Misure alternative al carcere: arrivano 48 volontari in servizio civile di Teresa Valiani csvnet.it, 1 giugno 2017 Sono i giovani ammessi al progetto nazionale della direzione degli Uffici per l’esecuzione penale esterna. Da ottobre affiancheranno gli operatori del ministero anche nei progetti di "messa alla prova". Castellano: "Richiesta la laurea in servizio sociale. Più che volontari, sono persone che si avviano al mondo del lavoro". Parte a ottobre la prima esperienza nazionale di volontariato civile negli uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe), le strutture territoriali del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità che si occupano del trattamento socio-educativo delle persone che scontano la pena fuori dal carcere, un esercito di 45.456 unità che, per dimensione, è arrivato a sfiorare il numero dei detenuti presenti nelle carceri (56.436 al 30 aprile 2017). Un progetto pilota era stato lanciato dalla Toscana, ma quest’anno, per la prima volta, il dipartimento ha partecipato al bando nazionale che si è chiuso il 26 giugno scorso aprendo, di fatto, le porte degli uffici Epe ai giovani specializzati. Saranno 48 i volontari del servizio civile che dal prossimo autunno, per 12 mesi e un totale di 1.400 ore, andranno ad affiancare gli operatori degli 11 distretti e della sede centrale: un risultato accolto come un primo, importante traguardo sulla strada che vede l’attività degli uffici Epe sempre più in sintonia e in sinergia con il territorio sul quale va ad incidere. Il titolo del progetto, "Insieme per un nuovo modello di giustizia di comunità", anticipa obiettivi e finalità. "È proprio questo il passaggio più importante - spiega Lucia Castellano, dirigente generale per l’Esecuzione penale esterna del Dgmc - perché il nostro primo obiettivo è quello di rafforzare le coesioni esistenti tra il mondo dell’esecuzione penale e la società e consolidare la rete delle collaborazioni. Non più un sistema autoreferenziale del servizio sociale ma un sistema che si apre alle collaborazioni esterne. Prima fra tutte quella del volontariato civile che porterà nei nostri uffici giovani specializzati (per partecipare si richiede la laurea in Servizio sociale) e motivati che si avviano al mondo del lavoro: un bacino di energie fresche che a noi serve molto. Quest’anno abbiamo concorso per la prima volta e da ottobre dovrebbero arrivare 48 persone che saranno divise per gli 11 distretti: 4 per ogni distretto più 4 a Roma, alla Direzione generale Esecuzione penale esterna e di messa alla prova. Speriamo, per l’anno prossimo, di mettere questi ingressi a sistema e di coinvolgere un numero maggiore di giovani, anche attraverso nostri bandi insieme al settore minorile". È di pochi giorni fa la protesta dell’ufficio inter-distrettuale di Milano con una lettera al ministro Orlando in cui si evidenzia "la cronica carenza di tutte le figure professionali" e carichi di lavoro insostenibili (40 operatori per 5.500 casi). "L’ingresso di giovani specializzati naturalmente non risolve tutto - continua Castellano - ma porterà una boccata d’ossigeno insieme ad altre iniziative sulle quali stiamo lavorando. Ad esempio abbiamo avuto l’autorizzazione ad assumere 60 assistenti sociali, a sbloccare una graduatoria di idonei da un concorso dell’Inail. Abbiamo emanato una circolare per facilitare l’ingresso dei volontari all’interno degli Uepe. Sono passaggi che sosteniamo con forza perché crediamo che l’esecuzione penale esterna, indipendentemente dal numero di operatori, possa funzionare se riusciamo ad aprire al territorio, a fare rete". "Il bando - sottolinea Castellano - è rivolto ai giovani tra i 18 e i 28 anni e nel nostro caso è richiesta la laurea in servizio sociale. Avranno un rimborso spese mensile di 433,80 euro e più che volontari saranno persone che si preparano alla vita lavorativa. Avranno un importante ruolo di collegamento tra il volontariato vero e proprio e gli operatori. Aiuteranno a organizzare i contatti con il privato sociale, a programmare la banca dati dei singoli uffici, a fare i primi colloqui, a stipulare protocolli con i vari servizi, ad attivare servizi di accoglienza per l’utenza, a fare tutte le statistiche sulla messa alla prova. Parteciperanno alle visite domiciliari, alla programmazione delle risorse, alle attività di interrelazioni con Regioni, Provincie e Comuni e con gli enti territoriali per l’organizzazione dei programmi trattamentali che sono alla base delle misure alternative alla detenzione. Sono tanti i piani di partecipazione. È una buona opportunità per loro e un momento molto stimolante per noi che speriamo, col tempo, di ottenere lo sblocco dei concorsi". "L’inserimento dei volontari in servizio civile - si legge nel bando - prevede un periodo propedeutico di un mese che, in caso di necessità, è prolungabile fino a un massimo di due mesi. In modo da approfondire la conoscenza delle metodologie di intervento del servizio sociale e dell’organizzazione degli Uepe, approfondendo nel frattempo la conoscenza della normativa. In questo periodo il volontario svolge la propria attività in stretto rapporto con i referenti del progetto mentre successivamente sarà inserito nell’equipe di zona. Il volontario collaborerà prevalentemente con l’Area di servizio sociale, con l’Istituto penitenziario e verrà inserito nelle equipe di zona per partecipare alla formulazione del programma individualizzato. "La sfida del nostro ufficio - spiega il dirigente generale - è aumentare il numero di misure alternative e di sanzioni di comunità perché arrivino ad essere la prima risposta, lasciando al carcere un ruolo di secondo piano destinato ai casi più critici. Lavoriamo per fare in modo che la pena alternativa abbia un contenuto sanzionatorio e che la condanna non sia solo punitiva ma rappresenti anche un’occasione di recupero, lontana dal concetto di depenalizzazione". La Pm dei minori: "Togliere i figli ai boss? L’ho fatto, ma non è sempre una soluzione" di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 1 giugno 2017 La procuratrice Maria de Luzenberger: "Una misura eccezionale, noi non deportiamo i bambini". Togliere i figli ai boss: per molti è questa, ormai, l’unica maniera di piegare le cosche. Ne è convinto Luigi Giuliano, figlio di Nunzio, il camorrista dissociato assassinato in via Tasso nel 2005. Non ne è convinta, invece, Maria de Luzenberger, battagliera procuratrice minorile. Che in due casi ha chiesto e ottenuto dal Tribunale l’allontanamento di ragazzi dalle famiglie, ma chiarisce: "Non esiste una linea di azione in questo senso. Ogni caso è un caso a sé, ogni storia viene attentamente valutata in tutte le sue sfaccettature. È possibile che in futuro interverremo ancora, ma solo se sarà indispensabile. Inoltre, i ragazzi vengono seguiti costantemente: le decisioni possono essere subito modificate, se le circostanze lo richiedono". Nei due casi in cui i minori sono stati allontanati dalle famiglie, ricorda il magistrato, agire era infatti indispensabile: "A Secondigliano si trattava di due bambini con il papà latitante e lo zio paterno collaboratore di giustizia: erano esposti a un altissimo rischio di ritorsioni. A Santa Lucia, invece, avevano (e hanno tuttora) entrambi i genitori in carcere. Piuttosto che affidarli a parenti abituati a delinquere, abbiamo preferito mandarli in strutture protette". Eppure c’è stato, spiega con amarezza de Luzenberger, chi ha accusato i pm minorili di "deportare i bambini". Per comprendere la sollecitudine dei magistrati nei confronti dei ragazzini di Santa Lucia, per esempio, basta leggere le indicazioni fornite dal collegio composto da Giovanni Saporiti (presidente), Paola Vallario (giudice relatore), Carlo Barbati (componente privato) e Roberta De Martino (componente privato) che, accogliendo la richiesta del pm, ha sospeso la potestà dei genitori. I giudici hanno disposto che i bambini fossero prelevati con tutte le cautele del caso e accompagnati in strutture protette di Veneto, Toscana e Friuli Venezia Giulia: ad eseguire il provvedimento sono stati i servizi sociali, "che assicureranno - si leggeva nel provvedimento - adeguata assistenza psicologica ai minori al fine di ridurre, nei limiti del possibile, il prevedibile impatto psicologico che il provvedimento avrà su di loro e si avvarranno della collaborazione dei carabinieri, che interverranno con personale in borghese, anche femminile se possibile". Negli ultimi mesi la Procura minorile ha intrecciato rapporti più stretti con le Procure ordinarie: una necessità, secondo de Luzenberger, in un momento in cui l’età di chi delinque si abbassa sempre di più. "Rispetto al passato ci arrivano più segnalazioni dai colleghi. Ma anche dalla polizia giudiziaria, che ho personalmente voluto coinvolgere: ho chiesto che l’Ufficio sia sempre informato dei casi in cui minorenni siano usati per commettere reati. È fondamentale per la prevenzione. Queste segnalazioni si aggiungono a quelle che riguardano ragazzi sfruttati, violentati o comunque maltrattati". Non è tutto: adesso sono direttamente i pm minorili ad esaminare i dati dell’evasione scolastica inviati dalle scuole di tutto il distretto giudiziario. Un’altra decisione innovativa del capo dell’Ufficio, che permette di avere dati più omogenei sui ragazzi che non frequentano la scuola dell’obbligo. "Ci sono casi - sottolinea la procuratrice - in cui bambini piccolissimi vengono bocciati perché non hanno frequentato. È gravissimo e inaccettabile: la scuola dell’obbligo è il primo presidio della legalità, queste bocciature - che approfondiremo - sono un pessimo segnale". La conferma arriva proprio dall’inchiesta sul clan Elia e le attività di spaccio nella zona del pallonetto. Ecco che cosa scrivevano i giudici di Giuseppe, il ragazzino che andava in giro a consegnare le dosi per conto della mamma: "Oltre a padroneggiare, nel compimento delle attività illecite, un modus operandi delinquenziale tipico di un adulto, risulta inadempiente all’obbligo scolastico, il che lascia tristemente presagire che, se lasciato nel contesto ambientale di appartenenza, non potrà che aderire sempre più allo stile di vita deviante che ha già caratterizzato gli anni della fanciullezza". E sul fratello più piccolo, in procinto di cominciare le elementari: "Bisogna favorirne quanto prima possibile l’allontanamento da un contesto familiare allargato in cui impera esclusivamente la cultura dell’illegalità". "Mio padre è al 41bis da 20 anni, ma è stato lui a salvarmi" di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 1 giugno 2017 "Togliere i figli ai boss? Non è sempre detto che funzioni e vi spiego perché". Vincenzo Pirozzi, 39 anni, regista e attore (da "Pianese Nunzio" di Capuano a "L’uomo in più" di Paolo Sorrentino, a "Gomorra" su Sky) è l’esempio vivente che "ci si può salvare anche se si è figli di un boss e se non si viene allontanati, nel mio caso dal quartiere Sanità". Suo padre Giulio Pirozzi, era uno dei boss più potenti e temuti, che rapporti ha con lui? "Non lo rinnego. Ovviamente fin da ragazzino ho scelto la via del bene ma l’ho fatto anche perché me l’ha inculcata lui. Mio padre è detenuto da 20 anni, sconterà l’ergastolo con il 41 bis, non uscirà mai dalla sua cella". Lo va ancora a trovare? "Certo, ci parliamo attraverso un vetro. Da diciannove anni non posso nemmeno abbracciarlo, sono cose difficili da sostenere. Lui ha fatto la sua vita e le sue scelte sbagliate. Ma almeno ha avuto la soddisfazione di vedere suo figlio in tv recitare come attore in Gomorra". Che le ha detto dopo ? "Aveva gli occhi lucidi, era commosso. Era orgoglioso di me, ma dal vetro che ci separava ho colto segnali di stanchezza. Mi ha detto "Vincè basta, non ce la faccio più a vedere ‘sta violenza anche in tv. È una vita che la vedo". Oltre che da suo padre lei è stato salvato dalla parrocchia e dal teatro. "Sì, proprio alla Sanità. Avrò avuto 12 anni, papà era in galera come al solito e mi sono accostato alle recite. Mi dava un piacere enorme. Ho intuito che quella sarebbe stata la mia àncora di salvezza. E, ripeto, lo devo anche a mio padre che mi ha lasciato fare. Del resto è stato così anche per il mio amico cantautore Maldestro, anche lui ha vissuto in famiglia con un padre boss e si è salvato. La verità è che non esiste una ricetta precisa in certe cose. C’è chi viene da famiglie normali e poi si rovina". Per esempio? "Prendete Emanuele Sibillo, uno della cosiddetta Paranza dei bambini, poi ammazzato. Parlava in italiano, aveva un sogno: fare il giornalista (e in effetti sul web esiste un video in cui Sibillo intervista l’ex consigliere regionale Samuele Ciambriello, ndr). Purtroppo è finito ucciso. Oppure uno come Sasà Striano, attore che da ragazzino è rimasto invischiato negli scontri tra i clan". Intanto alla Sanità la situazione è precipitata. "Sì, io vivo ancora qui e ho due figli tra cui un ragazzino adolescente. Si ha paura di restare coinvolti in una cosiddette "stese". Questi che agiscono sono cani sciolti, ragazzi che non si fanno più alcuno scrupolo. So che nel quartiere c’è una guerra, ovviamente non ne conosco le ragioni". Perché ha deciso di restare alla Sanità? "Per non vivere anche la sconfitta di dover abbandonare il mio quartiere e la mia gente, per aiutare i ragazzi che stavano prendendo una brutta strada. Con l’associazione Sott’o ponte abbiamo offerto possibilità ad almeno 140 giovani. Di questo sono orgoglioso. Pensi, sto girando un film autoprodotto, una storia di abusi sui detenuti di un carcere minorile. Con noi abbiamo avuto due giovani ex reclusi affidati in prova. Sul set erano trasformati, doveva vederli: motivati, entusiasti. Quando abbiamo finito le riprese volevano girare un altro film". E dunque, la soluzione contro le sparatorie? "D’accordo la repressione, vanno bene l’esercito e la polizia, ma qui non bisogna fare solo passerelle. Occorre la cosa più banale e più semplice: serve lavoro, lavoro e ancora lavoro. Serve la presenza della scuola e delle altre istituzioni. Diano un’occasione concreta ai ragazzi invece di deportarli". Leggi a rischio, cresce il pressing. "Non buttare via 3 anni di lavoro" di Monica Rubino e Laura Serloni La Repubblica, 1 giugno 2017 "Le approviamo tutte, in Parlamento non c’è nessun clima di disarmo da battere". Mentre le organizzazioni non governative - da Amnesty a Libera all’associazione Luca Coscioni - vanno in pressing sulle sei riforme da non tradire in caso di elezioni anticipate, il capogruppo dei deputati Pd Ettore Rosato è ottimista sulla leggi che rischiano di rimanere a metà strada. Ma se al Senato arriva la notizia che il codice antimafia sarà in aula il 13 giugno, alla Camera restano da approvare il nuovo processo penale, la legge che istituisce il reato di tortura e quella sulla legalizzazione della cannabis. Delle tre quest’ultima è quella più a rischio naufragio. Le altre due approderanno in aula dopo le amministrative e hanno più chance di arrivare fino alla fine, in particolare il ddl sul processo penale: "È una riforma di sistema voluta dal governo Renzi, sarebbe da irresponsabili non portarla a casa" sottolinea Donatella Ferranti, presidente Pd della commissione Giustizia di Montecitorio, che aggiunge: "Non si possono buttare a mare tre anni di lavoro, sarebbe ingiusto dare al Paese l’immagine di un Parlamento che naviga a vista e sta con le mani in mano". Quanto al disegno di legge sul reato di tortura, messo in calendario per il 26 giugno, siamo al quarto passaggio parlamentare. Ma questa volta Ferranti è fiduciosa: "Il lavoro di limatura sul testo è stato ormai abbondantemente compiuto, non resta che dare l’ok definitivo". Più irto di ostacoli il percorso delle leggi rimaste bloccate in Senato, dove dal 13 giugno fino alla fine del mese il calendario d’aula è più che congestionato. Dovrebbero infatti essere discussi e approvati, nell’ordine, ben cinque provvedimenti: la manovrina, il codice antimafia, lo Ius soli, il bio-testamento e il decreto sui vaccini obbligatori. Per poi affrontare a inizio luglio l’esame della legge elettorale. "Per noi l’orizzonte temporale è la fine della legislatura" afferma Laura Bianconi, capogruppo di Ap a Palazzo Madama. Che precisa: "Non sentiamo di dover accelerare, specie su temi che richiedono un approfondimento, come il bio-testamento. Su cui faremo ostruzionismo". Se Ap annuncia dunque battaglia sul testamento biologico, a difesa del quale la presidente dem della commissione Sanità Emilia De Biasi minaccia sedute notturne a oltranza, la Lega promette invece opposizione dura sullo Ius soli. Entrambe le leggi sono in serio pericolo di non vedere più la luce. Su tutto domina il disincanto di senatori come l’alfaniano Salvatore Torrisi, che siede su una poltrona già del Pd, quella di presidente della commissione Giustizia: "Se la prospettiva è il voto anticipato, sarà difficile far arrivare in porto queste leggi. Nei palazzi si respira già un’atmosfera da "rompete le righe". E questo complica le cose". Le organizzazioni non governative si battono per non gettare al vento il lavoro di tre anni. E lanciano un appello affinché si approvino subito le riforme. Arnnesty International nonostante giudichi "insoddisfacente" il ddl tortura, incalza il Parlamento a non fermarsi e ad andare avanti. "Il testo è brutto - ammette Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International - ma è inconcepibile dire meglio niente. L’approvazione è un passo importante, sonò trent’anni che aspettiamo che la parola tortura entri nel codice penale, così finalmente smette di essere un tabù". Chiede di accelerare sul bio-testamento e di non far arenare la legge sulla legalizzazione della cannabis, l’associazione Luca Coscioni: "Approviamo subito il testamento biologico - incalza il segretario Filomena Gallo - i tempi sono maturi, così si dà diritto all’autodeterminazione". Esorta la Camera a non rallentare il provvedimento che legalizza la cannabis: "I lavori sono lentissimi, ma anche chi era contrario oggi si dichiara favorevole. Togliamo il monopolio alla criminalità, creiamo delle regole per chi vuole accedere a dei trattamenti ". L’appello a non fare un passo indietro sul codice antimafia arriva da Libera: "La sintesi è positiva, ma non completa - argomenta Davide Pati, responsabile del settore Beni Confiscati dell’associazione antimafia - il Senato approvi il testo uscito dalla Camera così com’è, non accettiamo arretramenti". La riforma del processo penale riparte, ddl in Aula dal 13 giugno Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2017 Maggioranza ancora divisa sulla prescrizione. Ripartirà il 13 giugno l’esame in Aula a Montecitorio del disegno di legge sul processo penale, che contiene la riforma della prescrizione e la delega sulle intercettazioni. La capigruppo di ieri ha ricalendarizzato il testo. Un segnale letto come una buona notizia in Via Arenula, dove il Guardasigilli Andrea Orlando continua a chiedere che sia posta la fiducia, come avvenuto in Senato, per approvarlo definitivamente. Ma le incognite rimangono. Pesano le tensioni tra renziani e orlandiani, rinfocolate dalla polemica sui voucher nella manovrina e dall’alt della minoranza dem sulla legge elettorale. Resta il "no" alla fiducia dei centristi di Alfano, che invocano di poter discutere nel merito almeno due ritocchi sulla prescrizione. Ma la posizione di Ap si è ammorbidita e i richiami alla responsabilità della maggioranza, in una fase di scontro sul sistema elettorale e sui tempi del voto, potrebbero non cadere nel vuoto. "È uno dei temi più approfonditi durante la legislatura", ricorda la presidente dem della commissione Giustizia Donatella Ferranti, relatrice. "Mi auguro che responsabilmente le forze di maggioranza riescano a chiudere". Il 15 giugno è atteso il focus Ocse sull’Italia, proprio su prescrizione e durata dei processi. "Il mio auspicio è poter dire che stavolta siamo pronti". La (breve) marcia della repubblica giudiziaria di Piero Sansonetti Il Dubbio, 1 giugno 2017 C’è un bersaglio dichiarato nell’azione e nel pensiero di Piercamillo Davigo (che ieri si è formalmente posto alla guida dei 5 Stelle, ed è stato da loro acclamato). Il bersaglio è Matteo Renzi. Che ha di gran lunga superato lo stesso Berlusconi nella classifica dei nemici dell’ex capo dell’Anm. Davigo, nel suo discorso, lo ha detto in modo esplicito: il centrodestra faceva leggi pasticciate, il centrosinistra sa cosa vuole. Però c’è una persona - una mente - che Davigo certamente detesta ancora più di Renzi, perché nella sua vita ha sempre espresso posizioni diametralmente opposte alla sue. Questa persona si chiama Cesare Beccaria, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nato a Milano nel 1738 e morto a 56 anni, dopo aver scritto un libricino (Dei delitti e delle pene) che sconvolse il diritto ed ebbe per anni e anni una influenza indelebile sulla giurisprudenza dell’intero occidente. In Europa e in America. Scriveva Beccaria, circa 250 anni fa: "L’autorità d’interpretare le leggi penali non può risedere presso i giudici criminali, per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri (…) ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell’attuale risultato della volontà di tutti (...). Quest’è la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interprete della legge? Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi? ". Davigo non vuole nemmeno sentirle queste parole. Siccome tutti giurano che è una persona colta, certamente le ha lette, forse le anche studiate, poi ha preso il libro e lo ha sepolto in una buca profondissima e non ha mai più voluto che riemergesse alla luce. È passato un quarto di millennio dai tempi di Beccaria e dell’illuminismo. E ora ci troviamo di fronte a un bivio, che ieri è stato reso evidentissimo dalla assemblea (che noi abbiamo chiamato, per farci capire, "gli Stati generali del giustizialismo") organizzata dai 5 Stelle e che ha consacrato la leadership politica di Davigo: una strada porta al consolidamento dello Stato di diritto, e alla riaffermazione dei principi di Montesquieu e di Beccaria; l’altra strada porta alla sostituzione della repubblica politica con la repubblica giudiziaria. Il bivio non è una ipotesi "intellettuale", di scuola: sta nella realtà delle cose. I 5 Stelle si candidano concretamente alla guida del paese, posseggono dei programmi piuttosto definiti nel campo dell’economia, nel campo sociale, e ora stanno affinando la loro proposta sulla giustizia. Che non è un aspetto laterale della fisionomia con la quale si presentano al voto, ma ne è parte essenziale. L’idea dei 5 stelle, che giustamente l’affidano ad una personalità come quella di Piercamillo Davigo, è l’affermazione di uno Stato etico, fondato sull’onestà e sul rispetto di una certa legge morale, che si concretizza in una repubblica giudiziaria nella quale uno dei tre poteri assume la supremazia sugli altri due, sottomettendoli sia ai propri principi sia alla propria struttura. Lo stesso potere giudiziario, nel momento nel quale assume la guida dello Stato e della società, modifica se stesso e cambia il proprio Dna. Perché abdica ai propri compiti, cioè quelli indicati da Beccaria, sottomettendo lo stesso valore del processo al valore più alto della moralità e del ragionevole sospetto. La convinzione di Davigo, che ieri ha suscitato molti consensi soprattutto tra i magistrati e i giornalisti - e cioè i protagonisti di questa offensiva, che ormai è molto vasta e robusta, contro lo Stato di diritto - è che la società sia pervasa dalla colpa e dai colpevoli. E che un buon governo debba essere in grado di cancellare la colpa e i colpevoli, a qualunque prezzo, e di dare la possibilità agli innocenti - pochi: gli eletti - di dimostrare la propria innocenza e di assurgere perciò al compito di governo. L’idea di Davigo, che fino a qualche tempo fa era una tendenza significativa ma minoritaria, e comunque priva di "interfaccia" politica reale, ora diventa una concretissima proposta di governo, organizzata in un partito, o movimento, che ha buone possibilità di diventare il primo partito nel paese. Non è sensato fingere che tutto questo non esista. O che ci troviamo di fronte a ipotesi estreme. È invece la reale attualità delle cose. Lo Stato di diritto non è più affatto una cosa scontata. Una parte consistente dell’opinione pubblica lo considera un male, o un lusso, o un avanzo del settecento. Chi invece pensa che lo Stato di diritto sia la modernità, e che perderlo possa segnare il declino della nostra civiltà, farebbe bene ad uscir fuori dalla tana. Ad affrontare la battaglia. Se nessuno ha voglia di combatterla, questa battaglia, la marcia su Roma di Davigo è già riuscita. Il M5S corteggia i pm: pronta la carta Di Matteo di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2017 Lo corteggiavano da tempo, come possibile candidato governatore in Sicilia. Ma ieri i Cinque Stelle hanno incassato la disponibilità del sostituto procuratore di Palermo Nino Di Matteo - sotto scorta dal 1993 e pm nel processo sulla trattativa Stato-mafia - per uno scranno più alto: quello di eventuale ministro tecnico di un governo pentastellato. È stato lui la star del maxi-convegno sulla giustizia promosso dal M5S a Montecitorio sulla scorta di quanto già avvenuto sui temi del lavoro e dello sviluppo economico, per rafforzare la nuova casacca "istituzionale" che il Movimento sta affiancando sempre di più all’anima di piazza. Ecco sfilare, allora, tra i relatori il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, l’ex presidente Anm Piercamillo Davigo, il presidente emerito della Corte costituzionale Ugo De Siervo, il Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma. Insieme a firme note e autorevoli come Gian Antonio Stella, Donatella Stasio, Liana Milella. E l’immancabile Travaglio. Ma l’asso è stato Di Matteo. "La lotta alla mafia - ha esordito - dovrebbe essere quello che finora non è stato: il primo obiettivo di ogni governo di qualsiasi colore e orientamento politico". E ancora: "Oggi per non tradire e calpestare la memoria di Falcone abbiamo una sola strada che costerà sangue a chi avrà il coraggio di tracciarla: dobbiamo pretendere noi cittadini verità e giustizia". Standing ovation, seguita da un’accusa al "trionfo dell’ipocrisia" e alla "sterile retorica" nei giorni dell’anniversario della strage di Capaci. La sorpresa, però, è stata un’altra. Ma Davigo esclude la sua candidatura - Se Davigo, applauditissimo anche lui, ha escluso una sua candidatura ("I magistrati non sono capaci di fare politica") e Cantone ha convenuto, Di Matteo ha invece aperto: "L’eventuale impegno politico di un pm non mi scandalizza ma penso che un’eventuale scelta debba essere fatta in maniera definitiva e irreversibile, senza poi tornare a fare il giudice Un’apertura accompagnata dall’elogio al codice M5S per gli eletti coinvolti in vicende giudiziarie e alla soddisfazione del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ("Una buona notizia"), che resta il più papabile come candidato premier. Anche se il nome sarà scelto dalla rete. Entro luglio, se si voterà in autunno. Sarà il candidato premier a scegliere la squadra. Quanto al programma sulla giustizia, al lavoro c’è in prima linea il deputato Alfonso Bonafede. Che anticipa le linee guida: "Fissare i confini tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Fermare la longa manus della politica nelle nomine. Far cessare il decorso della prescrizione dal rinvio a giudizio o dalla sentenza di primo grado". Con un no al ddl penale: "È la logica del compromesso. E la stretta sulle intercettazioni dà un messaggio devastante: prefigura un bavaglio". Saviano: "In Italia giustizia da incubo, la lotta alla mafia sparita dalle priorità politiche" di Conchita Sannino La Repubblica, 1 giugno 2017 Intervista all’autore di Gomorra dopo la decisione che riammette alla professione di avvocato l’uomo che lo ha minacciato per conto dei clan: "La camorra vince nell’indifferenza di un Paese perduto. Il ministro Orlando? Non può lavarsene le mani". "Oggi la camorra ha vinto, ha vinto definitivamente". Durissimo, quasi scritto di pancia, il post su Facebook di Roberto Saviano. Lo scrittore guarda dall’America alla parabola di un avvocato accusato di collusioni per quell’istanza di remissione letta in un’aula nel 2008: eppure "riabilitato" alla professione per automatismi di garanzia interni. L’autore di Gomorra non parla solo come suo ex bersaglio di minacce. "La camorra vince nell’indifferenza di un Paese perduto e di una politica che, cercando solo consenso, fa spallucce a chi chiede giustizia", riflette. "Io ho una voce pubblica, ascolto. Tanti altri, no". Saviano, è solo un problema di giustizia pigra e distante? "L’amministrazione della giustizia in Italia è più che un incubo: è un dramma. E forse è il principale responsabile del collasso delle nostre istituzioni e della nostra credibilità internazionale". Si aspettava questo epilogo? "Non mi aspettavo certo che dopo quasi dieci anni da quella lettura in aula fatta da Santonastaso, non ci fosse ancora un giudizio definitivo. A quasi dieci anni, un uomo condannato per aver minacciato in aula per conto dei clan di camorra, un signore che - secondo la sentenza - ha cambiato per sempre la "comunicazione di camorra", diventando portavoce dei clan e indicando dei bersagli in caso di condanna, oggi torna a fare l’avvocato. Detto questo, penso che c’è anche una marginalizzazione del problema mafie". Sta dicendo che la priorità del contrasto ai vari livelli del crimine è sempre meno sentita, anche dalla politica? "È evidente, nel momento in cui la politica ha come unico obiettivo quello di costringere la cittadinanza a continue elezioni, la lotta ai clan non è l’unica cosa ad essere definitivamente sparita tra le priorità della politica. Il Mezzogiorno è completamente sparito dall’agenda, non esiste più. Si parla di 6mila licenziamenti all’Ilva e la risposta della politica è l’ennesima campagna elettorale. Viene voglia di stracciare la scheda elettorale". Il ministro Orlando sottolinea che i provvedimenti disciplinari dell’avvocatura non sono materia in cui un Guardasigilli può intervenire. Sono garanzie, è la democrazia. "Ma il collasso di una democrazia è attestato anche dal fatto che nessuno ha torto, ma nessuno ha ragione. Il ministro della Giustizia dice che la decisione è sottratta alla sua giurisdizione: vero, anche paradossale. Prendiamo il processo nato dalle minacce che mi ha rivolto Santonastaso in aula nel 2008: la condanna di primo grado è arrivata a novembre 2014. Quasi tre anni dopo, il processo di appello non è ancora iniziato tra composizione anomale del collegio giudicante, difetti di notifica, e due diverse richieste di astensione da parte del presidente del collegio a causa di rapporti di conoscenza con l’imputato. Richieste incredibilmente rigettate dal presidente della Corte di Appello di Napoli. La giustizia è al collasso, questo è il punto. Su questo, il ministro della giustizia non può lavarsene le mani. Non su questo". La criminalità ha molti mestieri: si spara nel napoletano, ma i clan gestiscono insediamenti produttivi, dirottano voti alle amministrative. "È evidente a chiunque conosca il Sud e le sue dinamiche criminali, a chi lo ama e vede lo stato di totale abbandono in cui versano intere province, che nessuno dei partiti sulla scena politica attuale è in grado di controllare il proprio elettorato al Sud. Perché, dopo aver lasciato morire l’economia, ha in gran parte consegnato il Sud alle cosche. I clan dirottano i loro voti, è vero, ma attenti: nel rapporto tra la politica e organizzazioni criminali, non è la politica a controllare le cosche. Sono i cartelli dei boss a controllare la politica". Antiriciclaggio, apertura al "favor rei" di Valerio Vallefuoco Italia Oggi, 1 giugno 2017 Il decreto sull’antiriciclaggio appena approvato dal Consiglio dei ministri contiene un’importante novità in tema di sanzioni amministrative che modifica radicalmente la disciplina previgente. Per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo è infatti prevista l’applicazione della legge vigente all’epoca della commessa violazione se più favorevole. La formulazione non è delle più felici. Anche le competenti Commissioni parlamentari avevano auspicato una migliore formulazione della norma dello schema di decreto legislativo antiriciclaggio destinata a disciplinare il regime intertemporale, "al fine di evitare incertezze applicative". Ci si aspettava un ulteriore sforzo dell’esecutivo diretto a garantire una più compiuta applicazione del principio del favor rei anche nella materia amministrativa. Il favor rei permette, in deroga espressa al principio dell’irretroattività della legge penale, l’applicazione retroattiva di una norma penale modificata parzialmente da una successiva norma di legge, quando questa preveda una disciplina più favorevole al reo. Oggi, per la successione di leggi nel tempo in materia di antiriciclaggio si profila l’applicazione dei seguenti principi: nessuno potrà essere sanzionato per un fatto che alla data di entrata in vigore della riforma non costituisce più illecito. Per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo, sanzionate in via amministrativa, si dovrà applicare la legge vigente all’epoca della commessa violazione, ma solo se più favorevole. Da una interpretazione a contrario della disposizione si deduce che se l’illecito amministrativo è stato commesso ante riforma e la legge posteriore è più favorevole rispetto a quella vigente al momento in cui la violazione è stata commessa allora si dovrebbe applicare quest’ultima. Ma tale interpretazione pone una delicata questione di ordine sistematico in quanto nel nostro ordinamento le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano solo nei casi e per i tempi in esse considerati. Ciò però non toglie, almeno secondo la recente giurisprudenza (anche costituzionale), che il principio della irretroattività della disciplina più favorevole in materia amministrativa possa essere contraddetto da una norma transitoria recante un’espressa disposizione derogatoria. È quanto avvenuto, ad esempio, per le sanzioni amministrative tributarie e da monitoraggio fiscale. A ciò si aggiunga che quello dell’applicazione retroattiva della lex mitior anche con riferimento alle sanzioni amministrative costituisce principio generale del diritto europeo. Pertanto, anche in virtù del fatto che le sanzioni amministrative antiriciclaggio sono di derivazione europea sarebbe stato opportuno evitare di ingenerare dubbi e prevedere espressamente, come suggerito dagli esperti, che se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si sarebbe dovuto applicare la legge più favorevole. L’individuazione della legge vigente all’epoca della commessa violazione, dovrà poi tenere conto delle modifiche state apportate al testo originario del Dlgs 231/2007 dal Dlgs 8/2016 recante disposizioni in materia di depenalizzazione che ha trasformato in illeciti amministrativi le violazioni dell’obbligo di identificazione della clientela e degli obblighi di registrazione. Il che potrebbe ulteriormente complicare la corretta applicazione del regime transitorio. A contribuire però alla corretta interpretazione della norma viene in soccorso - come ormai da tempo anche per altri provvedimenti il cui articolato normativo richiede chiarimenti ovvero interpretazioni autentiche - la relazione illustrativa del governo che sulla norma specifica della successione delle leggi nel tempo richiama espressamente il principio del favor rei. Nuova ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale in materia di 41-bis O.P. giurisprudenzapenale.com, 1 giugno 2017 È il turno del divieto di cottura del cibo. Magistrato di sorveglianza di Spoleto - Ordinanza 9 maggio 2017, n. 217. Dott. Fabio Gianfilippi. Con ordinanza del 9 maggio 2017, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto (dott. Fabio Gianfilippi) ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale, avanzata dal reclamante in regime di detenzione speciale ex art. 41-bis O.P., in relazione al divieto impostogli dall’Amministrazione penitenziaria, in quanto inserito nella sezione a regime differenziato, di "acquistare cibi che richiedono cottura, nonché cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi con la conseguenza di subire, in caso di violazione, una sanzione disciplinare", e ciò, nonostante avesse lamentato una serie di patologie (consistenti in gastrite cronica, malattia da reflusso gastroesofageo e tendenza alla ipercolesterolemia), le cui cure richiedevano una maggiore cura nella somministrazione del cibo e della sua relativa preparazione (maggiore rispetto alle attuali condizioni limitative imposte dal regime speciale di detenzione ex art. 41-bis O.P.). La questione sollevata dal reclamante è ritenuta non manifestamente fondata, nella misura in cui la norma fonte di tali divieti è rappresentata direttamente dal co. 2-quater lett. f) dell’art. 41-bis O.P. che regola la prescrizione trattamentale in materia di cottura di cibi: risulta dirimente, pertanto, che la Corte costituzionale si pronunci sulla fondatezza della questione di legittimità costituzionale per consentire al giudice rimettente di valutare in sede di reclamo ex art. 35-bis O.P. la gravità e l’attualità del pregiudizio sofferto dal reclamante nell’esercizio dei suoi diritti fondamentali. I profili di illegittimità costituzionale della prescrizione trattamentale contenuta nel co. 2-quater lett. f) dell’art. 41-bis O.P., denunciati nell’ordinanza in commento, sono fondamentalmente tre (artt. 3, 27, 32 Cost.). 1) Con riguardo all’art. 3 Cost., sembra profilarsi una disparità di trattamento tra detenuti che non appare giustificata dalle esigente poste a base dell’imposizione del regime differenziato. A seguito, infatti, della novella del 2009, il divieto assoluto di cottura del cibo per il detenuto in regime di 41-bis O.P. si giustificava sull’esigenza di evitare il pericolo che il detenuto potesse strumentalizzare il cibo (tramite l’acquisto presso il carcere di quantità e qualità di cibi) per mostrare o imporre il proprio spessore o carisma criminale. Una tale giustificazione sembrerebbe inidonea a fondare effettivamente il divieto imposto, sia perché "la cottura dei predetti cibi sembra del tutto ininfluente a variarne il significato simbolico" (sulla base del fatto che un cibo crudo o cotto è rappresentativo per quantità e qualità dello stesso lusso), sia perché l’ordinamento penitenziario prevede altri strumenti volti ad evitare efficacemente situazioni come quelle descritte, ben a prescindere dalle imposizioni del regime differenziato (è, infatti, previsto che siano esclusi dagli acquisti a tutela della necessaria parità delle condizioni di vita assicurata nell’art. 3 O.P. i generi alimentari, per altro tanto da cuocersi quanto da consumarsi crudi, che siano generalmente considerati come particolarmente pregiati, esosi o esotici, anche tramite l’imposizione di limiti alle spese effettuabili mediante il peculio disponibile e che le quantità autorizzate siano comunque sempre proporzionate e non eccedano il fabbisogno del singolo detenuto). A ciò si aggiungano le pronunce della Corte costituzionale in materia di 41-bis O.P. (tra cui, sent. n. 351/1996, n. 143/2013 e 135/2013), per cui "non possono disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento". In difetto di tale congruità, infatti, tali restrizioni non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento. 2) Un secondo profilo di illegittimità viene individuato dal giudice rimettente nell’art. 27, co. 3 Cost., qualificando tale divieto assoluto come trattamento contrario al senso di umanità, anche con riguardo alle fonti sovranazionali come le Regole penitenziarie europee (v. punto 31.5) e la pacifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo (che, come noto, salva la legittimità del regime detentivo speciale ex art. 41-bis O.P., in via generale, ma richiede un puntuale scrutinio delle singole prescrizioni applicate al caso concreto, v. da ultimo, Paolello c. Italia). Il divieto assoluto di cottura precluderebbe inoltre qualsivoglia potenzialità applicativa in concreto del finalismo rieducativo, in un contesto in cui gli spazi di socialità sono ridotti e i detenuti sono tenuti distanti dai più stretti congiunti e dai luoghi di origine, "tanto che potersi esercitare nella cottura di cibi con i modi e gli ingredienti cui si era abituati in libertà finisce per costituite un prezioso residuo momento di vicinanza almeno emotiva, su realtà semplici e socialmente condivise, con il proprio nucleo familiare, nonché una modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le abitudini del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni che scorre altrimenti in solitudine autoreferenziale, e dunque desocializzante, nella propria stanza detentiva per ventidue ore al giorno ogni giorno". 3) Ulteriore profilo di illegittimità denunciato è il diritto alla salute individuale tutelato ai sensi dell’art. 32 Cost.: il divieto assoluto di cottura del cibo finisce per incidere negativamente sulla salute psico-fisica della persona detenuta, la quale si vede privata della possibilità di poter usufruire di un regime alimentare mirato ed una gestione oculata della dieta, imposta da esigenze medico-terapeutiche (nel caso di specie, il detenuto è affetto da precise patologie gastriche, come, p.e., gastrite cronica, tendenziale ipercolesterolemia), che, insieme alle cure farmacologiche, rappresentano il quadro del trattamento sanitario di cui il detenuto (anche se sottoposto a regime differenziato, o forse, tanto più, atteso il contesto generale di afflittività in cui è recluso) ha pieno diritto, secondo i principi costituzionali di cui all’art. 3, 32 Cost. Con l’ordinanza in commento, la Magistratura di Sorveglianza torna nuovamente a sottoporre all’attenzione della Corte costituzionale la disciplina del regime speciale di detenzione ex art. 41-bis O.P. sotto il profilo peculiare del divieto di cottura del cibo, esprimendo, in realtà, l’esigenza di portata più ampia, estensibile a tutta la disciplina di cui al co. 2-quater dell’art. 41-bis O.P., che la Corte costituzionale prenda espressa posizione sull’incongruità delle prescrizioni trattamentali più restrittive e a mero contenuto afflittivo e custodialistico (rispetto al cui contenuto predeterminato per legge sull’an e sul quomodo, la Magistratura di Sorveglianza non ha il potere di incidere), palesemente in contrasto con il principio di proporzione e ragionevolezza (rispetto alla ratio di difesa sociale del regime speciale del 41-bis O.P.) e contrarie al senso di umanità. Le vecchie condanne non escludono la particolare tenuità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 31 maggio 2017 n. 27323. I numerosi precedenti penali non escludono la non punibilità per particolare tenuità del fatto in favore del tossicodipendente che agevola lo spaccio, se i reati commessi in precedenza non sono della stessa indole. La Cassazione con la sentenza 27323 depositata ieri, annulla senza rinvio, la condanna inflitta dalla Corte d’Appello per concorso nell’offerta in vendita di sostanza stupefacente. L’imputato era andato nel luogo dove di solito c’era un pusher, per comprarsi una dose. Ma non disponendo della somma necessaria all’acquisto aveva fatto da "mediatore" portando un carabiniere in borghese dallo spacciatore, in cambio di due euro, che gli servivano ad integrare i dieci di cui già disponeva. La Corte territoriale aveva escluso la non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale, considerando l’imputato un delinquente abituale in virtù delle precedenti condanne per: rapina, porto d’armi, ricettazione, furto e truffa. Crimini "accomunati" dal fine di lucro, al pari dell’agevolazione allo spaccio e dunque, secondo la Corte di merito, di ostacolo al beneficio. La Cassazione non è d’accordo. Per valutare la non abitualità del comportamento - spiega la Suprema corte - il parametro è quello indicato dall’articolo 131-bis comma 3 del Codice penale, secondo il quale il comportamento è abituale, in caso di più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto considerato a sé è di particolare tenuità, oppure quando i reati hanno "ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate". Secondo la relazione illustrativa al Dlgs 28/2015, che ha introdotto la norma, però il comma descrive solo alcune ipotesi "in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di abitualità entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità". La Cassazione precisa i parametri per spiegare il criterio che assimila l’indole di due o più reati:?dalle circostanze oggettive, alle condizioni ambientali e della persona, dagli aspetti che rivelano un’inclinazione verso un certo tipo di crimine, alle modalità di esecuzione spia della propensione verso una specifica tecnica. In base a questi criteri - ammette la Corte - non si può negare che i precedenti dell’imputato condividano il fine di lucro con i reati in materia di stupefacenti. Tuttavia il codice penale (articolo 101) impone una verifica del caso concreto. E se la Corte d’Appello l’avesse fatta, avrebbe dovuto escludere il fine di lucro, vista l’esiguità della somma (2 euro) avuta in cambio del "favoreggiamento" nello spaccio. Il ragionamento porta la Cassazione ad escludere l’abitualità della condotta, in considerazione della diversa tipologia del reato e ad annullare direttamente la condanna. Sempre ieri, con la sentenza 27318, la quarta sezione è tornata sull’applicazione dell’articolo 131-bis. Questa volta per negare il beneficio, nel caso di uno spacciatore che aveva nascosto delle dosi di cocaina, sotto una pietra lungo una molto strada trafficata, e le "offriva" ai passanti. Inutile per la difesa invocare la non punibilità: la disponibilità di droga di diversa natura, anche in quantità rilevante, e l’offerta sulla pubblica via sono indicativi di una specifica gravità dell’offesa non compatibile con la particolare tenuità del fatto. Il rischio di infiltrazione mafiosa scatta anche per la peculiare struttura della ‘ndrangheta Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2017 Tar Calabria - Ordinanza 26 maggio 2017 n. 192. "Ai fini della legittimità dell’informativa antimafia appare condivisibile il giudizio "più che probabile" che le decisioni imprenditoriali di una società - caratterizzata dal rapporto parentale intercorrente tra l’amministratore unico della società (genero) con un soggetto (suocero), contiguo alla consorteria locale dei Muto - siamo influenzate da logiche criminali, anche alla luce della peculiare struttura dell’organizzazione criminale denominata "Ndrangheta", connotata da una acclarata capacità economico-imprenditoriale nei più svariati settori, ma tradizionalmente incentrata nel suo nucleo primario su rapporti familiari (nucleo "costituito dalla ‘ndrina, rappresentato solamente dai membri di una famiglia naturale": Cass. pen., sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359 cd. "Inchiesta Crimine")". È il principio espresso dal Tar Calabria con l’ordinanza cautelare 26 maggio 2017 n. 192. A seguito di un’informativa antimafia trasmessa dal prefetto di Cosenza una società ha perso il contratto di appalto con il comune di Orsomarso, è stata cancellata dall’albo dei gestori ambientali e gli è stato revocato l’affidamento temporaneo dei servizi di igiene ambientale di un altro comune. La società è ricorsa al Tar per contestare la presunzione di appartenenza alla mafia in base al fatto che l’amministratore unico è genero di una persona vicina ai Muto. Secondo il giudice amministrativo non sussiste il fumus bonis iuri per una serie di motivi: nella società ricorrente risulta dipendente anche la figlia del presunto mafioso; i versamenti di denaro ricevuti dalla società da un ‘altra impresa facente capo alla moglie e soprattutto il fatto che la Ndrangheta ha una struttura che si basa principalmente sulla famiglia. La richiesta quindi è stata respinta. Aurelio Quattroluni: zitto e muori. La morte annunciata di un ergastolano di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2017 Quando una persona in libertà è malata, spesso, anche se non sempre, vive in un ambiente che rispetta il suo stato, nel senso che riceve cure e assistenza e, di norma, può essere sicura di ricevere attenzione dalla propria famiglia. Sono guai più grandi quando chi si ammala è detenuto in carcere: invece di attenzione trova indifferenza, tanto che spesso il male si trasforma in vergogna. Il prigioniero malato spesso non gode della minima protezione e molte volte gli si fa persino una colpa della sua malattia. Alla prima occasione, al minimo lamento o tentativo di cercare conforto, la malattia gli viene rinfacciata come una colpa. Viene tacciato di non essere un vero ammalato, anzi è considerato sempre "sano" perché socialmente pericoloso. Penso che il detenuto malato sia come un cieco a cui si rimprovera di non vedere. Aurelio è un "uomo ombra" condannato all’ergastolo ostativo, detenuto nel carcere di Padova, con la diagnosi di un grave tumore alla prostata e con la necessità urgente di un intervento chirurgico. Eppure gli è stata respinta la richiesta di differimento della pena per motivi di salute, nelle forme della detenzione domiciliare o, in alternativa, di operarsi in carcere, ma vicino al luogo di residenza dei propri familiari, per essere assistito dalla moglie e dai figli. Sulle sue spalle pesano ora due gravi condanne, tutte e due mortali: ergastolo e cancro, ma, bizzarria della sorte, una condanna può eliminare l’altra… Dagli uomini è stato condannato alla "Pena di Morte Viva" - così si chiama l’ergastolo ostativo, quello senza possibilità di liberazione -, dal destino invece è stato condannato a morire di un brutto male, solo e lontano dalla sua terra e dai suoi familiari. Aurelio l’altro giorno mi ha scritto che non ha neanche più la forza per stare male, ma che ciò che lo terrorizza è la paura di doversi spegnere lentamente, fra sbarre e cemento. Penso che abbia ragione, perché quello che fa più paura a un uomo ombra malato è morire prigioniero, lontano dai propri familiari. Invece quello che terrorizza un uomo ombra sano è continuare a vivere senza neppure un calendario in cella per segnare i giorni che mancano al suo fine pena. Aurelio sta morendo, a poco a poco, in una prigione dei "buoni". Ecco le sue più recenti parole: "Sono dimagrito 25 chili. Ormai sono pelle e ossa. E con la testa non ci sono più. Ho solo voglia di impiccarmi. Ti prego fai qualcosa. Non farmi morire nel silenzio e nell’indifferenza". Mi dispiace Aurelio, ma io posso fare ben poco per aiutarti, se non scrivere queste quattro righe che quasi nessuno leggerà. Ti ricordi che una volta ti avevo detto che la morte, per farci dispetto, noi ergastolani ci porterà con sè per ultimi? Oggi sono costretto ad augurarti che sia veramente così e ti mando un sorriso pieno di vita. Toscana: oltre 3mila nelle carceri toscane, il numero dei detenuti torna a crescere luccaindiretta.it, 1 giugno 2017 Il numero dei detenuti ha ripreso a crescere. La commissione regionale sanità, presieduta da Stefano Scaramelli (Pd), ha infatti approvato a larga maggioranza la relazione annuale del garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone. Bilancio delle attività svolte, presentazione dei dati sulle carceri della regione, valutazione delle prospettive: la relazione presenta un quadro aggiornato dei problemi legati alla detenzione e alle condizioni degli istituti penitenziari. Corleone parte dal patto per la riforma del carcere in Toscana, siglato nel dicembre scorso con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone, al fine di migliorare la qualità delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri, e arriva al momento di "grande crisi dell’amministrazione penitenziaria che stiamo vivendo". Tratteggia, inoltre, anche i tanti aspetti critici emersi in questi mesi: "Purtroppo abbiamo dovuto subire la dura replica dei fatti. Il provveditore regionale Martone è stato chiamato a reggere anche il provveditorato della Campania, da sei mesi è più a Napoli che a Firenze. Poi c’è il problema della direzione di Sollicciano". "Il numero dei detenuti ha ripreso a salire in tutta Italia, dove si è quasi a 57mila detenuti, mentre in Toscana i posti regolamentari disponibili sono circa 2mila 800, rispetto alle presenze vicine alle 3mila 200 unità". In Toscana "è molto alto il numero di stranieri, oltre mille e cinquecento". Sulle condizioni degli istituti nella nostra regione: "Sollicciano, Pisa, San Gimignano, Livorno, soffrono di una condizione di invivibilità dettata dal sovraffollamento e dalle condizioni strutturali. Nel carcere di San Gimignano, ad esempio, l’acqua non è bevibile". Altre strutture, spiega ancora Corleone, sono ancora in attesa di ristrutturazione. La chiusura degli Opg, "finalmente realizzata", apre ora il problema delle Rems, "quella di Volterra, già attiva, e la seconda che è stata destinata a Empoli, ma non sarà disponibile prima dei sei mesi". Con l’aggravante "del carico in più che viene a pesare sulla Toscana, per via della mancanza di Rems nella regione Umbria". C’è poi il tema della salute mentale in rapporto alla detenzione, già affrontato di recente dalla stessa commissione con l’audizione della responsabile per la Asl Toscana centro del servizio di salute in carcere Gemma Brandi, con l’attenzione sulle sezioni speciali in fase di costituzione. "La gestione di queste sezioni - dice oggi Corleone - dovrebbe essere completamente sanitaria e non penitenziaria, se si vuole garantire un trattamento terapeutico adeguato. E non bastano quelle previste a Sollicciano e Livorno, ne servirebbe almeno una terza in Toscana". Per arrivare alle cure odontoiatriche, "che non possono essere riservate ai soli detenuti toscani, come prescrive una norma approvata nella nostra regione". Sui tossicodipendenti, che "sfiorano il 30 per cento" dei detenuti nella nostra regione: "C’è soprattutto il problema del pagamento delle rette per l’inserimento in comunità per detenuti non toscani e soprattutto per quelli stranieri". La detenzione femminile, ha proseguito Corleone "rappresenta una piccola percentuale, il 4 per cento della popolazione detenuta, ma non può essere trascurata e considerata una semplice appendice del carcere maschile". Un elemento positivo che riguarda in parte anche la nostra città: "Vi sono ingenti fondi disponibili per la ristrutturazione delle carceri toscane - dice Corleone - perché è stata annullata la decisione di costruire un nuovo istituto a Lucca". Quello che Corleone richiede con chiarezza è una "interlocuzione indispensabile" tra istituzione penitenziaria e Regione e la disponibilità a "realizzare i molti cambiamenti che sono indispensabili. Il tema delle articolazioni psichiatriche in carcere è delicatissimo", così come "l’articolazione delle Rems a seguito della chiusura degli Opg". I problemi, avverte il garante, "se esplodono possono farlo in maniera grave, specialmente in relazione alla psichiatria, sia nelle Rems, che altrove. Fino ad ora siamo stati miracolati, cerchiamo di provvedere". Il quadro "dettagliato e molto puntuale rispetto ai bisogni e alle singole casistiche", ha osservato il presidente Scaramelli, mette in rilievo le tante criticità. "C’è una problematica oggettiva molto complessa sulla salute mentale, tema al momento sottovalutato anche per le possibili ricadute sociali". Milano: reportage da San Vittore, un viaggio nel buio dei dannati di Luisa Cornegliani fanpage.it, 1 giugno 2017 Il buio. Quello che più colpisce quando si entra a San Vittore, il carcere simbolo di Milano, è il buio. L’assenza di luce è sconvolgente perché il penitenziario si trova in realtà in una grande piazza luminosa. Ma le finestre sono molto piccole, i corridoi angusti, le sbarre fanno il resto e così man mano che si cammina nel vecchio carcere è facile perdere l’orientamento e non sapere più dove ci si trova. Sono gli agenti di polizia penitenziaria a guidare il visitatore che perde il senso dell’orientamento: si è in centro a Milano, a pochi passi dal Duomo, all’interno della circonvallazione, ma si potrebbe essere ovunque. In un angolo qualunque dell’inferno, anche se in questo inferno ci sono degli angeli: i circa 500 agenti, quasi tutti del Sud, che vi lavorano ogni giorno con dedizione, guidati da un comandante donna, Manuela Federico. Cercano di assolvere, come spiegano, al loro doppio incarico: quello di poliziotti che devono tenere a bada centinaia di detenuti in attesa di giudizio, e di psicologi, che si devono rendere conto di ogni loro stato d’animo per evitare risse, liti e atti di autolesionismo. L’impresa non è facile dal momento che, stando alle statistiche, circa il 50 per cento dei detenuti che ogni giorno entrano a San Vittore ha problemi psicologici o psichiatrici. Un’altra caratteristica di San Vittore è il rumore delle chiavi che aprono e chiudono ogni porta, ogni cella. Gli agenti le portano attaccate alla cintura della divisa, sono una decina, sono d’oro e pesano tantissimo. Del resto San Vittore è stato costruito nel 1879 e così è rimasto nei secoli, ad accogliere chi ha commesso reati a Milano. Al centro c’è la rotonda, una sorta di piazza da cui partono i vari raggi. Era stato costruito così per permettere alle guardie da questa fantomatica piazza di sorvegliare tutti i detenuti e tutti i bracci. Oggi in quella rotonda Papa Francesco ha incontrato i detenuti e ha stretto loro le mani, ha fatto da sala per la visita del Pontefice. Una piccola scala porta al primo raggio. Sono rinchiusi i detenuti cosiddetti "giovani adulti". Hanno tutti più di 18 anni e meno di 24. È il braccio che - parola di polizia penitenziaria - è il più complicato perché i ragazzi che vi sono rinchiusi hanno spesso compiuto crimini violenti o legati alla droga, sono divisi in bande, soprattutto quelli sudamericani, e basta una sciocchezza a infuocare i loro animi rabbiosi. Dice l’agente: "Sono furiosi per il loro passato difficile, perché sono qui dentro in attesa di processo, perché la loro vita è molto complicata". Due ragazzi romeni, pieni di muscoli, accettano di mostrare la loro cella: tre letti, il bagno che fa anche da cucinino, i panni stesi alle grate, su un tavolo l’insalata ammuffita. Nelle celle, qui come negli altri raggi, non ci sono sedie, ma un piccolo sgabello dove si siedono a turno. Appena si entra si legge scritto su un muro "mia mamma è la mia vita e la mia vita è una "merda". Appese al muro occhieggiano super modelle, foto strappate dai giornali, e accanto ci sono motti delle bande sudamericane come la Mara Salvatrucha 13 (MS13). "Qui sono stati rinchiusi tanti ragazzi sudamericani appartenenti alle bandillas, ci sono stati anche quelli che nell’estate del 2015 hanno tagliato il braccio al controllore delle Ferrovie Nord", spiega l’ispettore del reparto quasi a giustificare le iscrizioni in spagnolo rimaste sui muri: invocazioni a Dio, alla mamma, alla ragazza e ai compagni e vane dichiarazioni di superiorità. Fuori girano tra le celle, che restano sempre aperte fino alla sera, un sacco di ragazzi tatuati, persino in viso e attorno agli occhi. Gli italiani sono pochi. Sono tanti invece, i magrebini che però, sono i più tranquilli. Continua un agente: "Sono tutti spacciatori, l’ultimo gradino della scala criminale e hanno messo in conto di finire in galera se beccati con qualche grammo di stupefacente e quindi ci restano senza fare troppi problemi. Una guardia sorride: "E poi in questo momenti c’è qualche africano. Per loro questo è il paradiso: mangiano due volte al giorno e hanno un tetto sulla testa. A volte il problema è obbligarli a indossare le scarpe. Preferiscono restare a piedi scalzi… tocca a noi spiegare loro che devono per forza mettersele e farsi la doccia ogni giorno prima che i compagni di cella si arrabbino". Nel terzo raggio sono rinchiusi i detenuti con problemi di droga, che rappresentano il 30 per cento della popolazione carceraria di San Vittore. I più sono già in cura all’Asl e dipendono dall’eroina. In questo momento tra i tanti carcerati qualunque di questo braccio ce n’è anche uno vip, Fabrizio Corona, che si aggira in infradito e calzoncini corti, tenuta da palestra. Qui fa ginnastica anche usando le grosse porte delle celle, tirandosi su e giù. Nel lungo corridoio camminano detenuti frastornati, dagli occhi persi chissà dove, imbottiti di psicofarmaci. Uno parla inglese e si dice disperato. Le guardie lo ascoltano pazienti mentre parla garbatamente, e poi spiegano che è rinchiuso da diversi mesi in attesa di giudizio e che soffre molto… perché prima, prima di San Vittore, era un ingegnere di una nota azienda informatica statunitense. La sua vacanza in Italia si è trasformata in un incubo: il 5 ottobre avrebbe accoltellato un 27enne del Gambia in una nota discoteca. Dopo l’aggressione di cui il giovane americano dice di non ricordare nulla, si rifugiò sul tetto di un edificio non lontano dal locale, dove i carabinieri lo arrestarono sporco di sangue e in stato di evidente alterazione. Da allora è a San Vittore con l’accusa di tentato omicidio, non sa una parola di italiano e e rivendica la sua improbabile innocenza mentre la sua vita è andata a rotoli come quella del suo vicino di cella, Corona. Dicono che l’ex re dei pararazzi aspetti con ansia le visite della fidanzata, Silvia Provvedi. Avvengono a piano terra, in minuscoli stanzini, su sedie di plastica attorno a un tavolino anch’esso di plastica, sotto l’occhio vigile di un agente che per via dei vetri non può sentire, ma vede e sorveglia tutto. Spesso - raccontano gli agenti - Silvia Provvedi viene accompagnata dalla propria madre. Porta il suo pacco che pesa al massimo 5 chili, per un totale di 20 al mese. Sul muro della cella dov’è rinchiuso Corona ci sono tante foto tratte dai settimanali. Il rumore della televisione fa da sottofondo alle chiacchiere dei detenuti che volendo, comunque, invece, che impigrirsi in cella, possono seguire i corsi scolastici tenuti dai volontari. In un’aula poco distante c’è chi sta insegnando diritto agli alunni delle medie. "Non è propriamente una materia da scuola media, ma è certamente utile a chi ha a che fare con avvocati e giudici", scherza l’insegnante. Il sesto raggio, il girone dei protetti - Il braccio dei protetti a chi viene da fuori appare davvero come un girone dantesco. Per tanti motivi: perché le celle sono chiuse e rimangono tali, 24 ore su 24, per la sicurezza di chi c’è dentro - non si mai cosa potrebbero fargli gli altri carcerati -, perché chi vi è rinchiuso ha commesso reati orrendi contro donne e bambini, perché qui ci sono ex appartenenti alle forze dell’ordine e sacerdoti, criminali così abbietti che gli altri detenuti, come si dice in gergo carcerario, non vogliono e "busserebbero". Che significa? Vuol dire che busserebbero alla porta della loro cella e direbbero all’agente di polizia penitenziaria tenuto a sorvegliarli, che per il bene e la sicurezza del "nuovo" detenuto, è meglio che costui se ne vada perché nessuno lo vuole in cella: troppo osceno il crimine che ha commesso. Regna un silenzio davvero irreale. Nella cella 228 vengono messi i rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno commesso reati: per ovvie ragioni non possono essere mischiati con altri. Sulle celle, accanto al numero, ci sono dei bigliettini di carta su cui ci sono scritti tanti nomi stranieri e qualcuno italiano. Attraverso le sbarre si vedono barbe lunghe e occhi spiritati perché non è facile rimanere chiusi in pochi metri quadrati, anche solo per via del caldo che in questi giorni si fa sempre più insopportabile. Occhieggiano anche qui volti di modelle rubati alle pagine dei rotocalchi e immagini sacre, perché anche gli ultimi tra i carcerati hanno diritto di pregare per avere un poco di conforto o forse la speranza di un’ assoluzione… Dicono che il Papa durante la sua visita abbia voluto andare in questo braccio e abbia pianto, avvertendo su di sé l’orrore e il dolore che davvero si respirano in questo lungo corridoio buio, guardando attraverso le sbarre di queste celle soffocanti. Il settore delle donne L’ansia si stempera quando finalmente si arriva a visitare la parte di San Vittore dove ci sono 86 detenute, tra loro molte con pene definitive. Proprio perché destinate a rimanere a lungo tra le mura del vecchio carcere milanese a loro sono concessi privilegi che i detenuti maschi non hanno. Sono in tre per cella. Hanno le tende alle finestre per avere un poco di buio la notte. Hanno mensole su cui appoggiare libri e armadi di fortuna per mettere i loro abiti. Ovunque ci sono foto di famigliari e bambini, lasciati fuori. Dicono gli agenti di polizia penitenziaria: "Molte hanno commesso i crimini insieme ai loro uomini e quindi fuori sono rimasti i figli, affidati ai nonni. Li incontrano in una saletta a parte colorata e allegra o d’estate in giardino… così da rendere più serena la visita. In mezzo al corridoio c’è una palestra, con una vecchia cyclette e un divanetto. C’è seduta sopra Martina Levato, la ragazza che ha sfigurato insieme al suo amante quattro giovani innocenti e che per questo è stata condannata a 20 anni. Sorride e saluta chi passa, sembra avere l’aria rilassata. Alle porte delle celle aperte sono appesi sacchetti di stoffa con dentro il pane e altri generi di conforto. I fuochi da campeggio sono riposti in ordine su un mobile, poco prima del water. Tutto è in ordine anche le immagini dei santini, a fianco dei rossetti e dei trucchi. Tra i libri lasciati in ordine sui letti spicca sempre un Vangelo. In fondo al corridoio c’è la sartoria "Gatti Galeotti". Una detenuta sta tessendo una splendida sciarpa e nel farlo insegna ad altre due come si fa. Si capisce che è una veterana ed è orgogliosa del suo lavoro che ha imparato una volta dentro. Ci sono tre gabbie per uccellini ma sono vuote: i canarini sono morti tutti. Dice la donna guardando in alto: "Manca davvero il canto degli uccellini per rendere questo luogo un po’ più allegro". In realtà, per molte di loro la detenzione a San Vittore è preziosa, i genitori residenti in città farebbero fatica a venire a trovarle altrove: gli altri penitenziari sono fuori Milano. I nuovi ingressi - Sono passate tre ore dal nostro ingresso a San Vittore e la stanza dove vengono messi i nuovi arrivati è già piena. All’inizio erano in due, ora sono una ventina. C’è chi con sé non ha nulla e chi è riuscito, prima di finire "dentro", a portarsi qualcosa da casa e tiene stretta in mano una sdrucita borsa del supermercato da cui escono dei vestiti. Aspettano pazienti che gli sia assegnata una cella e una branda. L’ingresso in carcere prevede lunghi passaggi. Si fa una visita preliminare, utile perché appunto oltre la metà dei detenuti manifesta disturbi psichici e psichiatrici e il 30% ha problemi di droga, poi si parla con un volontario che svolge in un certo senso la funzione del confidente con cui sfogarsi, quindi si passa alla visita con lo psicologo e lo psichiatra e, infine, si decide il braccio a cui assegnare il nuovo arrivato. La cella, invece, viene scelta dall’ispettore di reparto che sa bene per esperienza e professionalità chi mettere in cella con chi per evitare risse e litigi e problemi. In casi speciali il comandante riceve il detenuto per capire cosa desideri e come si senta, soprattutto se è anziano o è malato o è un insospettabile che prima aveva una vita regolare, da colletto bianco, e d’improvviso si ritrova a San Vittore ed è di conseguenza profondamente scioccato e sofferente. L’ora d’aria e i rumori del traffico - I detenuti possono uscire all’aria accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria. Quando si esce, gli occhi, dalla penombra, faticano ad abituarsi alla luce accecante: allora si ricorda dove si è, in centro a Milano. Il cortile è piccolo, ci sono due canestri e sulle pareti ci sono alcuni murales fatti dai detenuti. Il caldo è soffocante e si può credere che non tutti d’estate vogliano uscire. Si sente il rumore del traffico. Dice un agente, che sorveglia il braccio dei giovani adulti: "Non bisogna sottovalutare quanto facciano bene ai detenuti i rumori che vengono dalla strada, clacson, caos, traffico, auto e voci di persone, suoni che le pareti spesse del carcere non permettono di sentire. È il bello di San Vittore questo: le altre carceri milanesi sono in aperta campagna. A San Vittore sono tutti in attesa di giudizio, il fuori non è un ricordo lontano, ma molto molto fresco. Alcuni escono solo per respirare un po’ di vita… quella che avevano e che per un po’ non avranno più". Dna in carcere - Prima di uscire, ai detenuti condannati per una serie di reati ben precisi è stato disposto il prelievo del Dna. Lo si fa da alcuni mesi, dal giugno 2016, dopo l’entrata in vigore del Regolamento attuativo della legge istitutiva della Banca dati per facilitare l’identificazione degli autori dei delitti e delle persone scomparse. La raccolta tiene conto - secondo quanto detta la legge - "del rispetto della dignità, del decoro e della riservatezza di chi viene sottoposto" e quindi sulle buste dei prelievi non ci sono nomi, ma solo targhette che saranno lette a Roma da un apposito computer. Dice un agente, mostrando un kit per il prelievo: "Facciamo noi i prelievi. Abbiamo seguito un corso e siamo diventati bravi". Peccato, però, che tutti i Dna prelevati finora non siano stati ancora richiesti da Roma, dove si trova il cervellone centrale che dovrebbe esaminarli e archiviarli. Burn out - Se entrare in carcere per tre ore è un’esperienza sconvolgente, si può credere che chi ci lavora ogni giorno sia a rischio di "burn-out", ossia di scoppiare, di non reggere la tensione del proprio lavoro, sempre a contatto con criminali, in un ambiente comunque vecchio e poco luminoso. Il comandante degli agenti Manuela Federico ammette che questo rischio c’è, ma che gli agenti sono sempre più bravi e preparati. Racconta uno di loro, addetto al settore più difficile, quello dei protetti: "Più che i corsi serve l’esperienza. Sono quindici anni che faccio questo lavoro e farlo a San Vittore è meglio: sei in città, non in campagna, dove fatichi ad arrivare e impieghi ore a tornare nel traffico. Odiamo quando sui giornali veniamo chiamati guardie o secondini, perché sminuisce il nostro lavoro. Sorvegliare i detenuti è la parte più facile del nostro lavoro, la più difficile è conoscerli, cogliere i loro stati d’animo, far loro da psicologi, assegnarli alle celle giuste, dove non sorgano problemi con gli altri detenuti, dove riescano a condividere la loro traumatica esperienza. Se loro sono tranquilli, il braccio è tranquillo e il nostro lavoro è migliore. Questo mestiere non ce lo insegna nessuno. Sarebbe bello che ci fosse riconosciuto. E poi bisogna staccare: prendere il buono che questo lavoro ti dà e quando si esce dimenticare tutto. La famiglia ci aiuta!". A volte, però, le buone intenzioni non bastano. Ha dichiarato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: "Negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 50 poliziotti e dal 2000 ad oggi più di 110. I poliziotti continuano a suicidarsi, l’Amministrazione Penitenziaria non mette in campo alcuna concreta iniziativa per contrastare il disagio lavorativo e dare un sostegno a chi è in prima linea nelle carceri". Roma: il recluso di 230 chili trasferito da Rebibbia a Regina Coeli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2017 Dopo la relazione del Garante il Dap è intervenuto anche sul degrado del reparto G9. "Si prega il direttore della casa circondariale di Roma Regina Colei di voler far conoscere se l’autorità giudiziaria competente sia stata portata a conoscenza della situazione che sembrerebbe incompatibile con lo stato detentivo". Così Santi Consolo, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, scrive alla direzione del carcere, dopo che il Garante nazionale delle persone detenute Mauro Palma, a seguito della visita Rebibbia, ha segnalato la situazione del detenuto che pesa oltre 230 chili, affetto da gravi patologie che ne hanno determinato una invalidità al 100%. Come già anticipato da Il Dubbio, il detenuto stesso, nel colloquio con il Garante nazionale, si è definito una persona "condannata a morte" e che quotidianamente vive l’insofferenza a vedersi sempre più enorme a causa della sua "inattività forzata" e, spesso in preda a crisi di panico per il timore di non poter ricevere le dovute cure salvavita in caso di un’emergenza. Nel rapporto, Mauro Palma ritiene che "tale criticità non sia connessa alla particolare situazione detentiva nell’Istituto "Raffaele Cinotti", ma all’impossibilità in sé di detenere in carcere una persona con tali caratteristiche fisiche e ponderali, sia per la difficoltà di movimento che per la necessità di accadimento, oltre che per possibili emergenze che tale situazione può determinare. Pertanto, ritiene che la situazione in non muti anche nel caso di trasferimento ad altro istituto e che conseguentemente debba essere opportunamente valutata la possibilità di sospensione dell’esecuzione penale o quantomeno mutata la misura privativa della libertà attualmente applicata". Il capo del Dap, nella sua risposta alla relazione del Garante, ha spiegato che il detenuto, in data 27 marzo 2017, è stato poi trasferito presso Regina Coeli per motivi di sicurezza in seguito dell’aggressione perpetrata ai danni di un assistente capo di polizia penitenziaria. Alla luce delle particolari condizioni di salute in cui il detenuto riversa, Santi Consolo ha ritenuto di segnalare il caso alla direzione dell’istituto ricevente. Il capo del Dap ha anche risposto in merito agli altri problemi riscontrati dal Garante nazione durante la visita nel carcere di Rebibbia. In particolare sulla situazione degradante del reparto G9 che, secondo la relazione, presentava criticità sia strutturali che di carattere igienico- sanitarie. In particolare il Garante ha riscontrato pesanti infiltrazioni di umidità fin dall’ingresso; nell’atrio erano evidenti dei buchi contornati da macchie umide; il soffitto e le pareti del corridoio erano sporchi e umidi, con l’intonaco marcito a causa delle infiltrazioni, così come le mura perimetrali e i tramezzi interni dell’intera area del reparto trovati in condizioni fatiscenti; pavimento deteriorato con buche ricoperte da fogli di giornali; stanza della socialità carica di muffa sulle pareti e celle rese inagibili. Il capo del dap ha assicurato che la situazione del reparto è all’attenzione dell’amministrazione che ha incaricato il proprio personale specializzato a redigere una relazione tecnico/ economica in ordine al superamento delle criticità presenti. Il Dap spiega che gli interventi previsti possono essere programmati con stralci - con conseguente parziale sfollamento di gruppi di detenuti- in considerazione dal fatto che l’edificio in questione è costituito da uno snodo centrale e tre bracci detentivi distinti, che possono essere oggetto di intervento in momenti diversi senza interferenza reciproca. In questo modo - assicura il Dap - i lavori previsti consentiranno di adeguare le celle, eliminare le infiltrazioni d’acqua, ritinteggiare le sale di socialità e altre stanze. Ci saranno anche interventi per far riaprire le celle inagibili visto anche l’affollamento che persiste nell’intero istituto. A contribuire ai lavori ci sarà anche la manodopera detenuta. Palermo: all’Ucciardone detenuto legato alla branda per 24 ore con la camicia di forza palermotoday.it, 1 giugno 2017 Il caso di Amadou Abiyara, ivoriano, salta fuori nel rapporto appena presentato dall’associazione Antigone: era stato condannato a 8 mesi per aver aggredito gli agenti penitenziari. Ma le toghe l’hanno assolto: "Vittima di torture in cella". "Mi sbattono contro il cancello in ferro (..) trascinandomi come un sacco facendomi sbattere contro spigoli e sporgenze. Temo per la mia incolumità", non c’è solo il caso di Aldo Cucè, il giovane detenuto che racconta le torture subite al Pagliarelli in una lettera indirizzata al padre, nel tredicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione ad opera dell’associazione Antigone. Perché c’è anche il caso di Amadou Abiyara, che salta fuori nel rapporto presentato in questi giorni dall’associazione che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Amadou è un detenuto "condannato a 8 mesi per aver aggredito gli agenti penitenziari, dopo che questi lo avevano legato al letto di contenzione per 24 ore - si legge. Il processo avviato contro il detenuto evolve "al contrario", in quanto le toghe palermitane oltre ad assolvere Abiyara, lo definiscono vittima di torture, descrivendo il comportamento dei poliziotti penitenziari "inumano, una forma di tortura e nella violazione dei diritti costituzioni". Il detenuto, originario della Costa d’Avorio, è stato legato alla branda della cella, all’Ucciardone, per 24 ore con la camicia di forza. Per questo i giudici di appello hanno definito il comportamento dei poliziotti penitenziari arbitrario e inumano, affermando che si è tradotto "in una forma di tortura e nella violazione dei diritti costituzioni". Il processo non era contro gli agenti ma contro di lui. Amadou è finito in cella nel febbraio del 2008. È stato lasciato un’intera giornata senza poter mangiare o bere né fare i bisogni fisiologici. E quando è stato liberato, Amadou aveva reagito violentemente. È stato un difensore d’ufficio, l’avvocato, Venera Micciché, a chiedere giustizia. Fino a quando è stato assolto. La Corte d’appello ha ricordato che immobilizzare i detenuti che appaiono pericolosi è consentito solo se a stabilirlo è uno psichiatra. Nel caso specifico la prescrizione non c’era mai stata: "Ed allora - si legge in sentenza - è da chiedersi se rientri nelle funzioni del personale del carcere assicurare un soggetto straniero, che non parla italiano, con fasce di contenzione dentro una cella, senza più curarsi di lui e delle sue necessità per circa 24 ore". La reazione può ritenersi così giustificata "ignorando l’imputato le particolari consuetudini utilizzate talvolta, come nel caso di specie, nelle carceri italiane, e ritenere che nei suoi confronti sia stata esercitata una forma di violenza fisica non consentita". Napoli: dalla Regione 430 mini-frigo per i detenuti del carcere di Poggioreale regione.campania.it, 1 giugno 2017 Dopo circa un mese il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca è tornato in visita alla Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli. L’occasione, la consegna di 430 piccoli frigoriferi destinati alle celle dei detenuti, acquistati dall’Assessorato regionale alle Politiche Sociali, su richiesta dell’istituto di pena. Questa mattina la consegna alla popolazione carceraria dei primi elettrodomestici; ne mancano ancora un centinaio ma il governatore De Luca ne ha assicurato a breve l’acquisto. "Una bella iniziativa, un gesto di solidarietà che incoraggia tanti ragazzi che si trovano qui per la prima volta e che sono già predisposti a concludere questa esperienza detentiva e a tornare alla vita sociale - ha dichiarato il governatore De Luca. Sono iniziative non eclatanti ma che contribuiscono a far crescere nei detenuti la fiducia verso le istituzioni". Milano: "noi, carcerate con i nostri bambini" di Mauro Pianta La Stampa, 1 giugno 2017 Viaggio nell’Icam di Milano l’unica struttura italiana che accoglie detenute madri in un edificio lontano dal carcere. Tra agenti in borghese, educatrici e volontarie. Non ci sono celle, solo stanze colorate. Gli agenti non indossano divise, vestono in borghese. Passeggiando nel piccolo cortile interno, poi, vi potrà capitare di inciampare in un triciclo o in qualche altro giocattolo da giardino. Ma basta alzare lo sguardo per imbattersi nelle sbarre alle finestre, nella porte blindate e nelle telecamere che sorvegliano l’alto muro di recinzione. Perché questo elegante stabile del primo Novecento in via Melloni 53, in un quartiere della Milano-bene, è sì una struttura detentiva più leggera istituita per le detenute madri, ma resta pur sempre un carcere. Un Icam - la sigla sta appunto per Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri - unico in Italia: mentre gli altri (a Venezia e Torino) si trovano all’interno dei rispettivi penitenziari, la struttura milanese lanciata in via sperimentale nel 2006 è posta ben lontano da San Vittore, da cui comunque dipende. L’Icam di via Melloni è nato proprio per le madri incarcerate che, non avendo una dimora fissa e non potendo dunque beneficiare di misure alternative come gli arresti domiciliari, possono vivere qui senza essere separate dai figli. Per legge si tratta di minori in età compresa fra zero e sei anni. Se il bambino è più grande e la mamma deve ancora scontare la pena, il minore verrà assegnato a una famiglia affidataria (ma con l’obbligo di mantenere rapporti con la genitrice detenuta). Oggi l’Icam milanese ospita otto mamme, tutte straniere, con i loro dieci bambini in età 0-5 anni. A portare i piccoli al nido, alla scuola materna, alle Asl per le vaccinazioni, o magari al parco o alle feste a casa dei compagnetti, ci pensano le educatrici e i volontari del Telefono Azzurro. "Perché il minore - spiega la coordinatrice dell’Icam, Marianna Grimaldi - non è detenuto e dunque è giusto che le istituzioni si facciano carico della sua tutela da tutti i punti di vista". Che, poi, inesorabilmente un po’ prigionieri lo sono anche i bambini. "Nel week end - prosegue Grimaldi -potrebbero uscire con i padri o con i nonni: purtroppo, nella maggior parte dei casi, restano qui perché le ragazze sono sole, abbandonate dalle proprie famiglie". Eppure le ragazze sanno, in fondo, di essere privilegiate e di sperimentare una situazione migliore di chi è costretto a vivere nei "nidi" dei reparti carcerari femminili. Lo hanno anche scritto al presidente Mattarella che ha visitato la struttura nell’aprile scorso: "Speriamo che altre mamme detenute possano avere questa opportunità. Viviamo il tempo che ci manca per chiudere il nostro debito con la società e ci impegniamo perché il futuro riservi ai nostri figli maggiori speranze". Pure papa Francesco le ha incontrate durante la sua recente visita milanese. Una di loro gli ha detto: "Siamo peccatori come tutti, ma proviamo sentimenti come ogni essere umano". Vesna, 30 anni e un bimbo di tre, non è cattolica ma è rimasta molto colpita dall’incontro con il Pontefice: "Nella mia vita non mi sarei mai aspettata di incontrare di persona il papa e soprattutto di farlo in un carcere. Ho un altro bambino di otto anni. A gennaio esco, cercherò di stare in famiglia. Qui ho imparato a cucinare, mi piace tanto preparare i dolci e una volta fuori vorrei provare a fare la pasticciera". Già, perché le ragazze oltre a lavorare per la gestione della struttura (pulizia spazi comuni, cucina, lavaggio e stiraggio di tovaglie, tende, lenzuola) e ad occuparsi dei bambini, partecipano a laboratori (sartoria, corsi di italiano, teatro) e ad una scuola di cucina con un vero chef. Le difficoltà maggiori? Osserva ancora la coordinatrice Grimaldi: "La fatica più grande è di tipo educativo: far capire loro che se si trovano qui non è perché noi, inteso come sistema di detenzione, siamo cattivi ma perché attraverso un certo comportamento hanno messo a repentaglio la propria vita e quella dei figli. La sfida più impegnativa e anche più stimolante è proprio quella di aiutarle a crescere nella consapevolezza e nella responsabilità di essere donne e madri". Di positivo c’è anche l’accoglienza da parte del territorio. "Non ci siamo mai nascosti - dice Grimaldi - eppure il quartiere ci ha sempre trattato bene: la parrocchia, le scuole, i negozianti. Tutti vogliono bene a queste ragazze e ai loro bambini". Ecco, i bambini. Che ne sarà di loro? "Vivono una condizione difficile, ma meglio qui che nel "nido" all’interno di un carcere. Non dimentichiamo che sono obbligati a frequentare le scuole: e questa è già una garanzia per il loro futuro". I più grandicelli sanno perché sono qui con le loro mamme? "Abbiamo scelto di non mentire - risponde una delle educatrici, Stephanie Depretto - anche perché prima o poi arriva inevitabile la domanda alla madre. "Ma perché non mi vieni a prendere tu a scuola?". Trascorriamo molto tempo insieme a loro e alle madri. Uno di momenti più belli è quando li portiamo fuori per fare un giro al parco, al museo o semplicemente a prendere un gelato. Per questi bambini è tutto nuovo. Guardano con occhi sgranati il cielo, i mezzi pubblici, le auto, i cani, i piccioni, i palazzi. Praticamente urlano tutto il tempo la loro meraviglia". Maria Grazia Ghisetti è una delle tante volontarie del Telefono Azzurro coinvolte nell’esperienza dell’Icam. "Cerchiamo semplicemente di fare compagnia alle mamme, di giocare con i bambini, e di trasmettere un po’ di serena normalità. In realtà sono loro, quando ci vedono e ci corrono incontro, a regalarci una grande gioia". Reggio Calabria: Libera: "Giovani dentro, giovani fuori" si estenda su tutta la regione di Serena Guzzone strettoweb.com, 1 giugno 2017 Grazie al progetto gli studenti di Reggio Calabria sono entrati in contatto con la realtà carceraria, solitamente riportata in maniera distorta da tv e film. Si è concluso il progetto "Giovani dentro, giovani fuori" stamattina, presso l’Istituto Tecnico Industriale "Panella - Vallauri". L’aula magna della scuola, gremita di studenti delle quinte classi, ha ospitato l’evento conclusivo di un percorso che, in questi mesi, ha consentito a circa quaranta studenti di confrontarsi con un gruppo di detenuti della Casa Circondariale sui temi della legalità e del recupero e reintegro nella società di chi si è visto comminare una pena carceraria. Per gli studenti è stata un’occasione per conoscere direttamente la dimensione carceraria, solitamente riportata in maniera distorta da film e tv, e per comprendere profondamente il dramma e le lacerazioni di chi, avendo violato la legge, sconta la propria pena recluso. L’avvocato Patrizia Surace, direttore scientifico del progetto, ha presentato i risultati della ricerca condotta con la somministrazione a oltre trenta studenti di due questionari, uno all’inizio del progetto e uno al termine. L’indagine ha consentito di indagare le problematiche sociali maggiormente avvertite dagli intervistati e la percezione che essi hanno del fenomeno mafioso così come della dimensione carceraria e detentiva. Alla relazione dell’avvocato Surace, la cui ricerca verrà pubblicata anche rivista scientifica Ratio Sociologica, dell’Università degli Studi Chieti-Pescara, è seguita la proiezione del documentario realizzato da Sergio Conti, dell’agenzia di comunicazione Iamu.it, che ha raccolto le testimonianze degli studenti coinvolti. "Non soltanto per paura di perdere la libertà, ma per scelta etica e per rispetto di sé stessi e degli altri" è stata l’esortazione agli studenti della dirigente scolastica dell’Istituto "Panella - Vallauri", Anna Nucera, a valutare le scelte allorquando queste possono rivelarsi pericolose e generare in atti illeciti. "Se il maggior problema avvertito dagli studenti è la disoccupazione e, in second’ordine, il fenomeno mafioso, sappiano che i due aspetti sono legati da un rapporto di causa ed effetto; se la Calabria non offre opportunità lavorative sufficienti è proprio per colpa della ‘ndrangheta che depaupera il territorio", sono state le parole di Rosario Tortorella, Provveditore vicario dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria. Parole sottolineate anche da Don Ennio Stamile, referente di Libera, che ha ribadito come il progetto "Giovani dentro, giovani fuori", così sapientemente condotto, deve trasformarsi in progetto pilota da replicare su tutto il territorio regionale. Rassicurazione che è venuta anche dall’Assessore regionale alla Pubblica Istruzione, Federica Roccisano, che ha sottolineato come simili occasioni siano necessarie per costruire comunità educanti e per contrastare e prevenire fenomeni delittuosi e criminali, come ad esempio la triste vicenda che ha colpito Don Giorgio Costantino e che ha visto tristemente coinvolti proprio un gruppo di giovanissimi. L’evento è stato coordinato da Domenico Nasone, insegnante di religione del Panella-Vallauri, sulle note della canzone di Jovanotti, Sono un ragazzo fortunato; "siete tutti ragazzi fortunati - ha concluso Mario Nasone, presidente del Centro Comunitario AGAPE, - perché avete l’opportunità, grazie anche a questa scuola, di costruirvi un futuro all’altezza dei vostri sogni". Milano: il catering "senza sbarre" nato nel carcere di Bollate di Lina Sotis Corriere della Sera, 1 giugno 2017 Ecco una bella email che vale la pena di leggere insieme. "Cara Lina, voglio condividere con te una notizia: la Cooperativa "Abc La sapienza in tavola". Catering con i detenuti del Carcere di Bollate, dopo aver fatto più di settecento eventi, oggi allestisce una festa con ricco buffet per l’unione a Palazzo Reale di due Signore, Gabriella e Tiziana. Significa gioia per le nostre ospiti che riescono a realizzare i loro sogni e desideri e gioia e onore per noi perché, dopo essere stati il primo catering in un carcere, il primo ristorante In Galera, abbiamo l’onore di contribuire al dono della felicità. Silvia Polleri". Chi è Silvia Polleri? È la manager di cui ha scritto perfino il New York Times, che ha mandato a Milano un inviato, nel carcere di Bollate, per vedere il ristorante da lei aperto nel luogo di reclusione. L’articolista ha concluso che, almeno una volta, vale proprio la pena di entrare in prigione per vedere quel sobrio, elegante locale che ha creato e gestisce Silvia. "La cosa più complicata - dice la signora - sembrava trovare il nome da dargli. Abbiamo chiesto a copy, creativi, pubblicitari. Poi ho avuto una folgorazione, le cose giuste sono quelle più ovvie. Così il ristorante che sta dentro il carcere lo abbiamo chiamato InGalera". A mezzogiorno, In Galera, si serve un pranzo veloce, piatto unico a 12 euro, tovagliette di carta che però sono oggetti di culto perché ognuna è la foto di una diversa prigione. Alcatraz, quello in pietra di Dorchester, lo Spielberg di Brno. E i nostri: L’Asinara, Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore. Per mangiare la sera bisogna prenotarsi con settimane di anticipo e si ordina à la carte. Sempre Silvia Polleri, entusiasta della sua avventura gastronomica, racconta: "Ogni giorno cento persone entrano in carcere per venire a mangiare, ed è la prima volta che invitiamo il mondo a venire dentro. Di solito il carcere chiede qualcosa alla società. Noi, alla società, vogliamo dare qualcosa. E poi quest’idea di mostrare che i detenuti non hanno tre teste e che sono in grado di produrre il meglio è educativa per tutti. Per loro, che imparano la disciplina e la cultura del buono e del bello, e per noi". È una bellissima storia di reinserimento che, come potete vedere dall’ultima email che Silvia mi ha scritto, non si ferma "dentro", ma continua anche "fuori" a spandere modernità sociale. Torino: "LiberAzioni", l’8 e 9 settembre il Festival di cinema e scrittura per detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2017 Si intitola "LiberAzioni, festival delle arti dentro e fuori dal carcere", organizzato dall’associazione Museo Nazionale del Cinema e presentato ieri a Torino. Il festival si svolgerà a Torino l’ 8 e il 9 settembre e unisce detenuti e liberi cittadini. Tre i concorsi, uno per ciascuna disciplina, che ruoteranno intorno ai temi della reclusione, della pena, della libertà e della relazione dentro e fuori dal carcere. Sono previsti anche alcuni laboratori propedeutici gratuiti. L’obiettivo è il coinvolgimento attivo dei giovani per attivare l’osmosi, a livello di dialogo e azioni, tra l’interno e l’esterno del carcere. Le opere vincitrici riceveranno premi in denaro per un ammontare complessivo di 7mila e 500 euro. LiberaAzioni, coordinato dall’Associazione museo nazionale del cinema, ha vinto il bando nazionale Sillumina, sezione periferie, promosso da Siae e ministero Beni culturali. Il festival coinvolgerà a Torino il carcere Lorusso e Cutugno, ma anche il carcere minorile Ferrante Aporti e il Cie. La scelta di far ricadere su un territorio specifico queste iniziative hanno spiegato gli organizzatori - è dettata dall’esigenza di inserirsi all’interno di un tessuto sociale complesso, come è quello delle Vallette, quartiere nel quale è necessario stimolare e valorizzare le competenze progettuali dei giovani proprio per la presenza controversa della Casa circondariale Lorusso Cutugno. Per la Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Torino, Monica Gallo: "Iniziative come queste sono fondamentali. I detenuti hanno un gran bisogno di cultura. Raccontare le loro storia attraverso cinema, fotografia e narrazione è molto importante. Durante i mesi estivi in carcere si sospendono le attività quindi il progetto copre il periodo di tempo ideale". Da maggio a settembre, infatti, si terranno i laboratori condivisi e saranno aperte le call, per approdare al festival nei primi giorni di settembre. Roma: progetto "Fort Apache", quando i detenuti diventano attori da Andrea Ardone paeseroma.it, 1 giugno 2017 La compagnia nata fra le mura di Rebibbia e il docu-film incentrato sul diritto all’affettività dei detenuti. "Quando si parla di carcere, si pensa sempre a quello che deve passare il detenuto, alla sua vita durante la pena da scontare. Spesso ci si dimentica di chi resta fuori dal carcere, della moglie, dei figli. Della famiglia. Anche loro sono costretti a passare attraverso una sofferenza, a scontare una pena". Queste parole sono di Lallo, ex detenuto fra i protagonisti del docu-film Ombre della sera, diretto da Valentina Esposito. Proiettato al Nuovo Cinema Palazzo di San Lorenzo, nell’ambito della manifestazione L’evasione possibile, una tre giorni dedicata al carcere, alla vita, ai diritti, questo documentario si concentra sugli affetti che i detenuti sono costretti a mettere ai margini della propria vita una volta varcate le soglie del carcere. Il concetto di struttura detentiva, in Italia, spesso è spogliato da quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria, ovverosia di luogo adibito al recupero di persone da poter poi reinserire nella società. Questa idea spesso è sostituita da quella di "punizione", pura e semplice. Chi ha sbagliato deve pagare, deve essere internato e poi, allo scadere della pena, succeda quel che succeda. Con l’obiettivo di sovvertire questa concezione è nato nel 2014 il progetto teatrale Fort Apache, una compagnia costituita da detenuti ed ex detenuti, che si propone di creare un’alternativa alla vita interna del penitenziario, anche nell’ottica di un inserimento in attività culturali, teatrali o cinematografiche, successivamente alla scarcerazione, facendo da tramite in quel passaggio, spesso traumatico, fra la reclusione e il reinserimento in società. Proprio entro i confini di questo progetto è nato Ombre della sera, a cui hanno preso parte gli attori che si sono avvicinati al mondo teatrale durante i loro periodi di detenzione. Nella struttura narrativa del film, il ruolo dell’attore è indissolubilmente legato a quello del personaggio interpretato. Lallo, Sandro, Romolo, Alessandro, Matteo vestono i panni di sé stessi, così come le loro mogli, le figlie, le nipoti, e le battute, i movimenti, le espressioni, appartengono a loro. Interpreti e personaggi allo stesso tempo. Le telecamere seguono porzioni di vita dei protagonisti mentre scontano pene detentive alternative al carcere, come per esempio gli arresti domiciliari e la comunità di recupero, o che stanno usufruendo di un’uscita premio, proprio come nel caso di Lallo. Per la durata del documentario, non vengono mai esplicitati i motivi per cui gli attori hanno dovuto scontare le rispettive pene, ed anche la prigione intesa come struttura fisica è lasciata solamente a fare da sfondo, apparendo in maniera del tutto marginale. Questo perché i riflettori sono puntati esclusivamente sulle persone, sulle loro storie, su quell’affettività verso i propri cari che un’esperienza come quella della detenzione muta in maniera indelebile. I personaggi su cui si incentra il documentario sono diversi fra loro, appartengono a generazioni ed a vissuti differenti, ma in comune hanno molto più di quello che potrebbe apparire ad una prima occhiata. Fra loro c’è chi non ha potuto godersi appieno ciò a cui tutti, prima o poi, vorrebbero partecipare, ovvero la nascita ed il percorso di crescita dei propri figli e nipoti, la vita insieme alla propria moglie, agli amici. Il momento in cui ci si rende conto che ciò che si è perso non è solamente la libertà, ma con essa la possibilità di far parte di qualcosa di grande, di importante, annichilisce. Ed è anche per questo che è nato il progetto di Fort Apache, per dare una speranza a chi si sente perduto, per dargli qualcosa in cui credere e per cui sentirsi (ed essere) parte attiva della società. I protagonisti sono presi solamente ad esempio, rappresentazione di quelle migliaia e migliaia di detenuti per i quali, alla pena da scontare, si aggiunge la mancanza dell’affettività, una mancanza che, ad oggi, viene limitata il più possibile in gran parte dei paesi occidentali. Si è parlato spesso del bisogno, nel nostro paese, di una riforma del carcere, della necessità di rendere più accettabili le condizioni dei detenuti, che devono sì scontare una pena per i crimini commessi, ma in condizioni che siano accettabili per l’umana dignità. Un aspetto, questo, che è troppo spesso trascurato nei fatti quanto accentuato dalle parole, portando ad un percorso legislativo fittizio che ancora oggi è lontano da una sua effettiva realizzazione. L’associazione Fort Apache Teatro, nata dalla mente della regista di Ombre della sera, cerca nel suo piccolo di migliorare questa difficile situazione. Foggia: festa in campo, giocatori e detenuti festeggiano la promozione in serie B csvfoggia.it, 1 giugno 2017 Le alte temperature non hanno scoraggiato i detenuti e i giocatori del Foggia Calcio, che lunedì scorso si sono incontrati nel campo della Casa Circondariale di Foggia per festeggiare insieme la promozione in serie B della squadra cittadina. "È stato un pomeriggio all’insegna della solidarietà e della promozione dei valori dello sport. Una rappresentanza delle sezioni dell’Istituto - racconta Luigi Talienti, docente e assistente volontario - ha disputato una partita in campo con i giocatori della Berretti, la squadra giovanile, mentre i titolari della prima squadra assistevano dagli spalti, insieme ai detenuti. Sono stati tutti molto disponibili e non hanno fatto mancare il loro sostegno e tifo. Un vero regalo, anche considerando che per i giocatori era l’ultimo giorno di lavoro, prima del rientro a casa". A fare gli onori di casa, il direttore in missione Rosa Musicco, il Commissario Luca Di Mola ed Eleonora Arena, responsabile dell’Area Trattamentale. "Il carcere di Foggia, soprattutto negli ultimi anni - aggiunge Talienti - grazie all’impegno del direttore titolare, Mariella Affatato, ha aperto le porte a numerosi progetti e attività e i detenuti, così come le famiglie, avvertono i benefici di questo cambiamento positivo. Basti pensare ai tornei di calcio, alle presentazioni con gli scrittori organizzate da CSV Foggia e Leggo Quindi Sono, al Progetto "Innocenti Evasioni" di Centro Studi Diomede nella sezione Alta Sicurezza, al progetto con i cani del Gruppo Cinofilo e alle iniziative di solidarietà dell’Ass. Genoveffa de Troia e del Cappellano, solo per citare qualche esempio". All’evento del 29 maggio scorso hanno preso parte anche rappresentanti della politica e delle Istituzioni, come l’on. Colomba Mongiello, l’assessore comunale Claudia Lioia e la rappresentante dell’Ufficio Scolastico Provinciale Lucia Onorati, che hanno voluto lanciare un messaggio di incoraggiamento ai presenti. Per la società del Foggia Calcio ha portato i saluti il Presidente Lucio Fares che, a distanza di un anno dall’ultima volta, ha accompagnato la squadra in un pomeriggio di festa oltre le sbarre. "Non è facile organizzare iniziative di questo tipo - conclude Talienti - ma è molto importante per costruire un ponte sempre più solido tra dentro e fuori. Per questa bella giornata voglio ringraziare la direzione dell’Istituto, il corpo di Polizia Penitenziaria, l’Area Educativa, l’associazione degli arbitri e il Csv Foggia, che non fanno mai mancare il loro sostegno. Presto saranno organizzate nuove iniziative: l’estate è un periodo particolare in carcere e noi volontari ci saremo". Da nord a sud carcere fa rima con teatro di Mara Cinquepalmi Vita, 1 giugno 2017 Sono 83 in Italia, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, le compagnie che conducono o hanno condotto laboratori teatrali in carcere. Da Gorizia a Catania, da Vigevano a Palermo, dietro le sbarre si allestiscono spettacoli come pratica formativa innovativa. L’arte è la prima forma di libertà. A volte l’unica. Queste parole accompagnano il trailer di Cesare deve morire, il film realizzato da Paolo e Vittorio Taviani nel 2012, Orso d’oro a Berlino, che narra la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia con la regia di Fabio Cavalli. Il prossimo 30 ottobre Cavalli dirigerà Hamlet in Rebibbia, che sarà trasmesso in live streaming full-HD con il Teatro Studio del Parco della Musica e con i teatri e i cinema di Genova, Milano, Monza, Cagliari, Nuoro, Napoli e altre città. "Nel 2015 - racconta a Vita Fabio Cavalli - siamo riusciti ad avere la banda larga nel teatro di Rebibbia per portare all’esterno le immagini in Hd. Poi il debutto il 6 aprile 2016, quando ci siamo collegati con l’Aula Magna della Sapienza per un incontro su Shakespeare con gli studenti. Quest’esperienza è insieme cinema, tv, teatro e corre sul web. In altri paesi si fa normalmente". L’idea dello streaming è nata quando, dopo il successo del film dei Taviani, Cavalli ha continuato questa sua esperienza ponendosi, però, il problema di come portare in giro gli spettacoli realizzati con i detenuti del reparto Alta sicurezza. Il teatro in carcere è un modo per crescere, per confrontarsi. "In quindici anni di attività - spiega Cavalli - ho analizzato 608 casi e il tasso di recidiva non supera il 10% contro il 68,5 della media nazionale, anche se va tenuto conto che chi fa teatro chiede di farlo e che sconta pene lunghe. Mancano, però, statistiche ufficiali sulla recidiva e per questo spero che prima o poi si proceda con uno studio statistico serio che definisca meglio il fenomeno". Teatro è comunicazione, anche quando si fa dietro le sbarre. "Il teatro in carcere ha una sua specificità - racconta il regista Horacio Czertok del Teatro Nucleo che dal 2005 cura i laboratori nel carcere di Ferrara - perché è una realtà sconosciuta ai più e occorre costruire un dialogo con la struttura e le persone. Facendo teatro, però, si fa comunità e la prima cosa che ci chiedono i detenuti quando iniziano a frequentare il laboratorio è riconquistare dignità e rispetto". L’Emilia-Romagna può contare su una consolidata tradizione di esperienze teatrali in carcere tanto che lo scorso ottobre la Regione ha firmato una nuova intesa, valida fino al 2019, che vede coinvolte oltre la Regione, l’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna, il coordinamento Teatro Carcere e, per la prima volta, il Centro per la giustizia minorile dell’Emilia Romagna e Marche. La Regione ha anche aumentato lo stanziamento di fondi per sostenere le attività previste dal protocollo, portandolo dai 30 mila euro previsti negli scorsi anni a 50 mila euro. Oltre a favorire lo sviluppo delle attività teatrali in carcere il protocollo prevede la realizzazione di percorsi formativi (tecnico luci, macchinista teatrale, falegname, sarto per i costumi) in grado di offrire ai detenuti l’opportunità di apprendere un mestiere teatrale spendibile per il loro reinserimento sociale. Nel carcere di Milano Bollate c’è un teatro che contiene fino a 150 spettatori. Qui a salire sul palcoscenico è la compagnia formata da attori detenuti e non grazie al progetto Teatro In-Stabile della Cooperativa E.S.T.I.A.. "Le produzioni - spiega Michelina Capato, regista e presidente della cooperativa - nascono da chiacchierate informali nel gruppo. Due volte a settimana c’è il laboratorio e nei momenti di pausa si discute. Insieme a Renato Gabrielli, drammaturgo, cerchiamo di restituire il tema più urgente da affrontare. Ad esempio, l’ultimo è sulle migrazioni. Qui chi fa teatro ha una recidiva del 6%, ma il risultato è frutto di un certo modo di lavorare". Hanno lavorato, invece, sull’affettività i detenuti del carcere di Torino. Con Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici il regista Claudio Montagna ha realizzato una rappresentazione esclusivamente ispirata ai temi dell’affettività in carcere e, in particolare, degli affetti familiari e coniugali. "Donne e uomini detenuti hanno messo in scena quei sentimenti che li toccano con grande forza, ma per i quali soffrono privazioni e lontananze - racconta Montagna - Perdere l’altra metà, chiunque essa sia, genitori, figli, amici, amori, "dimezza" nell’anima e forse nel corpo". Metà - Meditazioni sul Cantico dei Cantici è stato allestito da un gruppo di quattordici detenuti del Padiglione A della Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino, che partecipano al laboratorio teatrale avviato a settembre da Franco Carapelle di Teatro e Società. Al loro fianco sul palco, per la prima volta, otto donne della sezione femminile del laboratorio di canto e recitazione corale. Parole, emozioni e gesti delle numerose esperienze teatrali in carcere saranno protagoniste a novembre della quarta rassegna nazionale di teatro in carcere "Destini Incrociati", promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e dal Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Quando noi eravamo i "marocchini" dei francesi di Gino Rimont Lulli Il Dubbio, 1 giugno 2017 A Parigi una mostra sull’immigrazione italiana: 14 milioni di lavoratori accolti in 100 anni. L’immigrazione italiana presso i nostri cugini più facoltosi d’oltralpe è stata sin dall’Unità, e per circa cent’anni, la più copiosa "invasione" intraeuropea che l’Esagono ha accolto, con circa quattordici milioni di persone che han fatto i lavori più svariati ma che ahinoi ben poco son riusciti ad ottenere e soprattutto a rimanere sul suolo francese. Soprattutto sino a fine Ottocento, con schiere di muratori e operai nostrani che fisicamente costruirono la Francia ma che non poterono fermarsi e portar su famiglia come successivamente riuscirono a fare nel Novecento i portoghesi e soprattutto i nordafricani. A questa bella invasione tricolore che sin dagli albori diede i suoi frutti con parecchi compatrioti celebri d’oltralpe molti dei quali nati in loco e fautori di "coproduzioni" di successo negli ambiti più svariati (Arte, Moda, Design, Musica, Gastronomia, Saper Vivere, Cinema) a Parigi é dedicata una bella mostra intitolata Ciao Italia e visibile sino al 10 settembre al Palais de la Porte Dorée, bellissimo palazzo Art Deco’ sito nella periferia sud della capitale proprio accanto al Bois de Vincennes, nella quale sono visibili circa quattrocento fra opere e documenti che i ritals-résident italien scritto tronco e abbreviato all’anagrafe dagli impiegati municipali all’arrivo, da cui il famigerato nomignolo - han prodotto con la loro semplice presenza negli anni. Si inizia un po’ banalmente nella prima sala con una girandola di otto vespe bianche e un enorme busto di Mussolini, per poi proseguire in un ricco e poliedricamente documentato itinerario sulle varie fasi della nostra immigrazione e i suoi successivi lasciti. Così apprendiamo che dal 1860 sino ad inizio secolo gli immigrati piu copiosi provenivano soprattutto da Toscana e Piemonte, seguiti a ruota da tutto il nord e dai campani, e che invece nella seconda metà del 900 sono stati soprattutto i pugliesi ed un po di campani e siculi ad immigrare oltralpe. Tutto ciò per poi passare successivamente agli impressionanti scarponi di Primo Carnera subito messi idealmente a confronto con gli scarpini palmati dei Fratellini, iniziatori dell’arte circense italiana dei primi del secolo. Seguono un buon numero di pitture sculture e filmati di italiani più o meno celebri, con una parete dedicata agli oriundi Yves Montand, Serge Reggiani, Lino Ventura, seguiti dall’unica italiana (ma mai rivendicata tale) Rina Ketty, al secolo Cesarina Picchetto, cantante di charme di fine anni 30. Affiancati con videoproiezioni dagli acquisiti Marcello Mastroianni e Aldo Maccione, con, soprattutto per il secondo, una carriera molto francese. Ma non di soli attori e cantanti é composto il mondo italiano residente in terra di Francia, ma anche di figure più insospettabili, come quella dell’editore Cino del Duca che, oltre a editare il Monello e altre riviste qui da noi, nel 1932 ottenne anche la cittadinanza francese e imbastì un’altrettanto florida attività editoriale di riviste femminili soprattutto dal 1947 con il titolo Nous Deux che sdoganò ufficialmente il fotoromanzo presso i nostri cugini e che tutt’ora esce, mirabile esempio di longevità editoriale. Per i pittori e scultori invece ci sono Giuseppe de Nittis e Giovanni Boldini nell’ottocento poi seguiti dal Futurista Gino Severini, ovviamente da Modigliani e da Leonetto Cappiello, eccelso nell’arte dell’affiche. C’e da segnalare poi anche un’intera parte della Mostra dedicata agli antifascisti rifugiatisi per anni in Francia, Pertini su tutti, assai interessante e che induce a riflessione. Una parete intera è invece dedicata al personaggio di Raf Vallone, camionista nel Teresa Raquin di Marcel Carné del 1953, forse la figura di immigrato italiano dalla vita assai difficile meglio dipinta dal Cinema Francese. Ma, e c’era da aspettarselo, la parte finale della mostra é dedicata agli oggetti assunti ormai a simbolo dell’italiano nel mondo, quali la Moka, la Lettera 22 dell’Olivetti, La Bugatti, il Cinzano. "L’Europa ha perso l’umanità". Il Moas chiede l’apertura dei canali umanitari di Regina Catrambone* Avvenire, 1 giugno 2017 Dopo il tragico weekend di Pasqua lo scorso 24 maggio si è registrato un nuovo drammatico record nel Mar Mediterraneo. La nave Phoenix con a bordo l’equipaggio del Moas al mattino presto ha individuato un barcone sovraffollato in pericolo e subito sono state avviate le operazioni di salvataggio, che purtroppo si sono rivelate estremamente complicate. Lo scenario migratorio generale è molto peggiorato negli ultimi anni e l’elevatissimo numero di persone stipate su ogni imbarcazione mette ancor più a rischio la vita dei migranti. Anche la qualità delle imbarcazioni è peggiorata: sono così instabili che le onde o un qualunque spostamento di chi si trova a bordo rischia di farle capovolgere. Ed è esattamente ciò che è successo: durante la distribuzione dei giubbotti salvagente in molti si sono spostati, facendo inclinare il barcone colpito da un’onda più forte. Circa 400 persone sono cadute in mare mentre molte altre erano intrappolate nella stiva. Tuttavia, vorrei concentrami sull’aspetto emotivo di questa ennesima tragedia che si sarebbe potuta e dovuta evitare. L’equipaggio di Moas si è trovato di fronte a una scena apocalittica e ha intrapreso una corsa contro il tempo per salvare più vite possibile. C’erano così tante persone in mare da non poter quasi manovrare la lancia di salvataggio senza rischiare di aggravare la situazione. Altre erano poi bloccate nella stiva, tenute in ostaggio dalla porta di quel barcone fatiscente in un’area dove andrebbero stipate merci. E invece i trafficanti ammassano le persone come merci in un ambiente asfittico dove sono immerse in un liquame di escrementi, sudore, lacrime, carburante, resti di cibo e vomito che degradano terribilmente la vita umana. Trentadue i corpi recuperati in mare, cui si è aggiunta la salma di un altro ragazzo deceduto a bordo nonostante ogni tentativo di rianimazione. Fra quei corpi 7 bambini, anche piccolissimi, 14 donne, 12 uomini. Fra essi anche il figlio di una donna incinta che, a causa del forte stress provocato dalla morte del bambino, ha perso il feto di sei mesi che portava in grembo. Chi potrà mai consolare quella donna? Come riuscirà a sopravvivere al dolore di aver perso i propri figli mentre rischiava tutto per salvarli? Bambini che, se fossero nati nel posto giusto, sarebbero stati a scuola o al parco o magari avrebbero giocato coi loro coetanei invece di ritrovarsi vittime di questo fenomeno migratorio. Nel tratto di mare fra l’area di ricerca e salvataggio e il porto di Crotone assegnato per lo sbarco, la Phoenix ha trasportato un peso incalcolabile: oltre ai 562 superstiti abbiamo trasportato il peso di quei corpi senza vita che gravano come macigni sulle nostre coscienze. L’inestimabile perdita che pesa su tutti noi tradisce gli ideali europei di solidarietà e salvaguardia dei diritti umani. A completare questo quadro il G7 di Taormina che, a causa delle misure di sicurezza, ci ha impedito di effettuare lo sbarco in Sicilia, aggravando ulteriormente le condizioni delle persone a bordo. Un’occasione persa per guardare nel dettaglio la sofferenza legata al fenomeno migratorio invece di stereotiparla. È chiaro che l’evoluzione assunta dagli attuali flussi migratori mette in gioco molto più che gli assetti economici o politici nazionali, europei e mondiali. In gioco c’è soprattutto la nostra umanità, la capacità di conservare un sentimento di fratellanza che ci unisca ai nostri simili. E a giudicare dall’inazione di fronte ai naufragi in mare sembra che l’umanità si sia perduta del tutto. Abbiamo perso la misericordia verso chi soffre e accettiamo che si muoia in mare, limitandoci a spostare altrove lo sguardo. Ma ignorare il problema non ci aiuta a risolverlo. Proprio per questo dall’agosto 2016 Moas continua a lavorare per l’apertura di canali legali e sicuri che consentano a gruppi particolarmente vulnerabili di raggiungere il suolo europeo in sicurezza per se stessi e gli stati che accolgono. Lo strumento dei corridoi umanitari, unito alle politiche di ricollocamento, non sono solo una necessità pratica ed innegabile per evitare altre morti in mare, ma anche un modo per combattere i trafficanti e recuperare la nostra stessa umanità. *Co-Fondatrice Moas (Migrant Offshore Aid Station) Rom, cronache dal dopo-campi di Enrico Mugnai Il Manifesto, 1 giugno 2017 Entro il 2020 dovranno essere smantellate tutte le baraccopoli. L’Europa ha stanziato 10,4 miliardi per l’Italia e il governo ha recuperato 15 milioni. Ma tutto è fermo e Amnesty International si appresta a chiedere una procedura d’infrazione per il nostro Paese. Viaggio a Torino, tra sgomberi e nuovi insediamenti. Giorgio ha 10 anni e frequenta la quarta elementare. È nato e vive a Torino, ma i suoi documenti sono rumeni. La madre Anna mostra la pagella. Molti 8 e 9, un paio di 7 e un 6. "L’anno scorso andava ancora meglio, ma da quando ci hanno abbattuto la baracca e viviamo in quella di mio cugino ha perso qualche lezione e poi vedi, abbiamo solo questa piccola lampadina, è difficile studiare quando viene buio". È ora di cena, Giorgio continua coi compiti. Tutto intorno altre baracche ancora in piedi e abitate confinano con quelle che una volta ospitavano i vicini di una vita nel campo rom di via Germagnano, ridotte oggi a cumuli di ricordi. La Strategia Nazionale per l’inclusione dei rom, sinti e camminanti nasce su impulso della Commissione europea che ha anche stabilito i tempi, 2011-2020. Tra meno di tre anni dovranno essere smantellati tutti i campi legali e illegali che rappresentano, nella realtà europea, una anomalia. Le linee guida riguardano il diritto all’abitare, alle cure sanitarie, all’istruzione e all’accesso al lavoro. Ma di questo problema, che incide molto anche sull’aspetto sicurezza, pare non volersi occupare nessuno. "Non c’è una cabina di regia a livello nazionale - dice Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio - Il Tavolo interministeriale è stato convocato una sola volta nel 2012, quando c’era il ministro Riccardi. L’ Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali, che dovrebbe fare da interfaccia tra Regioni e Governo, è al momento senza guida e a livello locale, quando c’è la volontà politica, mancano le competenze per proporre e realizzare interventi efficaci e lungimiranti, come accade a Torino, Roma e Napoli". Un progetto per lo 0,25% della popolazione italiana, visto che i rom presenti stabilmente in Italia sono circa 150 mila, di cui solo il 5% è veramente nomade. Una delle componenti più emarginate della nostra società. Il Fondo europeo di solidarietà stanziato dalla Commissione, uno dei possibili canali di finanziamento per le politiche inclusive, ammonta a 10,4 miliardi per l’Italia. Per il Piemonte ci sono 872 milioni di euro. Il Dipartimento delle Pari Opportunità del ministero dell’Interno ha sbloccato negli anni scorsi 15 milioni di euro congelati dal 2011 dopo che il Consiglio di Stato aveva bocciato il piano Emergenza rom. Piemonte, Veneto, Lazio, Lombardia e Campania sono così le uniche regioni ad aver ricevuto fondi specifici per attuare la Strategia Nazionale. Questi finanziamenti però sembrano insufficienti e mal gestiti, e gli obiettivi fissati, dice un rapporto della Commissione europea, sono ancora lontani dall’essere raggiunti. Stima che l’Italia dovrebbe assegnare almeno il 20% del Fondo sociale europeo alla lotta alla discriminazione a fronte del 8,7% (602 milioni di euro) stanziato negli anni passati. A inizio giugno una delegazione di Amnesty International visiterà i campi di Milano e Torino, Catrinel Motoc ne farà parte: "Siamo molto preoccupati per come l’Italia stia disattendendo la Strategia Nazionale continuando a sgomberare e costruire campi. Chiederemo alla Commissione europea che apra una procedura d’infrazione contro l’Italia per la discriminazione abitativa che viene attuata sistematicamente contro i rom. Se fosse avviata sarebbe la prima di questo genere, anche se non è facile perché alcuni commissari sono poco disponibili a infliggere sanzioni ad un Paese importante come l’Italia". "L’inclusione non solo è un dovere, ma anche un risparmio per le finanze pubbliche - afferma Stasolla, che con la sua associazione monitora da anni la vita dei rom - Abbiamo calcolato che far vivere le persone nei campi costa 7 volte di più che operare scelte per emancipare queste famiglie dall’indigenza. Nell’inclusione la spesa è nei primi due anni, poi le persone iniziano ad essere autonome e a pagare le tasse". Senza guida politica nazionale, e con solo 8 tavoli regionali aperti, i Comuni devono fare da soli. Uno dei meriti che il candidato sindaco Piero Fassino si attribuiva durante la campagna elettorale del 2016 era il superamento del campo rom di Lungo Stura Lazio, il più grande d’Europa con circa 1000 abitanti. Il progetto la Città possibile, che ha permesso tale traguardo, è stato duramente contestato da associazioni di cittadini e dal Movimento 5 Stelle che, una volta al governo della città, ha convocato i protagonisti di quell’iniziativa in una interrogazione consiliare per rispondere degli aspetti meno chiari. La Procura di Torino ha ancora due inchieste aperte sulle gare d’appalto e la gestione dei fondi. Quel piano era stato finanziato con circa 4 milioni di euro rimanenti dai 5 stanziati per l’Emergenza rom. Fallito il progetto, una buona parte delle persone che risiedevano a Lungo Stura si sono spostate in via Germagnano e ora stanno affrontando l’ennesimo sgombero. Per Anna è penoso ripensare al giorno dell’abbattimento: "Sono venuti vigili e polizia a controllare i documenti. Ho chiesto se volessero buttare giù la mia baracca. Un agente in borghese mi ha assicurato che non l’avrebbero fatto. Erano già le 8 e Giorgio rischiava di arrivare tardi a scuola. Quando sono tornata, un’ora dopo, ho trovato una mia amica che piangeva. Le avevano distrutto casa. Poi sono corsa dove doveva sempre esserci la mia e mi è caduto il cuore. Avevo tutti i vestiti di mio figlio, miei e di mio marito. Tutte le cose della nostra quotidianità". Il comitato sui diritti umani delle Nazioni unite ha definito gli sgomberi forzati una "evidente violazione dei diritti umani", raccomandando di effettuarli con la presenza di un rappresentate istituzionale, predisponendo soluzioni abitative alternative, e garantendo la possibilità di ricorso legale. "Nessuna di queste garanzie è mai rispettata" afferma l’avvocato Gianluca Vitale, che assiste alcuni abitanti del campo, e spiega come "Nessuno dei rom residenti ha mai ricevuto alcun provvedimento formale di sgombero o di sequestro quindi si trovano nell’impossibilità di fare ricorso. L’unica persona che lo ha presentato attende una risposta da novembre e nel frattempo lo sgombero continua". Tutta la zona di via Germagnano, dove sono presenti tre campi rom, due illegali e uno legale, è sotto sequestro. Il Pubblico ministero Andrea Padalino ha ipotizzato il reato di disastro ambientale dopo che l’Arpa ha rilevato nel terreno e nell’aria un grave inquinamento. Gli indagati sono cento rom. In fondo a via Germagnano c’è l’impianto di smaltimento comunale dell’Amiat, in funzione da trenta anni, dove vengono stoccate e messe in riserva varie tipologie di rifiuti e svolta un’attività di trattamento chimico fisico di rifiuti liquidi non pericolosi. Non deve stupire che anche l’area del campo legale sia sotto sequestro. "Quella zona - racconta Secondo Massano, presidente dell’associazione Opera Nomadi - è sempre stata usata come discarica a cielo aperto fin dagli anni Settanta". A inizio anni Novanta la Giunta Castellani la scelse per la costruzione di un campo rom, senza dare seguito alle richieste di analisi presentate dall’opposizione. "In quei terreni erano stati seppelliti illegalmente rifiuti tossici industriali. Era già una piccola terra dei fuochi quando vennero approvate le delibere" dice Marco Revelli, al tempo consigliere comunale. I carotaggi non vennero mai eseguiti, e nel 2004 l’amministrazione Chiamparino inaugurò le trentadue casette che ospitarono le famiglie bosniache sgomberate dal campo di strada dell’Arrivore. In via Germagnano non si può vivere ma, a fronte dello sgombero in atto e con l’area sotto sequestro, non sono stati attivati i servizi sociali né è stato proposto un progetto alle famiglie. L’assessora al sociale con delega sul tema di stranieri e nomadi Monica Schellino non crede agli abbattimenti di strutture abitate: "Quello che ci riferiscono le forze dell’ordine è che vengono demolite quelle vuote da almeno 7 giorni, quindi non c’è necessità di approntare interventi di servizio sociale". Per quel che riguarda la realizzazione della Strategia Nazionale, a un anno dall’insediamento della Giunta Appendino, "Dobbiamo ancora creare la struttura amministrativa che ci lavori, dato che solo una settimana fa abbiamo riorganizzato gli uffici comunali. Poi sarà realizzato un progetto speciale in collaborazione con le associazioni esperte nel settore e coinvolgendo più assessorati". Non c’è la struttura e quindi neanche i fondi che "Dovremo reperire da ogni possibile fonte. La situazione lavorativa e abitativa è gravissima, se non si riusciranno a trovare i soldi per creare un percorso efficace d’integrazione non possiamo escludere nessuna ipotesi per la futura sistemazione delle famiglie". Anche la riproposizione dei campi, come avviene a Moncalieri, piccolo comune attaccato a Torino. Dopo l’esondazione del Po di novembre scorso, che ha inghiottito il terreno dove vivevano, 26 rom, la metà dei quali minori, hanno passato l’inverno in un albergo, già stipato con 170 migranti. A fine maggio sono arrivati gli otto moduli abitativi che costituiranno un insediamento provvisorio su un terreno di proprietà dell’Iren, la società che gestisce la rete elettrica. Quello spazio, situato alle spalle della centrale termo-elettrica, è da anni una discarica a cielo aperto. "Per la pulizia, l’allacciamento di acqua e luce e i moduli abitativi abbiamo speso 100mila euro di fondi comunali - dice il sindaco Paolo Montagna - perché a livello nazionale il Ministero dell’Interno sembra non occuparsi di questo tema". Il comodato d’uso gratuito con Iren scadrà tra 12 mesi. In questo periodo l’amministrazione cercherà nuove soluzioni, quella più probabile "È la creazione di un’area di sosta autorizzata con moduli abitativi. Stabiliremo un decalogo di comportamento per i residenti, chi lo violerà verrà allontanato" dice Montagna. "Costruire insediamenti monoetnici dove isolare i rom - afferma Stasolla - è in contrasto con la Strategia Nazionale, perché perpetua quella segregazione razziale generatrice dei problemi che si vogliono risolvere. Inoltre non è sostenibile a livello economico. Dal 2012 al 2016 sono stati spesi quasi 32 milioni di euro per creare campi da nord a sud d’Italia, sistemandoci dentro 4800 persone. Quei soldi potevano servire per l’inclusione abitativa e lavorativa". La Commissione Ue ritiene che l’emancipazione dal disagio socio-economico passi per l’istruzione e che occorra incoraggiare la frequenza scolastica. Nei campi di tutta Italia vivono circa 80 mila minori e pochi riescono a portare a termine gli studi. Sara ha 15 anni e vuole fare l’avvocato. Davanti al tavolo dove studia c’è una grande finestra. Da lì vede le baracche già abbattute e, poco sulla sinistra, il grande stemma dell’Amiat che campeggia sopra l’entrata dell’impianto. "L’abbandono scolastico si spiega con il disagio economico e la necessità di guadagnarsi da vivere. Questo accade in ogni contesto sociale. I continui sgomberi, che costringono le famiglie a spostarsi lontano dalle scuole frequentate dai figli, hanno sicuramente un impatto enorme" dice Stasolla. Sara ha una sorella, Diana, che sta facendo uno stage in un ristorante, loro fratello Paolo aspetta la telefonata dal datore di lavoro: "Fino a poco tempo fa lavoravo in una cioccolateria. Ho fatto corsi professionali per meccanico, pizzaiolo, programmatore. Spero che chiamino presto". La loro casa è ancora in piedi, tutta in legno, luminosa, pulita e accogliente. La madre, ci porta il caffè. Le vetrate che coprono i due lati lunghi sembrano occhi che osservano con distacco il paesaggio degradato e ostile che li circonda. "Qui accanto avevamo un piccolo riparo per la legna. Ce lo hanno abbattuto pochi giorni fa. Non vedo l’ora di poter pagare un affitto per me e la mia famiglia. Qui non si può vivere". Per Bruxelles l’Afghanistan è un "paese sicuro" di Carlo Lania Il Manifesto, 1 giugno 2017 Gli ultimi li hanno fermati proprio mentre stavano per essere imbarcati sull’aereo che ieri da Berlino li avrebbe riportati a Kabul: un gruppo di profughi afghani la cui domanda di asilo è stata respinta dalla Germania e per questo destinati a essere espulsi. Per loro, però, la partenza è solo rinviata. Nel dare notizia dello stop al trasferimento, il governo tedesco ha infatti tenuto a specificare come il camion bomba che ieri ha provocato 90 vittime nella capitale afghana non sposti di un centimetro la politica di rimpatri forzati decisa dalla Germania insieme all’Unione europea. Attentati o no, l’Afghanistan resta per l’Europa un paese sicuro dove rispedire tutti gli afghani che si trovano sul suo territorio in maniera irregolare. E poco importa se la classificazione "paese sicuro" gronda ipocrisia da tutte le parti, visto il continuo stato di guerra in cui si trova il paese. Del resto i leader europei sono stati chiari quando, ai primi di ottobre dell’anno scorso, hanno siglato con il presidente afghano Ashraf Ghani un accordo per rimpatriare almeno 80 mila suoi connazionali. Intesa alla quale, guarda caso, pochi giorni dopo ha fatto seguito la decisione assunta dall’Ue e dalla comunità internazionale di investire in Afghanistan 15,2 miliardi di dollari in aiuti per il quadriennio 2017-2020. Di questi, 5,2 miliardi di dollari provengono da fondi europei (182 milioni di euro la quota italiana). Nessun collegamento tra gli aiuti e l’accordo sui rimpatri, si è affrettata a specificare Bruxelles, ma la consequenzialità delle due decisioni è evidente. Come già avviene con le intese siglate con altri paesi considerati uno snodo cruciale per i flussi di migranti (vedi la Turchia), anche il Joint way forward on migration iussues between Afghanistan and Eu, l’accordo su rimpatri e riammissioni, ha come scopo principale quello di facilitare le espulsioni degli afghani che si trovano in uno stato membro senza alcuna base legale, nonché di scoraggiare le partenze di quelli che vorrebbero raggiungere l’Europa. Il testo spiega come saranno privilegiati i rimpatri volontari ma specifica anche come, nel caso questi non siano possibili, non si esiterà a fare ricorso a rimpatri forzati, anche di massa. Unici esclusi dalle espulsioni i minori non accompagnati, che sarà impossibile rimpatriare senza che prima siano stati rintracciati i genitori o se in Afghanistan non sussistano condizioni di accoglienza adeguate. Prevista infine la creazione nell’aeroporto di Kabul di un apposito terminal dove ricevere i migranti respinti. Tra le proteste dei Verdi e dalle associazioni umanitarie, è stata proprio la Germania il primo paese europeo a dar seguito all’intesa, segnando così un’inversione di rotta rispetto alla iniziale politica delle porte aperte della cancelliera Angela Merkel che nel 2015 consentì a 890 mila migranti di entrare nel paese. Un charter con 34 afghani a bordo è decollato da Francoforte per Kabul il 14 dicembre scorso, seguito a gennaio e poi a febbraio da altri due aerei. "Mettere semplicemente delle persone su un volo per Kabul, scaricarle e abbandonarle a un destino incerto è da irresponsabili", commentò l’organizzazione per i diritti umani Pro Asyl, mentre in Italia il centro Astalli non ha esitato a definire "illegali" i rimpatri messi in atto dall’Unione europea. Nel 2016 sono stati 61.800 gli afghani che in uno stato dell’Unione europea hanno potuto beneficiare della protezione internazionale, il 9% del totale e terza comunità più numerosa dopo siriani (405.600, pari al 57% del totale) e iracheni (65.800, pari 9%). Per chi invece si è visto respingere la richiesta di asilo, guerra o meno resta solo il rimpatrio. Afghanistan. Più potere al Pentagono e altri 5mila soldati, Trump prepara l’offensiva di Paolo Mastrolilli La Stampa, 1 giugno 2017 Russi e iraniani aiutano i sunniti, la Casa Bianca vuole un ruolo maggiore per la Nato. Nei corridoi della Casa Bianca la chiamano già la "McMaster’s War", cioè la guerra del consigliere per la Sicurezza nazionale, che l’ha pensata e la promuove. Si tratta della "surge" (rinforzi) di uomini e mezzi che il presidente Trump sta valutando di lanciare in Afghanistan, facendo i conti ora anche con la violenza all’origine dell’attentato di ieri a Kabul. La guerra nel Paese dove erano stati organizzati gli attacchi dell’11 settembre 2001 dura ormai da 16 anni, ed è costata la vita a circa 2400 soldati americani, 1100 alleati Nato, e oltre 170.000 militari e civili locali. L’intervento internazionale aveva raggiunto il picco massimo nel 2012, quando 130.000 uomini Usa e dell’Alleanza Atlantica combattevano contro i taleban, per sconfiggerli e costringerli a fare un accordo di pace col governo guidato da Karzai. Obama aveva progressivamente ridotto questo impegno, pensando che gli insorti fossero ormai sfiniti, con l’obiettivo di lasciare solo mille americani sul terreno prima della fine del suo mandato. Perciò aveva limitato l’autonomia del Pentagono a colpire i leader taleban, arrivando a sostenere che non dovevano più essere considerati nemici. L’accordo però non era mai stato siglato, e Obama si era dovuto rassegnare a far risalire a oltre 8000 i militari presenti nel Paese. "Resolute Support" - La missione in corso si chiama "Resolute Support" e ha lo scopo di addestrare e sostenere le circa 350.000 truppe locali, ma sul terreno ci sono anche oltre 2000 uomini delle forze speciali che conducono operazioni antiterrorismo. I taleban controllano il 40% del territorio nazionale, e la situazione sul terreno si è complicata anche per l’infiltrazione dell’Isis. Proprio contro i militanti del Califfato, infatti, nello scorso aprile il Pentagono aveva sganciato la GBU-43, la "madre di tutte le bombe", per distruggere le caverne dove si nascondevano nella provincia nord orientale di Nangahar. Sul piano politico, però, la situazione è forse ancora più complicata che su quello militare. Il comandante americano in Afghanistan, John Nicholson, ha denunciato nelle settimane scorse che i russi stanno armando i taleban, e gli stessi sciiti iraniani stanno approfittando del caos per aiutare gli insorti sunniti, perché l’interesse di Teheran a osteggiare Washington è più forte persino della storica avversione verso i rivali settari. Pronti i rinforzi - In questo quadro, McMaster ha ideato con il capo del Pentagono Mattis un piano che sta sul tavolo di Trump, e aspetta la sua decisione finale. La nuova "surge" prevederebbe di inviare tra 3000 e 5000 uomini in più, chiedendo poi agli alleati della Nato, inclusa l’Italia, di mantenere o rafforzare la loro presenza in Afghanistan. L’autorità per decidere i raid aerei contro la leadership dei taleban passerebbe dalla Casa Bianca ai militari, che hanno già cominciato ad accelerare le operazioni, come ha dimostrato l’uso della GBU-43. Lo scopo non sarebbe tornare a combattere come ai tempi dell’Isaf, ma rimettere sulla difensiva gli insorti per costringerli a trattare col governo di Ghani. Il presidente, però, non ha ancora dato il via libera definitivo. Il Pentagono si aspettava di riceverlo prima del vertice Nato del 25 maggio a Bruxelles, in modo da cominciare a chiedere contributi concreti agli alleati in quella sede, ma ciò non è avvenuto. Durante la campagna elettorale Trump aveva criticato le guerre in Medio Oriente della presidenza Bush, e aveva detto che gli Usa non possono fare il poliziotto del mondo. Il costo delle operazioni in Afghanistan poi, 23 miliardi di dollari all’anno, è un altro deterrente. L’attentato di ieri, però, ha dimostrato che il tempo stringe. I taleban sostengono che non sono stati loro a colpire, ma se questo fosse vero, vorrebbe dire che l’infiltrazione dell’Isis e di altre forze terroristiche è ormai così avanzata, da non lasciare più molto spazio a Trump per riflettere sulla "McMaster’s war". L’assedio di Marawi così le Filippine cercano un antidoto al contagio dell’Isis di Raimondo Bultrini La Repubblica, 1 giugno 2017 L’esercito delle Filippine ha annunciato due giorni fa di aver ucciso 61 miliziani islamici e di tenere sotto controllo il 70 per cento della città di Marawi, capitale di Lanao del Sud, una provincia strategica della grande regione meridionale di Mindanao. Sono nomi di luoghi spesso sconosciuti in Occidente ma è proprio questo, per ammissione ufficiale del presidente filippino Rodrigo Duterte, il teatro dell’ultima guerra al jihadismo. Per ora i morti registrati sono un centinaio, oltre ai miliziani circa 20 soldati e altrettanti civili, tra i quali almeno 8 uccisi con le mani legate e un colpo alla nuca, altri decapitati dai militanti islamici del nuovo fronte targato Isis di nome Maute. Nel difficile sforzo di liberare gli ultimi abitanti rimasti barricati in casa a Marawi, i soldati hanno usato anche attacchi aerei "chirurgici" e artiglieria pesante, mentre a decine di migliaia fuggono verso nord, a Iligan soprattutto. Tra loro vecchi, bambini, arrancanti su terreni sconnessi e macchie intricate coi loro poveri fagotti, inseguiti a terra da cecchini e bande del nuovo spauracchio targato Isis, un consorzio di dieci diversi gruppi e gruppetti formato da un numero imprecisato - pare poche centinaia - di militanti che hanno anche combattuto in Siria e Iraq, giunti qui da mezzo mondo per aprire il nuovo fronte dell’Islam. Ma forse ci saranno molti più esuli nell’immediato futuro sull’onda di un attacco concentrico tra Marawi e la provincia degli uomini guidati dall’"Emiro" Isnilon Hapilon, vero ispiratore della inedita esplosione di violenza in una città tradizionalmente tranquilla, dove musulmani e cristiani fino a due settimane fa prosperavano insieme col commercio, l’agricoltura e la pesca. Per catturare Hapilon i soldati filippini avevano lanciato la settimana scorsa una caccia all’uomo evidentemente inadeguata alla preparazione dei militanti. Nella capitale di Lanao del Sud c’è stato un contrattacco simultaneo da vari fronti di una coalizione formata da militanti addestrati e devoti all’Emiro, compresi indiani, turchi, malesi, indonesiani. Hanno occupato diverse zone della città assaltando e incen- diando carceri, liberato detenuti islamici e secondo alcune fonti ucciso cristiani che non sapevano recitare il Corano, issato bandiere nere dell’Isis un po’ ovunque e sui mezzi sequestrati alle forze dell’ordine. Poi è stata la volta delle sedi governative, di scuole e cattedrali, come quella dove sono stati rapiti dieci fedeli assieme al sacerdote e tre suoi assistenti. La loro sorte potrebbe essere ora legata, oltre che a un eventuale pagamento di riscatto, alla difficilissima trattativa tra governo e militanti, auspicata dal presidente Duterte ma oggi assai improbabile. Isnilon è un predicatore-guerriero, temuto in quanto formale rappresentante nel sud est asiatico del califfo dello Stato islamico al Baghdadi. L’Emiro di Lanao del Sud unisce il carisma militare a quello spirituale, un leader capace di motivare attraverso Internet, social network ed esempi sul campo del nuovo "esercito dell’Islam". L’obiettivo finale è un califfato panasiatico, fino alle coste dell’islamica Indonesia a sole 5 ore di barca. Anche se l’Emiro dovesse cadere in battaglia, secondo l’intelligence che gli ha posto 5 milioni di dollari di taglia sul capo, il suo martirio potrebbe ispirare molti altri militanti, e non solo musulmani nativi come i Maranao, gran parte dei ribelli. Ben otto stranieri, compresi arabi e indiani, erano tra i 33 militanti uccisi dall’esercito filippino nei primi quattro giorni del conflitto, iniziato proprio quando l’esercito era andato a cercare di stanare dopo una soffiata l’emiro Isnilon. Ora la paura è che tra il fiume di persone in fuga verso il nord, nella città di Iligan a 30 chilometri da Marawi, si possano nascondere anche i militanti.