Ristretti orizzonti, larghe vedute di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 18 giugno 2017 Le loro carceri. Nel penitenziario Due Palazzi di Padova una redazione giornalistica di detenuti e un laboratorio di pasticceria. Preziosissima l’informazione prodotta dai giornalisti diretti da Ornella Favero. E i dolci della Cooperativa Giotto hanno fatto il giro del mondo, anche il Papa li ha ordinati per le feste. A Padova ci sono due prigioni. Il più noto è il carcere Due Palazzi. Si trova tra Limena e Rubano, a pochi chilometri dal centro. Nebbia, asparagi e uova, ombre mattutine fanno parte della vita di tutti i giorni. Un carcere distante dal centro non aiuta usualmente a consolidare un buon rapporto con il territorio. Ciò non ha scoraggiato a far sì che il Due Palazzi divenisse uno degli istituti penitenziari più ricchi in termini di partecipazione della società civile. Fu inaugurato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, in quella stagione dove lo scandalo delle carceri d’oro - evocate da Fabrizio De André in uno dei suoi tanti affreschi di vite perdute - anticipò ma non impedì che scoppiasse Tangentopoli. Il carcere, non distante dal casello autostradale, fu riempito di detenuti prima che fosse terminato e pavimentato. Padova è una città universitaria di grande prestigio. È sede del centro per i diritti umani, a lungo diretto dal professor Antonio Papisca, di recente scomparso. È stato il primo centro in Italia, e forse in Europa, che ha dato dignità accademica agli studi sulla pace e i diritti umani. Intorno al Centro gravitavano illustri studiosi della pena, come l’amico Beppe Mosconi, capaci di decostruire le ambiguità del sistema penitenziario. Padova brulica di studenti. Forse per questo brulica anche di iniziative culturali, di associazioni e di cooperative. Alcune delle quali hanno fatto nel tempo cose straordinarie all’interno del Due Palazzi. Ho vissuto alcuni anni a Padova, a metà degli anni Novanta. E nel carcere Due Palazzi ci sono andato centinaia di volte. A Padova vi sono un paio di organizzazioni di cui l’Italia civile dovrebbe andare fiera. Ristretti Orizzonti è un’associazione a cui dobbiamo tutti qualcosa. Ha messo in piedi una redazione composta da detenuti che informa l’Italia intera su quello che accade nelle prigioni e nelle aule di giustizia italiane. La newsletter da loro prodotta è un patrimonio di notizie, di documenti, di storie a disposizione di giornalisti, operatori, volontari, esperti, studenti. Grazie all’impegno di Ornella Favero e di Ristretti Orizzonti si è aperto uno squarcio di luce sui suicidi, il cui numero non coincide mai con quello più basso che si legge nelle statistiche ufficiali. Ristretti Orizzonti ha il merito di avere avviato una campagna di informazione sui detenuti reclusi nei circuiti di alta sicurezza, spesso esclusi da ogni attività. Della redazione giornalistica faceva parte, prima di ottenere il meritato provvedimento di ammissione alla semilibertà, Carmelo Musumeci, detenuto condannato all’ergastolo e recluso nella sezione di alta sicurezza. Per anni Carmelo Musumeci, mentre studiava, conseguiva due lauree e scriveva romanzi, ha lottato a viso aperto contro l’ergastolo ostativo, ovvero l’ergastolo senza prospettiva di libertà. La Cooperativa Giotto di Nicola Boscoletto, nel carcere Due Palazzi di Padova, ha aperto un laboratorio di pasticceria. Non un’attività di mera assistenza ma ispirata alla massima professionalizzazione. Non è un caso che i panettoni da loro prodotti hanno fatto il giro del mondo e anche il Papa li ha ordinati in occasione delle scorse feste natalizie. Su google map e su tutti gli indicatori digitali compare prima la pasticcera Giotto e poi il carcere. Un vanto a livello globale. Così almeno avrebbe dovuto essere. Nel carcere di Padova vi è una sezione di alta sicurezza. In alta sicurezza vanno a finire i detenuti in base al reato commesso e non alla loro pericolosità di fatto. Non è un regime imposto dalla legge. È frutto di una circolare dell’amministrazione penitenziaria che affida al direttore, al termine di una procedura complessa, la possibilità di declassificare il detenuto, toglierlo dall’alta sicurezza e riportarlo nel meno vessatorio e duro circuito ordinario di detenzione. Può fare ciò se serve al processo di risocializzazione. Ho conosciuto tanti direttori che si sono avvicendati nel tempo a gestire il carcere di Padova. A uno di loro si devono intuizioni e progetti innovativi. Alcuni sono persone di grande valore. Non sempre questo valore è stato riconosciuto dai vertici. Le carriere non sempre sono costruire sulle capacità manageriali e sugli obiettivi costituzionali raggiunti. A volte vengono premiati quei direttori che non fanno accadere nulla, nel bene e nel male. In un carcere ben gestito, ben diretto, aperto al territorio può acceder che qualcuno ne approfitti. È da ipocriti pensare che in una prigione non possa entrare droga o non possano entrare cellulari (cosa accaduta pare nei giorni scorsi al Due Palazzi). Se si vuole una prigione impermeabile bisogna accettarne le conseguenze e avere una prigione blindata, povera di opportunità sociali e dunque incostituzionale. Raccontava Mario Gozzini nel suo bel libro "Carcere perché, carcere come" che per tutti gli anni Ottanta l’amministrazione penitenziaria attraesse funzionari progressisti e democratici, che però dopo poco restavano disillusi in quanto stretti all’interno di pratiche reazionarie o lassiste. A seguire non parlerò dei bravi direttori padovani che ho personalmente conosciuto, né del colto e simpatico direttore attualmente in sella con cui ho condiviso gli anni universitari a Bari, ma del penultimo direttore che non ho mai incontrato. Quelli che viviamo sono tempi difficili per chi si occupa di esclusione sociale, di migranti, di carcerati. Si respira un clima d’odio, si infangano persone per bene e storie nobili. Così accadeva nell’America degli anni Sessanta per chi si opponeva all’establishment bellico repubblicano. È accaduto qualche tempo fa che ragionevolmente l’ex direttore della casa di reclusione di Padova abbia declassificato alcuni detenuti spostandoli dal regime penitenziario di alta sicurezza. Mica li ha messi in libertà. Semplicemente li ha trasferiti, sulla base di prognosi condivise di natura sociale, nelle sezioni ordinarie dove ci sono tradizionalmente più opportunità per chi vuole andare a scuola, in biblioteca, a teatro o lavorare. L’amministrazione penitenziaria decide di inviare un ispettore. Le carte finiscono in Procura. E qui viene messo sotto indagine, pare per falso, il direttore in quanto si sarebbe fatto condizionare da Ristretti Orizzonti e dalla Cooperativa Giotto nella sua decisione. Le due organizzazioni avevano in quel 2015 alla luce del sole manifestato la loro contrarietà a trasferimenti in isole o luoghi lontani di detenuti che da più di un decennio vivevano e lavoravano in quel carcere. Cos’altro avrebbero dovuto fare se non portare avanti le proprie campagne in piena trasparenza e coerenza? E un direttore se ritiene giusto compiere un atto per sua natura discrezionale deve omettere di farlo solo perché coincide con il volere di associazioni e cooperative che agiscono per il bene pubblico? Taluni leggendo quest’articolo diranno che in Italia comunque non siamo nell’Ungheria di Orban dove le associazioni e le università libere sono messe al bando. È vero, fortunatamente gli spazi di agibilità per chi si occupa di diritti umani non si sono ancora drammaticamente ristretti. Eppure i primi inquietanti segnali, qua e là, iniziano a intravedersi. Come altro intendere, altrimenti, gli attacchi alle Ong che salvano vite nel Mediterraneo? Sarebbe buona cosa se l’amministrazione penitenziaria intervenisse con parole chiare a favore di chi, funzionario del ministero o associazione o cooperativa, abbia agito nell’interesse pubblico. Chiediamo ai lettori del manifesto di sostenere Ristretti Orizzonti e di comprare i panettoni e i dolci della cooperativa Giotto. È il miglior modo per affermare il valore costituzionale della pena. L’Africa dietro le sbarre: il carcere alla prova delle migrazioni di Carolina Antonucci Nigrizia, 18 giugno 2017 Dagli anni Novanta si è assistito al boom penitenziario con una presenza sempre più massiccia di detenuti stranieri. Oggi sono il 30% (oltre 19mila, con 16.500 africani), dislocati prevalentemente nel centronord (80%). Non sono integrati e vivono gravi situazioni di disparità. Il carcere mantiene ancora oggi, nel nostro paese, una centralità indiscussa nell’ambito del variegato sistema dell’esecuzione penale. L’ordinamento penitenziario, regolato dalla legge di riforma del 1975 (la legge 354), ha conosciuto l’introduzione di misure alternative alla pena detentiva. Ma il carcere conserva la centralità. Da un lato, all’aumentare dell’accesso alle misure alternative è corrisposto un proporzionale aumento del numero dei detenuti; dall’altro, riveste il ruolo di costante minaccia per chi a quelle misure anela o a cui sono già state concesse. Chi è in misura alternativa sa che la minima deviazione dalle regole lo riporterà in prigione; chi è dentro sa che per ottenere la misura non dovrà mai violare le regole trattamentali. Il luogo della rimozione - Il carcere rimane lì, come una specie di rimosso collettivo - come ha scritto Giuseppe Mosconi, sociologo della devianza - lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Ma, allo stesso tempo, è una granitica certezza punitiva, in una società che percepisce sé stessa sempre più in pericolo. Il detenuto in Italia, così come prevedono la Costituzione e la stessa legge del 1975, pur perdendo il diritto alla libertà personale, continua a godere degli inalienabili diritti fondamentali e l’amministrazione penitenziaria deve garantire il rispetto della dignità umana in ogni aspetto dell’esecuzione penale. Così i diritti alla salute, alle relazioni familiari e affettive, allo studio e al culto, sono indicati come elementi imprescindibili di un trattamento capace di garantire quella tutela. La legge del 1975 ha dato attuazione a questi principi teorici prevedendo, per fare alcuni esempi, che il criterio per la scelta dell’istituto penitenziario di destinazione debba essere quello della vicinanza al luogo di residenza della famiglia; e, ancora, riconoscendo il diritto ai detenuti di professare il proprio credo, di studiarne i precetti e praticarne il culto. Inoltre, come si vedrà meglio in seguito, la Costituzione ha stabilito come unico principio a fondamento della pena la rieducazione del condannato. Specchio della società - Il carcere del 1975 era molto diverso da quello odierno. Era la società nella sua interezza a essere diversa. E, pur con tutte le sue peculiarità, il carcere finiva per rispecchiarne le caratteristiche. La quasi totalità dei reclusi aveva cittadinanza italiana e apparteneva al sottoproletariato. Vi erano, poi, i detenuti politici e i membri della criminalità organizzata. Gli anni Settanta avevano conosciuto una forte messa in discussione dell’istituzione penitenziaria e queste posizioni critiche avevano portato, nel decennio successivo, a considerare la prigione come uno strumento desueto di controllo sociale destinato inesorabilmente a tramontare. Negli anni Novanta lo scenario cambia radicalmente e il carcere ritrova vigore, assumendo le sembianze che lo caratterizzano oggi. Tutto il mondo occidentale conosce un vero e proprio "boom penitenziario". Nel nostro paese sono soprattutto tossicodipendenti e migranti a finire in prigione. Guardando i dati, nel 1991 la popolazione detenuta in Italia era composta da 35.469 persone, il 15,13% di queste (5.365) era straniera. Dieci anni dopo lo scenario ci parla di una trasformazione radicale: i detenuti complessivi sono diventati 55.275, ma i detenuti stranieri (16.294) hanno sfiorato il 30% del totale, con un incremento di 14,35 punti percentuali rispetto alla decade precedente. Detenzione di flusso - In uno studio dell’associazione A Buon Diritto del 2011, Lampedusa non è un’isola. Profughi e migranti alle porte dell’Italia (studio da cui abbiamo tratto i dati), si fa notare come a parlarci della qualità della detenzione dei migranti nel nostro paese siano molto di più le statistiche sugli ingressi in carcere rispetto a quelle sulla presenza. Infatti, nel ventennio 1991-2011 è ancora più importante l’incremento del numero degli ingressi annuali degli stranieri in carcere, passati dal 17,34% sul totale nel 1991, al 35,74% nel 2001 e al 38,51% nel 2011. Da rilevare come il 2007 rappresenti l’apice sia per le presenze straniere (37,48% sul totale) sia per gli ingressi di stranieri in carcere (48,50%). Stefano Anastasia - già presidente dell’Associazione Antigone Onlus, associazione "per i diritti e le garanzie nel sistema penale" e oggi Garante dei diritti dei detenuti di Lazio e Umbria - commenta come la differenza fra ingressi e presenze sia l’indizio del carattere di "detenzione di flusso" in cui rimangono coinvolti in maggioranza i non italiani. Anastasia individua le cause nel maggior ricorso all’arresto in flagranza, alle misure cautelari personali e al carcere anche per misure temporalmente brevi. L’Italia risulta essere in Europa tra i paesi con il più alto tasso di detenuti in attesa di giudizio. Nel rapporto dell’Associazione Antigone, Galere d’Italia, del 2016 (l’ultimo è uscito a fine maggio 2017), Alvise Sbraccia, in riferimento a questi cambiamenti, ha parlato di un processo di sostituzione che, nell’arco temporale cui facevamo riferimento, avrebbe riguardato circa un terzo della popolazione detenuta. Disomogeneità territoriale - L’imposizione di un tratto multiculturale all’istituzione penale ha comportato numerose criticità. Per Sbraccia, i tratti biografici degli stranieri detenuti sono molto simili e parlano di una fuga dal luogo di nascita per le difficili situazioni socioeconomiche o politiche e di uno sradicamento che porta a concepire il crimine come ipotesi praticabile di adattamento al nuovo contesto in cui si giunge. In generale, l’Italia è caratterizzata da una profonda disomogeneità territoriale dell’esecuzione penale, sia da un punto di vista strutturale sia gestionale. Su queste differenze il mutamento sociale portato dalla multietnicità della popolazione detenuta ha finito per produrre ulteriori divaricazioni. È anzitutto molto diversa da un punto di vista quantitativo la presenza straniera sul territorio italiano, con il centronord molto più coinvolto dal fenomeno rispetto al meridione. Se si guarda ai dati più recenti forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), al 30 aprile 2017 la popolazione detenuta straniera (19.268 persone) in Italia risulta così distribuita nei 190 istituti di pena nazionali (64 al nord, 52 al centro, 41 al sud e 33 nelle isole): 9.950 al nord, 5.426 al centro, 2.038 al sud e 1.854 nelle due isole maggiori. Sezioni etniche - Questo dato, fortemente sbilanciato in favore del centronord (15.376 il dato aggregato), ha avuto come conseguenza la creazione in molti di questi istituti di pena di vere e proprie "sezioni etniche". La giustificazione prevalente sembra dettata da ragioni di sicurezza. Ma le sezioni etniche sono descritte come "dei contenitori dei più svantaggiati tra i criminali marginalizzati"; aree in cui in pochi riescono ad avere il sostegno delle famiglie, anche per via delle pratiche dei trasferimenti cui gli stranieri sono più soggetti, ma soprattutto per via della povertà. Così, una conseguenza diretta è l’impossibilità di accedere a quello che in gergo penitenziario è conosciuto come il "sopravvitto", attraverso il quale i detenuti possono acquistare in carcere cibo extra. Anche il vitto ha costituito per un lungo periodo un problema per l’amministrazione penitenziaria; infatti una cospicua presenza straniera significa anche diverse abitudini alimentari che coincidono, per buona parte, altresì con precetti religiosi. Tuttavia, a oggi le diete differenziate sembrano essere garantite negli istituti. Supplemento afflittivo - Da questa prima panoramica dei cambiamenti che il carcere ha conosciuto con le migrazioni sono emersi subito i problemi più evidenti che coinvolgono il tema del rispetto e della garanzia dei diritti fondamentali per la popolazione detenuta non italiana. Anzitutto, emerge la problematica dell’integrazione con il resto dei ristretti e l’anomalia delle sezioni etniche che poco o nulla sembrano avere a che fare anche con il principio di rieducazione del condannato e con l’obiettivo del reinserimento nel tessuto sociale a pena scontata. Altro problema rilevante è quello dei diritti religiosi, come vedremo. Inoltre, configura una disparità di trattamento il ricorso al trasferimento del detenuto straniero, che avviene con molta più frequenza rispetto all’italiano. Questa pratica è giustificata con riferimento alla presenza, per l’italiano, di un tessuto familiare sul territorio e dalla contestuale assenza della stessa per lo straniero. Tuttavia, il trasferimento ha delle implicazioni considerevoli se si pensa che l’instabilità impedisce l’inserimento durevole in ambito scolastico e lavorativo all’interno dell’istituto di pena. Carriere separate tra giudici e pm, un boom la raccolta delle firme di Francesco Petrelli* Il Tempo, 18 giugno 2017 Prosegue con successo in tutta Italia la raccolta di firme per la presentazione di una legge di riforma costituzionale per la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e giudici promossa dall’Unione delle Camere penali alla quale hanno già aderito il Partito Radicale, la Fondazione Einaudi e i liberali italiani. Oltre 41.000 delle 50.000 firme necessarie sono già state raccolte, non solo nei Tribunali ma soprattutto nelle piazze e nelle strade delle nostre città, da Bolzano a Patti, da Brindisi a Bologna e in tante altre zone. Un segnale forte del fatto che la società civile è spesso più avanti della politica, e che un tema apparentemente arduo che riguarda l’organizzazione della giustizia penale sia invece immediatamente compreso da tutti i cittadini, i quali percepiscono come una anomalia il fatto che, in un processo penale, colui che giudica e colui che accusa siano colleghi ed appartengano allo stesso ordine. La necessità di avere un giudice "terzo" come sta scritto nell’art. 111 della nostra Costituzione riguarda, infatti, da un lato la sostanza del ruolo del Giudice, ma dall’altra anche la forma, perché un giudice separato da colui che rappresenta l’accusa non è più visto con sospetto e trova la necessaria legittimazione dall’intera collettività. Come tutti sanno, infatti, non è sufficiente che un giudice sia imparziale in quanto deve anche apparire tale, non solo a colui che è giudicato ma anche davanti all’intera società. La proposta dell’Unione Camere penali italiane sulla separazione delle carriere, secondo il comunicato emesso di recente dall’Anm, mirerebbe, tuttavia, a "stravolgere l’intero impianto costituzionale" in quanto inciderebbe non solo sull’organizzazione ordinamentale della magistratura, ma anche sulla sua composizione e sul suo governo autonomo. Ma se da un lato è vero che la proposta incide su tali aspetti ed anche su quello relativo all’applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, non può certamente affermarsi che si tratti di uno "stravolgimento" mirando, al contrario, tali riforme a risolvere alcuni evidenti ritardi del nostro sistema e a rimediare ad alcuni squilibri che affliggono la giustizia penale e non getta affatto le basi, come si legge, nel comunicato, per l’assoggettamento dell’ordine giudiziario al potere politico. Come è noto, infatti, in tutti i paesi europei le carriere di pubblici ministeri e dei giudici sono nettamente separate e questo non significa affatto che i procuratori nei diversi sistemi siano privi della necessaria autonomia ed indipendenza. Qualità che sarebbero peraltro nell’ambito della riforma certamente valorizzate essendo prevista la formazione di due distinti consigli superiori, uno facente capo alla magistratura requirente ed uno alla magistratura giudicante, con una soluzione che appare perfettamente in linea con quanto auspicato dagli organismi europei (The Role of public Prosecution in the Criminal Justice System, 2000). Anche per quanto concerne l’obbligatorietà dell’azione penale, occorre chiarire che la proposta di riforma costituzionale non tende affatto a "sopprimere uno dei principi cardine del nostro sistema" bensì di affidarne semplicemente la corretta modulazione alla legge e al Parlamento. È noto, infatti, che nel nostro sistema è invalsa la "prassi" certamente incostituzionale secondo la quale sono le singole procure e i singoli Procuratori Capo a decidere (con o senza l’adozione di apposite circolari) quali siano i reati da perseguire e quali no, arrogandosi di fatto un potere discrezionale e arbitrario che non è previsto da alcuna legge. Ricondurre questo potere al Parlamento significa razionalizzare e rendere trasparente una scelta che non può che appartenere alla politica. Nessuno vuol davvero "segregare" i pubblici ministeri, ma solo creare un ordinamento che realizzi la terzietà del giudice come ineliminabile fondamento del giusto processo, ricordando che la cosiddetta "unità della giurisdizione" era un concetto proprio dello stato autoritario che è oramai tempo di superare, in favore di una organizzazione della giustizia penale più moderna e più efficiente che recuperi la necessaria trasparenza dell’azione della intera magistratura, restituendole davanti agli occhi di tutti i cittadini una nuova immagine ed una rinnovata credibilità. *Segretario dell’Unione Camere penali italiane Marche: troppi problemi nelle carceri, la situazione è diventata insostenibile altrogiornalemarche.it, 18 giugno 2017 Un incontro sulle vecchie e nuove criticità per la polizia penitenziaria promosso dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, per fare il punto sulla situazione all’interno degli istituti. All’iniziativa hanno partecipato i rappresentanti sindacali, ed i consiglieri regionali Elena Leonardi e Gianni Maggi. Carcere di Barcaglione: fallimento di un progetto. Organici che non rispondono alle esigenze dei diversi istituti penitenziari, necessità di nuove attività trattamentali, rapporti con i detenuti e tutela dei loro diritti. Fino agli episodi come quello dei giorni scorsi a Villa Fastiggi di Pesaro, con la rivolta di un gruppo di nordafricani. La punta dell’iceberg di una situazione complessa, presa in esame nel corso dell’incontro promosso dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, al quale sono stati chiamati a partecipare i rappresentati delle organizzazioni sindacali ed i consiglieri regionali. "Quando interpreto il ruolo di Garante dei detenuti - ha sottolineato Nobili - ho ben chiaro che è indispensabile avere una visone complessiva del sistema penitenziario. Sembrava fossimo usciti da una fase emergenziale, ma dobbiamo constatare che il sovraffollamento torna a presentarsi, anche se in forme molto più contenute rispetto ad altre regioni italiane. Ecco allora che il lavoro della polizia penitenziaria diventa fondamentale, anche per arginare episodi come quello di Villa Fastiggi a Pesaro, che senza un pronto intervento avrebbe potuto avere conseguenze più gravi. Ribadisco che in quella circostanza sono state messe in campo una grande sensibilità e una altrettanta significativa professionalità". A fare il punto della situazione Nicandro Silvestri (Sappe), Maurizio Gabucci (Fns-Cisl), Gianluigi Irmici (Cgil-Pp) ed Antonio Mottola (Osapp), presenti i consiglieri regionali Gianni Maggi ed Elena Leonardi. Nel corso del dibattito le organizzazioni sindacali hanno evidenziato le criticità che gli agenti di polizia penitenziaria incontrano nel loro lavoro quotidiano, nell’ambito del quale viene contemplata una molteplicità di mansioni sui versanti della sicurezza, del trattamento e del percorso di reinserimento dei detenuti. Tra i problemi posti al centro dell’attenzione, l’organizzazione interna dell’intero sistema; l’assenza di progettualità; l’attuale mancanza, in alcune sedi, di dirigenti, operatori ed educatori; l’unificazione dei due plessi di Montacuto e Barcaglione che non è ancora stata perfezionata sul versante operativo; la situazione determinatasi dopo la chiusura del carcere di Camerino per i problemi derivati dal terremoto; la marginalizzazione del territorio nell’ambito dell’articolazione amministrativa del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Sul tappeto, inoltre, il divario tra gli agenti assegnati e quelli effettivamente in servizio, i mutamenti in atto nella composizione della stessa popolazione carceraria e le difficoltà che vengono incontrate per quanto riguarda la messa in essere delle attività trattamentali; le condizioni strutturali degli istituti, i carichi di stress psicologico non adeguatamente supportati. "Si tratta di un sistema molto complesso - ha evidenziato Elena Leonardi - che va ad incontrare nuove difficoltà anche per la nuova impostazione data alle carceri su base nazionale. Ritengo che la nostra attenzione sia stata sempre alta e che vada, comunque, rafforzata attraverso uno scambio continuo di informazioni, che ci permetta d’intervenire in base alle possibilità che andremo a verificare". Secondo Gianni Maggi "occorre una presa di posizione più incisiva soprattutto per quanto riguarda le responsabilità gestionali e l’applicazione pratica delle previsioni che, troppo spesso restano solo belle parole sulla carta". Da parte del Garante l’impegno ad affrontare, in modo sistematico e per quanto di sua competenza, le diverse criticità, attraverso un percorso da costruire con il contributo di tutti i soggetti direttamente interessati. Annunciata anche una lettera al Dipartimento competente del Ministero di Giustizia per far presenti alcune questioni specifiche e prospettata la possibilità di organizzare, anche con la collaborazione del Consiglio regionale, un evento pubblico che accenda un riflettore sull’attuale stato degli istituti penitenziari marchigiani. "La situazione nelle carceri - afferma il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Gianni Maggi - è quella classica "all’italiana". Accanto alla cronica carenza di personale le riforme, ad esempio quella della "vigilanza dinamica" che prevedeva per i detenuti attività lavorative e formative, non si concretizza perché nessuno progetta queste attività. Gli istituti penitenziari delle Marche sono abbandonati a se stessi: Fossombrone non ha il direttore, il personale di Camerino, dopo il terremoto, aspetta di sapere che fine farà, Pesaro ha gravi problemi di sicurezza e a Montacuto, con l’ampliamento dei reparti, arrivano gli "indesiderati" di tutti gli altri carceri italiani. "Ma il fondo - aggiunge Gianni Maggi - si tocca a Barcaglione, un carcere di custodia attenuata modello in Italia, dotato di orto sociale con oliveto e serra, reparto per la produzione di miele, e un agronomo a disposizione. Le attività sono sospese perché non ci sono agenti che accompagnano i detenuti e spesso non c’è neppure qualcuno che vada ad annaffiare l’orto. "È finito il tempo che il trasferimento a Barcaglione era ambito, ora nessuno ci vuole più andare perché il fiore all’occhiello delle carceri italiane si è seccato e il progetto è fallito miseramente. Immagino che qualcuno dirà che con tutti i problemi che abbiamo preoccuparsi di chi ha infranto la legge e vive a spese dello Stato non sia una priorità, ma il grado di civiltà di una nazione - conclude Gianni Maggi - si misura anche dal suo sistema carcerario e dalle condizioni che riserva a chi lavora dentro le carceri". Bolzano: la direttrice del carcere "le proteste dei detenuti? casi isolati" Corriere dell’Alto Adige, 18 giugno 2017 Annarita Nuzzaci, direttrice del carcere di Bolzano, interviene nel dibattito sulle problematiche della struttura di via Dante, il giorno dopo la visita del senatore Francesco Palermo, dal consigliere regionale dei verdi Riccardo Dello Sbarba e dall’avvocato trentino Fabio Valcanover, radicale. La visita, che era stata organizzata per valutare le condizioni di detenuti e personale di polizia penitenziaria, era affiancata da altre iniziative, mirate all’istituzione di un "garante per le carceri" per la provincia di Bolzano. "Un garante comunque c’è già, di nomina comunale" ricorda al riguardo la direttrice Nuzzaci, che poi fa una precisazione in merito agli episodi di autolesionismo dei detenuti: "In un solo caso un detenuto tossicodipendente si è cucito occhi e bocca, e lo ha fatto per richiamare l’attenzione nella speranza di poter accedere ad una comunità terapeutica. Non ho mai detto - afferma la direttrice - che questa protesta servisse per cercare di parlare con il giudice di sorveglianza o per avere una visita medica. La magistratura di sorveglianza è sempre molto attenta alla situazione dei detenuti e, per quanto riguarda le visite, abbiamo un medico interno e quindi gli interventi sono tempestivi". In merito alle condizioni di vita nel carcere, la direttrice aggiunge: "La condizione di detenzione è difficile di per sé, e con il caldo estivo può essere ancora più pesante. Il personale del carcere cerca di fare tutto il possibile. Abbiamo recentemente ricavato anche tre piccole salette per la lettura e per le attività di socializzazione, con un tavolo da ping pong ed un biliardino". Intanto, l’assessore ai lavori pubblici Christian Tommasini spiega che sono già stanziati i finanziamenti per la costruzione del nuovo carcere: "I soldi ci sono - afferma - ma la partenza del cantiere dipende anche dal via libera del ministero". I lavori dovrebbero comunque venire avviati, salvo imprevisti, nel corso del 2018. Cosenza: termina la Carovana per la Giustizia, visita in carcere e poi dibattito larivieraonline.com, 18 giugno 2017 È quasi giunto al termine l’itinerario della "Carovana per la giustizia", in Calabria dal 9 giugno per raccogliere firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere di Pubblico Ministero e magistrato giudicante. L’iniziativa, organizzata dal Partito Radicale unitamente all’Unione delle Camere Penali Italiane, promotrici della proposta, si propone anche di raccogliere iscrizioni al Partito Radicale che chiuderà la sua attività se non raggiungerà entro il 31 dic 2016 la quota di 3.000 iscrizioni (come stabilito nella mozione del congresso straordinario tenutosi nel carcere di Rebibbia). Nella sua ottava tappa, la carovana si è fermata a Scalea, dove sono state raccolte 70 firme; quattro le nuove iscrizioni al tavolo aperto in Piazza Caloprese. La giornata è stata particolarmente impegnativa per Rita Bernardini, al ventiduesimo giorno di sciopero della fame. La componente della presidenza del Partito Radicale ha infatti raggiunto la cittadina calabra da Napoli, dove si era recata in mattinata per partecipare a un dibattito organizzato dalle Acli. A completamento della giornata, nella sala della biblioteca comunale, si è tenuto un dibattito sui temi della giustizia, del carcere e del giusto processo (oltre, naturalmente, alla separazione delle carriere). Nel corso del dibattito coordinato da Sergio D’Elia, anch’egli nella presidenza del P.R., Rita Bernardini ha ricordato gli scopi della sua iniziativa nonviolenta: ottenere una rapida approvazione delle leggi delega dopo il voto di fiducia sul Disegno di legge in materia Penale, decisione del Governo che ha definito: "arrogante"; avere assicurazione dalla ministra Lorenzin circa la possibilità che i malati che si curano con la cannabis terapeutica possano usufruire dei cannabinoidi che necessitano loro per attenuare le sofferenze provocate dalle loro patologie. Al termine del suo intervento ha ricordato come anche Papa Francesco sia stato censurato quando ha chiesto un’amnistia, condannato l’ergastolo ostativo e il "carcere duro" del 416bis. L’avvocato Gianpaolo Catanzariti ha ricordato come questa misura non discende da un testo di legge e come fosse, in origine, provvedimento straordinario per fronteggiare un’emergenza; ha sottolineato come, nei fatti, sia divenuto invece un trattamento normale: i condannati all’ergastolo ostativo sono infatti 1.200 sul totale dei condannati all’ergastolo (1.600). In chiusura del dibattito Francesco Saverio Dilorenzo, per molti anni alla Direzione Nazionale Antimafia e oggi consigliere comunale a Scalea, ha convenuto con le ragioni della proposta di legge - che aveva sottoscritto nel pomeriggio - e ha osservato che le condizioni attuali del circuito carcerario non consentono di soddisfare il dettato dell’art. 27 della Costituzione che impone un trattamento volto alla rieducazione e al reinserimento del condannato nella società. L’avvocato Catanzariti, nel congedare i convenuti, ha osservato che la carovana, in fondo: "È un modo per testimoniare speranza" e per aiutare le istituzioni a rispondere alla criminalità organizzata con gli strumenti dello stato di diritto. A Cosenza la "Carovana della Giustizia" organizzata dall’Unione Nazionale delle Camere Penali Italiane e dal Partito Radicale. Partita l’8 giugno da Reggio Calabria, dopo aver fatto tappa a Locri, Palmi, Catanzaro ed in altri Comuni calabresi, la "Carovana" taglierà il traguardo nella Citta dei Bruzi, sabato, 17 giugno, a Cosenza. È un’iniziativa che compendia quella nazionale della raccolta delle firme per la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice. Chiaro è l’intento dei Penalisti italiani: sensibilizzare i Cittadini in ordine all’importanza della proposta di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. Nella mattinata di sabato, gli Avvocati della Camera Penale di Cosenza "Avvocato Fausto Gullo" e dell’Osservatorio "Carcere" della stessa Camera Penale faranno ingresso nella Casa circondariale di Cosenza, unitamente alla coordinatrice nazionale dell’Ufficio di presidenza nazionale del Partito Radicale, Rita Berardini, per consentire ai detenuti di partecipare alla vita democratica del Paese, mediante la sottoposizione del modulo da sottoscrivere nel caso in cui gli stessi detenuti dovessero condividere la necessità della separazione delle carriere nella magistratura. In poco più di un mese, l’iniziativa ha consentito di raggiungere oltre quarantamila sottoscrizioni; l’obiettivo di cinquantamila firme, dunque, sembra, oramai, raggiunto. Un risultato il cui merito deve essere riconosciuto all’Unione nazionale dei Penalisti Italiane ed alle singole Camere Penali territoriali di tutta Italia. Ora tocca alla politica, che deve condividere l’iniziativa. Un raccordo, dunque, tra politica e Penalisti italiani che troverà uno dei momenti di sano e vero confronto nel Convegno che ha organizzato la Camera Penale di Cosenza sabato pomeriggio, alle ore 17:30, nel Museo del Presente di Rende. L’apertura dei Lavori sarà contraddistinta dai saluti del Sindaco del Comune di Rende, l’Avvocato Marcello Manna e dalla relazione introduttiva del Presidente della Camera Penale di Cosenza, l’Avvocato Antonio Feraco; seguiranno gli interventi di esponenti politici delle diverse "forze" parlamentari, quali, in ordine alfabetico, Enza Bruno Bossio del Partito Democratico, Franz Caruso del Partito Socialista Italiano, Laura Ferrara del Movimento 5 Stelle, Antonio Gentile, di Alternativa Popolare, Giancarlo Pittelli di Fratelli d’Italia e Jole Santelli di Forza Italia. Concluderà l’incontro Rita Bernardini del Partito Radicale. Saluzzo (Cn): "facciamo uscire il carcere di Saluzzo dall’isolamento" ideawebtv.it, 18 giugno 2017 I Consiglieri regionali Grimaldi, Allemano e Boni commentano la visita presso la casa di reclusione di Saluzzo. Ieri mattina i consiglieri regionali Marco Grimaldi (Sel-Si) e Paolo Allemano (Pd) e l’esponente di Radicali Italiani Igor Boni si sono recati in visita alla Casa di reclusione di Saluzzo. La struttura ospita 357 detenuti in due circuiti: uno di media e uno di Alta Sicurezza. Nel primo circuito ci sono 5 sezioni con una capienza di 50 posti letto l’una, ma effettivi 246 posti letto, poiché una è un po’ ridotta per poter ospitare un detenuto disabile. Il circuito di alta sicurezza è diviso in un vecchio padiglione con due sezioni della capienza complessiva di 100 posti letto e 4 sezioni nel nuovo padiglione con capienza di 196 posti letto. Tuttavia qui sono aperte solo due delle 4 sezioni per carenza di personale, quindi rimarrebbero 96 posti liberi di due sezioni non attivate. Nel carcere sono attivi un biennio di scuola superiore che dà accesso al diploma in liceo artistico e tre percorsi di formazione professionale destinati sia ai detenuti di media sicurezza, sia, di recente, a quelli di Alta Sicurezza. Vi sono un corso di cucina e panificazione, uno di falegnameria e uno di giardinaggio. Il prossimo anno verrà avviato un corso di informatica per i detenuti di alta sicurezza. Esiste poi un laboratorio teatrale attivo da 17 anni destinato a entrambi i gruppi di detenuti, in totale circa 40. Nella Casa sono presenti solo 4 educatori anziché gli 8 previsti, che aumenterebbero con l’apertura della parte nuova. Si riscontrano poi carenze sostanziali di impiegati amministrativi e agenti di polizia penitenziaria. Il Direttore Leggieri ha spiegato che vi sono telecamere nel vecchio padiglione e, nel nuovo, anche l’automazione nell’apertura dei varchi, benché non nelle chiusura. Tuttavia la tecnologia non consente di fare a meno del personale, soprattutto nell’intenzione espressa di applicare il più possibile una gestione dinamica e una politica di apertura delle sezioni e delle celle anche per gli ergastolani. Meno della metà dei detenuti fa uso di psicofarmaci, anche se sono in aumento detenuti con problemi psichici o psichiatrici e si riscontra una forte sacca di disagio fra i condannati a pene brevi, in gran parte stranieri. Nella struttura, oltre a un medico e agli infermieri, è presente un odontoiatra. Tuttavia vi è l’impossibilità per gli indigenti di avere protesi e impiantistica, non coperte dal servizio sanitario. I colloqui con le famiglie si svolgono ogni giorno, ma i collegamenti di mezzi pubblici con la struttura sono scarsi e frammentati, il che è causa di molte difficoltà soprattutto per le famiglie dei detenuti meno abbienti o che arrivano da lontano: si pensi che chi atterra a Caselle è costretto a quattro passaggi. Inoltre servirebbero dei fondi per climatizzare gli ambienti. "La carenza di organico risulta ancor più problematica per detenuti in regimi di alta sicurezza, sottoposti a limiti e restrizioni e tuttavia in diritto di accedere a percorsi riabilitativi e spazi di autonomia" - dichiara il Capogruppo di Sel Marco Grimaldi. "Facciamo appello alle aziende del territorio e alle fondazioni per sostenere i progetti di inserimento lavorativo che il carcere ha già pronti e tuttavia restano inattuati" - aggiunge il consigliere Pd Allemano. "Inoltre" - conclude Boni dei Radicali - "facciamo appello alle istituzioni competenti affinché provvedano a migliorare il servizio di trasporto pubblico, la cui inadeguatezza è davvero inaccettabile. In alternativa, esistono già esperienze di noleggio auto con conducente che potrebbero essere attivate con gli Enti attraverso convenzioni, permettendo così alle famiglie di raggiungere la struttura". Bologna: cresce il numero dei detenuti iscritti all’Università giuseppeparuolo.it, 18 giugno 2017 Dai 25 del 2014 si è passati ai 40 del 2016. In 3 anni di attività sono 92 i detenuti coinvolti. Le discipline più diffuse: legge, agraria, lettere e scienze politiche. Basevi (responsabile polo universitario penitenziario): "Serve aiuto per attivare progetti di inserimento lavorativo all’uscita dal carcere" Quaranta detenuti iscritti all’università, fra cui anche alcune donne. La facoltà più richiesta è Giurisprudenza, ma non mancano Agraria, Lettere, Storia, Scienze, Beni culturali, Scienze politiche. All’interno del carcere bolognese della Dozza è attivo un polo universitario, per permettere ai detenuti di laurearsi. Ieri mattina si è svolta l’audizione in Commissione dei responsabili di questo progetto, promosso dall’Università di Bologna, da ER.GO e dalla Regione. Si tratta di una grande occasione di confronto fra i detenuti e la comunità esterna, attraverso il rapporto con i professori e le altre figure di supporto, come tutor o assistenti. In tre anni di attività si è passati da 26 a 40 iscritti. L’obiettivo è rendere il percorso di chi studia in carcere il più possibile vicino a quello di uno studente che può frequentare le lezioni e confrontarsi con i propri docenti. A questi studenti viene assegnato un contributo economico di 400 euro: 157,64 euro per le tasse d’iscrizione ed un’ulteriore quota di 242,36 euro a fronte di requisiti di merito. Fondamentale è il contributo dei volontari, docenti e tutor, una settantina in tutto. Molti sono studenti che si specializzano in alcune materie e si recano periodicamente in carcere per aiutare i detenuti a prepararsi agli esami. Vi sono poi professori universitari che accompagnano i singoli studenti per tutto il corso di laurea. Prezioso è infine il contributo di professori di liceo in pensione, che mettono a disposizione di questi studenti la professionalità e l’esperienza accumulati nei lunghi anni di insegnamento. La logica di questo progetto, tutt’altro che assistenziale, è un investimento sul presente e soprattutto sul futuro di queste persone: abbassare la recidiva, favorire il reinserimento, aiutare nel post carcere. Le difficoltà sono ancora tante, in parte legate ai servizi ed alle modalità di fruizione della didattica, ma anche e soprattutto nella definizione di percorsi di inserimento lavorativo all’uscita dal carcere. Siena: nuovi spazi per gli incontri tra minori e padri detenuti gonews.it, 18 giugno 2017 Il 21 giugno 2017 si terrà presso la casa circondariale di Siena, alla presenza delle massime autorità cittadine, l’inaugurazione degli spazi interni dedicati agli incontri tra minori e padri detenuti. Gli allestimenti, eseguiti grazie al contributo del Soroptimist International d’Italia -club di Siena, rispondono all’intento di sostenere e accompagnare le relazioni genitoriali durante l’esperienza della carcerazione. Il diritto, infatti, da parte dei minori di coltivare il legame affettivo con i padri detenuti si esercita anche attraverso la fruizione, all’interno dell’istituto di pena, di spazi loro dedicati, ove essi possano sentirsi adeguatamente accolti e riconosciuti. in tal senso particolarmente significativa è la creazione dello spazio giallo dove i bambini si preparano all’incontro con i genitori in un ambiente idoneo, nel quale possono dedicarsi ad attività didattiche e ludiche. Lo spazio giallo è in realtà un luogo dove, attraverso il gioco e l’uso di strumenti linguistici propri dell’infanzia, si intercettano i bisogni dei bimbi, si curano le relazioni con le famiglia di appartenenza e si imposta un paziente e delicato lavoro di assistenza e di cura ad opera degli operatori penitenziari. alla cerimonia di inaugurazione degli ambienti seguirà, in occasione della festa della musica, un concerto degli allievi dell’istituto superiore di studi musicali "Rinaldo Franci" di Siena. La musica, infatti, assume in carcere una notevole valenza trattamentale: con il suo linguaggio universale essa veicola valori, rafforza le relazioni interpersonali e riveste carattere educativo e formativo. Ariano Irpino (Av): "La natura ti cura", ecco il (Gale)Orto dei detenuti canale58.com, 18 giugno 2017 Il progetto denominato "(Gale)Orto - La natura ti cura" nasce per creare un orto all’interno delle aree verdi interne della Casa Circondariale di Ariano Irpino. I detenuti che hanno preso parte ai lavori di questa sorta di laboratorio an plain air hanno imparato a curare coltivazioni di vario genere, alcuni di loro avevano già dimestichezza in quanto già contadini, mentre altri hanno imparato a rapportarsi man mano. I lavori hanno avuto una durata dal mese di Marzo fino a Giugno, in questo periodo si sono messe a dimora sia piantine che semi fra erbe aromatiche, fiori, ortaggi e alberi da frutto, per mostrare ai corsisti i diversi metodi di coltivazione. I responsabili volontari del progetto sono stati la Prof.ssa Eleonora Picariello del liceo artistico e l’Agente Filippo Bertinetti, affiancati dalla collaborazione volontaria dell’ Agente Mauro Schiavone. Un progetto di volontariato che ha voluto cercare di offrire una esperienza e un’opportunità di lavoro all’interno della Casa Circondariale per una possibilità di socialità, di apprendimento pratico e di rapporto diretto con la natura per ristabilire un equilibrio benefico sulla psiche, sulla mente, sullo spirito, arricchendo così le percezioni, l’apprendimento, la moralità. I promotori "ringraziano per il supporto e la disponibilità il Direttore Gianfranco Marcello, gli operatori dell’area educativa, che hanno reso possibile la realizzazione di questo progetto e tutti coloro che hanno collaborato attivamente per averci fornito le attrezzature e la materia prima, indispensabile per la riuscita dei lavori". Opera (Mi): "Borseggi", il laboratorio di sartoria nel carcere milanese di Chiara Beria Di Argentine La Stampa, 18 giugno 2017 "Non sono una sarta, non sono una designer, non sono una grafica. Insomma, non sono un fico secco!", scende dalla moto e togliendosi il casco ride la bionda, travolgente Elisabetta Ponzone, ideatrice di "Borseggi", laboratorio di sartoria dove vengono confezionati borsette, grembiuli, cuscini, pupazzi etc. etc. nel carcere maschile di Opera-Milano (il più grande d’Italia con 1267 detenuti; la maggior parte con condanne definitive altri, come alcuni tristemente noti mafiosi, a regime 41 bis). Due volte la settimana, superati controlli e cancelli, Elisabetta va nel laboratorio ospitato nella palazzina dei "lavori esterni". Mike e il cinese Hu ora stanno facendo scatole a righe con scarpine da bebè commissionate dalla multinazionale Manpower Group per regalarle ai dipendenti neogenitori. Privati, negozi, aziende. Tra altri lavori firmati "Borseggi" gli allegri pupazzi che sempre Manpower ha regalato a Save The Children per i bambini del Centro Giovani 2.0 di Amatrice; i pesciolini imbottiti nei tessuti del prestigioso marchio inglese Colefax & Fowler per lo showroom di Milano. E ancora. Shopper per Leroy Merlin e il riciclo di oggetti di EURid, la società che gestisce i nomi a dominio con suffisso "eu" per conto della Commissione Europea. "Dal Belgio arrivano a Opera zaini, magliette, striscioni. Tagliati, lavati, li reinventiamo con nastri e passamanerie e li rispediamo in Belgio. È un bel esempio di economia circolare", dice Elisabetta. Nata per caso a Como da genitori piemontesi (sua madre Marisa era di Viarigi; il padre Enrico di Montaldo di Mondovì), cresciuta a Campione d’Italia, già collaboratrice di agenzie fotografiche e responsabile comunicazione dell’Ong AVSI Ponzone appartiene al silenzioso, magnifico esercito del no profit. Perché ha scelto il volontariato e perché il carcere? "Penso che ciascuno di noi dovrebbe cercare di crescere e vedere il mondo oltre il proprio ombelico. Aggiungo che bisognerebbe smettere di dividere il mondo tra buoni e cattivi. Il mio primo carcere? Quello di Kampala, in Uganda. Terrificante. Ma non ho fatto una scelta ideologica o religiosa semplicemente un giorno del 2012 ho avuto l’idea di aprire una piccola sartoria per dare lavoro a detenuti. Ne ho parlato con una cara amica, Federica Dellacasa. Lei è una donna forte, un vero vulcano, nata a Gavi come me vive a Milano, ed è presidente di "Opera in Fiore", una cooperativa sociale agricola super innovativa. Nell’ambito del welfare aziendale, della responsabilità sociale d’impresa e della legge 68/99 per il diritto al lavoro di persone con disabilità la coop promuove progetti per l’inserimento di chi è in situazioni difficili: disabili psichici, rifugiati politici, detenuti. Partendo dal mio piccolo progetto sono così entrata come socia volontaria in "Opera in Fiore": una fantastica Armata Brancaleone!". Sede legale in carcere, operativa in zona Barona, 43 soci, ("I soci lavoratori vengono regolarmente pagati. Ricavi? 400 mila euro nel 2016") la coop ha lanciato i progetti "Opera in Green" (nella serra comunitaria si formano squadre per la manutenzione di terrazzi e giardini di privati e aziende come Sky Italia) e "Opera Fresca", un market online ideato con Microsoft Italia, per la vendita e consegna settimanale di frutta e verdura fresca. "Molti prodotti arrivano da un’azienda di Gavi che investe nel biologico e da altre realtà dove lavorano ex detenuti", spiega Ponzone. "Quanto a "Borseggi" è una briciola in una realtà difficile: a Opera come in tutte le carceri una minoranza, meno di 100, ha un lavoro dall’esterno. Stesse difficoltà per i disabili. Lavoro uguale dignità. Non elemosina ma lavoro serio, ben fatto! Certe aziende che, per fortuna, macinano gran profitti dovrebbero fare molto di più". Tutto il resto sono le storie del giardiniere Awis, arrivato in Italia su un barcone che ora si è pagato l’aereo andata-ritorno per rivedere i parenti in Somalia; di Gabriele che in attesa di uscire tra 2 anni sta ripulendo le sponde dell’Olona e del primo detenuto-sarto di Borseggi. "Si chiama Tropea, per noi era solo "Tropi". Oggi è un uomo libero". Napoli: dibattito sulle carceri con il ministro Orlando all’Istituto di Cultura Meridionale progettoitalianews.net, 18 giugno 2017 "E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere" è il titolo del libro di Antonio Mattone che il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenterà all’Istituto di Cultura meridionale, giovedì 22 giugno, alle 17:45, nella sede partenopea di palazzo Arlotta in via Chiatamone, 63. Il volume, pubblicato da Guida editori, con la prefazione del ministro Orlando e la presentazione di Alessandro Barbano, direttore responsabile de il Mattino, analizza il mondo del carcere e le possibilità di riscatto, sulla scorta dell’esperienza maturata in oltre dieci anni di incontri con i detenuti di varî penitenziarî italiani, tra cui quello di Poggioreale. "Questo libro toglie il velo di una comoda cecità e mostra la condizione di uomini come noi, che vivono insieme, diversamente da noi, la vita e la morte. La vita che è sopravvivenza, desiderio, sogno, illusione", scrive nella presentazione Barbano. La morte che è la contro-faccia di ciascuna di queste cose, perfettamente combaciante con esse, prosegue Barbano. Morte fisica, esistenziale, civile. Questo libro è una sveglia. Salvifica ma ultimativa, che ci offre ancora una residua possibilità di capire. Capire che il dolore degli altri, così simile al nostro, è sostenibile se riusciamo a dargli un senso". "Questo libro, ricco di passione civile e di umana solidarietà, riparte dalle carceri, riparte da un impegno di cui offre una testimonianza intensa e autentica", scrive il ministro Orlando nella prefazione. Possiamo e dobbiamo voltarne le pagine, certo non possiamo voltarci da un’altra parte. Introdurrà l’incontro Gennaro Famiglietti, presidente dell’Istituto. Moderati da Massimo Milone, direttore di Rai Vaticano, con Andrea Orlando interverranno Alessandro Barbano, il magistrato Francesco Cascini, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Sarà presente l’autore. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di sant’Egidio, dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del centro storico. Dal 2006 visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziarî italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati generali dell’esecuzione penale. Editorialista de il Mattino sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’ufficio di Pastorale sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli Napoli: a Scampia un convegno sul reinserimento dei detenuti nella società napolitoday.it, 18 giugno 2017 Organizzato da Franco Pozone e moderato da Ciro Froncillo, ha visto la partecipazione dell’onorevole Marcello Taglialatela, di Gianluca Cantalamessa, di Samuele Ciambriello, dell’onorevole Valeria Valente Il reinserimento degli ex detenuti nella società è stato al centro di un convegno svoltosi questa mattina a Scampia. L’incontro, organizzato da Franco Pozone e moderato da Ciro Froncillo, ha visto la partecipazione dell’onorevole Marcello Taglialatela, di Gianluca Cantalamessa, di Samuele Ciambriello, dell’onorevole Valeria Valente, e di vari responsabili istituzionali e di associazioni. Al centro della discussione il reinserimento nella società degli ex detenuti. Molto toccante l’intervento del responsabile dell’Associazione per la Legalità senza Bavaglio, presieduta dall’ex assessore Municipale Claudio Ferrara che ha sottolineato come si tratti molto spesso di capi famiglia con figli che non riescono a trovare un impiego e si trovano nell’infelice situazione di non poter portare a casa un piatto di pasta. "Bisogna metterli nelle condizioni di avere opportunità di lavoro e di reintegro, ma non solo sulla carta. Per noi di Senza Bavaglio non sono "ex detenuti", ma bensì vittime di Damocle, poiché hanno la spada che gli penzola continuamente sulla testa, hanno sbagliato ed hanno pagato, adesso devono avere una possibilità di reinserirsi nella società". Torino: dei delitti e delle cene, il ristorante Liberamensa nel carcere delle Vallette suconlavite.it, 18 giugno 2017 Se mangiare fuori vi ha stufato, potete finalmente fare l’esperienza di mangiare dentro: nel carcere di Torino Le Vallette, al ristorante Liberamensa. Un evento, ovviamente, non solo culinario. In primis, un bellissimo progetto di formazione per i detenuti, che possono imparare un mestiere e al termine della detenzione reinserirsi nella società come chef o camerieri, ma anche baristi, pasticcieri e fornai. Del resto anche Filippo Lamantia, cuoco parecchio cool dell’omonimo ristorante a Milano, imparò a cucinare nel carcere dell’Ucciardone a Palermo. Alla fine, comunque, nulla di così sconvolgente: l’articolo 27 della nostra Costituzione afferma tra le altre cose che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato." Che nel caso in questione il principio funzioni è testimoniato dalle bassissime recidive e dal fatto che molti ex-detenuti sono poi addirittura diventati soci di Ecosol, la cooperativa di catering che gestisce l’intero progetto: oltre al ristorante Liberamensa, il bar del carcere, il forno Farina nel sacco e un vivaio per la produzione di zafferano. Tutte queste attività danno attualmente lavoro a ben 14 detenuti, tutti regolarmente stipendiati. L’esperienza del ristorante nasce ufficialmente nell’ottobre del 2016 e per ora prevede l’apertura solo il venerdì e il sabato sera, oltre che per eventi aziendali. L’idea in futuro è di estendere l’attività di Liberamensa a tutta la settimana, ma per questo occorrerebbe più personale a disposizione. Non che manchino i detenuti (siamo pur sempre in Italia) ma per ovvie ragioni è lungo e complesso il processo di formazione. Dopo un bel periodo di buona condotta i condannati fanno domanda all’educatore; una volta selezionati è l’amministrazione del carcere che dopo una serie di attente verifiche valuta chi ha i requisiti per aderire al progetto. Per prenotare occorre dare anche gli estremi di un documento d’identità. Poi l’esperienza di una singolare notte al fresco può finalmente iniziare. Si entra nel carcere, si passano i controlli e il ristorante Liberamensa è subito lì. Di giorno è lo spazio del bar dove consumano i pasti gli agenti di custodia e il personale carcerario. In cucina c’è un cuoco civile che coordina una brigata di detenuti. Il menù è fisso e cambia ogni 3 settimane, in base alla stagionalità. Io ne ho provato uno di fine inverno, parecchio sostanzioso. La carta dei vini è in formazione, per ora privilegia cantine sociali piemontesi dall’ottimo rapporto qualità prezzo (su tutti I Produttori del Barbaresco). Il conto è fisso: 30 € più il vino. Considerando il numero di portate (4 più il dolce) e anche il fatto che i camerieri sono due ex rapinatori, non è per niente un furto. Ristorante Liberamensa. Carcere Le Vallette (Casa Circondariale Lorusso e Cotugno). Via Maria Adelaide Aglietta 35, Torino. Prenotazioni al 3458784980. Aperto solo il venerdì e il sabato sera. Milano: "Parole liberate: oltre il muro del carcere", cantare per non "morire dentro" di Salvatore Dettori gdc.ancitel.it, 18 giugno 2017 È l’obiettivo di "Parole liberate: oltre il muro del carcere" il premio riservato ai poeti della canzone detenuti nelle carceri italiane. Questa volta l’arte ha adempiuto al suo compito più alto: è entrata in punta di piedi in un ambiente difficile, quello del carcere, per incunearsi a sua volta nel cuore dei detenuti, baluardo a volte più coriaceo delle mura di una prigione. Ma la poesia è pane. E il pane sfama. Nutre il cuore. Negli spazi tragici della reclusione le parole e la musica pesano quanto le pietre. Si può dire che se il carcere è una condizione che da un lato ti costringe all’introspezione, dall’altro fa sentire il bisogno di non sentirti distaccato da ciò che avviene fuori, di non "morire" per gli altri pur non potendo partecipare direttamente alla loro vita. E proprio in quegli spazi angusti e soffocanti, la dignità dovrebbe avere la concentrazione più alta che una democrazia sia in grado di esprimere. La musica è il più bel volo che la libertà possa fare all’interno di una cella e contemporaneamente all’esterno. La poesia è il modo più efficace di creare un senso capace di percepire il carcere, rappresentarlo e portarlo fuori e al tempo stesso portare dentro il mondo di fuori o continuare a comunicare con l’esterno. Portare l’arte in carcere non è introdurre il narcisismo autoreferenziale tipico di chi ama solo etichettarsi artista, ma al contrario, è mettersi al servizio di chi ha perso la condizione della libertà. Parole e musica, dunque, per superare le barriere delle carceri e arrivare al grande pubblico per dare voce ai detenuti. È l’obiettivo di "Parole liberate: oltre il muro del carcere", il premio riservato ai poeti della canzone detenuti nelle carceri italiane, promosso dall’omonima associazione in collaborazione con l’assessorato alla Partecipazione del Comune di Milano insieme, tra gli altri, al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria-Ministero della Giustizia). I vincitori delle ultime due edizioni, Giuseppe Catalano e Pietro Citterio, sono stati premiati questa mattina dal sindaco di Milano, Giuseppe Sala, e le loro poesie diventeranno canzoni grazie alla collaborazione di artisti italiani. Il big della prima edizione 2014/15, che ha visto 58 testi in gara, è stato il cantautore Ron, che ha musicato Clown Fail di Cristian Benko in arte Lupetto, allora detenuto presso il carcere di San Vittore. Il big della seconda edizione (2015-2016 con 129 testi in gara) è Virginio Simonelli, già vincitore di Amici nel 2011. Virginio ha musicato e interpretato la lirica "P.S. Post scriptum" di Giuseppe Catalano, che all’epoca della partecipazione al Premio era detenuto presso il carcere di Opera. La terza edizione 2016/2017 è dedicata alla memoria di Marco Pannella ed è stata vinta da Pietro Citterio, detenuto presso il carcere di Opera, che con "Frammento" ha conquistato la giuria. Qui da una parte "c’è chi sconta una pena e dall’altra chi si fa carico di dare loro nuove opportunità - ha spiegato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala -. A chi ha sbagliato dico che noi ci siamo, perché Milano deve essere città guida da molti punti di vista. È stata tra l’altro la prima città che ha nominato un garante dei detenuti". Lucca: corsi di cucina e teatro in carcere, certificazioni e applausi per i detenuti luccaindiretta.it, 18 giugno 2017 Hanno strappato applausi ai detenuti con le "scenette" comiche riprese dalla lunga tradizione versiliese ma hanno anche imparato a muoversi all’interno del settore della ristorazione e dell’alimentare come la cucina di un ristorante, il laboratorio di una pasticceria o forno, alla fine del percorso formativo, la certificazione Haccp insieme a qualche carta in più da giocarsi una volta che torneranno in società. Pietrasanta porta in carcere la seconda occasione. Quella che potrebbe cambiare per sempre il destino della loro vita dopo aver commesso quell’errore che avrebbe rischiato di escluderli da tutto. Ripartiranno, una volta scontata la pena, anche grazie al Comune di Pietrasanta che ha portato a termine il percorso, durato circa un anno, di attività organizzate all’interno del carcere di San Giorgio di Lucca. La casa circondariale è la stessa dove il primo cittadino, Massimo Mallegni era stato recluso nella cella 17 per ben 39 giorni nell’ambito delle note vicende giudiziarie conclusesi poi con l’assoluzione. L’amministrazione comunale di Pietrasanta ha mantenuto l’impegno con il carcere San Giorgio e venerdì mattina, i 12 detenuti arrivati a fine pena e selezionati per buona condotta, hanno potuto raccogliere i frutti del loro lavoro. Due i corsi organizzati dall’amministrazione di Pietrasanta attivati durante l’inverno: un corso di teatro tenuto dall’Assessore alle Tradizioni Popolari, Lora Santini, celebre attrice dialettale insieme ad Antonio Meccheri inserito nell’ambito di un laboratorio ludico ricreativo culminato con la messa in scena di fronte a tutti i detenuti (accompagnato da applausi e risate!) ed un corso di cucina tenuto da Versilia Format e coordinato dal direttore, Massimo Forlì insieme allo chef Sebastiano Sorrentino, lo specialista della panificazione Mario Crisciuolo e l’esperta in materia di igiene e sicurezza, Luisa Balducci, per diventare aiuto - cuochi e lavorare in cucina, in un laboratorio di pasticceria o in un forno. A San Giorgio per consegnare gli attestati c’erano il Vice Sindaco, Daniele Mazzoni e l’assessore al sociale, Lora Santini insieme al direttore, Francesco Ruello: "per i detenuti è un primo passo per una nuova libertà e per un nuovo futuro - ha commentato Mazzoni - Un’opportunità che credo sapranno raccogliere questa volta anche grazie al segnale che la nostra società, attraverso la nostra attività, ha fatto entrare in carcere. C’è sempre posto nella società per le persone di buona volontà e che hanno voglia di rimettersi in gioco sapendo che non ne avranno più alcuna dopo". Per la Santini "è fondamentale avere la consapevolezza di poter ricominciare da zero, lasciandosi alle spalle gli errori commessi. L’obiettivo di questo progetto era quello di dare ai detenuti l’occasione di tagliare definitivamente con il passato e ripartire da un lavoro, che è il punto di riferimento più importante per avere una prospettiva per sé stessi e per una famiglia". Nuoro. I detenuti di Badu e Carros in scena con Harold Pinter di Alessandro Mele La Nuova Sardegna, 18 giugno 2017 Teatro in carcere con la compagnia Nuova Jobia guidata dal regista Pietro Era L’assessore Romagna: "Il penitenziario non deve essere un ambiente isolato". Un pomeriggio all’insegna della cultura e del teatro, quello vissuto al carcere di Badu e Carros, dove da sempre non mancano le attività destinate ai detenuti non solo di stampo educativo e di formazione personale ma anche di stampo ludico attraverso forme come il teatro che hanno il pregio di unire arte, passione, amicizia e crescita culturale dal punto di vista contenutistico dato lo studio, che viene effettuato nei mesi di preparazione, non solo dei singoli copioni ma anche degli autori e dei significati più profondi delle loro composizioni da mettere sulla scena. A guidare l’iniziativa per il quinto anno consecutivo, è la compagnia teatrale Nuova Jobia formata da detenuti anche della sezione di massima sicurezza e da donne volontarie amanti del teatro, diretta da Pietro Era. "Lavorare in carcere è molto esaltante - ha dichiarato il regista nel discorso introduttivo - perché ci dà l’esatta misura di cosa significhino la dedizione all’apprendimento e al sacrificio e tutto ciò lo possiamo riscontrare dal tripudio di emozioni che non solo i detenuti sono in grado di provare in maniera genuina ma anche da quelle ben visibili che trasmettono al pubblico che non perde occasione di accorrere numeroso per assistere". Per festeggiare il quinto anno di attività, anche alla presenza dell’amministrazione comunale nuorese, sempre sensibile a questo particolare tipo di iniziative, rappresentata dall’assessore ai servizi sociale Valeria Romagna, dal presidente del consiglio comunale Fabrizio Beccu e del consigliere Michele Siotto, l’ormai consolidata compagnia teatrale ha deciso di riproporre al pubblico l’opera già messa in scena dai detenuti nel 2013 di Harold Pinter conosciuta come la "Trilogia del consenso". Le tre opere del premio Nobel alla letteratura, si ispirano a fatti realmente accaduti in varie parti del mondo tra il 1973 e il 1977, tra cui avvenimenti politici e di guerra. La prima opera dal titolo "Il bicchiere della staffa", si ispira a dei fatti sociali avvenuti nel sud America in paesi come l’Argentina e la Bolivia che analizzano anche la tematica carceraria e nello specifico il rapporto tra prigioniero e aguzzino; la seconda "Il linguaggio della montagna", tratta invece della tematica relativa alla negazione del linguaggio, problematica viva anche oggi in varie parti del mondo soprattutto a danno delle minoranze linguistiche e dei dialetti spesso messi in secondo piano rispetto alle lingue ufficiali nazionali e alle loro regole sintattiche, problematica tutt’oggi attuale anche in Sardegna con il perdersi dell’utilizzo della lingua sarda che nella rappresentazione che racconta dell’emarginazione curda in Turchia ha sostituito appunto il linguaggio curdo dell’opera originale. La terza intitolata "Party time" è ispirata alla stupidità del mondo moderno borghese che sembra non accorgersi dei gravi fatti che spesso avvengono attorno a se. La scenografia utilizzata per la rappresentazione è nuda e spoglia di qualsiasi oggetto che non sia necessario alla scena, il tutto in onore di Harold Pinter. "Continua la proficua collaborazione tra amministrazione comunale e carceraria - ha dichiarato l’assessore Romagna al termine della rappresentazione - siamo pienamente convinti che il carcere non sia un ambiente isolato dalla società ma che faccia parte di essa e come tale si deve aprire alla città e viceversa". Il lavoro dei detenuti guidati dalla mano sapiente di Pietro Era si è concluso tra gli applausi. Bologna: le voci di "Shalom!", storie del Coro Papageno di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 18 giugno 2017 Oggi in anteprima il documentario di Enza Negroni. Domani sarà proiettato in Senato per la Festa Europea della Musica. L’idea il Coro Papageno è nato nel 2011 all’interno della casa circondariale della Dozza, da un’idea di Claudio Abbado La regista Enza Negroni ne ha seguito le vicende e le esibizioni Nell’aula solenne del Senato si esibisce il Coro Papageno, nato nel 2011 all’interno della casa circondariale della Dozza, da un’idea di Claudio Abbado. Non ci sono tutti. Alcuni membri del coro, quelli con condanne particolarmente pesanti, sono restati a Bologna. E seguono su uno schermo la diretta dell’esibizione, nervosi e partecipi, canticchiando a mezza voce i brani dei loro compagni diretti dal maestro Michele Napolitano. Il filo di tensione che li unisce è raccontato da un intenso montaggio nel film Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel Coro Papageno di Enza Negroni, che a Bologna si potrà vedere domani sera, in anteprima mondiale, alle 20.30 al cinema Arlecchino di via Lame, a conclusione del Biografilm. Prodotto da Proposta Video di Valeria Consolo, in collaborazione con associazione Mozart14 e con il contributo di Film Commission Emilia-Romagna, il film approderà anche in tv, mercoledì alle 10 su Rai3 e sabato 24 alle 12.25 su Rai5. Prima di uscire anche in home video, in un cofanetto che conterrà anche un booklet con vari contributi. Compreso, ricorda Alessandra Abbado, quello del presidente del Senato Pietro Grasso. I 60 minuti raccontano un’attività complessa, ma che ha segnato tutti i detenuti che vi hanno partecipato. Come raccontano loro stessi, aggrappati a ore di prove che uniscono, piuttosto che dividere, storie, provenienze e culture così diverse. In attesa del concerto finale, aperto al pubblico, che ci sarà proprio oggi, già soldout, alla Dozza. Lì dove Enza Negroni aveva già girato La prima meta, sulla squadra di rugby formatasi sempre all’interno del carcere. "Rendere visibili storie che diventano esemplari e si innalzano a modelli di convivenza concreta e riuscita", questo il proposito della regista bolognese. Per raccontare il senso di un’esperienza che corre lungo quel filo, "la musica ti cambia la vita", teso da Abbado e continuato da tanti. Volontari esterni compresi, che si aggiungono alla trentina di coristi di venti nazionalità diverse, con un ricambio fisiologico che non intacca la forza della proposta. Nel film il Coro Papageno passa dalla trasmissione con la popstar Mika al concerto in Vaticano con papa Francesco. "Finito il concerto - dice la Negroni - il coro esce da San Pietro e trova, per la prima volta, come tetto il cielo". Migranti. Ius Soli, il muro di Grillo: "invotabile, basta buonismo" di Giuliano Santoro Il Manifesto, 18 giugno 2017 Il leader 5 Stelle chiude la discussione e mette in riga i suoi. Ma le chat pentastellate si fanno roventi. Gentiloni: la legge un atto di civiltà. Secondo il meccanismo del pendolo (tra destra e sinistra, demagogia e moderazione, bizzarria e buon senso) ci si aspettava che dopo le uscite sui migranti dei giorni scorsi, nel Movimento 5 Stelle avrebbero giocato a rasserenare gli animi. Aveva seguito quel principio, ad esempio, Roberto Fico, parlando di "distanze siderali" dalla Lega e dei principi di solidarietà che dividono i grillini da Salvini, non lasciando spazio ad ogni ipotesi di alleanza. E invece proprio Beppe Grillo interviene, a testimoniare quanto il tema gli stia a cuore e soprattutto a chiudere il dibattito sullo ius soli e mortificare quanti dentro il M5S da giorni si aggrappavano ai cavilli per giustificare l’astensione al Senato, senza chiudere sul principio della cittadinanza in quanto tale per salvare la faccia. "Quello dell’immigrazione è un problema serio e sentito da tutti gli italiani - dice Grillo via Fb - Non parlarne e lasciare tutto come è, blaterando di xenofobia e populismo, conviene soltanto ai partiti che con le cooperative dell’immigrazione ci hanno lucrato per anni". "Tutto com’è", se si seguisse la logica politica ordinaria, equivarrebbe a dire legge Bossi-Fini sull’immigrazione e decreto Minniti-Orlando su decoro e sicurezza urbana. Grillo invece descrive una situazione fuori controllo, in cui dominano lassismo e affaristi a scapito della gente comune. "La patina di buonismo sotto cui è nascosto questo business deve essere cancellata - prosegue - L’immigrazione deve essere gestita, le leggi devono essere rispettate, chi sbaglia paga. È buon senso. Chi è contrario non è di sinistra, è uno stupido o ci guadagna". Se qualcuno poi avesse dei dubbi, come (tra i tanti) il deputato 5S Luigi Gallo, che solo due giorni fa chiedeva il voto online sulla legge sulla cittadinanza di suolo, arriva il niet definitivo: "Sullo ius soli il M5S si è astenuto alla Camera e come annunciato altrettanto farà, con coerenza, al Senato. Trattasi non di legge, ma di pastrocchio invotabile". Si raggiunge il culmine con la retorica del "prima gli italiani": "È vergognoso tenere il parlamento in stallo per discutere di provvedimenti senza capo né coda, mentre non si fa nulla per dare una mano alle famiglie italiane che si trovano in grande difficoltà economica". Grillo parla poi di alleanze. Indirettamente conferma lo schema di cui si era parlato a proposito dell’accordo con la Lega: cercare i voti di fiducia dopo aver ottenuto l’incarico, sulla base di affinità di contenuto. Ma mostra poi di avere una strana idea della Costituzione. Come aveva fatto Luigi Di Maio, infatti, Grillo inverte i passaggi parla di un M5S che prima va al governo e dopo cerca una maggioranza in Parlamento, sui singoli provvedimenti. "Nella nostra attività parlamentare abbiamo sostenuto proposte di tutti i partiti, l’unico requisito necessario era che fossero buone idee. Quando saremo al governo chiederemo a tutti in maniera trasparente di sostenere le nostre buone idee. Ma nessuna alleanza, nessun compromesso, nessun accordo segreto". Le chat grilline si fanno roventi, in molti mostrano disagio. Anche se, come al solito, non sanno come manifestare il dissenso. Non tardano le reazioni politiche. Il presidente del consiglio Paolo Gentiloni ribadisce la sua posizione: "È arrivato il tempo di poter considerare a tutti gli effetti i bambini nati qui come cittadini italiani. È un atto doveroso e di civiltà. Mi auguro che il Parlamento lo faccia presto nelle prossime settimane". "Vorrei che Grillo e Di Maio venissero a trovarmi, gli presenterei gli amichetti di scuola di mio figlio, insieme ai loro papà e mamme provenienti da tanti Paesi del mondo. Perché è contro quei bimbi, contro anche un pezzo molto grande della classe di mio figlio, che i deputati M5S votano quando votano contro lo ius soli", afferma Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana. "Se ius soli è un pastrocchio indigeribile - twitta il deputato di Mdp Arturo Scotto - M5S assomiglia a una matrioska. Apri la statuina di Grillo e ti esce quella di Salvini". Mons. Perego (Cei): "la Chiesa è a favore dello Ius soli, la legge è indispensabile" di Paolo Rodari La Repubblica, 18 giugno 2017 Il direttore della Fondazione Migrantes della Cei e arcivescovo di Ferrara considera il provvedimento "uno strumento che migliorerebbero la vita nelle nostre città, favorendo inclusione e partecipazione". Definisce lo "ius soli" "uno strumento indispensabile". Spiega che la Chiesa si è più volte espressa affinché si aggiorni la legge sulla cittadinanza del 1992 "inadeguata ai tempi che corrono". E bolla le uscite di Beppe Grillo e della Lega come dannose: "Seminare il panico su una legge necessaria per motivi elettorali è poco responsabile". Monsignor Gian Carlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Cei, e arcivescovo di Ferrara, perché la legge va aggiornata? "Quella legge è inadeguata perché non considera ciò che il nostro Paese oggi è diventato, i suoi cinque milioni di migranti e una mobilità cresciuta. Lì si premiava lo "ius sanguinis" - "diritto di sangue": un bambino è italiano se almeno uno dei genitori lo è, ndr - e cioè si salvaguardava chi emigrava. Non si volevano perdere i cittadini che lasciavano l’Italia in cerca di fortuna. Oggi un sano realismo richiederebbe di premiare invece chi arriva da noi. "Ius soli" (il diritto legato al territorio) e "ius culturae" (il diritto legato all’istruzione), sono strumenti che migliorerebbero la vita nelle nostre città, favorendo inclusione e partecipazione". La Chiesa vuole questa legge? "Sì. Già nelle ultime due settimane sociali dei cattolici italiani - dal 1907, con cadenza pluriennale, il momento più importante di confronto sui temi sociali per i credenti - la Chiesa ha chiesto una nuova legge. La riteniamo indispensabile". Grillo definisce "vergognoso tenere il Parlamento in stallo" quando in Italia molte famiglie si trovano in difficoltà economica. Cosa pensa? "Forse questo tipo di contestazione fa guadagnare voti, ma non aiuta il Paese. Seminare panico e confusione non serve. E poi perché non votare una legge giusta soltanto perché ci sarebbero altre presunte priorità? Questa legge aiuterebbe diversi ragazzi a trovare più facilmente lavoro e aiuterebbe la nostra economia. Fra l’altro non si tiene conto che il 75% degli italiani vuole la legge, come ha dimostrato "L’Italia sono anch’io", la campagna delle organizzazioni nazionali che si battono per i diritti dei migranti". Per la Lega in un periodo di "forte invasione di clandestini" la legge farebbe estinguere gli italiani. "L’Italia non è più da tempo paese d’attrazione e, dunque, non c’è alcuna invasione. Approvare la legge quanti in tanti lasciano l’Italia, aiuterebbe chi vuole andarsene a rimanere". Ius soli e migranti, critiche sensate e paranoie identitarie di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 18 giugno 2017 Gli oppositori si sono distinti per la loro sgangherata demagogia. I veri punti deboli della legge riguardano il fatto che è una concessione automatica, priva di requisiti che ne rafforzino il valore simbolico. Pur essendo favorevole in linea generale alla nuova legge sulla nazionalità in discussione al Senato, trovo che le si possono egualmente muovere alcune ragionevoli critiche. Principalmente due. La prima è che nella concessione automatica della cittadinanza prevista per coloro che sono nati in Italia da genitori di cui almeno uno con regolare permesso di soggiorno da cinque anni come minimo, non si prevede però alcun accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana. Si tratta appunto di una concessione automatica che tra l’altro, per il solo fatto di essere tale, viene privata di quel forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle. Bisogna sempre ricordare, infatti, che tutto quanto viene dato senza alcun corrispettivo perde per ciò stesso d’importanza. Il secondo punto su cui mi sentirei di dissentire riguarda il divieto di doppia cittadinanza, che secondo me sarebbe stato opportuno introdurre in ogni caso e che invece è assente. Mi rendo conto delle possibili obiezioni, probabilmente anche di carattere costituzionale. Ma anche in questo caso era comunque necessario, ne sono convinto, pensare a un modo per conferire alla concessione della cittadinanza un carattere di cesura simbolicamente irrevocabile, di frattura definitiva, rispetto a qualsiasi altra appartenenza. Bisognava far capire insomma che la concessione della cittadinanza esclude in modo assoluto qualunque eventuale doppia fedeltà. Così come sarebbe stato forse utile considerare l’ipotesi di accrescere i motivi per i quali la cittadinanza, una volta acquistata, la si può anche perdere. Proprio in relazione a questi ragionevoli dubbi mi pare per nulla campata in aria la preoccupazione che l’immissione di nuovi cittadini provenienti da contesti radicalmente differenti dal nostro possa finire per alterare l’identità storico-culturale del Paese. La Repubblica, con la sua Costituzione, le sue regole le sue leggi, non è nata dal nulla, infatti, e non vive nel nulla, non discende dall’empireo giuridico-formale dei "Diritti". Per mille tramiti essa scaturisce e si alimenta ogni giorno, invece, di una storia - che è anche una complessa storia di valori - la quale, si provi qualcuno a dimostrare il contrario, si colloca nel tempo e nello spazio e ha un nome e un cognome. Si chiama Italia. Sollevare questioni del genere è semplice buon senso, non ha niente di xenofobico né di razzista. E un Paese serio che si trova davanti un problema esplosivo come quello di una immigrazione apparentemente incontrollabile ne dovrebbe discutere in modo serio. Ma da noi questo si rivela sempre difficile. Presentando la proposta di legge di cui stiamo dicendo la Sinistra, ad esempio, ha avuto l’indubbio merito di porre il problema in modo concreto, indicando comunque una soluzione concreta, ed è del merito di questa che si dovrebbe parlare. Che bisogno c’è allora che essa ricorra al sentimentalismo un po’ dolciastro di pubblicare teneri visini di bimbi extra-comunitari dagli occhi spalancati, che - si dice per convincerci - "sono nati qui"? È un sentimentalismo, va subito aggiunto, che però ha un’attenuante. Una sola ma politicamente decisiva, dal momento che anche in politica la moneta cattiva è destinata a scacciare sempre quella buona. E cioè il fatto di rispondere al "cattivismo" programmatico e apocalittico di buona parte della Destra. Alla quale, come se non bastasse si è aggiunto ora anche il Movimento Cinque Stelle (dopo essersi astenuto alla Camera). Gli argomenti messi in campo dagli oppositori si sono distinti infatti per la loro sgangherata demagogia. Abbiamo sentito e letto di tutto tranne che qualche proposta in positivo. Dal "non si fa nulla per gli italiani" (che non si capisce che cosa c’entri, essendo che gli italiani una cittadinanza fino a prova contraria già ce l’hanno) alla denuncia per gli affari sporchi connessi al traffico e all’accoglienza degli immigrati (tutto vero, ma realmente si pensa che eliminando il "business" dell’immigrazione magari si elimina anche l’immigrazione?), all’allarme diffuso per le terribili malattie che gli immigrati importerebbero (anche qui: ma che cosa c’entra con la nazionalità?). Su tutto aleggia poi una sorta di furibonda paranoia identitaria nonché l’idea, non saprei dire se più ingenua o più bizzarra, che senza la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una legge sulla concessione della nazionalità, milioni di africani se ne starebbero tranquilli a morire di fame rinunciando a intraprendere il loro disperato viaggio verso l’Europa. Invece, se una cosa è certa è l’impeto ininterrotto e di difficilissimo contenimento del fenomeno migratorio da cui siamo investiti. Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale che richiederebbe alle forze politiche d’opposizione, ma in modo tutto particolare a quelle della Destra, il perseguimento degli interessi vitali del Paese, non la ricerca a tutti i costi di un qualche possibile guadagno elettorale. La cultura della nazione, il patriottismo, quello vero, significa tra le altre cose anche questo: capire quando bisogna rinunciare agli interessi della propria parte in nome di un interesse generale. Oggi tale interesse si sostanzia in due obiettivi assolutamente prioritari. All’interno, evitare da un lato l’apartheid di fatto e dall’altro il comunitarismo multiculturale, assicurando nel modo più rigoroso la legalità e la sicurezza; all’esterno utilizzare tutte le risorse politiche e diplomatiche (il ricatto compreso, caro presidente Gentiloni, il ricatto compreso!) per obbligare i nostri soci europei a non lasciarci da soli nelle peste alle prese con un problema che è anche il loro problema. Chiunque dia comunque una mano per raggiungere uno di questi obiettivi, a qualunque partito appartenga, è un benemerito del nostro Paese. Medio Oriente. La schiavitù invisibile delle migranti. Abusi, tratta e passaporti confiscati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 giugno 2017 64 ore settimanali è in media l’orario delle lavoratrici domestiche nel Golfo e nel Levante. Le migranti guadagnano tra il 20-30% in meno del salario minimo locale. Il dato potrebbe stupire: il Medio Oriente è la regione al mondo con la più alta percentuale di lavoratrici domestiche. Quasi tutte migranti. Tra Golfo e Levante l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ne conta 1,6 milioni, quasi il doppio (2,5 milioni) secondo l’International Trade Union Confederation. Numeri elevatissimi, contestualizzati dal sito di monitoraggio Migrant Rights: il 90% dei cittadini del Kuwait ha alle proprie dipendenze una lavoratrice domestica straniera; il 36,6% della forza lavoro femminile in Bahrain è impiegata in case private; il 99,6% degli immigrati economici in Arabia Saudita è un lavoratore domestico. L’altro lato della medaglia è l’assenza totale di diritti: lavorano in media 64 ore a settimana e guadagnano tra il 20% e il 30% in meno del salario minimo nazionale (147 dollari al mese in Kuwait, 100 in Arabia Saudita). E sono vittime di una forma di schiavitù moderna, invisibile. A monte sta il sistema della kafala, o dello sponsor: l’ingresso di lavoratori stranieri nei paesi del Golfo e in Libano, la residenza e la successiva uscita sono permessi sulla base della sponsorizzazione da parte di un cittadino o di un’impresa privata. Che nella pratica diventano "proprietari" di un essere umano. Passaporti confiscati, impossibilità di cercarsi un lavoro più dignitoso o meglio remunerato, condizioni di lavoro disumane, violenze fisiche e verbali, suicidi sono le dirette conseguenze per buona parte delle lavoratrici domestiche straniere, tutte provenienti da Sud est asiatico e Africa sub-sahariana. Un quadro reso peggiore dalla mancanza di una regolamentazione statale del lavoro domestico, escluso dalle leggi sul lavoro apparentemente per non violare privacy e "sacralità" della casa privata. Le lavoratrici domestiche finiscono così in un limbo di invisibilità, divise tra loro e incapaci di accedere ai propri consolati, costrette alla schiavitù pena l’arresto e l’espulsione. Dietro, un vero e proprio traffico di esseri umani, con agenzie specializzate che traggono profitto dalla "vendita" di donne migranti entrate illegalmente. Le prime forme di organizzazione sindacale iniziano però ad emergere: se nelle petromonarchie del Golfo sindacati e scioperi sono fuorilegge, in Libano sono radicati. Nel 2015 è così nato il primo sindacato di lavoratori domestici, sotto l’ombrello della più ampia Federazione delle unioni dei lavoratori. Da allora ha firmato accordi con i sindacati nei paesi di origine e lanciato campagne per vedersi riconosciuto come soggetto legittimo da Beirut, sostenuto da cento ong locali. Le difficoltà non mancano, figlie della scarsa capacità di raggiungere la singola lavoratrice, per ragioni di lingua, isolamento, bassi stipendi che limitano il movimento, timore della deportazione e ora una nuova guerra tra poveri, scatenata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati siriani disposti a lavorare per salari ancora più infimi. Ad organizzarsi, però, è anche la stessa società civile libanese e i movimenti anti-razzisti che hanno fatto delle condizioni delle lavoratrici domestiche (250mila stimate nel Paese dei Cedri) una bandiera. Se già dal 2011 è stato aperto nella capitale il Migrants Community Center, il primo maggio 2017 le strade di Beirut sono state attraversate dalla parata dei lavoratori migranti, sotto lo slogan "La kafala uccide". Solo pochi mesi prima, nel novembre 2016, il Libano deportava Sujana Rana e Roja Limbu, lavoratrici domestiche leader del sindacato nato due anni fa e tuttora illegale agli occhi di Beirut. È invece oblio totale nel Golfo, dove la narrativa su cui si fondano le petromonarchie sunnite - un misto di wahhabismo, interpretazione medievale dell’Islam e soffocamento delle istanze di ogni gruppo "minoritario" inteso come minaccia alla tenuta del regime (dalle donne agli immigrati, dalla comunità sciita alle opposizioni politiche) - crea intorno alle migranti una gabbia che prima che fisica è mentale. Lo sfruttamento delle lavoratrici tra le mura domestiche è un fenomeno radicato e diffuso, affatto trattato dai media e marginalizzato dalle autorità che non puniscono mai i responsabili di reati nei rarissimi casi denunciati dalle vittime. Così si spiegano le drammatiche statistiche dell’intelligence libanese riportate dall’agenzia dell’Onu Irin: in Libano ogni settimana due lavoratrici domestiche muoiono per cause non naturali. Per i pestaggi, per suicidio o per essersi lanciate dal balcone nel tentativo di fuggire. Siria. L’Onu: "migliaia di detenuti torturati e uccisi" tpi.it, 18 giugno 2017 Lo ha documentato un rapporto delle Nazioni Unite che ha intervistato 621 ex prigionieri che hanno raccontato delle violenze e degli abusi a cui erano sottoposti. Il governo siriano sta torturando e uccidendo migliaia di detenuti. A dirlo sono degli investigatori per i diritti umani delle Nazioni Unite che accusano il regime di Bashar al-Assad di crimini contro l’umanità in un rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dal titolo "Out of sight, out of mind: Deaths in detention in the Syrian Arab Republic". L’analisi rivela però che sia le forze lealiste che i ribelli hanno commesso crimini di guerra. Molti prigionieri sono stati torturati, alcuni picchiati fino alla morte e altri lasciati morire di fame o di sete. Durante le indagini, gli investigatori hanno intervistato 621 testimoni. Il rapporto, che analizza un periodo di tempo che va dall’inizio del conflitto nel 2011 al 30 novembre 2015, parla di migliaia di detenuti uccisi in totale. Il rapporto descrive la situazione dei detenuti in Siria come "urgente e bisognosa di tutela dei diritti umani" e chiede di agire in fretta per evitare ulteriori morti dal momento che ci sono ancora migliaia di detenuti nelle mani dei vari gruppi in guerra. Ex detenuti hanno descritto agli investigatori le condizioni disumane in cui venivano tenuti, raccontando di come gli agenti penitenziari dessero ordini ai loro sottoposti di torturare i prigionieri. I corpi senza vita di quelli che venivano uccisi venivano trasportati dagli altri detenuti e spesso lasciati per giorni nei bagni prima di essere portati via. Le prove ottenute indicano che i superiori delle strutture penitenziarie venivano regolarmente informati dei prigionieri morti sotto il loro controllo. I cadaveri venivano trasferiti in ospedali militari prima di essere seppelliti in fosse comuni. Molte uccisioni documentate sono avvenute in luoghi controllati dai servizi di intelligence siriani. Sia le forze lealiste che i ribelli sono accusati di violenza contro i detenuti, ma i crimini più grandi sono stati commessi dalle agenzie governative. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, considera queste torture dei veri e propri crimini di guerra. Nelle zone della Repubblica araba siriana sotto il controllo del sedicente Stato Islamico, i terroristi hanno sottoposto i detenuti ad abusi gravi tra cui esecuzioni sommarie, senza che venisse svolto alcun processo. Dal 2011 i civili siriani che erano leali all’opposizione o anche solo non sufficientemente fedeli al governo, potevano essere arrestati in qualunque momento. Norvegia. Le prigioni più umane del mondo tpi.it, 18 giugno 2017 Per il sistema giudiziario norvegese il periodo in carcere deve servire a riabilitare il prigioniero, anziché punirlo. Nel carcere di massima sicurezza di Halden, in Norvegia, nessuna finestra è sbarrata. Visto da fuori, potrebbe sembrare un campus universitario o un ospedale. Lungo le mura del carcere non ci sono né filo spinato né guardie armate a pattugliare, ma solo alberi di pino e betulle. Eppure, finora nessun detenuto ha mai cercato di fuggire. I prigionieri hanno una stanza privata con televisione a schermo piatto, una doccia, un frigo e mobili in legno. Trascorrono la maggior parte della giornata fuori dalla loro cella. Possono giocare a baseball, fare jogging e allenarsi sulle pareti da arrampicata. La durata massima delle sentenze in Norvegia, anche per gli omicidi, è di 21 anni. Le prigioni cercano dunque di preparare i detenuti al ritorno nella società e per questo ricreano un ambiente simile a quello al di fuori del carcere. La filosofia del sistema giudiziario norvegese è "meglio fuori che dentro": il periodo in carcere deve servire non a punire, ma a riabilitare il prigioniero. Ad Halden sono incarcerati assassini, stupratori e pedofili. Si trova qui anche Anders Behring Breivik, il responsabile dell’attacco sull’isola di Utoya che nel 2011 uccise 77 persone. Breivik non è stato portato a Ringerike, la prigione più sicura della Norvegia, perché da qui avrebbe avuto la vista su Utoya. Halden, rinominata "la prigione più umana del mondo", è costata oltre 187 milioni di euro. In Norvegia per ogni prigioniero si spendono circa 80mila euro all’anno, il triplo rispetto agli Stati Uniti. Non solo si tende a riabilitare i prigionieri, ma in Norvegia si cerca anche di evitare di incarcerarli: solo 75 ogni 100mila abitanti nel Paese scandinavo, rispetto a 707 negli Stati Uniti e 103.8 in Italia. Il metodo norvegese sembra funzionare: nel Paese scandinavo c’è un tasso di recidività del 20 per cento, tra i più bassi al mondo. Negli Stati Uniti invece il 75 per cento dei detenuti vengono arrestati nuovamente dopo la scarcerazione e in Italia la percentuale di recidiva media è del 68.45 per cento. Nella prigione norvegese di Bastoy, solo il 16 per cento dei detenuti scarcerati torna a commettere crimini o reati. "Se trattiamo le persone come fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come esseri umani", dice Arne Nilsen, ex direttore di Bastoy, in un’intervista al The Guardian. Quando i detenuti vengono scarcerati, si fa in modo che riescano a trovare un lavoro e che abbiano una casa, per evitare che la povertà e la disoccupazione li inducano a ricascare nei circoli viziosi di violenza e criminalità. Inoltre, in Norvegia a tutti i cittadini sono garantite le cure pubbliche e una pensione minima. "La vera giustizia è rispettare i prigionieri: in questo modo insegniamo loro a rispettare gli altri", dice Nilsen. "Ma continuiamo a tenerli d’occhio. È importante che quando siano scarcerati siano meno propensi a commettere altri crimini. Così si crea una società più giusta". Venezuela. Lettera a Maduro: rispetta i diritti del tuo popolo di Paolo Gentiloni e Mariano Rajoy Corriere della Sera, 18 giugno 2017 Il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e il presidente del governo spagnolo Mariano Rajoy hanno scritto una lettera-appello congiunta al presidente del Venezuela Nicolás Maduro, invitandolo al dialogo con l’opposizione per fermare l’escalation. "Consideriamo fratello il popolo venezuelano, ecco perché non possiamo essere indifferenti alle sue sofferenze": così il premier italiano Gentiloni e quello spagnolo Rajoy in una lettera al leader Maduro. Italia e Spagna hanno un rapporto speciale con il Venezuela. Una relazione che può contare non solo sulle nostre vaste Comunità nazionali che vi risiedono, ma anche su una comunanza di valori, costumi e tradizioni. Consideriamo fratello il popolo venezuelano e ne sosteniamo le legittime aspettative di pace, democrazia, sviluppo e coesione sociale. Ecco perché non possiamo essere indifferenti alle sue sofferenze. Ecco perché non possiamo tacere di fronte all’escalation di violenze in atto tra Governo e opposizioni e alle molte decine di vittime degli scontri in cui sono degenerate le recenti manifestazioni. Ecco perché non possiamo rassegnarci alla crisi economica, sociale e umanitaria che colpisce un Paese così ricco, ma dove non si trovano più beni di prima necessità e medicinali. Assistiamo sgomenti a una situazione drammatica, in cui lo scontro politico sembra aver chiuso ogni spiraglio a un dialogo costruttivo. Il solo strumento che possa scongiurare nuove e ancor più gravi violenze, oltre che il rischio di involuzioni anti-democratiche. La crescente gravità di questo scenario rende ormai necessario rompere gli indugi. Italia e Spagna si appellano pertanto con forza al Governo venezuelano affinché riconsideri la sua decisione di indire un’Assemblea Costituente. Anche perché la Costituzione del 1999 - alla cui lettera e spirito tutte le parti devono attenersi - prevede già i meccanismi utili a individuare una soluzione politica in grado di ricomporre i diversi interessi nel rispetto delle Istituzioni, delle leggi e della sovranità popolare. La scelta di convocare - in un momento tanto critico - l’Assemblea Costituente divide il Paese invece di unirlo. Ne sono testimonianza il manifesto dissenso non solo di molte forze politiche, incluso in seno al chavismo, ma anche di voci autorevoli delle Istituzioni e della società civile. Pensiamo, da ultimo, alla Conferenza Episcopale del Venezuela, che ha espresso pubblicamente al Santo Padre le sue preoccupazioni per la situazione tragica in cui versa il Paese. Al Presidente Maduro ci permettiamo di ricordare che Simón Bolívar - il cui obiettivo supremo era di superare le divisioni e assicurare l’unità del popolo - ha avvertito: "La maniera di ben governare è di impiegare gli uomini onorati, fossero anche nemici". Con questo spirito chiediamo che egli e il suo Governo non reprimano il dissenso, rispettino la separazione dei poteri e la legittimità democratica dell’Assemblea Nazionale così come i diritti umani, incluso il diritto a manifestare pacificamente. È dunque tempo di definire senza indugi una piattaforma negoziale che attivi una dinamica di riavvicinamento e di responsabilità comune tra le forze contrapposte. Nel farlo non si potrà prescindere da quattro condizioni fondamentali per raggiungere un risultato efficace: rispetto dello Stato di diritto, e in particolare dell’autonomia del Parlamento, rilascio dei detenuti politici, apertura di un canale umanitario a favore della popolazione venezuelana e adozione di un calendario elettorale chiaro e condiviso affinché il popolo venezuelano possa esprimere la propria volontà attraverso il voto libero, diretto e universale. L’Italia e la Spagna saranno al fianco del Venezuela in questo difficile percorso. E si impegneranno per fare in modo che anche l’Unione Europea possa offrire il suo pieno sostegno. È di conforto vedere che un numero sempre più elevato di Paesi, indipendentemente dagli orientamenti politici dei loro Esecutivi, condivida le nostre preoccupazioni e non intenda far mancare il proprio contributo a favore della pace. Accogliamo altrettanto favorevolmente gli sforzi regionali in corso volti a favorire la ricerca di una soluzione pacifica e democratica alla crisi in Venezuela. Ma la responsabilità ultima sulla strada da intraprendere spetta naturalmente al Governo del Venezuela. Alle sue scelte politiche - che la Storia verrà chiamata a giudicare - sono appesi il destino, i bisogni, le speranze e le paure di milioni di cittadini. La pace e il futuro di un Paese e di una Nazione. Non possiamo essere indifferenti alle sofferenze, non possiamo tacere davanti alla escalation di violenze Condizioni: rispetto dello Stato di diritto, rilascio dei detenuti politici, apertura di un canale umanitario, un voto libero. Egitto. "Bavaglio alle ong ma al-Sisi rischia: il popolo vede gli abusi" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 giugno 2017 La nuova legge mette in pericolo l’attività di 46mila associazioni locali e internazionali. Un’attivista spiega lo scopo del Cairo: mera fornitura di servizi, quelli che lo Stato non dà. "Quando si parla di chiusura degli spazi politici, si intende esattamente questo: mettere sotto silenzio le ong che lavorano sui diritti umani, la società civile, il movimento di base per i diritti umani". In Egitto l’impatto della legge sulle ong è devastante. Lo si coglie subito dalle parole di un’attivista, impegnata da anni nella tutela dei diritti umani. Ci chiede l’anonimato, la paura di rappresaglie è tanta. La nuova legge è stata firmata dal presidente al-Sisi il 29 maggio, a sei mesi dall’approvazione da parte della Camera dei rappresentanti. Investirà le 46mila organizzazioni attive in Egitto, locali e internazionali, che finiranno sotto il diretto controllo del governo. Nella pratica, la legge annullerà la spinta politica della società civile, espressione della rivoluzione del gennaio 2011 le cui parole d’ordine si sono tradotte nella nascita di migliaia di ong che da sette anni sono impegnate in prima linea nella tutela dei diritti umani, politici, sociali e economici. "La legge introduce severe punizioni per le ong che non lavoreranno secondo i nuovi criteri - aggiunge l’attivista - Proibisce ogni attività di tutela contro gli abusi dello Stato, limitando tale attività a progetti di sviluppo, un concetto non meglio definito. Il governo vuole che le ong facciano il suo lavoro, ovvero offrano i servizi che lo Stato non dà senza però che si parli alla gente dei diritti di cui gode". Le 46mila ong egiziane restano in attesa: i regolamenti esecutivi non sono stati ancora pubblicati, forse saranno resi noti tra un mese, un mese e mezzo. Di certo modificheranno alla radice le attuali modalità di intervento: "Finora il procedimento era questo: l’ong scriveva la sua proposta, la presentava al ministero della solidarietà chiamato ad approvarla o rigettarla e dunque ad erogare o meno i fondi. Con la nuova legge, la proposta va presentata a un comitato formato da esponenti dell’intelligence interna, dei servizi segreti, del ministero della solidarietà, dell’unità anti-terrorismo, dell’unità anti-corruzione. Un processo lungo che coinvolge soggetti che su questo argomento non hanno alcun mandato. D’ora in poi nemmeno le associazioni di beneficenza potranno raccogliere fondi fino a quando questo comitato non si dirà d’accordo con le ragioni della raccolta. Mesi di lavoro e procedure lunghissime in un paese dove la miseria sta avanzando veloce e l’80% della popolazione è povera. Sarà il governo a raccogliere donazioni per cibo, case, ospedali?". L’obiettivo è politico. È lo stesso che ha spinto il governo golpista a chiudere in due settimane 64 agenzie di stampa, a reprimere un anno fa come in questi giorni le proteste contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita (riprese questa settimana insieme a decine di arresti preventivi e non), a introdurre il cosiddetto Caso 173, ovvero il congelamento dei fondi alle ong e ai suoi rappresentanti che ricevono finanziamenti dall’estero (normale forma di sussistenza delle ong locali in tutto il mondo). Un fascicolo enorme, quest’ultimo, che ha investito organizzazioni storiche: una delle ultime a essere colpita è Cewla, Center for Egyptian Women Legal Assistance, nata nel 1997 e di cui è partner l’italiana Cospe, che lavora contro le discriminazioni di genere e le violenze sulle donne. La sua fondatrice, Azza Soliman, si è vista congelare il conto corrente (insieme a quello di Cewla) nel dicembre 2016 e ritirare il passaporto. "Con la nuova legge se un progetto conterrà, ad esempio, la parola empowerment femminile - continua l’attivista - verrà bocciato. Gli effetti saranno devastanti. Prendiamo il caso delle migliaia di ong che lavorano con le donne egiziane: chi si occuperà di fornire servizi e generare consapevolezza in un periodo in cui le violenze sulle donne sono in costante crescita? La violenza di genere è strutturale, in parte dovuta al livello di frustrazione e alle difficoltà economiche della popolazione. La gente dirige la propria rabbia verso i soggetti più deboli e in una società patriarcale come quella egiziana i soggetti più deboli sono le donne: negli ultimi due anni le violenze sono aumentate di nuovo rispetto al periodo subito successivo alla rivoluzione del gennaio 2011, quando c’era la speranza di un cambiamento e la situazione economica era più stabile". Ma ad un regime che introduce ogni giorno nuovi bavagli a società civile e stampa sfugge un elemento centrale. "Pensano che silenziando giornali e ong la gente avrà meno informazioni e sarà più controllabile. Ma il popolo vede da solo qual è la situazione, vede che i propri vicini vengono rapiti e accusati di crimini non commessi, vede la povertà e la violenza. Non ha certo bisogno che glielo dica una ong". Stati Uniti. Assolto il poliziotto che uccise a sangue freddo l’afroamericano Castile di Marina Catucci Il Manifesto, 18 giugno 2017 Jeronimo Yanez è stato assolto per l’uccisione di Philando Castile, ripresa dalla fidanzata in un video. Migliaia di manifestanti sono scesi in corteo per una marcia di protesta. Dopo 29 ore di camera di consiglio, Jeronimo Yanez, il poliziotto che l’anno scorso a Minneapolis uccise Philando Castile, un afroamericano di 32 anni, è stato assolto. La morte di Castile fu ripresa dalla fidanzata in un video diffuso su Facebook. Il caso scatenò proteste in Minnesota e in tutti gli Stati Uniti facendo parlare ancora una volta di Black Lives Matter e delle facili uccisioni di afroamericani da parte della polizia. Secondo Yanez, la vittima aveva cercato di estrarre un’arma. In realtà Castile aveva comunicato al poliziotto di possedere una pistola regolarmente accompagnata da porto d’armi, ma a quanto pare il secondo emendamento è valido solo per i bianchi e Castile è stato ucciso all’interno della sua auto, al fianco della sua fidanzata e della figlia di 4 anni di lei. Dopo la notizia dell’assoluzione migliaia di manifestanti sono scesi in corteo per una marcia di protesta diretta verso la Cattedrale di San Paul. I manifestanti hanno bloccato per ore il traffico ferroviario. Al corteo hanno partecipato, ancora una volta, persone di tutte le razze. "Non bisogna essere neri per sentirsi oltraggiati", si è spesso letto su i cartelli delle manifestazioni di Black Lives Matter, e questo è stato un vero oltraggio per tutti i militanti per le libertà civili degli afroamericani; l’amministrazione della città di Sant’Antonio ha annunciato il licenziamento di Yanez, nonostante la sua assoluzione, ma si parla di un licenziamento in confronto ad un omicidio. "Il punto qui - ha detto la madre di Castile - è che mio figlio è stato ammazzato e continuerò ad usare questo termine, perché anche se sei onesto, anche se dici la verità, anche se non fai nulla di male, puoi essere ammazzato. Molte persone sono morte per garantirci dei diritti, ma noi stiamo regredendo, stiamo tornando al 1969: cos’altro deve accadere? Sono folle di rabbia". Arabia Saudita. Raif Badawi, cinque anni fa l’arresto. In prigione, dimenticato dal mondo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 giugno 2017 Oggi, 17 giugno, è il quinto anniversario dell’arresto di Raif Badawi, il blogger saudita poi condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate per "offesa all’Islam". La "colpa" di Badawi è di aver fondato un forum online, chiamato "Liberi liberali sauditi", con l’intenzione di avviare un dibattito su temi politici e religiosi. La condanna è stata resa definitiva dalla Corte suprema dell’Arabia Saudita il 6 giugno 2015. Ancora prima, il 9 gennaio, davanti alla moschea di al-Jafali a Gedda, Badawi aveva subito le prime (e per fortuna ancora ultime) 50 frustate. Di Badawi ormai si ricordano in pochi. Le campagne delle organizzazioni per i diritti umani vanno comunque avanti: qui si può firmare l’appello di Amnesty International. Del resto, l’Arabia Saudita è un paese troppo importante per la comunità internazionale. Beneficia - del tutto immeritatamente - dell’aggettivo "moderato" e dell’esonero dal "Muslim ban" di Trump il quale, anzi, nel suo recente viaggio nel Golfo ha usato la capitale Riad per rilanciare la sua offensiva anti-iraniana. Per l’Italia, dal canto suo, l’Arabia Saudita è a sua volta un importante acquirente di armi. Eppure Badawi è solo uno delle decine di attivisti e difensori dei diritti umani che stanno scontando lunghe pene detentive per aver esercitato in modo pacifico i loro diritti fondamentali. Le autorità saudite continuano a vessare, arrestare e perseguitare penalmente chi critica il governo e ne sfida le leggi, compresi scrittori e commentatori online, attivisti politici e attiviste per i diritti delle donne, membri della minoranza sciita e difensori dei diritti umani. L’intero vertice dell’unica organizzazione indipendente per i diritti umani, l’Associazione saudita per i diritti civili e politici, è in prigione.