L’onore di una persona, l’onore di un giornale, l’onore di vent’anni di un’esperienza come Ristretti di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2017 Lettera aperta al Gazzettino. Alla cortese attenzione del Direttore del Gazzettino Alla cortese attenzione del Capo Redattore di Padova del Gazzettino Alla cortese attenzione di Luca Ingegneri Alla cortese attenzione di Marco Aldighieri Mi chiamo Ornella Favero, suppongo che mi conosciate per il trattamento che mi avete riservato sul vostro giornale. Mi sembra strano e antico parlare di "onore", però c’è un pensiero fisso che ho, che mi costringe in questi giorni a parlare di onore: sono quasi sollevata che i miei genitori non siano più vivi, perché ci soffrirei troppo a vederli leggere certe miserie che riguardano me e le cose che faccio, di cui sono stati sempre fieri. Sono anch’io giornalista, anch’io, come voi, sono obbligata ad aggiornarmi, e a fare quella formazione che prevede una parte strettamente dedicata alla deontologia professionale. Certo, non pretendo di insegnarvi il mestiere, solo mi piacerebbe capire che cos’è, per voi, la deontologia professionale. Per esempio, se una fonte non meglio precisata vi dice che il tale detenuto è un "pupillo di Ornella Favero", è professionale pubblicare questa velina carceraria senza scrivere chi vi ha dato questa "notizia"? è professionale non telefonare a Ornella Favero, che ben conoscete, e non chiedere anche a lei che cosa pensa di questa definizione? È professionale scrivere "Guida è il secondo detenuto che viene trasferito d’urgenza dopo aver approfittato dei benefici concessi a chi fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti per gestire l’attività di spaccio o i contatti con il mondo esterno via telefono" e non chiedere, non dico a me, ma al Direttore del carcere per esempio, se è vero che i detenuti della redazione godono di particolari benefici? È come se, dopo la condanna di alcuni agenti di Polizia penitenziaria per spaccio e traffico di telefonini, purtroppo avvenuta di recente a Padova, io scrivessi: "Negli uffici della Polizia penitenziaria le condizioni erano particolarmente favorevoli per gestire un traffico di tal genere". Una miserevole semplificazione, così come è misera la vostra trasformazione di una redazione seria e impegnata come quella di Ristretti Orizzonti in un covo di approfittatori. Le persone che sbagliano ci sono persino fra le forze dell’Ordine, tanto più ci sono fra chi ha vissuto per anni in ambienti malavitosi, non mi aspetto che diventino improvvisamente dei bravi cittadini, mi aspetto che ci provino, so che potranno avere ricadute e ritorni indietro, ma continuo la mia battaglia perché queste persone provino a capire che l’onestà paga. Anche se fatico a insegnarglielo, con certi esempi che vedo nella "società libera". In un altro articolo scrivete "In tre anni sequestrati 130 cellulari", ma che cosa pensate, che questi cellulari siano stati sequestrati tutti alla redazione di Ristretti Orizzonti? O non piuttosto un po’ dappertutto, come succede in tante carceri italiane e non (cercate su Google "Carcere e cellulari", queste le prime notizie "Carcere di Marassi, sequestrati droga e telefoni cellulari in cella", "Rebibbia, droga e cellulari in carcere: sei arresti", "Usavano il cellulare in carcere, scatta il blitz nelle celle a Cassino", "Cellulari nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia", "In cella col cellulare: la preoccupante scoperta nel Carcere di Velletri", e potrei andare avanti all’infinito)? È professionale poi scrivere, per calcare la mano, "Telefonava dalla cella, camorrista trasferito" e non verificare se Luigi Guida, il "camorrista trasferito", è stato davvero condannato per reati di criminalità organizzata? Informatevi, non è così, Guida non è un camorrista, e siccome un giornalista dovrebbe amare la precisione, quella precisione la dovrebbe usare anche verso i delinquenti, dando il nome giusto ai loro reati. Non sono reati di camorra quelli di Guida, e non è un bell’esempio di professionalità "colorare" la cronaca nera per renderla più appetibile. Quanto all’inchiesta sull’ex direttore Pirruccio, scrive il vostro giornale: "Pirruccio secondo l’accusa avrebbe autonomamente declassificato truci malviventi in detenuti comuni (…) Con l’aggravante di aver agito sotto pressione della cooperativa Ristretti e della Giotto". "Ma per l’impianto accusatorio l’ex direttore Pirruccio quel declassamento di una dozzina di detenuti lo ha effettuato, incappando nel reato di falso in atto pubblico, per fare rimanere i reclusi nel carcere di Padova a proseguire il loro lavoro all’interno della cooperativa Giotto e di Ristretti Orizzonti". Anche qui, nessuna verifica, nessuna curiosità di andare a vedere davvero come stanno le cose. Vi dò allora una mano: nessun direttore può declassificare un detenuto, la competenza in materia ce l’ha il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP). Quindi, nessun recluso è stato declassificato da Pirruccio su pressione "delle cooperative" (a proposito, Ristretti Orizzonti non è una cooperativa, e i detenuti al suo interno fanno, come me, solo volontariato ), e più in generale i cinque detenuti dell’Alta Sicurezza che fanno parte di Ristretti NON sono stati declassificati, né da Pirruccio, cosa impossibile, né dal DAP. Ma questa volta VI PREGO di verificare le mie affermazioni facendo quella telefonata al DAP, che avreste dovuto fare ben prima, e poi ne riparliamo. O almeno così spero, spero di poterne riparlare, spero che abbiate il coraggio di dimostrare ai "truci malviventi" della mia redazione che voi, giornalisti onesti, sapete fare il vostro mestiere, e pure ammettere di avere scritto delle inesattezze, delle semplificazioni, delle falsità anche. Altrimenti mi rendete molto difficile il mio lavoro, che è quello di insegnare a chi ha infranto le regole a credere nelle Istituzioni, a rispettare chi amministra la Giustizia, a rispettare anche chi si occupa di informare su questi temi. A proposito, volete vedere i danni di una informazione imprecisa e superficiale? Nelle dichiarazioni di voto sul Decreto per la riforma del codice penale, di procedura penale e dell’O.P., il deputato del M5S Vittorio Ferraresi ha dichiarato: "E arrivano queste notizie molto gravi: il 17 maggio, l’ex direttore del carcere di Padova indagato per falso: classificava mafiosi e spacciatori come detenuti comuni, assolutamente condizionato dall’associazione "Ristretti Orizzonti" e una cooperativa. Questa è l’indagine che è partita. Ancora: due detenuti vicini alla camorra gestivano nel carcere uno spaccio di droga e comunicavano con telefoni cellulari; sono due detenuti che avevano fatto parte proprio della squadra di questi "Ristretti Orizzonti", la stessa squadra con cui il Ministro della Giustizia Orlando ha appena siglato un accordo per il volontariato nelle carceri". Ribadisco che l’ex Direttore della Casa di reclusione di Padova non ha classificato né declassificato nessuno, e quanto al Ministro della Giustizia, non ha siglato nessun accordo, un accordo è stato siglato tra il Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, una "squadra" di circa 10.000 volontari di cui io, Ornella Favero, sono presidente. La cattiva informazione fa scuola, e la politica impara in fretta. In carcere spesso chi è sano si ammala e chi è ammalato si aggrava Il Mattino di Padova, 19 giugno 2017 "In carcere spesso chi è sano si ammala e chi è ammalato si aggrava. Nel momento in cui la sofferenza supera un certo livello di tollerabilità, l’Ordinamento penitenziario prevede modi diversi di scontare la pena, che poi si identificano nelle diverse modalità della detenzione domiciliare. Ebbene, per l’ergastolano non è così: che sia invalido, che abbia 70 anni, che abbia bisogno di costanti contatti con i presidi sanitari, non conta nulla". Sono parole, queste, di una "addetta ai lavori", l’avvocato Annamaria Alborghetti, che il mondo del carcere, e la realtà di chi sta scontando un ergastolo, li conosce bene. Per questo, perché sappiamo quanto distruttiva è la malattia per chi di speranza già non ne ha, come i condannati al Fine pena mai, facciamo appello a Papa Francesco, che con tanta durezza ha condannato la "pena di morte nascosta", e gli chiediamo di fare qualcosa perché un ergastolano senza speranza, condannato anche da una grave malattia, un cancro in uno stadio già avanzato, possa operarsi almeno vicino alla sua famiglia. Altrimenti lui preferisce lasciarsi morire, il suo non è un ricatto, è la disperazione della persona che non si sente di affrontare la malattia nella totale solitudine, a più di mille chilometri da casa. È sua la prima testimonianza che riportiamo, dove racconta come sta vivendo l’angoscia e la paura di essere malato e chiuso in carcere con una condanna a vita, mentre la seconda testimonianza raccoglie le parole di affetto e di sostegno che gli rivolge un altro ergastolano, Carmelo Musumeci. Non mi sento di affrontare una malattia grave lontano dalla mia famiglia, preferisco morire Nel cammino della mia vita c’è stato un periodo in cui ho perso il significato delle parole che mio padre mi insegnò quando ero adolescente, ed oggi mi ritrovo a raccontare la mia storia da ergastolano Mi chiamo Aurelio. L’esperienza mi ha insegnato che non è facile cambiare quando si vive nell’ostilità del pregiudizio. Questo mi ha reso consapevole che la mia vita finirà senza che agli occhi di molti si possano spezzare quelle catene del male che mi tengono legato al passato. Questo pregiudizio, di coloro i quali non credono nel mio cambiamento, è terribile e disarma anche le persone che hanno una grande forza. Io questa forza la sto esaurendo. La realtà detentiva è molto difficile da comprendere se non la si vive da vicino. Per fortuna esiste una forte presenza del volontariato, che mi ha aiutato a cambiare modo di pensare, mi ha sempre ascoltato e mi ha restituito l’uso della parola che avevo perduto nei lunghi anni della mia carcerazione, un tempo lungo ventuno anni. Oggi mi sento una persona diversa da quando fui arrestato, ma mi domando a chi possa interessare. Un giorno, qualche tempo fa, ho scoperto di essere ammalato di cancro, e ho capito ancora una volta che nessuno crede al mio cambiamento, l’ho capito perché ho visto che la mia malattia non viene considerata in se stessa, per quello che è, una patologia molto seria e invasiva, ma viene dopo la mia condizione, che resta quella del "mafioso per sempre". E a un "mafioso per sempre" non viene riconosciuto il diritto di curarsi vicino alla sua famiglia, non si può credere che sia una persona diversa, non si può "avere fiducia" in lui. Io capisco che la fiducia della società l’ho persa quando ho fatto certe scelte sbagliate, ma so anche che sono passati ventuno lunghissimi anni e che sono una persona diversa, e sono una persona malata, e la malattia ti cambia ulteriormente, ti fa apprezzare ancora di più quello che conta davvero nella vita, la famiglia prima di tutto. Io la malattia non me la sento di affrontarla lontano dalla mia famiglia, da solo, non ne ho la forza, io chiedo solo di provare a mettervi nei panni di una persona che sta in galera da anni, con una pena come l’ergastolo ostativo, che già gli toglie la speranza, e di ritrovarvi con una malattia, che ti stronca anche quel briciolo di speranza che ti è rimasta, o che fingi, per il bene della tua famiglia, che ti sia rimasta. Io proprio non ce la faccio a entrare in ospedale con la paura che ti provoca una malattia così, e a non avere nessuno vicino perché la mia famiglia vive troppo lontana e non ha nessuna possibilità di seguirmi qui. Aurelio Quattroluni La paura di doversi spegnere lentamente, fra sbarre e cemento Quando una persona in libertà è malata, spesso, anche se non sempre, vive in un ambiente che rispetta il suo stato, nel senso che riceve cure e assistenza e, di norma, può essere sicura di avere l’attenzione dalla propria famiglia. Sono guai più grandi quando chi si ammala è detenuto in carcere: invece di attenzione troppe volte trova indifferenza, tanto che il male si trasforma in vergogna. Il prigioniero malato spesso non gode della minima protezione e capita che gli si dà persino la responsabilità della sua malattia. Alla prima occasione, al minimo lamento o tentativo di cercare conforto, la malattia gli viene rinfacciata come una colpa. Viene tacciato di non essere un vero ammalato, anzi è considerato sempre "sano" perché socialmente pericoloso. Penso che il detenuto malato sia come un cieco a cui si rimprovera di non vedere. Aurelio è un "uomo ombra" condannato all’ergastolo ostativo, detenuto nel carcere di Padova, con la diagnosi di un grave tumore e con la necessità urgente di un intervento chirurgico. Quello in cui sperava è il differimento della pena per motivi di salute, nelle forme della detenzione domiciliare o, in alternativa, di operarsi da detenuto, ma vicino al luogo di residenza dei propri familiari, per essere assistito dalla moglie e dai figli. Sulle sue spalle pesano ora due gravi condanne, tutte e due mortali: ergastolo e cancro, ma, bizzarria della sorte, una condanna può eliminare l’altra... Dagli uomini è stato condannato alla "Pena di Morte Viva" - così si chiama l’ergastolo ostativo, quello senza possibilità di liberazione -, dal destino invece è stato condannato a morire di un brutto male, solo e lontano dalla sua terra e dai suoi familiari. Aurelio l’altro giorno mi ha scritto che non ha neanche più la forza per stare male, ma che ciò che lo terrorizza è la paura di doversi spegnere lentamente, fra sbarre e cemento. Penso che abbia ragione, perché quello che fa più paura a un uomo ombra malato è morire prigioniero, lontano dai propri familiari. Invece quello che terrorizza un uomo ombra sano è continuare a vivere senza neppure un calendario in cella per segnare i giorni che mancano al suo fine pena. Aurelio sta morendo, a poco a poco, in una prigione dei "buoni". Ecco le sue più recenti parole: "Sono dimagrito 25 chili. Ormai sono pelle e ossa. E con la testa non ci sono più. Ho solo voglia di impiccarmi. Ti prego fai qualcosa. Non farmi morire nel silenzio e nell’indifferenza". Mi dispiace Aurelio, ma io posso fare ben poco per aiutarti, se non scrivere queste quattro righe che quasi nessuno leggerà. Ti ricordi che una volta ti avevo detto che la morte, per farci dispetto, noi ergastolani ci porterà con sé per ultimi? Oggi sono costretto ad augurarti che sia veramente così e ti mando un sorriso pieno di vita. Carmelo Musumeci StopOpg: apprezzamento per OdG che vincolano il Governo sulle Rems forumsalutementale.it, 19 giugno 2017 StopOpg ha incontrato il Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera on. Marazziti: apprezzamento per Ordini del Giorno che vincolano il Governo sulle Rems. Si è svolto il 15 giugno alla Camera l’incontro fra una delegazione del Comitato nazionale StopOpg (Stefano Cecconi, Maria Grazia Giannichedda, Denise Amerini) e l’on. Mario Marazziti Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera. Si è discusso dell’avvenuta approvazione (il 14 giugno alla Camera) del Disegno di Legge AC 4368 "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", che con l’art. 1 comma 16 lettera d AC 4368, rischiava di riportare in vigore le norme dei vecchi Opg. Considerato che la questione di fiducia posta dal Governo ha impedito di presentare emendamenti, sono stati presentati e approvati alcuni Ordini del Giorno per condizionare l’attuazione della norma (ricordiamo che si tratta di una legge delega per la cui attuazione sono previsti decreti legislativi del Governo). StopOpg ha espresso apprezzamento sugli Ordini del Giorno approvati (vedi elenco sottostante), e un ringraziamento alle/ai deputate/i che li hanno proposti. L’importante Ordine del Giorno presentato dal Presidente Marazziti - insieme al Presidente della Commissione Ambiente on. Realacci e altri - restringe di molto la possibilità di ricovero nelle Rems - testualmente: "limitare per casi eccezionali e transitori" - per i detenuti (con sopraggiunta malattia mentale o in osservazione) e per le persone con misure di sicurezza provvisoria. Mentre, come auspicavamo, afferma che il diritto alla salute e alle cure dei detenuti va garantito con adeguata potenziamento delle sezioni di cura nelle carceri e attraverso misure alternative alla detenzione, e sempre con la presa in carico da parte dei servizi di salute mentale delle Asl. Infine è importante che l’O.d.G. affronti anche la questione delle Case di Cura e Custodia. Proprio consapevoli che gli Ordini del Giorno, pur vincolanti e chiari, non sono atto di legge, si è convenuto di insistere con il Governo affinché siano rispettati. Infine, durante l’incontro, si è convenuto necessario mantenere alta l’attenzione sul processo di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, sulle criticità aperte, sull’esperienza delle Rems e sullo sviluppo delle pratiche di cura e riabilitazione che consentono l’adozione delle misure alternative alla detenzione, nello spirito della legge di Riforma 81/2014. E tenuto conto dell’importante delibera del Consiglio Superiore della Magistratura (vedi Csm 19.4.2017) In questo senso al termine dell’incontro si è ritenuto utile: - venga assunta anche in sede parlamentare un’iniziativa per la riattivazione dell’Organismo nazionale di monitoraggio del superamento degli Opg (composto da rappresentanti dei Ministeri della Salute e della Giustizia, delle Regioni, della Magistratura e che va aperto alla partecipazione delle associazioni impegnate sul tema); - richiedere al Governo di mantenere l’impegno a presentare la Relazione periodica al Parlamento sul superamento degli Opg; - sia organizzata a settembre, a cura della Commissione Affari Sociali, un seminario di approfondimento sul processo di superamento degli Opg. Dio ti vede… e anche il giudice di Marino Longoni Italia Oggi, 19 giugno 2017 Nella riforma del processo penale, varata in via definitiva dalla Camera il 14 giugno, c’è un aspetto, passato sottotraccia, che rischia invece di avere effetti dirompenti. Si tratta del comma 84, lettera e), con la quale si legalizzano i captatori informatici, più noti come trojan di Stato. Si tratta di malware che possono essere inseriti in smart-phone, computer, apparecchi tv, perfino automobili e in tutti gli altri strumenti connessi a internet e che consentono di assumere il totale controllo da remoto dell’apparecchio infettato con conseguente possibilità di accedere a tutto il suo contenuto (contatti, email, dati di navigazione, comunicazioni telefoniche, chat, file, foto ecc.) e di attivare, sempre da remoto, il microfono o la telecamera, trasformando il cellulare o la playstation in uno strumento di intercettazione. In pratica questi virus una volta iniettati possono intercettare tutte le conversazioni, email o qualsiasi altro tipo di dato, possono anche prendere documenti, foto e video e sparire senza lasciare traccia. Infine possono modificare i contenuti dei file e dei dati presenti negli strumenti informatici. Le intercettazioni telefoniche via cavo sono ormai preistoria. Queste tipologie di indagine potranno essere attivate non solo per la ricerca di prove relative ai reati più gravi (mafia, terrorismo, concorrenza sleale), ma anche per attività criminali minori, collegate a sostanze stupefacenti, reati di ingiuria o minaccia, frode commerciale e vendita di prodotti alimentari non genuini. Praticamente sempre. Di fatto con questa norma si finisce per dare una copertura giuridica molto ampia a una prassi già da tempo adottata dai tribunali e legittimata finora, ma in modo parziale e incompleto, da poche sentenze della Corte di cassazione. La più importante è la Sezioni unite n. 26889/16, con cui la Corte ha sancito la legittimità, limitatamente ai procedimenti di criminalità organizzata, dell’uso dei captatori informatici al fine di effettuare intercettazioni di conversazioni tra presenti in luoghi di privata dimora. Naturalmente ad occuparsi di queste attività saranno società private delegate dal tribunale. Società commerciali che, una volta sperimentato il potere enorme che le conoscenze informatiche mettono a loro disposizione, potrebbero essere anche tentate (loro o qualcuno dei loro dipendenti) di prestare i loro servigi non solo ai tribunali. I clienti non mancano di sicuro. Quello che una volta gli investigatori privati facevano con grande impegno e dispendio di tempo, e con risultati spesso modesti, ora si può fare a costi contenuti e con la garanzia di ottenere una quantità di informazioni sterminata. E certamente già lo si fa su larga scala in tutto il mondo. Basti questo caso, ovviamente non di pubblico dominio: una grande azienda italiana del fashion si accorge che i suoi modelli, dopo due o tre giorni dalle sfilate sono già in vendita su internet, identici, ovviamente taroccati. Chiede la consulenza di un esperto in cybercrime e si accorge che, grazie a un trojan, tutto quella che passava sui suoi computer veniva immediatamente girato a un server cinese, dove aziende specializzate riuscivano a produrre e commercializzare in tutto il mondo i suoi modelli subito dopo la presentazione ufficiale. Secondo Europol, la bassa probabilità di identificare e perseguire i crimini informatici li colloca tra le attività più redditizie e a basso rischio da un punto di vista criminale. Nel 2016 il tasso di crescita di queste attività ha superato il 70%. Nel Regno Unito la criminalità informatica rappresenta il 53% di tutti i crimini commessi. Il costo del cybercrimine nell’economia globale si aggira tra i 375 e i 575 miliardi di dollari. E non fa che crescere. Oggi ancora poche persone sono consapevoli dei rischi connessi all’uso degli strumenti elettronici (ma i manager delle più importanti società americane hanno già l’accortezza di lasciare i propri smartphone in un’altra stanza, quando devono partecipare a riunioni importanti). Non c’è dubbio che di qui a pochi anni la consapevolezza di questi rischi sarà generale. A quel punto la libertà di comunicazione, che ha costruito la più forte spinta all’espansione della rete, si potrebbe ribaltare nel suo contrario. Come le strade romane nel medioevo, sempre più infestate di briganti, finirono per non essere più utilizzate, sarà questo, a breve, anche il destino delle autostrade informatiche? Giudici eroi o grandi giudici? di Donatella Stasio magistraturademocratica.it, 19 giugno 2017 A pagina 87 di "Vite che non sono la mia" (Einaudi, 2011), Emmanuel Carrère racconta di essere stato colpito dall’orgoglio con cui Etienne Rigal, giudice di pace, gli aveva detto di sé e di Juliette: "Siamo stati dei grandi giudici". Carrère è perplesso all’idea di associare la grandezza al mestiere di giudice, per di più di giudice di pace. Si sforza di ricordare figure di grandi giudici, ma gli viene in mente soltanto qualche nome legato a qualche caso mediatico, come Eva Joly. Peraltro, tutti giudici istruttori e non di udienza. "Ci si può immaginare un grande avvocato - scrive - ma non un grande giudice di pace, per di più competente di pratiche di modesto rilievo: muri divisori, curatele, affitti insoluti. Diciamo che a priori non mi faceva sognare". Etienne e Juliette sono due giudici "militanti", si direbbe a leggerne la descrizione. In realtà sono soprattutto due giudici che hanno assunto su di sé la responsabilità di essere "uomini sociali", per dirla con Piero Calamandrei, che hanno combattuto tenacemente una scomoda battaglia di diritto, divenuta politica, e l’hanno vinta, facendo così cambiare la legge francese sulla preclusione, ampliare la funzione del giudice e "alleggerire in piena legalità i debiti di decine di migliaia di poveracci". "È meno spettacolare dell’abolizione della pena di morte ma è sufficiente per dirsi - osserva Carrère - che si è serviti a qualcosa, e anche che si è stati dei grandi giudici". Ed è così, effettivamente. Sia chiaro: niente, di loro, rimanda alla retorica dei "tanti giudici che lavorano in silenzio" o al pluri-celebrato modello del giudice-algoritmo, giudice-bocca della legge, giudice-burocrate, che sembra tornato in voga. Anzi. Non a caso la politica non ama il grande giudice, ma ne diffida. Preferisce il "giudice eroe", o rappresentato dai media e percepito dall’opinione pubblica come tale. Un marchio di fabbrica che, alla bisogna, garantisce consensi nel vuoto politico alimentato dall’antipolitica. La storia conosce molti casi di giudici "eroi" corteggiati e contesi politicamente, acclamati dalle piazze, evocati come "il verbo" nelle aule parlamentari, celebrati come star in convegni politici, trasformati in simboli ora della lotta alla corruzione ora del contrasto alla mafia. Giudici spesso usati, strumentalizzati, e poi dimenticati. Questo "eroismo" giudiziario - al netto delle diverse storie professionali e delle differenti "proposte politiche" di chi di volta in volta lo rappresenta - spesso riflette un sentimento populista ma, soprattutto, un risentimento collettivo verso il potere, i governi, la politica. Risentimento che, da Berlusconi in poi, ha divorato fette sempre più ampie di opinione pubblica, ma anche di partiti, senza mai trovare solidi argini, neppure istituzionali. C’è insomma una sorta di gioco di specchi, che racconta molto di più di quanto contengano i "programmi politici" dei giudici eroi (anche se le parole di un "giudice eroe" hanno un impatto che non va mai sottovalutato). Quel gioco di specchi racconta, in particolare, il bisogno collettivo di un’immagine "eroica" della giustizia i cui tratti identificativi sono risentimento, piglio inquisitorio, pan-punitivismo, colpevolismo, mentre i diritti hanno un ruolo assolutamente marginale, in certi casi destabilizzante per la credibilità di quell’immagine. Giorni fa, durante un corso della Scuola della magistratura, è stato molto interessante ascoltare la psicoanalista Simona Argentieri sulle fantasie che i cittadini proiettano sui magistrati, in modo conscio o inconscio. Sono di due tipi, ha spiegato: persecutorie e idealizzanti. Nel primo caso proviamo "paura, sensi di colpa, al di là della nostra cattiva coscienza, e tendiamo a nasconderci". Ma sono le seconde - le proiezioni idealizzanti - "le più pericolose, perché le carichiamo di enormi aspettative sull’idea di giustizia e di chi la somministra: aspettative infantili di vendetta o di risarcimento totale per ogni torto o danno subito". Argentieri ha poi aggiunto che le aspettative idealizzanti sono le più pericolose anche perché "lusingano, a loro volta, le fantasie di onnipotenza del giudice, e conducono inesorabilmente alla delusione". Con inevitabili riflessi sulla fiducia. Nell’immagine idealizzante del giudice si rispecchia anche un’ampia fetta della magistratura, ormai da tempo sull’orlo di una crisi di identità e di fiducia, e perciò tentata e attratta, se non da rassicuranti derive corporative e burocratiche, da quel riflesso "eroico" che sembra restituirle status e autorità, più che autorevolezza e legittimazione. Ecco allora che dal gioco di specchi emerge la crisi generale di un sistema che, nelle sue diverse articolazioni, fatica a parlare il linguaggio della democrazia costituzionale per dimostrare la sua vitalità e riscattarsi da inerzie, populismi, corporativismi, illegalità diffusa, talvolta da cadute; che preferisce scorciatoie "eroiche" alla "grandezza" di un impegno quotidiano e "sociale", che vivifichi le scomode regole della democrazia costituzionale, nessuna esclusa. I magistrati, dunque, rischiano di diventare gli "eroi" di una giustizia, e di una democrazia, in perenne crisi di identità e di fiducia, anziché i protagonisti di una battaglia politica, culturale e giuridica che consenta al Paese di rispecchiarsi solo e soltanto nei principi della Costituzione. Forse è meno spettacolare, direbbe Carrère, ma è sufficiente per dire che si è serviti a qualcosa. E anche che si è stati dei grandi giudici. Reati, indagini ultrarapide ma il processo sarà più lungo di Claudia Morelli Italia Oggi, 19 giugno 2017 Obiettivo efficacia e certezza della pena per la legge sulla giustizia approvata mercoledì. Processo penale più efficiente... ma più lungo. Alla ricerca della formula magica contro la corruzione, visto che oltre il 12% dei reati contro la p.a. e il 13% dei reati societari rimangono impuniti a causa della prescrizione. Concordato in appello e limitazione delle impugnazioni ma prescrizione decisamente più lunga; procedibilità a querela per molti reati Ce diritto delle parti offese a conoscere lo stato delle indagini) e condotte riparatone che estinguono il reato anche nei processi in corso; tre mesi di tempo per esercitare l’azione penale da parte del pubblico ministero e avocazione da parte del procuratore generale; motivazione rafforzata (sulla valutazione delle prove) delle sentenze e dibattimento a distanza. Non è facile trovare un filo rosso univoco nei 95 commi di cui si compone l’unico articolo del provvedimento che ridisegna in gangli strategici la giustizia penale, approvato definitivamente con la fiducia dalla Camera dei deputati lo scorso 14 giugno. Raccogliendo tutte le reazioni di questi giorni, è il classico provvedimento "luci e ombre". Alcune misure hanno segnato la discussione politica, molto accesa: prescrizione lunga, soprattutto per i reati contro la p.a.; la delega per la riforma restrittiva delle intercettazioni (compresi i costi) e dei trojan di Stato (i malware destinati a investigazioni penetranti); l’avocazione del procuratore generale; i dibattimenti tramite videoconferenza; e tempi ridottissimi per esercitare l’azione penale. Di altre si è parlato poco; per esempio l’ampia delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario con una forte spinta alle misure alternative. Prescrizione. Promessa mantenuta dal governo Gentiloni, che nel programma nazionale delle riforme allegato al Def 2017 aveva indicato in giugno il termine per la riforma della prescrizione, in versione lunga. Proprio quattro giorni fa il ministro della giustizia Andrea Orlando ha annunciato che così l’Ocse ha chiuso la procedura di sorveglianza aperta ormai dai sei anni proprio sulla capacità di contrasto alla corruzione anche tramite la leva giudiziale. "Basta assoluzioni di colpevoli per prescrizione", ha detto Orlando. "Fine processo mai in barba al principio costituzionale della ragionevole durata dei processi" ribatte l’Ucpi. La riforma introduce nuove ipotesi di sospensione: autorizzazione a procedere; rogatorie all’estero; e dispone la sospensione automatica del decorso del termine per 18 mesi dopo la sentenza di condanna di I e dopo quella II grado. Ancora più stringente la norma per i reati contro la pubblica amministrazione, anche se la nonna "parla" in negativo: l’interruzione della prescrizione non può comportare l’aumento di più della metà (oggi un terzo) del tempo necessario a prescrivere. Significa che il reato di corruzione (semplice) si prescriverà in 15 anni: una eternità per gli avvocati penalisti Ucpi che considerano gli organismi internazionali hanno sempre legate l’efficacia della lotta alla corruzione, oltre che alla prevenzione, alle condanne effettive. Che in effetti in Italia vanno in fumo per prescrizione, come testimoniano i dati del ministero della giustizia aggiornati a maggio 2016. In sintesi: nell’ultimo anno censito (2014) le prescrizioni sono state oltre 132 mila, con una incidenza del 10% sui processi definiti. È vero che nell’ultimo decennio le prescrizioni sono diminuite del 40%, ma sono cresciute in Corte d’appello del 20%. Scomponendo il dato in relazione ai reati, il maggior numero di prescrizioni avviene appunto nei reati contro la p.a. (12,5%), per quelli societari (13%) e poi, a distanza, per le truffe (9%). Ma soprattutto è significativo segnalare però che nella stragrande maggioranza dei casi (ben il 58% dei casi) la prescrizione matura nella fase delle indagini, dunque in una fase preliminare al giudizio che è in capo ai pm. E infatti la corsa al processo non risparmia le procure: forse in questa ottica di limitare le prescrizioni nella fase delle indagini che può essere letta la norma che fissa in tre mesi l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, pena l’avocazione del procuratore generale. Norma che non piace affatto all’Associazione nazionale magistrati: intanto per il messaggio "capestro" ai pm; e poi perché sostiene che le procure generali verranno a loro volta sommerse di lavoro senza poter smaltire. Insomma... sarebbe una misura a efficacia zero. In ogni caso i processi contro la p.a. entrano nel novero di quelli a "trattazione prioritaria". Le novità: concordato in appello. Importante è la reintroduzione del concordato in appello, un patteggiamento in II grado, che consente alle parti di concludere un accordo sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d’appello, da sottoporre al giudice d’appello, che deciderà in merito in camera di consiglio. Se l’accordo comporta una rideterminazione della pena, anche tale nuova pena dovrà essere concordata tra le parti (pubblico ministero, imputato e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria) e sottoposta al giudice. Tutti i procedimenti speciali sono toccati dalla riforma per renderli più effettivi. Impugnazioni. Si semplifica, si sfoltisce (per esempio ampliando i casi di decisione in camere di consiglio ed eliminando alcune facoltà di appello sia da parte del pm che da parte dell’imputato) e si limitano i casi di ricorso in Corte di cassazione (per esempio non più ammissibile il ricorso diretto da parte dell’imputato), della quale si potenziano le decisioni a Sezioni unite per limitare i contrasti giurisprudenziali tra sezioni semplici. Il ruolo della parte offesa. Il tentativo è quello di rafforzarlo. Da una parte ampliando la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni (una forma però di deflazione sulle procure). Dall’altra riconoscendole il diritto di chiedere informazioni sullo stato della indagine in ogni processo. Ordinamento penitenziario. È una delega "pesante" perché sulla carta è destinata a cambiare radicalmente l’approccio all’esecuzione penale, lasciando spazio alla funzione rieducativa della pena (per i criteri di delega vedi la tabella). Una filosofia che forse mal si sposa con il contestuale aumento delle pene per i reati predatori (furto ecc.). Una richiesta di giustizia che non cala di Carlo Carboni Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2017 La poca fiducia negli altri li rende litigiosi, conflittuali, imbevuti nel loro individualismo, che ostenta razionalità cinica nelle aule dei tribunali ed emotività televisiva, con tanto di trasmissioni dedicate. Gli italiani sono più litigiosi e conflittuali in ambito civico rispetto ai cugini europei. Almeno un maggiorenne italiano su dieci si è inabissato, come attore o come protagonista, in una causa civile (2014). Secondo una ricerca europea AdrPlus di qualche anno fa, in Emilia Romagna oltre la metà dei contenziosi civili richiedeva la consulenza di un avvocato e il 37% finiva in tribunale; in Catalogna le percentuali erano dimezzate e in Aquitania tre volte inferiori. E considerate che l’Emilia Romagna non è certo tra le regioni più litigiose in Italia. Come segnalano i dati in queste pagine, sono piuttosto le nostre grandi città e i centri del Mezzogiorno a essere risucchiati nei gorghi del contenzioso, del litigio, del conflitto. L’italiano non è uno che lascia perdere: tutt’altro. Anche perché, a volte, può scommettere su un sistema giudiziario che conta ancora pochi giudici e una nota abbondanza di avvocati, situazione inusitata in Europa. L’italiano va fino in fondo, con la sua vocazione alla risoluzione legale del contendere, incoraggiato da una giustizia che affianca alla regola la deroga. La sua lentezza si specchia nell’immagine ambigua di uno Stato indulgente con le inefficienze di sistema, che, nel sottosuolo, lasciano correre avverse funzionalità latenti. Giustizia ritardata, giustizia negata sosteneva Montesquieu. La giustizia differita diventa ingiustizia. Il funzionamento della giustizia civile è essenziale per le imprese (la sua lentezza costa un miliardo annuo), risolutivo per il sistema economico (capacità d’attrazione d’investimenti) e imprescindibile per l’ordine sociale (condizioni civili dello sviluppo). Per le imprese - impigliate in contenziosi di lavoro, con clienti e fornitori, con fallimenti e successioni complicate - una giustizia civile che funziona significa rapidità e certezza, cioè efficienza. Che è quella che spesso manca anche per i contenziosi comuni a tutti i cittadini e per cui la macchina della giustizia sforna tante piccole ingiustizie quotidiane, più o meno equamente diffuse. Di esempi è lastricato il nostro quotidiano, come nei casi disperati - ma ahimè comuni - di separazione o divorzio che riguardano la cosiddetta "gestione" dei figli minori. In questi casi, anche i bambini sono condannati per un lungo periodo a subire le rudezze derivanti dallo stato di sospensione in cui si è costretti a vivere il quotidiano, a causa di una giustizia lenta. Spesso accade che il nodo del contendere si scioglie solo con il passare del tempo: i figli crescono, fino a poter esprimere le loro preferenze. A gestire la lentezza della giustizia in Italia ci pensa un esercito di circa 275mila avvocati, un primato, tanto più al cospetto di appena 15 magistrati per 100mila italiani (la metà della Germania, ma anche del Portogallo). Relativamente pochi (seppur ben pagati) a fronte di una litigiosità civile propensa a ricorrere alla giustizia, in Italia più che altrove: è probabile che i nostri magistrati lavorino anche di più dei loro colleghi europei, senza però essere in grado di accorciare la distanza di performance che ancora separa la giustizia civile italiana dagli standard Ue. Lo scenario è fortunatamente in via di miglioramento, l’Italia sta cercando di mettersi alle spalle le sue arretratezze giudiziarie. Certamente aiuta il rallentamento di nuovi contenziosi civili dopo il 2014: anche in questo settore, le emergenze della crisi stanno passando e i costi salati di avvocati e spese processuali richiamano al senso della misura. Il miglioramento è anche dovuto a una serie di provvedimenti ministeriali che stanno rilasciando importanti risultati. L’arretrato, a esempio, è in calo e i procedimenti in corso sono passati dai 4,68 milioni del 2013 ai 3,8 milioni dello scorso anno. La spesa per la giustizia sul Pil resta ancora poco più bassa della media europea, ma ciò non ha impedito al ministero di contare su nuove assunzioni. Comunque, molto potrà essere fatto spingendo sulla giustizia 4.0, digitale. I passi in avanti vanno colti con soddisfazione, ma è solo l’inizio del miglioramento necessario. Siamo ancora lontani dal dimezzamento dell’arretrato della giustizia civile e il tempo medio occorrente per procedimenti civili ha abbattuto il muro dei mille giorni solo l’anno scorso. È facile chiedere giustizia, difficile è renderla. Class action con pochi approdi in tribunale di Antonello Cherchi, Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2017 Le class action annunciate sono tante, ma poche arrivano in tribunale. E, a sette anni e mezzo dal debutto della disciplina in Italia (operativa dal 1° gennaio 2010), sono solo due le azioni concluse con il risarcimento del danno degli utenti. Una, promossa da Altroconsumo contro Intesa Sanpaolo sulle commissioni per scoperto di conto, si è chiusa un anno fa con rimborsi per sei ricorrenti su oltre cento. L’altra, avviata dall’Unione nazionale consumatori contro il tour operator Wecantour, ha portato al riconoscimento del danno da vacanza rovinata per i turisti che, nel Natale 2009, avevano pagato per un resort 4 stelle in Zanzibar per poi disporre di servizi molto al di sotto degli standard pattuiti. La situazione - Ma quante sono le class action avviate finora? Il numero preciso non è disponibile. Si tratta infatti di un dato che il ministero della Giustizia non monitora. E se le associazioni dei consumatori promuovono la maggior parte delle azioni, alcune sono proposte da comitati ad hoc. Spesso, poi, vengono annunciate come class action iniziative collettive che in realtà non sono le "azioni di classe" previste dall’articolo 140-bis del Codice del consumo, ma che utilizzano invece i sistemi tradizionali dei "ricorsi fotocopia" o della costituzione di più persone come parti offese in un processo penale. Quest’ultima è, ad esempio, la strada proposta dal Codacons alle persone travolte dalla folla il 3 giugno a Torino, durante la finale Juventus-Real Madrid. I dossier caldi, comunque, non mancano. Intanto, è attesa a breve la sentenza della Corte d’appello di Milano su due class action (che coinvolgono migliaia di consumatori), presentate da Altroconsumo e da Codici contro Trenord, società di trasporto ferroviario lombardo, per i disservizi dell’inverno 2012. A fine maggio è stata inoltre dichiarata ammissibile la class action proposta sempre da Altroconsumo contro Volkswagen per il Dieselgate. Al via anche, dopo la bocciatura del reclamo di Samsung, la class action della stessa associazione per le informazioni sulla memoria di smartphone e tablet. Ed è vicina alla conclusione in Cassazione l’azione avviata dal Codacons nel 2010 sul test per rilevare il virus dell’influenza "suina" della Voden Medical Instruments; ma hanno aderito solo due consumatori e il risarcimento (se sarà confermata la pronuncia d’appello) sarà di 10-20 euro ciascuno. Tra le (tante) class action che non hanno avuto fortuna ci sono quelle proposte da Adoc contro Banca popolare di Novara (per le commissioni) e contro la società di trasporti torinese Gtt (per i disservizi). Stessa sorte per la class action presentata da Codacons contro British American Tobacco per i danni da fumo. Mentre è sospesa, in attesa della pronuncia del Tar, l’azione di un pool di associazioni per il blocco di A11 e A1 del dicembre 2010. Per le associazioni dei consumatori - che la definiscono "un’arma spuntata" - la class action non decolla per due motivi: l’opt-in, ossia l’obbligo di adesione espressa di chi intende partecipare (negli Stati Uniti vige il principio opposto) e il risarcimento solo del danno patrimoniale subito e non ha carattere punitivo. D’altra parte nel 2013 la Commissione Ue, nell’invitare gli Stati membri a dotarsi di una normativa in tema di class action, raccomandava proprio il ricorso all’opt-in e l’esclusione dei risarcimenti punitivi per evitare l’abuso del contenzioso. La class action contro la Pa - È dei giorni scorsi la sentenza del Tar Lombardia che ha dato ragione ad Altroconsumo su una class action intentata contro il Comune di Milano per multe stradali notificate oltre i termini. Si tratta di una delle poche azioni collettive che le associazioni di consumatori hanno azionato nei confronti della pubblica amministrazione, nonostante siano ormai anni che esiste tale possibilità. È stato, infatti, il decreto legislativo 198 del 2009 a estendere la class action anche nei confronti della Pa. I casi però si contano sulle dita di una mano. Cittadinanzattiva nel 201o ne aveva avviate tre, ma due sono state lasciate cadere. Il Codacons ne ha intentate una ventina, ma solo cinque sono poi arrivate a una sentenza positiva per i consumatori. Da Confconsumatori sta per partire un ricorso contro la gestione del servizio idrico a Sondrio, perché agli utenti sono arrivate bollette salate anche a causa dei parametri adottati per la quantificazione delle somme. All’amministrazione è già stata notificata la diffida, a cui è stato risposto in modo interlocutorio. E ora si va davanti al Tar. Al di là delle cifre delle associazioni di consumatori, capire quante sono le class action contro la Pa è quasi impossibile: dovrebbe tenere il conto, così come prevede il Dlgs 198, il ministero della Pubblica amministrazione, ma quel monitoraggio sembra non essere mai partito. Il Vaticano pensa alla scomunica per la corruzione di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 19 giugno 2017 Il Vaticano sta studiando la possibilità di estendere la scomunica anche alla corruzione. Una richiesta scaturita dal gruppo di lavoro riunito per il "Dibattito internazionale sulla corruzione". La Santa Sede ha convenuto sulla "necessità di approfondire la questione". Per ora è materia di studio, ma è uno studio da approfondire in Vaticano e messo nero su bianco in una nota della Santa Sede: prevedere, come per i mafiosi, la scomunica dei corrotti. Il nuovo dicastero per lo "Sviluppo umano integrale", voluto da papa Francesco e guidato dal cardinale Peter Turkson, ha promosso questa settimana il primo "Dibattito internazionale sulla corruzione" con magistrati antimafia e anticorruzione, vescovi, personalità istituzionali di vari Stati e delle Nazioni unite, responsabili di movimenti, vittime, giornalisti, intellettuali, ambasciatori. Il gruppo interno che lavora sul tema "sta provvedendo all’elaborazione di un testo condiviso che guiderà i lavori successivi e le future iniziative". E tra queste, informa il dicastero vaticano, "si segnala al momento la necessità di approfondire, a livello internazionale e di dottrina giuridica della Chiesa, la questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa". Si tratta di vedere, nel caso, come tradurre tutto questo in norme canoniche. Rispetto alla mafia, del resto, Francesco era già stato chiarissimo: "Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono sco-mu-ni-cati", aveva sillabato tre anni fa nella Piana di Sibari, in Calabria, davanti a duecentocinquantamila persone. Quanto ai corrotti, Francesco ha spiegato più volte come la loro condizione sia assai peggiore di quella dei peccatori: "Un peccatore può chiedere perdono, un corrotto dimentica di chiederlo", spiegava nell’introduzione al libro "Corrosione" del cardinale Turkson, anticipata dal Corriere. La corruzione "nasce da un cuore corrotto ed è la peggiore piaga sociale, perché genera gravissimi problemi e crimini", scriveva Francesco. "Dobbiamo lavorare tutti insieme, cristiani, non cristiani, persone di tutte le fedi e non credenti, per combattere questa forma di bestemmia, questo cancro che logora le nostre vite". Le parole di Francesco "La corruzione è la peggiore piaga sociale. Combattiamo questa bestemmia, questo cancro che logora le nostre vite". Il seminario nella Casina Pio IV è nato "per far fronte a un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona", dice il cardinale Turkson. "Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone. Quindi spetta a noi, con questo dicastero, saper proteggere e promuovere il rispetto per la dignità della persona. E per questo cerchiamo di attirare l’attenzione su questo argomento". L’arcivescovo Silvano Tomasi ha spiegato che l’obiettivo è "sensibilizzare l’opinione pubblica, identificare passi concreti che possano aiutare ad arrivare a politiche e leggi che prevengano la corruzione, e creare una mentalità, una cultura della giustizia". La scomunica potrebbe aiutare. Sul diritto del detenuto di morire dignitosamente. Il caso Riina di Salvatore Battaglia altalex.com, 19 giugno 2017 La Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha depositato una sentenza (5 giugno 2017, n. 27766) che ha raggiunto le vette dei titoli dei più importanti quotidiani e ha innescato immediatamente reazioni dure e prese di posizione indignate. L’antefatto è semplice: il noto Riina Salvatore rivolge istanza di differimento della pena o di detenzione domiciliare per motivi di salute al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che emette ordinanza di rigetto. Il Riina ricorre per Cassazione. La Suprema Corte annulla con rinvio l’ordinanza. Il giurista ha probabilmente il compito di leggere i quotidiani, ma - ancor prima - il dovere professionale di leggere integralmente le sentenze. Ciò è accaduto a chi scrive. Nessun sussulto di ipersensibilità; soltanto lo scrupolo di verificare la corrispondenza del provvedimento della Corte di Cassazione con quanto riportato (in modo necessariamente sintetico) dagli organi di informazione. Il commentatore che riuscisse a mantenere un distacco scientifico dalla vicenda e dal suo tristemente noto protagonista potrebbe giungere alla seguente conclusione: "La Corte di Cassazione non ha avanzato l’ipotesi della scarcerazione di Totò Riina, ma ha piuttosto imposto al Tribunale di Sorveglianza di motivare meglio la propria ordinanza". Per adempiere a tale onere, il Tribunale dovrà certamente valutare alcuni elementi non adeguatamente scrutinati secondo la Suprema Corte. I Giudici di Legittimità, in estrema sintesi, hanno sottolineato che l’ordinanza impugnata manifestasse carenze motivazionali e aspetti di contraddittorietà. I - La valutazione dello stato morboso complessivo - La Corte riconosce che il Giudice a quo ha dato conto del continuo monitoraggio della patologia cardiaca da cui è affetto il detenuto e dell’adeguatezza degli interventi (anche di urgenza) già operati od operabili a mezzo di tempestivi ricoveri secondo quanto disposto dall’art. 11 Ord. Pen. Sul solco del richiamato orientamento giurisprudenziale della Cassazione e della Corte di Strasburgo, la Corte ritiene di muovere il primo rilievo all’ordinanza impugnata, evidenziando la carenza e la parzialità della motivazione in quanto essa, limitandosi alla valutazione delle patologie sofferte dal detenuto, non prende posizione sul "complessivo stato morboso del detenuto" e delle sue "generali condizioni di decadimento fisico", elementi essenziali ai fini della valutazione del trattamento sanzionatorio in conformità all’art. 27, comma 3, Cost. ed all’art. 3 Cedu.[1] Ciò che, secondo la Cassazione, è mancato nel provvedimento di merito è proprio tale ulteriore verifica volta all’accertamento di un’eventuale superamento del naturale limite di "sofferenza" insita nell’espiazione della pena detentiva (a fortiori nelle forme di cui all’art. 41 bis Ord. Pen.), con conseguente degradazione della stessa in trattamenti disumani o lesivi della dignità umana. II - L’età del detenuto - Altro aspetto censurato della Corte è la mancanza di una adeguata motivazione in ordine all’età avanzata dell’ottantaseienne istante. Il richiamato filone giurisprudenziale, infatti, impone al giudice di merito di motivare specificamente sul fattore anagrafico, al fine di poter formulare un giudizio adeguato sull’umanità della detenzione e sul diritto alla salute.[2] Quanto sopra, stando ai Supremi Giudici, è stato pretermesso nella parte motiva dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, ivi non emergendo argomentazioni in ordine alla chiesta alternativa misura di detenzione domiciliare. Il che sia con riferimento alle diverse funzioni della pena ed alle concrete condizioni di salute del condannato istante. III - Il dovere dello Stato di garantire al reo una morte dignitosa - Ecco il vero punctum dolens, veramente dolensi, se non altro perché avvertito come sale sulle ferite delle persone offese o danneggiate dai gravissimi reati commessi dal Riina ed accertati in numerose sentenze che rivestono ormai autorità di cosa giudicata. Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, infatti, aveva definito la possibilità di un exitus infausto "condizione di natura" comune a tutti gli uomini, a prescindere dal loro stato o meno di detenzione, e come tale circostanza neutra ai fini della valutazione dell’umanità della pena. La Corte di Cassazione dissente da tale conclusione, affermando il diritto di morire dignitosamente che deve essere assicurato al detenuto; diritto che non può essere ignorato negli scrutini in executivis. Ne discende, di converso, o almeno così pare, il dovere dello Stato di garantire al reo una morte dignitosa. Riportare (sostenere?) gli accorati appelli dei familiari delle vittime di Riina sarebbe cosa giusta e doverosa, ma si correrebbe il rischio di aprire un ampio discorso (pur meritevole di attenzione) sul senso della pena, che però condurrebbe il discorso fuori dai binari sui cui è sorto e prosegue. IV - Condizioni strutturali della Casa di Reclusione di Parma - Sempre con riferimento ai vizi motivazionali (sul versante della contraddittorietà), la Corte censura l’ordinanza della sorveglianza in quanto se da un lato afferma la compatibilità dello stato di salute del detenuto con la condizione carceraria, dall’altra denuncia le deficienze strutturali dell’Istituto penitenziario, perlopiù legate all’impossibilità di garantire al detenuto un letto rialzabile a motivo delle ristrette dimensioni della cella. V - Attualità della pericolosità del reo - Anche sotto tale aspetto la Corte Suprema biasima la mancanza di una adeguata motivazione. È pur vero che la stessa Cassazione afferma (e ci mancherebbe) "l’altissima pericolosità sociale del detenuto e del suo indiscusso spessore criminale"; ciononostante censura il provvedimento del Tribunale in quanto non chiarisce come tale pericolosità sia attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del decadimento fisico dello stesso. Nel sistema disegnato dalla Costituzioni e dalle fonti sovranazionali, argomenta il Collegio di Legittimità, le eccezionali condizioni di pericolosità devono essere basate "su argomenti di fatto rapportati all’attuale capacità del detenuto di compiere azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza". VI - Conclusioni - L’attenta lettura della sentenza in commento, come si è visto, non consente affatto di affermare che la Corte di Cassazione ha dato il primo giro di mandata utile alla scarcerazione di uno dei più temuti criminali della storia italiana. È innegabile che, in punto di diritto e sotto i profili di legittimità (gli unici sui quali la Cassazione può pronunciarsi), la Corte non ha escluso la possibilità del differimento della pena né della detenzione domiciliare. Sarà adesso compito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna emettere un’ordinanza conforme ai rilievi mossi dalla Corte Suprema ed ai principi di diritto dalla stessa enunciati. Post scriptum - Fin qui il resoconto del commentatore che rinvia ad altre sedi argomentazioni di altro genere. Sia consentito riflettere sulle implicazioni pratiche di un eventuale provvedimento di scarcerazione del Capo dei Capi di Cosa Nostra e sulla gestione concreta della vicenda. Le lamentate gravi condizioni di salute del reo implicherebbero l’allestimento di un reparto specializzato nell’abitazione di Corleone ovvero il ricovero presso una struttura ospedaliera adeguata, senza considerare il dispiegamento di forze e mezzi necessari a garantire la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza minacciata da colui che per la Direzione Nazionale Antimafia continua ad essere il numero uno dell’organizzazione di tipo mafioso denominata "Cosa Nostra" e che nelle note passeggiate presso il carcere di Milano Opera si vantava lucidamente dei propri successi stragisti, invocando quasi un sussulto di orgoglio criminale con l’auspicata uccisione del PM Antonino Di Matteo (piaccia o non piaccia il soggetto) e del fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. [1] Cass. Sez. I, sent. n. 16681/2011; Cass. Sez. I, sent. n. 22373/2009. [2] Cass. Sez. I, sent. n. 52979 del 13.7.2016; Cass. Sez. I, sent. n. 3262 dell’1.12.2015. Droga, con spaccio vicino all’università non scatta l’aggravante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 1° giugno 2017, n. 27458. In caso di cessione o di offerta di sostanze stupefacenti in prossimità di un’area universitaria, l’estrema genericità dell’espressione "comunità giovanili", contenuta nell’articolo 80, comma 1, lettera g), del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, può giustificare che in tale espressione sia ricompresa anche l’"università", senza per questo ricorrere al ragionamento analogico. Tuttavia, perché possa concretamente contestarsi tale aggravante occorre avere riguardo alla nozione di "prossimità", contenuta nella norma, dovendosi ritenere che con tale termine il legislatore ha individuato quelle aree esterne rispetto alle strutture tipizzate (scuole, caserme, comunità giovanili), che devono essere ubicate "nelle immediate vicinanze" e, proprio per questo, sono abitualmente frequentate dagli utenti istituzionali (studenti, militari, pazienti). Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 27458 del 2017. Un rapporto di "relazione immediata" - In altri termini, tra i luoghi indicati e le aree di prossimità deve sussistere un rapporto di "relazione immediata", che in tal modo giustifica la previsione dell’aggravante, riferita alla oggettiva localizzazione della cessione o dell’offerta dello stupefacente alle persone che frequentano tali luoghi (nella specie, in cui il giudice aveva esclusa la sussistenza dell’aggravante in un’ipotesi di cessione di droga in area universitaria, la Corte, pur riconoscendo l’applicabilità in via interpretativa di tale aggravante anche alle università, ne ha esclusa la ravvisabilità in concreto sul rilievo assorbente della mancanza del requisito della "prossimità" della condotta incriminata rispetto all’università, giacché la contestazione si riferiva genericamente alla cessione della droga "in prossimità dell’area universitaria", in senso molto ampio e aspecifico, in una città in cui la zona universitaria occupava interi quartieri; mentre per la pertinente contestazione si sarebbe dovuto apprezzare la "prossimità" della condotta incriminata, ossia la contiguità fisica e il posizionamento topografico dell’agente dedito allo spaccio o all’offerta in un luogo che consenta l’immediato accesso alle droghe delle persone che lo frequentano). L’operatività della specifica circostanza aggravante - La Cassazione affronta il tema dell’ambito di operatività della circostanza aggravante prevista dall’articolo 80, comma 1, lettera g), del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, configurabile nell’aver offerto o ceduto sostanze stupefacenti o psicotrope all’interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado, comunità giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti. La finalità dell’aggravante, come è noto, risiede nell’esigenza di tutelare e preservare dal fenomeno della diffusione degli stupefacenti comunità notoriamente più aggredibili, perché frequentate da persone potenzialmente a rischio di fronte al pericolo droga, o per la giovane età o per particolari condizioni soggettive. Del resto, nelle suddette comunità il rilevato pericolo si manifesta particolarmente evidente, in quanto l’elevato numero delle persone presenti e la concentrazione delle stesse rappresentano le condizioni per un allargamento "a macchia d’olio" del contatto con la droga. Il tema affrontato dal giudice di legittimità riguarda l’applicabilità della fattispecie aggravata alla "università", nonostante una indicazione letterale che non comprende questa specifica comunità giovanile. La Corte propende per la soluzione positiva, senza la necessità di dovere ricorrere a una vietata interpretazione analogica, evidentemente valorizzando il proprium dell’aggravante e la assimilabilità dell’università alle (altre) comunità giovanili prese letteralmente in considerazione dalla norma. La soluzione sembra convincente: depongono, infatti, nella direzione dell’applicabilità dell’aggravante de qua alla università ragioni di natura teleologica, ma anche inequivoche indicazioni letterali. Sotto il primo profilo, rileva la finalità della fattispecie, che risiede - come si è accennato - nell’esigenza di tutelare e preservare dal fenomeno della diffusione degli stupefacenti comunità notoriamente più aggredibili, perché frequentate da persone potenzialmente a rischio di fronte al pericolo droga, o per la giovane età o per particolari condizioni soggettive. Non è in effetti dubitabile che tale finalità ricorre in presenza di condotte di spaccio in zona universitaria, in ragione della ricorrenza nei confronti degli studenti, potenziali clienti, delle esigenze di particolare tutela di cui si è detto. Sotto il secondo profilo, anche a non considerare che la nozione di "scuola" non può non ricomprendere anche l’università, rileva assorbente il fatto che l’università è una (la) tipica "comunità giovanile" cui la norma si riferisce. Nello specifico, piuttosto, la Corte ha ritenuto inapplicabile l’aggravante per difetto del requisito della "prossimità": mancava, infatti, nella fattispecie concreta, la positiva dimostrazione che il fatto incriminato si fosse effettivamente svolto nelle "immediate vicinanze" delle strutture universitarie, onde non poteva ritenersi dimostrato che si fossero realizzate le condizioni di "rischio" per i frequentatori della comunità poste alla base dell’aggravante. Ne deriva, quindi, una pacifica indicazione interpretativa che vuole contestabile l’aggravante in questione in caso di spaccio che interessi la comunità universitaria, purché però si dimostri in positivo la contiguità della condotta rispetto agli spazi universitari, frequentati dagli utenti istituzionali oggetto di particolare protezione. È circonvenzione di incapace approfittare di condizioni pregiudicate riconoscibili di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 19 maggio 2017 n. 24930. In tema di circonvenzione di persone incapaci la Cassazione con la sentenza n. 24930 del 2017 chiarisce le caratteristiche dell’infermità psichica e della deficienza psichica. Sulla circonvenzione di persone incapaci (articolo 643 del Cp), il fatto che la legge individui tre categorie di soggetti passivi (il minore, l’infermo psichico e il deficiente psichico), distinguendo quindi tra infermo psichico e deficiente psichico e non considerando necessario che il soggetto passivo si trovi nella condizione per essere interdetto o inabilitato, induce a ritenere che per "infermità psichica" deve intendersi ogni alterazione psichica derivante sia da un vero e proprio processo morboso (quindi catalogabile tra le malattie psichiatriche) sia da una condizione che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive o volitive, mentre la "deficienza psichica" è identificabile in un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell’infermità, è comunque idonea a porre il soggetto passivo in uno stato di minorata capacità in quanto le sue capacità intellettive, volitive o affettive, fanno scemare o diminuire il pensiero critico (vi rientrano, per esempio, l’emarginazione ambientale, la fragilità e la debolezza di carattere). Minimo comune denominatore in entrambe le situazioni - In ogni caso, minimo comune denominatore rinvenibile in entrambe le situazioni consiste nel fatto che, in tanto il reato può essere configurato, in quanto si dimostri l’instaurazione di un rapporto squilibrato fra vittima e agente, nel senso che deve trattarsi di un rapporto in cui l’agente abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima a causa del fatto che costei si trova, per determinate situazioni da verificare caso per caso, in una minorata situazione e, quindi, incapace di opporre alcuna resistenza a causa della mancanza o diminuita capacità critica. Tale situazione di minorata capacità deve essere oggettiva e riconoscibile da parte di tutti in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti Nella fattispecie esaminata la Corte ha ritenuto corretto il ragionamento del giudice di merito che aveva ravvisato il reato motivando in termini convincenti non solo sulle accertate condizioni psicofisiche pregiudicate di alcune delle vittime, ma anche e soprattutto sul tema della riconoscibilità di tali condizioni, tali da avere indotto gli imputati alla scelta delle vittime e poi ad approfittare di queste condizioni pregiudicate - in primo luogo, l’ipoacusia - determinate anche dall’età avanzata. Sassari: suicidio di un detenuto italiano nella Casa circondariale di Bancali sardegnareporter.it, 19 giugno 2017 "Questa volta a nulla è servito l’intervento della Polizia Penitenziaria". A dichiararlo è il Segretario Generale Aggiunto dell’O.S.A.P.P. - Domenico Nicotra - che rende note le modalità con cui il detenuto si è suicidato nella serata di ieri. "Il detenuto in questione, continua Nicotra, in carcere per una condanna per furti dopo che l’Agente di Polizia Penitenziaria aveva effettuato il normale e previsto giro di controllo ha ricavato un cappio dalle lenzuola in suo possesso e si è impiccato nel bagno della stanza detentiva". "Il corpo esamine del detenuto è stato ritrovato alcuni minuti dopo il giro di controllo effettuato dal Poliziotto Penitenziario e questa volta a nulla sono valsi l’intervento della Polizia Penitenziaria, prima, e dei medici del 118 dopo". Oristano: l’ultimo indipendentista sardo si lascia morire dentro una cella di Nicola Pinna La Stampa, 19 giugno 2017 Sconta una condanna per evasione fiscale, non mangia da 50 giorni. Il palazzo del governo era una specie di accampamento, senza i soliti comfort presidenziali. Tre o quattro borse frigo per le scorte di viveri e un grande telo scuro per assicurare un po’ d’ombra almeno all’ora di punta. Era agosto e l’isola di Maldiventre strapiena di turisti. Doddore Meloni arrivò di mattina, in una giornata stranamente senza vento: sbarcò da un gommone rosso e prima di pronunciare il prevedibile discorso ufficiale (in sardo, naturalmente) si arrampicò sulla roccia più alta dell’isola per issare una grande bandiera rossa e blu. Cerimoniale senza inni ma con molta enfasi. Era il 28 agosto del 2008 e quella, nella sua idea di Sardegna indipendente, doveva essere una giornata di festa: l’inizio di una storia nuova, la fine di quella che in tanti da queste parti hanno sempre considerato una lunga e ingiusta dominazione. Il progetto "La libera repubblica" sull’isola deserta, con tanto di ministri, richieste di residenza e moneta locale, era solo il primo tassello di un progetto molto più grande e che Doddore Meloni contava di realizzare in pochi anni. Si mostrava sempre ottimista e solo a notte fonda cedeva allo sconforto: "Non mollerò mai, ma sono sicuro che farò la fine dell’indipendentista irlandese Bobby Sands, morto in carcere dopo un lunghissimo sciopero della fame". Nove anni dopo, quella confessione ha tutti i contorni di un’incredibile profezia. Doddore Meloni è il più irriducibile degli indipendentisti sardi, ha passato i suoi 74 anni a immaginare la terra dei nuraghi ancora più lontana da Roma e in questi giorni combatte la battaglia più grande di tutte: quella per la vita. La fa con il solito coraggio, disposto persino ad accettare che questa possa essere l’ultima sfida. È in carcere da 50 giorni e da 50 giorni fa lo sciopero della fame. Ha ricominciato a bere, ma quel corpo da gigante sembra gravemente fiaccato. "Le sfide della vita non si possono lasciare a metà - ha detto ieri al suo avvocato. Solo così si possono ottenere grandi risultati, so benissimo qual è il rischio che sto correndo in queste ore". Doddore Meloni, in realtà, è uno che è già morto e risorto. Il sogno di liberare la Sardegna dalla "colonizzazione italiana" si era infranto per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta. Il colpo di stato sardo era quasi pronto e la nazione che gli indipendentisti avevano progettato avrebbe avuto anche l’appoggio di un certo Muammar Gheddafi, che allora era il primo ministro della Libia. Doddore Meloni finì in carcere e ci restò per nove anni: unico italiano condannato per cospirazione contro lo Stato. "Mi hanno tenuto 33 giorni in un reparto dell’ospedale di Nuoro con gli aghi sulle braccia, per costringermi a confessare chissà cosa. Se non mi avessero messo le manette, la nostra nazione esisterebbe dal 1982. Io, comunque, ci credo ancora". E lo ha dimostrato. A 65 anni, l’instancabile patriota ha occupato l’isola di Maldiventre e al largo della costa occidentale della Sardegna ha provato a costruire un pezzetto del tanto sognato stato dei quattro mori. Ma la sua repubblica è stata affondata dai blitz della polizia e per lui sono iniziati i guai. "Da quel momento - denuncia l’avvocato Cristina Puddu - ha affrontato 24 procedimenti penali. Ma non è tutto, perché anche la figlia, la moglie, il fratello, il nipote, il cognato e molti dei militanti del suo movimento sono stati coinvolti dalle inchieste. Non è una persecuzione giudiziaria questa?". In carcere Nel nome dell’irremovibile ideale secessionista, Doddore Meloni ha organizzato proteste, occupazioni e persino una lista per conquistare la Regione. Da aprile è finito in carcere per scontare due condanne definitive: 3 anni per evasione fiscale, un anno e otto mesi per falso nella richiesta (respinta) di gratuito patrocinio legale. "Chiediamo che possa scontare ai domiciliari la pena - invoca la figlia Francesca, che venerdì mattina si è incatenata all’ingresso del tribunale di Cagliari - Ha perso 30 chili ed è in condizioni gravissime. Non scapperà, avrebbe potuto farlo prima. È un uomo leale, non si sottrarrà alla sfida con la giustizia italiana". Padova: "al carcere Due Palazzi situazione insostenibile", nuova denuncia del Sappe Il Gazzettino, 19 giugno 2017 Nuovo tour in alcune carceri di Veneto e Friuli Venezia Giulia del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, che visiterà oggi gli istituti Udine e Trieste e domani la Casa di reclusione di Padova. Guiderà la delegazione sindacale il segretario generale Donato Capece il quale evidenzia "come i gravi episodi accaduti all’interno delle carceri sono sintomatici del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la polizia penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Nei penitenziari di Friuli Venezia Giulia e Veneto si sono contati, nello scorso 2016, 451 atti di autolesionismo (124 e 327), 51 tentati suicidi di altrettanti detenuti (11 e 40) sventati in tempo dalla polizia penitenziaria, 412 colluttazioni (93 e 319) e 140 ferimenti (35 e 105). Il Sappe torna a denunciare il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri, il 50% dei ristretti di Friuli e Veneto: "È sintomatico che negli ultimi dieci anni ci sia stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, che da una percentuale media del 15% negli anni 90 sono passati oggi ad essere oltre 19mila e 200. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia". Bologna: quattro bambini nel carcere della Dozza. La direttrice: "non siamo attrezzati" zic.it, 19 giugno 2017 Niente nido, le culle non bastano: la direttrice del carcere certifica l’impossibilità di garantire una detenzione dignitosa alle madri recluse e ai loro figli. Lo ha ammesso alcuni giorni fa in un convegno la direttrice della Casa circondariale bolognese: "Non abbiamo la sezione nido ma ospitiamo frequentemente madri, quattro è il massimo storico. La presenza di bambini rappresenta una situazione di criticità e imbarazzo per noi operatori perché sono in camere di detenzione comuni. Per alcune abbiamo le culle, ma per la quarta, che è entrata da poco, solo un lettino da campeggio. Non siamo attrezzati per garantire una detenzione pienamente dignitosa a queste madri". E’ "inaccettabile la presenza di bambini in carcere", ha detto Elisabetta Laganà, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune. "Dobbiamo pensare a un progetto per Bologna per accogliere le detenute con bambini, un progetto che può essere una casa protetta, perché questo dramma non è più prorogabile". Nella sezione femminile dalla Bozza ci sono 77 detenute, meno della metà sono migranti, in gran parte hanno tra i 25 e i 45 anni. Cuneo: "un bus da Saluzzo al carcere per le famiglie dei detenuti" di Andrea Garassino La Stampa, 19 giugno 2017 "Per il carcere "Morandi" deve essere istituito un servizio di trasporto pubblico per aiutare le famiglie che si recano ai colloqui". È una delle richieste espresse da una delegazione del Consiglio regionale del Piemonte che, l’altra mattina, ha visitato il penitenziario di Saluzzo di regione Felicina, a circa 5 km dal centro. Era composta dai consiglieri Marco Grimaldi di Sel - Sinistra italiana, dall’ex sindaco di Saluzzo Paolo Allemano del Pd e dall’esponente dei Radicali italiani, Igor Boni. Nella struttura nei mesi scorsi è stato aperto un nuovo padiglione da 4 sezioni, di cui due utilizzate. Sono 357 i detenuti. Da tempo gli agenti della Polizia penitenziaria con i sindacati lamentano carenze di organico. "La mancanza di nuovi arrivi fra i poliziotti - dice Grimaldi - risulta ancor più problematica per i detenuti in regime di alta sicurezza, sottoposti a limiti e restrizioni e, tuttavia, in diritto di accedere a percorsi riabilitativi e spazi di autonomia". Lacune evidenti - La visita, effettuata insieme al direttore del carcere Giorgio Leggieri, ha evidenziato altre lacune. "Ci sono solo 4 educatori - spiegano i consiglieri -, anziché gli 8 previsti, numero che aumenterebbe con l’apertura della altre 2 sezioni. Mancano impiegati amministrativi". L’azione educativa, da tempo, ha diversi sbocchi. "È attivo - proseguono - un biennio di scuola superiore uguale per tutti e un diploma quinquennale di liceo artistico, con indirizzo design. Inoltre, tre percorsi di formazione professionale destinati ai detenuti di media sicurezza e, di recente, a quelli di alta sicurezza. Ci sono corsi di cucina e panificazione, falegnameria e giardinaggio. Il prossimo anno verrà avviato quello di informatica per l’alta sicurezza. Esiste un laboratorio teatrale da 17 anni, con 40 reclusi". Lavoro e rieducazione - Il lavoro è un’altra "leva" della rieducazione. "Facciamo appello - dice Allemano - alle aziende del territorio e alle fondazioni per sostenere i progetti di inserimento lavorativo, che il carcere ha già pronti, ma restano inattuati". La struttura si è rivelata difficilmente accessibile. "I colloqui - aggiungono - con le famiglie si svolgono ogni giorno, ma i collegamenti di mezzi pubblici sono scarsi e frammentati. Questo crea difficoltà, soprattutto per i parenti dei detenuti meno abbienti o che arrivano da lontano: chi atterra a Caselle è costretto a 4 passaggi". "Facciamo appello alle istituzioni - sottolinea Boni - perché migliorino il trasporto pubblico. Esistono già esperienze di noleggio auto con conducente che potrebbero essere attivate, attraverso convenzioni, permettendo alle famiglie di raggiungere la struttura". Augusta (Sr): liceali e scout a stretto contatto con la Casa di reclusione lagazzettaaugustana.it, 19 giugno 2017 Nei giorni scorsi si è dato vita a una nuova tappa, nell’ambito dei progetti di educazione alla legalità degli studenti e inclusione sociale dei detenuti, al carcere di Augusta. Martedì 13 giugno, nel corso della mattina, si è tenuta una visita del gruppo scout Agesci Augusta 2 "Claudia Franco", che, dopo un incontro in direzione con il direttore Antonio Gelardi, la vicecomandante commissaria Alessandra Di Vita, la capo area trattamentale Emilia Spucches della casa di reclusione, ha visitato l’istituto e incontrato i detenuti, all’interno di una sezione detentiva, per un dibattito sui temi della giustizia e del carcere. Nel pomeriggio è stata la volta degli alunni del Liceo "Megara", istituto diretto dalla reggente Maria Concetta Castorina, che si sono recati alla struttura per un saluto finale dopo una attività di collaborazione durata alcuni mesi. Gli studenti, divisi in due gruppi, da aprile in poi hanno frequentato insieme ad un gruppo di detenuti il corso di ceramica tenuto da Simona Farina e la saletta artigianale in compagnia del detenuto Rusi Besim, esperto modellista. A conclusione dei corsi, si è svolta una partita di calcio fra gli studenti e una nazionale dei detenuti. L’attività è stata realizzata nell’ambito del laboratorio di legalità progettato dalla casa di reclusione congiuntamente al liceo augustano e all’associazione "Libera". Tutor dell’iniziativa, giunta al suo quinto anno di svolgimento, sono stati i docenti Pancari, Garilli e Solano. Per la casa di reclusione, si tratta di una esperienza di inclusione, di contatto con le scuole e il territorio e di implementazione delle attività trattamentali. Per gli studenti, di uno straordinario percorso di crescita. La direzione della casa di reclusione, come riferisce il direttore Antonio Gelardi, ha manifestato sin d’ora la disponibilità a proseguire l’esperienza. Padova: "Pallalapiede", un calcio al pallone per fare spirito di gruppo Il Gazzettino, 19 giugno 2017 La squadra dei detenuti si è aggiudicata il torneo Fisioelan. Non solo una semplice partita di calcio, ma due strade che si sono unite, con l’intenzione di condividere un progetto comune e una collaborazione che renda l’evento un appuntamento fisso di ogni primavera. Questo il significato più importante del triangolare Pallalpiede Pfp Fisioelan che si è giocato giovedì scorso al campo interno del carcere Due Palazzi. Il torneo, promosso da Birra Antoniana e dall’agenzia assicurativa Schiavon & Bonamin, ha visto la partecipazione della Pallalpiede, la formazione composta da detenuti del carcere padovano, la rappresentativa del poliambulatorio Fisioelan, che da sempre sostiene la Pallalpiede, e la Padova Football Press, la selezione dei giornalisti padovani. Questi ultimi, prima del fischio d’inizio, hanno consegnato in regalo alla formazione di casa il libro "Piacere Padova" di Paolo Donà, che si è aggiunto a una precedente donazione in denaro. Poi in campo è stato grande spettacolo grazie soprattutto a qualche giocata dei detenuti che hanno raccolto grandi applausi dei presenti. Questa squadra in tre anni ha contribuito a limare le divisioni all’interno del carcere tra le varie componenti etniche, creando un significativo e costruttivo spirito di gruppo. Alla fine a trionfare sono stati i giocatori della Fisioelan, in grado di battere nella prima partita per 1-0 la Pallalpiede, con gol di Misticoni. Poi i detenuti hanno battuto i giornalisti, con reti di Balog e allo scadere di Andreis, dopo il momentaneo pareggio di Mihoc. L’ultima partita è finita in parità, con la rappresentativa dei medici in vantaggio grazie a un colpo di testa di Traforetti, prima del pareggio in extremis di Della Mea su rigore. Al termine della manifestazione le squadre si sono subito date appuntamento alla seconda edizione del triangolare. Intanto la Pallalpiede continua a raccogliere fondi e sponsor per permettere ai detenuti di partecipare al proprio quarto campionato di Terza categoria consecutivo. In queste prime tre stagioni la formazione ora allenata da Fernando Badon, che ha sostituito Valter Bedin, ha sempre vinto la Coppa disciplina come squadra più corretta del campionato. La squadra disputa tutte le proprie partite all’interno del carcere e per questo è "fuori classifica", anche se il sogno degli organizzatori che hanno lanciato questo progetto nel 2014 è quello di riuscire un giorno a giocare anche le gare in trasferta. Como: un calcio al pallone per dimenticare le difficoltà di vivere in carcere Il Giorno, 19 giugno 2017 Il quadrangolare che si è disputato sabato scorso fra i detenuti, la polizia penitenziaria, gli avvocati e una delegazione di consiglieri regionali. Anche un pallone può servire a dimenticare, almeno per un giorno, le difficoltà di una vita dietro le sbarre. Lo hanno sperimentato ieri al Bassone i detenuti del carcere impegnati in un quadrangolare che li ha visti opposti alle squadre della polizia penitenziaria, gli avvocati e una delegazione di consiglieri regionali. Neanche a dirlo quelli meno in forma erano proprio i rappresentanti del Pirellone, che però si sono messi in gioco e hanno sudato le proverbiali sette camicie per aderire all’invito del consigliere segretario Daniela Maroni, da tempo molto attiva nell’aiuto per il reinserimento dei detenuti del carcere comasco. La sfida si è svolta al meglio degli scontri diretti, in partite di due tempi di venti minuti l’uno, cui sono poi seguite le finali per il primo e secondo posto e quella per decretare il terzo e il quarto. A tifare per i loro compagni in campo anche una piccola delegazione di detenuti, che hanno assistito alla gara da un corridoio interno alla struttura, a distanza di sicurezza. Duri, ma corretti, i detenuti del Bassone non hanno sfigurato con la palla tra i piedi, probabilmente perché erano anche la formazione più multietnica, visto che oltre agli italiani giovano anche marocchini, rumeni e nigeriani. Alla giornata di sport hanno partecipato anche Katia Arrighi, delegata Coni Como, Paola Pietrobelli del Coni Lombardia e Michela Macalli, responsabile sviluppo calcio femminile della Figc. Trani: un "caffè ristretto" per conoscere e conoscersi in carcere andrialive.it, 19 giugno 2017 Il progetto ha coinvolto dieci detenute, tutte con condanna definitiva, in un gruppo di discussione, narrazione e confronto su cosa significhi essere pienamente donna, esprimere la propria femminilità, creare dei legami. Si è concluso in un clima di festa e convivialità il percorso formativo “Caffè Ristretto”, avviato lo scorso gennaio presso la Casa di Reclusione Femminile di Trani, a cura della dott.ssa Marianna Matera e della dott.ssa Emanuella Cannone. L’iniziativa, prontamente sostenuta dal Centro di Orientamento “Don Bosco” e approvata dalla Direzione degli Istituti Penitenziari di Trani e dal Provveditorato Regionale, ha coinvolto dieci detenute, tutte con condanna definitiva, in un gruppo di discussione, narrazione e confronto su cosa significhi essere pienamente donna, esprimere la propria femminilità, creare dei legami e vivere gli affetti. L’idea progettuale era nata tempo prima dall’incontro fortuito tra due donne all’interno di una Cooperativa sociale. Una detenuta in semilibertà e una psicologa. «Quel rapporto di simpatia, alimentato nel tempo proprio attraverso l’abitudine di prendere un caffè insieme – racconta la dott.ssa Matera - ha ispirato il titolo del progetto, realizzato in questi mesi nel difficile contesto carcerario. Davanti a tazzine di caffè le persone si incontrano, si conoscono, talvolta si innamorano. Parlano di sogni, speranze o paure. Possono scambiarsi promesse, oppure romperle. Noi abbiamo scelto il piacevole rituale del caffè per riunirci attorno a un tavolo e proporre argomenti di discussione. Man mano abbiamo affrontato temi diversi, addentrandoci in questioni talvolta delicate ed emotivamente impegnative. Caffè Ristretto richiama la condizione di restrizione della libertà, ma fa pensare anche al fatto che oggigiorno tutto è affrettato e accelerato. In una routine, invece, piatta e stagnante come quella carceraria, abbiamo cercato di valorizzare il tempo di ogni incontro, incentrato sulla metafora del viaggio. E in quello spazio che si è fatto via via più interattivo, abbiamo incontrato un’umanità interessante, che merita di essere raccontata e conosciuta, al di là degli stereotipi e pregiudizi sulla detenzione». Il percorso – concludono le due psicologhe – particolarmente apprezzato dalle donne detenute, si è rivelato un’esperienza di relazione umana, reciprocamente arricchente. Prossima tappa, per restare in tema di viaggio, la ricerca di persone che, incuriosite dall’iniziativa, vogliano dare il proprio contributo, tecnico e/o economico, per la pubblicazione di un opuscolo che raccoglie disegni, brevi testi autografi, frammenti di dialoghi e riflessioni. La prospettiva futura è quella di proseguire le attività progettuali, finalizzate al sostegno psicologico di chi vive la realtà carceraria. Migranti. Ius Soli, scontro vescovi-Lega La Repubblica, 19 giugno 2017 Galantino: "Si dice no per interessi elettorali". Salvini: "Accolga migranti gratis o si dimetta". Mentre Salvini incassa il cambio di linea del M5s, botta e risposta tra i leader del Carroccio e il segretario Cei che parla a RepIdee e critica la chiusura di Grillo. Calderoli: "I vescovi pensino a disoccupati e poveri". Il presidente del Senato Pietro Grasso, ancora a Bologna: "Attacchi ingiusti, la Cei ha sempre difeso gli ultimi". Sullo Ius Soli ora è scontro anche tra la Lega e la Conferenza episcopale italiana. Il leader del Carroccio, Matteo Salvini non aveva ancora finito di gongolare - pur smentendo l"incontro con Casaleggio riportato da Repubblica - per il cambio di linea del M5s che porta il movimento "sulle posizioni della Lega", che da Bologna sono risuonate le dure e preoccupate parole di monsignor Nunzio Galantino. Il segretario generale della Cei, ospite di RepIdee17, prima ha criticato le "gazzarre ignobili in Aula" sullo Ius Soli, di cui si sono resi protagonisti i leghisti, poi con un evidente riferimento al M5s ha aggiunto: "Vedo che c’è chi ha cambiato idea e ora fa politica unicamente per rincorrere il proprio successo, perché vuol fare solo il proprio interesse. E’ antipolitica. E il Papa certamente non sta aiutando l’antipolitica". Salvini ha replicato a Galantino in serata, ponendo un aut-aut al monsignore: "La Chiesa accolga gratis i migranti o lui si dimetta". Poi, il lancio del guanto di sfida: "Invito Galantino a confronto pubblico". In precedenza, era stato il senatore leghista Roberto Calderoli ad attaccare Galantino: "Stupisce la netta presa di posizione della Cei che invoca l’approvazione della legge che introduce Ius Soli e Ius Culturae e regala la cittadinanza ad almeno un milione di immigrati anche se potrebbero essere il doppio. Stupisce perché raramente dalla Cei abbiamo sentito prese di posizione altrettanto dure davanti a problemi che affliggono gli italiani" come la disoccupazione. "Cari vescovi pensate agli italiani senza lavoro, casa e pensione dignitosa e lasciate che sia il Pd a pensare a coltivarsi il bacino elettorale degli immigrati" è l’invito conclusivo di Calderoli. A prendere le parti della Cei è intervenuto allora, ancora da Bologna, il presidente del Senato Pietro Grasso: "La Cei si è sempre distinta nella difesa dei deboli e non merita questi attacchi. C’è ancora qualcuno che non crede si possa difendere contemporaneamente chi è disoccupato e chi è migrante". Sicuramente non è di questo avviso Matteo Salvini. Il segretario della Lega, intervistato da Maria Latella su Sky, prima attacca il Pd "unico partito razzista che ha bisogno di nuovi elettori, di nuovi schiavi o di nuovi iscritti ai sindacati". Per poi incassare, con evidente soddisfazione, il cambio di linea del M5s: "Noto che i Cinque Stelle sono arrivati sulle posizioni di buon senso della Lega, come su cittadinanza e migranti." Dal M5s, Luigi Di Maio si è mantenuto entro i binari dello scontro col Pd: "Parlare di Ius Soli nel momento in cui al Senato della Repubblica non si sta nemmeno discutendo la legge, significa semplicemente alimentare la campagna elettorale del Partito democratico che usa questo tema per fare propaganda" ha dichiarato l’esponente pentastellato e vicepresidente della Camera intervistato dai Tg Rai ad Acqui Terme in occasione del tour del MoVimento 5 Stelle nelle città al ballottaggio. Il dibattito è insomma più che mai acceso. "Dal governo arrivano affermazioni francamente risibili se non addirittura deliranti. La legge sullo ius soli garantirebbe più sicurezza? E’ esattamente il contrario! E’ una legge-manifesto che attirerebbe più clandestini in Italia e quindi più insicurezza, più caos, più degrado e più razzismo perché molti di coloro che arrivano finiscono nelle mani di cosche criminali che li sfruttano sulle strade o nelle attività criminali", afferma il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri di FI, che poi su Twitter aggiunge: "Chi parla già di referendum si arrende". Stati Uniti. Le prigioni private si arricchiscono grazie al sostegno della politica di Giovanna Carnevale tpi.it, 19 giugno 2017 Una porta girevole collega gli uffici amministrativi dell’industria carceraria privata e le sedi della politica statunitense. A muoverla sono sempre gli stessi uomini, lobbisti pagati per convincere i politici ad abbracciare la causa della privatizzazione delle prigioni o, meglio ancora, deputati e funzionari governativi che hanno rapporti clientelari con chi gestisce carceri private. Il loro interesse è massimizzare i profitti aumentando il più possibile il numero dei detenuti. Prima di fondare insieme al banchiere Robert Crants la Correction Corporation of America (Cca), Tom Beasley era il presidente del partito repubblicano in Tennessee. La sua azienda penitenziaria nasce nel 1983 grazie ai finanziamenti della società a capitale di rischio Massey Burch, la stessa che ha supportato anche la nota catena di fast food Kfc. Oggi è la seconda azienda di carceri più grande degli Stati Uniti, gestisce più di 65 centri di detenzione e correzione in 19 stati americani, e solo nel 2012 ha guadagnato oltre 1,3 miliardi di euro. A dimostrare quanto sia importante per la Cca avere dalla sua parte la legge americana bastano alcuni numeri. Dal 2002 al 2012 ha speso 13 milioni di euro per fare lobbying sulle due camere del Congresso, sul Dipartimento per la sicurezza interna, sull’Ufficio di gestione e bilancio e su molti altri enti federali. D’altra parte non sempre è necessario assoldare lobbisti, perché gli esponenti politici stessi possono trovarsi coinvolti nella gestione delle prigioni. Ad esempio Michael Quinlan, ex direttore dell’Ufficio federale delle carceri e vice presidente esecutivo della Cca dal 1999, può influenzare molto più direttamente le scelte politiche nell’interesse del carcere in cui lavora. "I lobbisti lavorano per convincere i funzionari governativi a modificare una legge in favore della corporazione che rappresentano, o per fare in modo che non cambino quelle già favorevoli" spiega Frank Smith, attivista statunitense che lotta da 15 anni contro la privatizzazione delle carceri. "Spesso, inoltre, raccolgono fondi per sostenere quei candidati e politici in carica che mirano a influenzare. E non è raro che in passato abbiano lavorato per quelle organizzazioni o partiti politici sulle quali hanno poi fatto lobbying." È questo il fenomeno della revolving door, cioè di quella porta girevole il cui inganno sta nel credere che si possa decidere da che parte farla girare, e per mano di chi. All’interno di questo centro decisionale informale, la legale attività di lobbying si unisce alla corruzione vera e propria. L’intreccio tra interesse privato e interesse nazionale, inoltre, crea uno spazio alternativo e spesso più efficiente in cui stabilire le linee della politica giudiziaria e di difesa americana. Forse è un caso che dal 1990 al 2009 il numero delle persone nelle carceri private negli Stati Uniti sia aumentato del 1.600 per cento; ma che sia nel loro interesse avere più condannati è indubbio. "La domanda per le nostre strutture e i nostri servizi potrebbe essere influenzata negativamente dalla clemenza nelle condanne o dalle norme sulla libertà vigilata" si legge nel rapporto del 2010 della Correction Corporation of America. L’unico credo di chi gestisce una prigione privata è che più alto è il numero dei detenuti, maggiori sono gli introiti. Una legge sull’immigrazione più restrittiva, o l’inasprimento della pena per qualsiasi reato si traduce, per un imprenditore delle carceri, in un profitto facile e di lunga durata. Tutto segue una logica aziendale nel settore delle prigioni private. Come le grandi società commerciali, anche le grandi strutture carcerarie sono quotate in borsa. E come spesso avviene, inoltre, la concorrenza scompare all’ombra delle aziende più grandi. Il mercato statunitense delle carceri private è dominato interamente dalla Correction Corporation of America e dalla Geo Group, che ha acquistato le concorrenti Correctional Services Corporation e Cornell Companies rispettivamente nel 2005 e nel 2010. Indiscussa regina di questo settore, la Geo Group è stata fondata nel 1954 da George Wackenhut, un ex funzionario dell’Fbi, e possiede carceri negli Stati Uniti, in Australia, nel Regno Unito e in Sud Africa. Uno dei suoi principali accessi al mondo della politica è rappresentato da Stacia Hylton, contemporaneamente membro del Dipartimento di Giustizia federale e capo di un’agenzia che da lungo tempo stipula contratti con la Geo Group. Stando a una lettera della Federazione Americana dei dipendenti pubblici al senatore Patrick Leahy, durante il mandato governativo di Stacia Hylton, la Geo ha ottenuto contratti dal valore totale di 60 milioni di euro in un anno. Poco prima di andare in pensione, Hylton ha fondato una società di consulenza privata, il cui unico cliente era appunto la Geo. Da questa avrebbe accettato 85 mila euro i subito dopo aver lasciato il suo lavoro in veste pubblica. Casi di questo tipo non sono affatto isolati, anzi, è proprio grazie a essi che le aziende penitenziarie riescono ad ottenere i contratti per detenere i condannati, sia a livello statale che federale. I sostenitori della privatizzazione delle carceri sostengono che la gestione privata faccia risparmiare le casse statali. Non prendono in considerazione, però, che come afferma Frank Smith, "piuttosto che accettare detenuti con esigenze equivalenti, quelli più malati o più pericolosi sono collocati nelle strutture pubbliche, in modo che i costi più alti della carcerazione non ricadano sul settore privato". E non si preoccupano neanche del fatto che, grazie al permesso ottenuto dall’Internal Revenue Service, l’industria penitenziaria privata può ora assumere la forma di un trust, finora riservata ai fondi di partecipazione immobiliare, ed essere quindi esente dal pagamento delle tasse. La Cca, che si è convertita a questa nuova struttura economica all’inizio del 2013, si aspetta di risparmiare per quest’anno circa 53 milioni di euro di tasse. Una volta intuito il senso di una porta girevole, farla scorrere diventa ogni volta più semplice. Gira attorno al profitto, ormai è chiaro, e lo fa grazie a una politica stretta di mano. Venezuela. In carcere 25enne originario di Molfetta, accusato di terrorismo ilquotidianoitaliano.com, 19 giugno 2017 Un ragazzo italo-venezuelano di 25 anni, originario di Molfetta, Angel Faria Fiorentini, è stato fermato in Venezuela, a Chacao, nel corso di una manifestazione contro il presidente Maduro. Alcuni suoi amici raccontano che il giovane sarebbe stato arrestato lunedì e poi trasferito in un carcere militare. Durante l’udienza preliminare, il legale di Fiorentini, Andrés Perillo, ha riferito che l’accusa è quella di essere un terrorista. Il caso è seguito dalla Farnesina. "È una cosa inconcepibile, fuori dal mondo, basata su accuse assolutamente insensate o inventate. Ora Angel rischia tantissimo. Ma è innocente, non ha fatto nulla", ha raccontato raccontato Perillo al quotidiano La Repubblica. Fiorentini è stato fermato insieme ad altri 23 giovani. Néstor Luiz Raverol, il ministro della Giustizia venezuelano, ha poi postato su Twitter una foto degli arrestati, con la scritta inequivocabile: "Ecco i delinquenti della destra terrorista, responsabili degli atti vandalici di Chacao". A detta del legale e degli amici che erano con Angel al momento dell’arresto, si sarebbe trattato di un’imboscata avvenuta durante alcuni disordini, non violenti come quelli che si stanno susseguendo in tutto il paese contro il presidente Maduro. Pare che Angel, essendo un paramedico, fosse lì per aiutare i feriti, persino gli agenti di polizia. La speranza di chi lo conoce bene è quella di vedere chiarito quanto prima quello che ai loro occhi sembra un malinteso a tutti gli effetti. "Io condannato a Cuba senza una prova, sono malato ma pure l’Italia mi tiene in cella" di Claudia Osmetti Libero, 19 giugno 2017 E dire che la sua compagna l’aveva pure avvisato: attento-cheCuba-è-pericolosa. Ma Luigi Sartorio, imprenditore 51enne veneto, a quelle parole non ha dato peso. Quando, nel giugno del 2010, un suo amico modenese viene arrestato a Bayamo, cittadina orientale dell’entroterra caraibico, con l’accusa di aver partecipato a un festino hard nel corso del quale è morta una ragazzina di 13 anni, Sartorio si presenta alla polizia castrista. Vuole solo avere informazioni, invece finisce in un tritacarne giudiziario che lo porta dritto dritto in galera. Prima all’Avana, poi a Padova. Di mezzo ci sono processi raffazzonati alla meno peggio, "torture, minacce, violenze e inganni", scrive il diretto interessato da dietro le sbarre. Per 14 mesi la magistratura centroamericana non gli contesta un reato che sia uno. O meglio, non lo fa sulla carta: lo tiene invece chiuso in una stanza, dimenticato. Perde venti chili, non vede l’ombra di un avvocato, figurarsi di un traduttore. In Italia la sua famiglia si attiva, mette assieme una caterva di prove certificate che attestano che il giorno di quell’orgia lui non era nemmeno a Cuba, era a Vicenza. Il Consolato cubano di Milano, alla fine, timbra i documenti: ma solo il bollo gli costa 22mila euro. Per quella vicenda di sesso e baby prostitute con Sartorio finiscono nei guai altri tre italiani. Anzi, due: perché uno (Daniele Fallani) a processo non ci arriva proprio: all’epoca dei fatti si trova a Firenze e se la cava con sette interrogatori davanti alla Procura toscana e un’archiviazione. Gli altri, invece, Simone Pini e Angelo Malavasi, sono condannati a 25 anni di prigione per omicidio e corruzione di minore. A Sartorio le autorità locali ne appioppano "solo" (si fa per dire) 20 perché per lui decade il reato di assassinio. Davanti alla Corte dell’Avana si presenta anche l’Ambasciata tricolore: che però non sortisce gli effetti sperati. I diplomatici italiani stilano una relazione che rileva irregolarità e punti oscuri nell’iter forense, ma niente: i giudici cubani vanno dritti per la loro strada. Al Parlamento di Roma vengono presentate due interrogazioni: la Farnesina risponde a entrambe, limitandosi a elencare una serie di cortocircuiti giuridici che la metà basterebbe. Anche Pini, dimostrano le carte targate ministero degli Esteri, in quel fatidico maggio di sette anni fa era in Italia. Nulla da fare. A incastrare Sartori ci sono un riconoscimento ritenuto attendibile e un pelo scovato non si sa come dopo quattro mesi dal fatto e quindi inutilizzabile ai fini della prova del Dna. Stop. Persino i parenti della vittima sollevano dubbi sul trattamento che la "giustizia" del loro Paese sta riservando agli italiani. Così finisce che Sartorio si ammala. Nel 2012 non mangia quasi più, è imbottito di psicofarmaci e nemmeno il console italiano riesce a procurargli una tac. Quando il primo dottore gli dà un’occhiata è una sentenza di morte: metastasi al cervello. E in otto mesi ottiene l’estradizione, complice il fatto che la sanità dei fratelli Castro ("vanto" tutto cubano nel mondo del socialismo reale) non può permettersi lo scandalo di un detenuto, per giunta straniero, morto a causa di carenze mediche. Sartorio tira un respiro di sollievo, ma dura il tempo della traversata atlantica: quando arriva sul suolo nazionale inizia un altro calvario. All’aeroporto il Console gli mette una mano sulla spalla, lo rassicura che non passerà molto tempo a Rebibbia, le sue condizioni di salute non sono compatibili con il carcere. Però passano i mesi, e alla fine pure gli anni. Viene trasferito a Padova, eppure la sua è sempre una vita di manette e ore d’aria. Nel luglio del 2014 chiede la revisione della causa, ma la pratica deve essere accettata dal governo cubano. lì un’altra porta sbattuta in faccia. A Venezia un giudice gli fa notare che quell’istanza doveva presentarla dall’altra parte dell’oceano: lui ribalte che aveva paura di vedersi negata l’estradizione. Cosa ira l’altro successa a Malavasi e Pini lì per un proforma perde anche quella speranza. "Sono in carcere da sette anni", scrive pochi giorni fa dalla sua cella di Padova. Ebadisce: sono innocente, "in tutta questa storia ci sono state varie illegalità fatte da Cuba e a mio avviso anche dall’Italia". L’adeguamento della condanna (che Sartorio definisce a più riprese "esagerata"), ossia la possibilità di convertire la pena stabilita da una sentenza straniera in una prevista per lo stesso latto dalla legge italiana, sarebbe accordato anche dall’articolo 735 del Codice di procedura penale e dal trattato sui trasferimenti siglato tra lo Stivale e lo Stato della "Revolution". E’ una questione di matematica: per lo stesso reato contestato a Sartorio in Italia è prevista la reclusione fino a tre anni, lui ne ha già scontati più del doppio. "La mia è una storia di drammi e di abusi", conclude questo imprenditore, schiacciato tra un sistema cubano che non ammette obiezioni (nemmeno certificate) e i cavilli burocratici della giustizia nostrana.