forma diversa per rieducare. Il canottaggio è un mezzo forte e potente per fare passare messaggi educativi". "Tutto è nato da una discussione in Canottieri qualche anno fa - racconta Francesco Stoppa, il responsabile del progetto e il suo motore principale. Ci chiedevamo se questo sport potesse adattarsi a persone con disagio o a carcerati. Se questo sport potesse fare crescere le persone. Da quel momento è nata una idea che poi è stata elaborata fino ad ora d’acqua. Un progetto che è arrivato al sesto anno. Da due ragazzi siamo arrivati anche a 12 per ogni lezione". Si fatica dietro le sbarre con remo ergometri, ma una volta l’anno si può anche pensare di uscire (accadrà a luglio) e sfidarsi sui navigli come alcuni dei 1400 ragazzi che partecipano ai corsi estivi della Canottieri. "Questo del carcere è uno dei tanti progetti sociali che abbiamo", racconta Cesare Brugola, il presidente. Ora d’acqua, che per qualcuno diventa anche ora di libertà. Pesaro: nel carcere lo spettacolo "Confina-Menti", a cura di Teatro Aenigma Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2017 L’iniziativa, a cura di Teatro Aenigma, a chiusura della manifestazione "L’Arte Sprigionata". La compagnia "Lo Spacco" in scena venerdì 23 giugno. Venerdì 23 giugno, alle ore 10.00, presso la Casa Circondariale di Pesaro andrà in scena lo spettacolo Confina-Menti, presentato dalla compagnia teatrale "Lo Spacco" diretta dal regista Vito Minoia. Lo Spacco, già attiva nel carcere pesarese dal 2002, è composta da detenuti e detenute. L’iniziativa, a cura di Teatro Aenigma di Urbino, diretta dallo stesso Minoia, si realizza nell’ambito della manifestazione "L’Arte Sprigionata" (XIV edizione) promossa dalla Casa Circondariale di Pesaro e dalla Biblioteca "San Giovanni", con il sostegno del Ministero della Giustizia-Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e del Comune di Pesaro. Lo spettacolo è liberamente ispirato alle opere "L’avventura di Martin Bresler" e "Molino Rojo" del drammaturgo argentino Alejandro Finzi. I due testi sono entrambi finalizzati a restituire dignità a due vite confinate e destinate a spegnersi nello stesso manicomio di Buenos Aires. La prima è quella di Martin Bresler, contadino di Neuquén (città della Patagonia Argentina) che, dopo essere scappato dal carcere della città dove era stato rinchiuso ingiustamente, riuscì a raggiungere l’Europa e a schierarsi tra i combattenti inglesi durante la prima Guerra Mondiale ma, nel tentativo di rientrare in patria, fu catturato e rinchiuso di nuovo. La seconda è quella di Jacobo Fijman, un poeta, morto nell’oblìo nel 1970 nello stesso manicomio di Barracas (Buenos Aires) i cui versi, di grande valore, solo successivamente sono stati recuperati e valorizzati. Sugli stessi testi dell’autore argentino hanno lavorato anche i ragazzi della 3°B dell’Istituto Comprensivo Statale "Galilei" di Villa Fastiggi, producendo lo spettacolo "La Follia, un solitario cammino in salita", presentato alla Casa Circondariale di Pesaro per la popolazione detenuta il giorno 7 giugno. I ragazzi, oltre ai lavori di ricerca espressiva tenuti a scuola, hanno avuto uno scambio creativo con la compagnia "Lo Spacco" attraverso laboratori in carcere. Il nome della compagnia "Lo Spacco", fu proprio assegnato dai ragazzi della Galilei nel 2006 a significare la distanza da colmare tra Carcere e Città, attraverso gli strumenti dell’arte e della creatività. Si tratta di una compagnia mista, unico esperimento continuativo di questo tipo in Italia, riuscito a rimanere in vita per oltre 10 anni grazie alla volontà della Direzione Educativa della Casa Circondariale di Pesaro. Questa modalità di lavoro, che viene portata avanti dal 2002, rientra in quelle attività promosse da Teatro Aenigma volte a favorire l’incontro tra la Comunità e l’Istituto Penitenziario. Una modalità che ha "fatto scuola" a livello nazionale, al centro di una sessione di lavoro intitolata "Quando il carcere incontra la scuola attraverso il teatro" patrocinata nel 2015 dagli Stati Generali per l’Esecuzione Penale del Ministero della Giustizia, nell’ambito del XVI Convegno internazionale su "I Teatri delle Diversità". Lo spettacolo Confina-Menti si concluderà con una testimonianza in video pervenuta dal drammaturgo Alejandro Finzi e destinata alle detenute e detenuti del Carcere. Pesaro: la festa della musica oltrepassa i cancelli del carcere di Castrogno di Elisabetta Di Carlo certastampa.it, 20 giugno 2017 La Direzione Casa Circondariale di Teramo ha programmato in data 21.06.17 l’allestimento di un evento musicale prevedendo la partecipazione di alcuni rappresentanti degli organi di stampa. L’istituto penitenziario teramano grazie alla collaborazione con l’ Istituto Statale Superiore di Studi musicali e coreutici Gaetano Braga di Teramo ha inteso aderire alla Festa della musica che si terrà a livello nazionale il 21 p.v. in tanti Comuni e penitenziari della penisola. L’iniziativa rientra in un progetto annuale più ampio ed ambizioso promosso dall’Istituto Braga che coinvolge in più occasioni i detenuti di Castrogno al pari di altre realtà sociali della Provincia teramana. Così la musica si inserisce nell’istituto penitenziario lavorando sul detenuto, con il fine di ricondurlo a uno stato di equilibrio psico-fisico perso o mai posseduto, necessario al suo benessere e soprattutto a un suo reinserimento positivo nella società. La musicoterapia, inserendosi dapprima come attività culturale e ricreativa e in un secondo momento come vera e propria terapia, rieduca il recluso armonizzando le sue capacità cognitive, affettive e relazionali. In tal modo lo prepara a reintegrarsi nella collettività attraverso il rispetto di regole e processi socio-relazionali, a completamento del trattamento rieducativo ulteriormente applicato durante lo stato di detenzione. L’obiettivo del progetto Braga per il sociale è quello di creare attraverso il "far musica" un clima non conflittuale e non competitivo nel quale trovare nuovi modelli relazionali improntati alla cooperazione e alla condivisione empatica. I l 21 giugno si darà la possibilità ad un gruppo di detenuti di esibirsi attraverso il canto e/o lo strumento suonato, singolarmente o in gruppo, supportati dalla band composta da docenti del Conservatorio. All’evento saranno invitati a partecipare le autorità locali, i dirigenti scolastici, i docenti e tutti i volontari che collaborano con la Direzione in quanto vuole essere un’occasione festosa e un momento di scambio interculturale e confronto sulle offerte trattamentali. In tale circostanza sarà presentato il libro scritto da Salvatore D’Ascenzo, "I numeri dispari sono di troppo", elaborato durante la realizzazione del progetto carcerario sulla lettura e scrittura creativa rivolto ai detenuti della prima sezione. Pontremoli (Ms): domenica in scena le ragazze dell’istituto penale minorile Il Tirreno, 20 giugno 2017 Il teatro come trampolino per rinascere. È un percorso che le ragazze dell’istituto penale minorile (Ipm) di Pontremoli stanno sperimentando ormai da qualche anno e che sta conseguendo straordinari risultati. Oltre ogni aspettativa. Ed un nuovo progetto è stato presentato ieri mattina nella sede dell’istituto penale e vedrà sei giovani detenute (ma non solo, accanto avranno tanti volontari che si sono spesi in per portare avanti il progetto) calcare il palco del teatro cittadino della Rosa domenica 25 giugno alle 21. Sarà uno spettacolo "pot-pourri" con rappresentazioni teatrali, cantautori, cantanti e attori. Insomma un vero e proprio "show" a tutto tondo che vedrà, come anticipato, protagoniste assolute le ragazze dell’Ipm. Ed è a loro che verrà devoluto l’incasso della serata (organizzata dall’Associazione di volontariato "Ponti Aperti" con la collaborazione e il patrocinio del Comune di Pontremoli, dell’Associazione "Centro Teatro Pontremoli" e del Centro Giovanile "Mons. G. Sismondo") per raccogliere fondi per implementare le attività educative rivolte alle minori dell’Ipm, all’acquisto di materiale e alla programmazione di future manifestazioni. La scaletta vedrà l’alternarsi di rappresentazioni teatrali che avranno protagoniste alcune delle ragazze dell’Ipm, presentazioni di associazioni del territorio che con l’Istituto collaborano attivamente, momenti di allegria, canzoni e letture. Partner nell’organizzazione della serata diverse realtà del territorio. Il Rotary Club Marina di Massa, i Lions Club Pontremoli, l’Associazione "Le Ali del Sorriso", l’Associazione "Lav - Letture ad Alta Voce. "Continua il percorso per aprire le porte del carcere verso l’esterno - ha rivendicato il Direttore dell’Ipm Mario Abrate, da un lato per far uscire le ragazze, per farle conoscere la realtà che le circonda ma allo stesso tempo per permettere a Pontremoli di conoscere la realtà del carcere". Un percorso di confronto che ha permesso, ha evidenziato Abrate, una crescita reciproca e l’avvio di una sinergia costruttiva tra il centro di reclusione e la città "come testimonia questo bellissimo rapporto che si è creato in soli quattro mesi con l’associazione di volontariato "Ponti Aperti". Ed è stato proprio il presidente dell’associazione, Umberto Moisè, che ha voluto rivendicare come questo sia un "piccolo passo e che nuove iniziative sono già in cantiere". Ha portato i saluti dell’amministrazione il presidente del consiglio comunale, Patrizio Bertolini, che (tra le altre) ha la delega al sociale, rendendo un sentito grazie all’opera di grande valore sociale compiuta all’interno dell’istituto penale. È stato il vulcanico, Luca Veroni, dell’associazione Centro Teatro Pontremoli ad entrare nel "cuore" della serata (di cui sarà presentatore nonché autore del copione che farà da filo conduttore allo spettacolo) evidenziando come primo aspetto il suo bisogno di "ringraziare le ragazze. Perché si sono buttate anima e cuore in questa iniziativa. Dando un valore ancora più profondo allo spettacolo. Io nel mio testo ho cercato di trasmettere dei valori di riscatto, di rinascita e redenzione. Sperando che quelle parole restino nel cuore delle ragazze". A chiudere la mattinata l’intervento di Antonio Pappalardo, Dirigente del Centro Giustizia Minorile per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria, che ha fatto un annuncio a sorpresa rivelando che, a breve, lascerà l’incarico per assumere quello di Dirigente del Centro Giustizia Minorile di Firenze. Non ha potuto presenziare il sottosegretario alla giustizia, Cosimo Maria Ferri, che ha comunque inviato un messaggio in cui sottolinea come l’iniziativa "rappresenta un momento di grande solidarietà e crescita per le ragazze dell’Ipm di Pontremoli". Radio Carcere: separazione delle carriere, confronto tra due avvocati con opinioni diverse Ristretti Orizzonti, 20 giugno 2017 Placanica e Lattanzi spiegano le loro diversità di vedute. Due avvocati penalisti si sono confrontati sul tema della separazione delle carriere. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/512029 Migranti. Ius soli, Chiesa in campo. Alfano: "Modifiche, ma Ap voterà sì" Corriere della Sera, 20 giugno 2017 Dopo la Cei interviene anche monsignor Becciu: "il Vaticano sta con deboli". Alfano: "Ap vota sì". Salvini e Cinque Stelle tirano dritto. Sull’affermazione in Italia del principio dello ius soli, arriva, dopo il placet della Cei, un nuovo invito della Chiesa a "riconoscere la cittadinanza" agli stranieri che nascono in Italia. "Il Vaticano ancora non si è espresso sul tema dello ius soli, rispettiamo le decisioni del governo italiano ma come diceva anche il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, come Chiesa noi siamo vicini a chi è nella necessità, nella debolezza e a chi ha bisogno di essere protetto" dice il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu. Il sì di Alfano - Un doppio monito che arriva mentre il leader di e ministro degli Esteri Angelino Alfano chiarisce che il suo partito "presenterà dei correttivi ma voterà sì al disegno di legge" quando questo arriverà all’esame dell’aula del Senato. Un chiarimento che smina il percorso della riforma dal rischio di una rottura con i centristi. Tensioni in Aula - Il presidente del Senato Piero Grasso si dice "non preoccupato" dal rischio di una possibile bagarre durante la discussione della legge. Ma la polemica continua ad impazzare e nel mirino c’è la Lega ma anche Fi, che ha votato no alla Camera. Forza Italia chiede una riflessione maggiore su una legge che, è il giudizio del capogruppo a Montecitorio Renato Brunetta, è "sbagliata e frettolosa". Silvio Berlusconi sottolinea che non ci può essere alcun automatismo per la concessione della cittadinanza: "Non basta essere nati qui e aver frequentato qualche anno di scuola. Su questi temi i buoni sentimenti e la superficialità non servono". Cinque Stelle e Lega - Ma gli occhi sono puntati soprattutto sul M5s. Oggi anche Antonio Di Pietro, che più volte ha appoggiato le battaglie del Movimento, prende le distanze dalla posizione assunta dai 5 Stelle. "Mi pare che la loro presa di posizione arrivi dalla pancia. Come quando, finito di mangiare, ti scappa un rutto. Su certe cose non deve ragionare d’istinto. Sullo ius soli non la penso come loro" afferma, come suo solito colorito, l’ex magistrato di Mani pulite. Ma i grillini vanno dritti per la loro strada. Per Luigi Di Maio lo ius soli "è una proposta utilizzata per i partiti di sinistra per sentirsi di sinistra e da quelli di destra per sentirsi un pò di destra. Non ci sto a discutere in una campagna per le amministrative di una legge su cui Salvini già parla di referendum". Il leader della Lega infatti non demorde: "Regalare la cittadinanza mi sembra una follia". E non si spaventa dell’intervento della Chiesa. "Sullo ius soli alcuni vescovi non la pensano come noi? C’è chiesa e chiesa..." taglia corto. Mai così tanti rifugiati. Numero record nel 2016: sono 65,6 milioni Redattore Sociale, 20 giugno 2017 Rapporto Global trends realizzato dall’Unhcr. La metà dei migranti forzati nel mondo sono bambini. Tra le nuove emergenze c’è la crisi in Sud Sudan. Mentre la Siria rimane il paese con il numero maggiore di persone in fuga. Nel 2016 si è registrato il numero record di persone costrette a fuggire da guerre, violenze e persecuzioni. Lo dice il Global Trends 2016, la principale indagine sui flussi migratori a livello mondiale condotta dall’Unhcr. Alla fine del 2016 le persone costrette ad abbandonare le proprie case in tutto il mondo sono 65,6 milioni - circa 300.000 in più rispetto all’anno precedente. Questo dato rappresenta un numero enorme di persone che necessitano di protezione in tutto il mondo. Il totale di 65,6 milioni è costituito da tre componenti principali. La prima è il numero dei rifugiati a livello mondiale che, attestandosi a 22,5 milioni, rappresenta il più alto mai registrato. Di questi, 17,2 milioni ricadono sotto il mandato dell’Unhcr, mentre i rimanenti sono rifugiati palestinesi sotto il mandato dell’organizzazione sorella Unrwa. Il conflitto in Siria rimane la principale causa di origine di rifugiati (5,5 milioni), ma nel 2016 il principale "nuovo" elemento è stato il Sud Sudan, dove la disastrosa interruzione del processo di pace ha contribuito alla fuga di 739.900 persone alla fine dell’anno (diventate, ad oggi, 1,87 milioni). La seconda componente è rappresentata dalle persone sfollate all’interno del proprio Paese, il cui numero si è attestato a 40,3 milioni alla fine del 2016 (rispetto ai 40,8 milioni dello scorso anno). Gli spostamenti forzati all’interno di Siria, Iraq e Colombia sono stati i più significativi, sebbene tale problema sia presente ovunque e rappresenti quasi i due terzi delle migrazioni forzate a livello globale. La terza componente sono i richiedenti asilo, persone fuggite dal proprio Paese e attualmente alla ricerca di protezione internazionale come rifugiati. Alla fine del 2016 il numero di richiedenti asilo a livello mondiale è stato di 2,8 milioni. Tutto ciò si aggiunge all’enorme costo umano delle guerra e delle persecuzioni a livello mondiale: il fatto che 65,6 milioni di persone siano in questa situazione significa che in media, nel mondo, 1 persona ogni 113 è costretta a lasciare la propria casa - vale a dire un numero maggiore del 21esimo Paese più popolato al mondo, la Gran Bretagna. "È una situazione inaccettabile da cui emerge sempre più chiaramente la necessità di solidarietà e di uno sforzo comune nel prevenire e risolvere le crisi, assicurandosi nel frattempo che rifugiati, sfollati interni e richiedenti asilo siano adeguatamente protetti e assistiti in attesa che vengano trovate soluzioni adeguate", dichiaral’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi. "Dobbiamo fare di più per queste persone. In un mondo in conflitto, quello che serve sono determinazione e coraggio, non paura". Un dato fondamentale riportato nel Global Trends è che le migrazioni forzate di persone che in precedenza non erano mai state costrette ad abbandonare le proprie case rimane a livelli molto alti. Nel 2016, sono stati 10,3 milioni i nuovi migranti forzati, circa due terzi di loro (6,9 milioni) sono fuggiti all’interno dei confini nazionali. Ciò significa che nel mondo ogni 3 secondi 1 persona è costretta ad abbandonare la propria casa - meno del tempo necessario per leggere questa frase. Allo stesso tempo, il numero più elevato di rifugiati e sfollati interni che sono ritornati a casa, insieme ad altre soluzioni come il reinsediamento in Paesi terzi, mostrano che, per alcuni, il 2016 ha portato prospettive di miglioramento della propria condizione. Circa 37 Paesi hanno ammesso un totale di 189.300 rifugiati ai propri programmi di reinsediamento. Circa mezzo milione di altri rifugiati hanno potuto fare ritorno nei loro Paesi di origine e circa 6,5 milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro zone - anche se molti lo hanno fatto in situazioni non ideali, restando quindi in condizioni di incertezza. In tutto il mondo, alla fine del 2016 la maggior parte dei rifugiati - l’84 per cento - si trovava in Paesi a basso o medio reddito, con una persona su tre (per un totale di 4,9 milioni) ospitata nei Paesi meno sviluppati. Da questo enorme squilibrio ne conseguono diverse osservazioni: la continua mancanza di consenso internazionale in materia di rifugiati e la vicinanza di molti Paesi poveri alle regioni in conflitto, tra le altre. Emerge altresì la necessità dei Paesi e delle comunità ospitanti di ricevere risorse e sostegno, senza i quali c’è il rischio che possano crearsi situazioni di instabilità, con conseguenze sulle operazioni umanitarie o sui flussi migratori secondari. La Siria è ancora il Paese con il numero più alto di persone in fuga: 12 milioni di individui (quasi due terzi della popolazione) sfollati internamente o fuggiti all’estero come rifugiati o richiedenti asilo. Lasciando da parte la situazione dei palestinesi rifugiati di lunga data, gli afghani rappresentano anche quest’anno la seconda popolazione di rifugiati più vasta (4,7 milioni), seguiti da iracheni (4,2 milioni) e sud sudanesi (il cui numero ha raggiunto i 3,3 milioni alla fine dell’anno, seguendo un tasso di incremento maggiore rispetto a qualsiasi altra popolazione del mondo). I bambini, che costituiscono la metà dei rifugiati del mondo, continuano a sopportare sofferenze sproporzionate, soprattutto a causa della loro situazione di maggiore vulnerabilità. Nel 2016 le richieste di asilo presentate da bambini non accompagnati o separati dai loro genitori sono state 75.000. Un numero che, secondo il rapporto, rappresenta probabilmente una sottostima della situazione reale. L’Unhcr stima che, alla fine del 2016, almeno 10 milioni di persone risultavano prive di nazionalità o a rischio apolidia. Tuttavia, i dati raccolti dai governi e comunicati all’Unhcr riferivano soltanto di 3,2 milioni di persone senza nazionalità in 74 Paesi. Un nuovo rifugiato ogni tre secondi: il bilancio dell’Unhcr La Repubblica, 20 giugno 2017 Il rapporto Global Trends. La Siria resta il paese più flagellato. Italia terza al mondo per numero di domande di asilo. Nel mondo, ogni tre secondi una persona è costretta ad abbandonare la propria casa a causa di guerre, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. È l’impietosa fotografia del rapporto Global Trends dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Secondo questo studio, nel 2016 il numero di sfollati globale è salito di 300mila unità rispetto all’anno precedente, raggiungendo quota 65,6 milioni. Una popolazione quanto quella della Gran Bretagna. Inoltre, non è mai stato così alto il numero di rifugiati nel mondo: 22,5 milioni. La Siria resta il paese più flagellato. Un primato con 5,5 milioni di rifugiati e, complessivamente, 12 milioni di persone sfollate internamente o fuggite all’estero, per un totale di quasi due terzi della popolazione. Gli afghani rappresentano anche quest’anno la seconda popolazione di rifugiati più vasta (4,7 milioni), seguiti dagli iracheni (4,2 milioni). Ma, nel 2016, a causa delle tensioni e delle violenze, è stato il Sud Sudan, il paese più giovane del mondo, a segnare il maggior aumento di profughi e rifugiati in fuga: dagli 854mila del 2015, si è passati addirittura a oltre 1,4 milioni l’anno scorso. Di questi, la maggioranza sono bambini. Chi si occupa dei rifugiati? Crescono le polemiche nei paesi più ricchi, ma sono quelli sottosviluppati e in via di sviluppo che si prendono maggiormente carico del problema. Alla fine del 2016, scrive l’Unhcr, la maggior parte dei rifugiati - l’84 per cento - si trovava in Paesi a basso o medio reddito, con una persona su tre (per un totale di 4,9 milioni) ospitata nei Paesi meno sviluppati. Il Libano è quello che, proporzionalmente alla sua popolazione, ne ospita di più: un milione complessivo di rifugiati, quasi 17 ogni cento abitanti, seguito dalla Giordania. Numericamente è la Turchia, invece, che ne accoglie di più (anche a causa del suo accordo con l’Europa): 2,9 milioni, poi il Pakistan con 1,4 milioni e Iran e Libano con un milione circa. A questo proposito c’è un piccolo dato in controtendenza: 552mila rifugiati sono tornati al casa nel 2016, circa il doppio rispetto al 2015. Di questi in gran parte in Afghanistan. Il ruolo dell’Italia. Come già certificato dal ministero degli Interni, nel 2016 il nostro Paese è stato il terzo nel mondo per domande di asilo nel 2016, 123mila, una cifra in sostanziale aumento rispetto agli 83mila del 2015. In testa rimane la Germania con 722.400 richieste, seguita dagli Stati Uniti con 262mila. Berlino è in cima alla classifica anche delle richieste di asilo dei minori non accompagnati, con 35.900. Seconda, riecco l’Italia, con 6mila domande, che tuttavia sono molte di meno dei minori che sono arrivati nel nostro paese nel 2016, quasi 23mila in tutto, che però si spostano in altri paesi europei o, purtroppo, finiscono nelle reti dello sfruttamento criminale. Gli apolidi. Infine, nel 2016, secondo l’Unhcr, almeno 10 milioni di persone risultavano prive di nazionalità o a rischio apolidia. Tuttavia, i dati raccolti dai governi riferivano soltanto di 3,2 milioni di persone senza nazionalità in 75 Paesi. Ma secondo l’agenzia Onu questo dato sarebbe in realtà molto più alto. Climate change e diritto all’asilo: popoli in fuga dall’inferno in terra di Valerio Calzolaio Il Manifesto, 20 giugno 2017 Giornata mondiale del rifugiato. 5,6 milioni sono i profughi di guerre e cataclismi, in minima parte verso l’Europa. Oggi è la giornata mondiale dei rifugiati, istituita dall’Onu nel 2000 insieme alla giornata dei migranti (il 18 dicembre). Migranti e rifugiati, il tutto e un insieme particolare. Refugees si diventa se si è palestinesi o se e quando una richiesta d’asilo viene accolta una volta raggiunta la frontiera del proprio Stato. In teoria la richiesta deve essere accolta se si è in fuga da guerra civile o persecuzioni (causa: la propria nazionalità, opinione politica, religione, appartenenza a un determinato gruppo sociale, come gli omosessuali, discendenza). Finché non viene accolta la domanda, si resta richiedenti asilo. A fine 2016 vi erano 5,3 milioni di refugees palestinesi sotto il mandato Unwra (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), 17,2 milioni di refugees sotto il mandato dell’apposita agenzia Onu Unhcr (United Nations High Commissioner for Refugees), 2,8 milioni di richiedenti asilo. Altra cosa sono gli internally displaced people, coloro che sono profughi all’interno del proprio Stato, anche per ragioni ambientali e climatiche (a seguito di disastri "naturali"). A fine 2015 erano 40,3 milioni. Tutti i 65,6 milioni sono comunque "migranti forzati", i quali hanno visto non rispettato (da comportamenti umani più o meno consapevoli) il diritto di restare dove sono nati e cresciuti. Dati molto simili al 2015, è sempre la crisi siriana la situazione più drammatica. Vi sono altri migranti forzati non contemplati dalle statistiche? Purtroppo sì: profughi ambientali e climatici arrivati oltre il confine del proprio Stato (spesso per disastri più lenti e meno repentini, come l’innalzamento del mare e la desertificazione), vittime di disastri più piccoli non presi in considerazione dall’organizzazione che contabilizza le vittime e i senzacasa, perseguitati che non chiedono asilo per le più svariate ragioni, migranti forzati "clandestini" (vittime di traffico di corpi e organi, di prostituzione, di schiavitù), quanti sono drammaticamente morti durante la persecuzione prima di arrivare al confine o di poter chiedere asilo lungo il transito (ad esempio nel Sahara o nel Mediterraneo), nei campi profughi. Fare domanda, vederla accolta o respinta, diventare refugee sono passaggi di un iter ufficiale di persone in carne e ossa, con nome e cognome, nazionalità d’origine e Stato in cui vivono con uno status che resta tale per decenni. Tuttavia, non sono gli unici rifugiati, gli unici profughi internazionali. Chi ha provato a contare gli "altri" con un taglio scientifico ha messo insieme numeri che ogni anno da oltre un decennio sono superiori ai numeri dei refugees "politici". Se qualcuno di loro chiede asilo deve farlo in base a emergenze previste dalle Costituzioni nazionali del paese in cui fanno domanda (purtroppo l’Italia non ha mai approvato la legge prevista dall’articolo 10 della nostra Costituzione). Per almeno alcuni di loro sarebbe proprio ora di prevedere anche un riconoscimento internazionale, assegnare loro uno status specifico, diverso da quello Unhcr, regolarizzato attraverso un accordo multilaterale o europeo. Mi riferisco, in particolare, ai rifugiati climatici, coloro costretti alla fuga dalla loro residenza a causa di alcuni certificati effetti dei cambiamenti climatici antropici globali (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi, stress idrico in aree già secche e aride). Il loro riconoscimento è suggerito anche dall’Enciclica papale e appare ormai un’urgenza ineludibile: le loro fughe passate, presenti e future sono connesse a scelte di produzione e consumo avvenute spesso in tutt’altra parte del mondo e alla conseguente eccessiva emissione in atmosfera di gas serra. Siamo responsabili noi della loro fuga e sarebbe decisamente il caso fossimo anche noi corresponsabili affinché la fuga non significhi morte o schiavitù. Il dato meno commentato quando escono i rapporti Unhcr riguarda il perdurare negli anni della condizione di vita (mortificante) in un "rifugio". Dobbiamo sapere che i palestinesi di oggi sono figli di figli di figli di rifugiati, non hanno mai smesso quello status forzato da 70 anni, restano tali da generazioni e generazioni. Gli altri refugees, in parte restano richiedenti per vari anni, nella restante larga parte lo sono da oltre 5 anni. L’Unhcr ha calcolato che 6,7 milioni sono inseriti in 32 gruppi di lungo periodo, ogni gruppo di almeno 25.000 della stessa nazionalità d’origine in esilio da almeno 5 anni nello stesso paese, un numero in crescita (protracted displacement situation). Per 11 gruppi si parla di più di 30 anni d’esilio, per 12 di più di 20 e (ancora) meno di 30 anni, per 9 di più di 10 e (ancora) meno di 20. E si devono aggiungere altri milioni di refugees di lungo corso se i gruppi sono più piccoli di 25.000 unità, se si considerano gli spostamenti della sede dell’esilio o altre variabili fuori dalla statistica. Dunque, molto oltre la metà dei refugees è tale da oltre 10 anni. Libia. La trappola infernale di Luca Fazio Il Manifesto, 20 giugno 2017 In un video drammatico girato da un giornalista somalo le torture che i migranti africani sono costretti a subire nei campi nel sud del paese dilaniato dai conflitti. Sono testimonianze agghiaccianti che testimoniano quello che accade da anni nel paese con cui l’Italia sta trattando per rispedire i profughi che tentano di scappare da fame e guerre. Nessuno potrà dire che non sapevamo. La Libia è una trappola infernale per centinaia di migliaia di persone, ed è proprio in quel paese dilaniato dai conflitti che l’Europa e il governo italiano hanno deciso di internare i migranti che provano a scappare dall’Africa. Ci sono le puntuali testimonianze di chi arriva sulle nostre coste, i resoconti delle associazioni non governative e adesso anche le immagini drammatiche girate da un giornalista somalo che vive in Turchia. Salman Jamal Said ha registrato una video chiamata-appello di mezz’ora contattando un gruppo di persone tenute prigioniere dai passeurs nel sud della Libia. Lo ha raccontato piangendo alla redazione di Jeune Afrique: "Sono stato contattato da un migrante del campo, un somalo, che mi ha permesso di avere questa conversazione video e, con il loro permesso, ho registrato tutto per poter mostrare il loro calvario". Secondo il giornalista ci sarebbero prigionieri che da anni stanno aspettando dai parenti una somma di denaro sufficiente per ottenere la libertà (tra 8 e 10 mila dollari a testa). Sono testimonianze agghiaccianti. Ossa spezzate, denti strappati, umiliazioni e torture. "Sono qui da un anno - racconta un somalo - e mi picchiano tutti i giorni. Vi giuro che non mangio niente, il mio corpo è coperto di ferite". Nel video si vede un ragazzo sdraiato sulla pancia con una grossa pietra sulla schiena, "mi hanno spaccato un dente e una mano e tre giorni fa mi hanno messo questa pietra, mi fa malissimo". È prigioniero da 11 mesi insieme ad altre 270 persone e spiega di non poter procurarsi 8 mila dollari. Molti ragazzi si alternano alla telecamera per mostrare il corpo piagato dalle ferite e i denti che mancano. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha visto il filmato e sta cercando di localizzare il campo di concentramento per tentare di salvare i prigionieri, "ma non è affatto semplice perché la Libia è un paese estremamente pericoloso" - spiega il portavoce Leonard Doyle. Per Carlotta Sami (Unhcr) "questo episodio rivela una realtà che esiste ormai da anni in Libia, non c’è migrante che non sia passato da questo paese e non lo abbia descritto come un inferno". La situazione è "estremamente preoccupante" anche nei campi di detenzione ufficiali, dove negli ultimi 15 mesi l’Alto commissariato Onu è riuscito a far liberare più di 800 persone. La conferma di questo orrore è cronaca quotidiana anche sulle nostre coste. Sono le testimonianze di chi crede di avercela fatta e ancora non sa che un giorno potrebbe essere rispedito proprio in Libia. Gabriele Eminente, responsabile di Medici senza frontiere Italia, è in servizio su una nave che ieri è approdata a Reggio Calabria con a bordo 28 ragazze incinte. "Spesso non si tratta di gravidanze cercate, sono frutto di violenza - spiega - una di queste ragazze si è resa conto di essere incinta durante la visita medica a bordo. E ci ha raccontato che aveva subìto violenza durante l’attesa in Libia". Eminente ha sotto gli occhi i segni delle torture inflitte anche agli ultimi migranti salvati in mare, novecento solo l’altra notte, "non è la prima volta che lo vediamo". Sono persone sofferenti anche per non essere stati alimentati a sufficienza, per aver avuto pochissima acqua da bere e per essere stati rinchiusi diversi mesi "in centri del tutto inaccettabili da qualunque punto di vista". E allora vengono i brividi quando la Guardia costiera libica di Tripoli, proprio ieri, annuncia di aver salvato 8.094 migranti nelle sue acque territoriali nella prima metà di quest’anno. Uganda. I paesi donatori abbandonano i rifugiati sud sudanesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 giugno 2017 Joyce, 37 anni, ha visto suo marito morire a coltellate. A Jane, 28 anni, è andata anche peggio: dopo aver ucciso il marito l’hanno stuprata a ripetizione. A Patrick, 19 anni, hanno stretto e sorto le dita con le pinze. Di racconti orribili come questi, frutto di tre anni e mezzo di conflitto feroce e dimenticato nel Sud Sudan, se ne possono ascoltare migliaia e migliaia nei campi allestiti per i rifugiati in Uganda. Amnesty International c’è stata. Tranquilli, da quella che è la prima crisi dei rifugiati in Africa e la terza nel mondo, in Italia non arriverà nessuno. Perché già quasi un milione di loro è in Uganda e altre migliaia attraversano ogni giorno il confine. L’86 per cento sono donne e bambini. Gli uomini o sono rimasti a combattere o sono stati già ammazzati. Alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato, la vicenda ugandese dimostra quanto lo slogan "Aiutiamoli a casa loro" sia ipocrita. Di case in Sud Sudan, dove c’è la carestia e si profila un genocidio, non ce ne sono più. Allora, si dice, "Aiutiamoli vicino a casa loro". Ipocrita, anche questo. A maggio, le Nazioni Unite hanno fatto i conti: dei fondi richiesti per aiutare il governo ugandese e le organizzazioni di aiuto umanitario ad assistere i rifugiati sud sudanesi, era arrivato solo il 18 per cento. Da qui a fine anno occorreranno oltre 4,1 miliardi di dollari. Non per lenire i traumi, ma per garantire ogni giorno acqua, cibo e un riparo. Il 22 e 23 giugno nella capitale ugandese si terrà il Kampala Solidarity Summit on Refugees, un vertice ad alto livello cui prenderanno parte molti rappresentanti dei paesi donatori. L’Uganda, che continua a dimostrarsi accogliente e generosa e che ha una delle leggi in materia di rifugiati più avanzate del mondo mentre molti paesi stanno chiudendo i confini e inasprendo le legislazioni, dev’essere sostenuta e non lasciata da sola. E i rifugiati sud sudanesi non devono diventare le nuove vittime del fallimento collettivo e vergognoso della cooperazione internazionale Kenya. Una lattina per suonare, reportage tra i "bambini spazzatura" di Nairobi di Nicolas Lozito La Stampa, 20 giugno 2017 Bambini spazzatura: chokorà, che in swahili, la lingua ufficiale del Kenya, significa rifiuto. Sono chiamati così a Nairobi i giovani che vivono attorno all’enorme discarica di Dandora. Considerati al pari dell’immondizia, nell’organizzazione intorno a questa montagna di cinque chilometri quadrati loro sono gli ultimi. Inferiori anche agli animali. Passano le giornate a scavare in un inferno di rifiuti che ribolle, fermenta e marcisce, portando con loro un odore dilagante e inestinguibile. Tra vetri, materiali organici e lamiere rischiano di ferirsi e ammalarsi. Cedono all’abuso di droga e di alcol: colla da respirare e distillati casalinghi tossici. Lo fanno per meno di un euro al giorno. Il compito, condiviso con altri membri della famiglia, è quello di selezionare materiali che possono essere venduti. Molto spesso, la discarica dà loro anche da mangiare: cibo spazzatura a Nairobi non significa un hamburger a basso prezzo, ma frutta avariata, barattoli di yogurt marciti e scarti di produzione. Non tutte le storie dei chokorà, però, finiscono male. Le fotografie di Valentina ne raccontano un’altra. "È una storia di recupero: i rifiuti diventano strumenti musicali". In venti giorni a Nairobi ha seguito l’ong Amref in uno dei percorsi organizzati nella baraccopoli di Dagoretti: i materiali di scarto vengono portati i laboratorio e trasformarti in tamburelli e percussioni. Si spezza così il circolo vizioso degli slum e il lavoro è curato da operatori che a loro volta sono stati aiutati da Amref. "Più del 97% di loro proviene dalle zone dove l’organizzazione è presente", come spiega Fabio Bellumore della sede romana della organizzazione. È proprio Amref Italia, per festeggiare i 60 anni di attività dell’ong, che ha organizzato la mostra fotografica (dal 22 giugno alla Galleria Mario Giusti di Milano). Quindici foto in bianco e nero, e una sorpresa: due strumenti creati dai ragazzi di Dagoretti saranno suonati dalla violinista Eleonora Montagnana. La musica è parte integrante del progetto, che si intitola proprio "Un barattolo che voleva suonare". "Ricordo Pauline, mamma della baraccopoli", racconta Valentina. "Da quando i suoi bambini non sono più costretti ad andare in discarica, lei ha iniziato a cantare gospel, canta tutto il giorno". Lo stigma di rifiuti è andato via, l’odore è scomparso. Ora dai Chokorà arriva il suono di un mondo che riscrive il proprio futuro. Messico. Giornalisti e avvocati anticorruzione del attaccati da spyware governativi di Carola Frediani La Stampa, 20 giugno 2017 Una decina tra i più noti reporter e attivisti dei diritti umani sono stati presi di mira con un software spia venduto ai governi, denunciano due report. Inclusi i loro famigliari. Alcuni dei più noti giornalisti d’inchiesta messicani e i loro famigliari sono stati presi di mira con spyware, software spia, in grado di monitorare i loro telefoni. Insieme ai reporter, anche attivisti dei diritti umani e avvocati che si sono occupati della scomparsa e uccisione dei 43 studenti di Ayotzinapa (vicenda nota come il massacro di Iguala). In tutto almeno 11 persone - in gran parte giornalisti, incluso il figlio minorenne di una delle vittime - sono state bombardate da 76 messaggi Sms che tentavano di infettarle con uno spyware prodotto da un’azienda di origine israeliana attualmente controllata da un fondo di private equity statunitense. Il software malevolo sarebbe stato venduto a varie agenzie governative messicane, ufficialmente con lo scopo di indagare su criminalità e terrorismo. Sebbene non sia certo la prima volta in cui viene individuato e denunciato l’abuso di questo genere di strumenti da parte di numerosi Stati, in questo caso siamo di fronte "all’esempio più plateale e inquietante mai incontrato", per dirla con le parole di Ron Deibart, direttore del Citizen Lab, laboratorio dell’università di Toronto che da anni pubblica report sull’impiego di malware governativi contro attivisti e dissidenti, e che ha condotto l’indagine relativa al caso messicano, insieme alle associazioni R3d, Social Tic e Article 19 (che hanno pubblicato a loro volta un rapporto in spagnolo). Le due indagini - I due report spiegano infatti come gli Sms ritrovati sui cellulari delle 11 vittime contenessero dei link collegati all’infrastruttura usata dall’azienda NSO Group per condurre attacchi contro i target sfruttando una vulnerabilità dei loro telefoni Android e iPhone. A quel punto le vittime venivano infettate con uno spyware, un software malevolo (denominato Pegasus) in grado di intercettare comunicazioni, email, chat, attivare la videocamera e il microfono, tracciare gli spostamenti. Ma perché l’invio di Sms (e non ad esempio di email)? "Da quel che sappiamo, gli spyware di Nso Group infettano solo telefonini", commenta a La Stampa Bill Marczack, uno degli autori del report di Citizen Lab. "E quindi se il link è inviato via Sms è più probabile che sia cliccato quando si sta usando il cellulare. Inoltre, i messaggi Sms sono l’ideale per gli attacchi, perché possono essere inviati in maniera tale da non contenere metadati che possano in qualche modo essere ricondotti agli attaccanti. Per esempio, puoi falsificare facilmente il mittente di un messaggio". La dinamica dell’attacco - Gli Sms erano confezionati e mirati per ingannare le vittime, spingendole a cliccare i link contenuti nei messaggi. In alcuni casi simulavano di essere notifiche relative alle bollette telefoniche o alla carta di credito; alert sulla scomparsa di bambini; messaggi dall’ambasciata americana del Paese che segnalava problemi con il visto; notizie di interesse; e perfino segnalazioni inviate apparentemente da conoscenti che avvisavano le vittime di possibili minacce sotto casa. Una volta cliccato sul link del messaggio, il telefono visitava un server che verificava il tipo di dispositivo utilizzato (se iPhone o Android) e poi inviava allo stesso un exploit, un codice di attacco che sfruttava una vulnerabilità del sistema operativo. Questi server sono stati mappati dai ricercatori e confrontati con precedenti attacchi ricondotti all’infrastruttura usata da Nso. La Stampa ha contattato Nso Group per un commento e aggiornerà l’articolo nel caso in cui riceva risposte. Le vittime - Tra i giornalisti, la più colpita e la più nota è Carmen Aristegui, che nel 2014 aveva condotto una inchiesta su Angelica Rivera, moglie del presidente messicano Enrique Peña Nieto, e in particolare sui legami tra una sua lussuosa residenza privata e un contractor governativo (il cosiddetto scandalo della Casa Bianca, com’era stata ribattezzata la dimora in questione). Dal 2015 Aristegui - che è stata licenziata dalla testata per cui lavorava, ma ha continuato a pubblicare inchieste - ha ricevuto decine di messaggi infetti. Siccome però non ha mai cliccato sui link, a un certo punto la tattica è cambiata e dal 2016 è stato preso di mira il figlio minorenne, Emilio. E poi ancora di nuovo entrambi. Si tratta "della prima volta in cui veniamo a conoscenza di un minorenne usato come target di uno spyware governativo", scrive il report di Citizen Lab. Probabilmente l’obiettivo degli attaccanti era di ottenere informazioni sulla madre anche attraverso il dispositivo del figlio. E uno dei messaggi ricevuti dal ragazzo (che si trovava negli Stati Uniti) simulava di provenire dal governo americano. Altri giornalisti presi di mira lavorano o hanno lavorato insieme ad Aristegui, inclusi Rafael Cabrera e Sebastián Barragán. E poi ancora reporter che si occupano di corruzione come Salvador Camerena e Daniel Lizárraga, e il conduttore tv Carlos Loret de Mola. Quest’ultimo è stato attaccato mentre lavorava a una inchiesta su un massacro avvenuto nel 2015 in una fattoria nota come Rancho El Sol, dove era ventilato un coinvolgimento degli apparati di sicurezza messicani. Tra gli attivisti sono stati colpiti anche i rappresentati di un’associazione, Centro Prodh, che seguiva le famiglie delle vittime della strage di Iguala, la vicenda dei 43 studenti sequestrati e poi "spariti" nel nulla. Il Messico e gli spyware - Il Messico è un avido compratore di software spia. Già nel 2015 era emerso come il Paese centroamericano fosse il principale cliente di Hacking Team, il produttore italiano di spyware governativi, prima ancora dell’Italia e del Marocco, rispettivamente in seconda e terza posizione. Il governo messicano e suoi 14 Stati avevano pagato almeno 6 milioni di dollari in spyware e servizi correlati, secondo i documenti emersi dopo l’attacco subito dalla stessa azienda milanese. Ma dal 2011 in poi a Nso Group le agenzie federali messicane avrebbero pagato qualcosa come 80 milioni di dollari, secondo alcuni contratti ottenuti dal New York Times. Sempre secondo questi documenti, il malware dell’azienda israelo-americana costerebbe 500mila dollari solo di installazione, più 650mila per un pacchetto di dieci utenti iPhone. L’uso di Pegasus - il malware Nso - in Messico era già emerso in passato, quando lo stesso Citizen Lab aveva individuato una campagna di spyware indirizzata contro attivisti e ricercatori che avevano promosso una tassa sui soft drinks, le bevande zuccherate, per ridurre la diffusione dell’obesità. E l’aveva ricondotta al software e all’infrastruttura di quest’azienda. E poi era stato individuato già un attacco contro il giornalista Rafael Cabrera. Identikit di Nso Group - Nso Group è un’azienda nata in Israele (dove ha ancora sede, a Herzelia, Tel Aviv) che affonda le sue radici, come molte startup tecnologiche della zona, nell’Unità 8200, la divisione cyber delle forze armate israeliane. Vende spyware a governi, così come fanno altre aziende del settore, quali Hacking Team e FinFisher. Diciamo che nel campo trojan si posiziona nella fascia alta: i suoi malware e servizi sono più costosi, e promettono di riuscire a infettare facilmente da remoto anche gli iPhone. Nel 2014 NSO è passata sotto il controllo del fondo americano di private equity Francisco Partners. Nel 2016 si è trovata improvvisamente sui media dopo che un suo spyware era stato usato per colpire un noto attivista dei diritti umani degli Emirati Arabi Uniti, Ahmed Mansoor (qui la sua storia) Quell’attacco usava ben tre vulnerabilità zero-day e la sua scoperta (sempre da parte di Citizen Lab e la società Lookout) aveva innescato un aggiornamento di sicurezza di Apple. Ultimamente - riportano alcune testate - il fondo Francisco Partners starebbe cercando di vendere Nso. Nel 2014 aveva pagato 120 milioni di dollari per una quota maggioritaria nell’azienda. Ora punterebbe a incassare dieci volte tanto, ovvero oltre un miliardo di dollari. Una cifra vista con scetticismo da alcuni osservatori. Anche se, come abbiamo visto col Messico, la domanda di strumenti di sorveglianza resta alta. E non solo per utilizzarli nei confronti di criminali e terroristi. Infatti in alcuni Stati, come scrive Deibert, "finiscono con l’essere utilizzati contro la società civile". Nigeria. Sant’Egidio regala serbatoio per acqua potabile ai detenuti del carcere minorile onuitalia.com, 20 giugno 2017 In Nigeria la Comunità di Sant’Egidio si occupa frequentemente delle condizioni di detenzione: nel carcere minorile di Jos capitale del Plateau State in Nigeria, i giovani detenuti vivevano senza acqua corrente. La situazione era drammatica: sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, e con l’arrivo della stagione più calda la mancanza di acqua rischiava di peggiorare le già difficili condizioni sanitarie. È un problema diffuso in molte prigioni nigeriane e in generale in tutto il continente africano. Ma nel carcere di Jos la situazione è cambiata: la Comunità ha recentemente completato l’installazione di un serbatoio idrico con una pompa in grado di fornire acqua corrente ai detenuti. "Acqua vuol dire vita - ha detto Hassana Ayika, segretaria del Ministero degli Affari femminili e lo sviluppo sociale del Plateau State ringraziando la Comunità per questo intervento urgente - Per tanti anni non siamo stati in grado di realizzarlo, mentre Sant’Egidio ci è riuscita in poco tempo". La Comunità di Sant’Egidio di Jos visita regolarmente i giovani detenuti della Young Peoplès Home, in particolare li accompagna nello studio, facilitandone il futuro reinserimento nella società.