Mattarella ha ragione: più lavoro ai detenuti fa calare la recidiva di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2017 Nel messaggio inviato in occasione della festa del Corpo della Polizia penitenziaria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parla della necessità di un "profondo rinnovamento del modello di detenzione". Ha indubbiamente ragione. Il processo di cambiamento, cominciato a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, non può fermarsi qui. Avremmo perso un’occasione storica per ripensare un modello penale e penitenziario che non ha funzionato, come i tassi elevatissimi di recidiva ci dimostrano inequivocabilmente. Mattarella ha parlato dell’importanza del lavoro in carcere. Come si legge nell’ultimo rapporto sulle carceri di Antigone, solo il 29,73% del detenuti è impegnato lavorativamente. Di questi, solo il 15% è alle dipendenze di un datore di lavoro privato. 612 detenuti, dei 53.495 presenti alla fine del marzo scorso, sono impiegati in attività di tipo manifatturiero, 208 in attività agricole. La stragrande maggioranza lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impiegata in attività domestiche del tutto dequalificate fin dai nomi stessi che lo svilente gergo carcerario dà a questi mestieri: il porta vitto che distribuisce le vivande, lo scopino che tiene pulita la sezione, lo spesino che prende le ordinazioni della spesa, lo scrivano che aiuta i compagni a presentare i vari atti necessari per la sopravvivenza penitenziaria. Il carcere ha sperimentato le prime e massime forme di lavoro atipico: chi lavora in carcere è occupato spesso per poche ore al giorno, per pochi giorni a settimana, per poche settimane al mese e guadagna in media 200 euro mensili. Quel 29,73% non riguarda dunque affatto persone impegnate a tempo pieno. Tutt’altro. Mattarella ha parlato anche dell’importanza dell’apertura alla società esterna. Un’apertura che non significa più pericoli bensì più sicurezza, visto che in coloro che scontano parte della pena in misura alternativa il tasso di recidiva cade in picchiata. La sanzione penale deve diventare qualcosa di responsabilizzante, non di inutile e passivizzante. Ha ragione Mattarella: dobbiamo rinnovare profondamente il modello di detenzione. Ma anche il modello di pena in sé e per sé, che non può essere sempre e solo schiacciato sul carcere, come per troppo tempo è capitato. Oggi abbiamo una grande occasione: un disegno di legge che, quando il parlamento riuscirà ad approvarlo, permetterà di scrivere un nuovo ordinamento penitenziario, a oltre quarant’anni da quello attualmente vigente. Cogliamola. E anzi non fermiamoci qui. Dobbiamo mettere mano anche al codice penale, innanzitutto per ripensare la dannosa e insensata politica proibizionista sulle droghe. Bravo Sergio Mattarella a festeggiare la polizia penitenziaria con parole che richiamano il compito più alto cui essa è chiamata, quello del rispetto del dettato costituzionale. Lo staff penitenziario merita rispetto e prestigio sociale. Troppo spesso allo staff penitenziario, anche nel recente passato, si è affidata una supplenza di ciò che la politica non ha fatto o non ha programmato. Non servono tuttavia più poliziotti. Ne abbiamo in numero sufficiente, tra i più alti percentualmente di tutta l’Europa. Servono invece più operatori sociali, più mediatori, più interpreti, più medici, più psicologi. Il lavoro in carcere evita la recidiva, progetti a confronto a Genova di Emanuela Mortari bizjournal.it, 17 giugno 2017 Il 70% dei detenuti in Italia torna nuovamente in carcere una volta uscito. La percentuale scende al 20% nel caso il detenuto sia stato coinvolto in un’attività lavorativa durante la pena. Solo questo dato dovrebbe suggerire qualcosa sia allo Stato sia a chi gestisce le case circondariali. Invece parte dalle associazioni e da chi gestisce i progetti singoli, un tentativo di ascoltare le esperienze, condividerle, "per capire come possiamo essere imprenditoriali e a quanti finanziamenti esterni possiamo accedere", dice Paolo Trucco, coordinatore del progetto Press a Marassi per la Bottega solidale. Trucco è uno dei relatori del convegno "Lavoro in carcere: che impresa! Esperienze, confronto e idee di sviluppo", organizzato dalla Rete Carcere coordinata dal Celivo, Centro di servizi al volontariato e in corso per tutta la giornata di oggi, 16 giugno, alla Casa della Giovane di piazza Santa Sabina. Ospiti anche responsabili di progetti non liguri, proprio per cominciare nell’ottica della massima condivisione: Gian Luca Boggia di Extraliberi (Torino, serigrafia e stampa in digitale), Liri Longo di Rio Terà dei Pensieri (Venezia, riciclo pvc, cosmetica, pulizia aree urbane, agricoltura biologica, serigrafia), Nicola Boscoletto della Pasticceria Giotto (Padova, pasticceria artigianale), Giusy Biaggi di I buoni di Cà del Ferro (Cremona, confezionamento prodotti alimentari curati dalla cooperativa Nazareth). Presenti anche i genovesi: "Il progetto Press - racconta Trucco - esiste dal 2008. Si tratta di un laboratorio in cui lavorano 5 persone della quinta sezione ad alta sicurezza, a tempo determinato, part-time, che sviluppa una linea di prodotto basato su una filiera etica e sociale. Le magliette arrivano da un produttore eco-sociale in Bangladesh, mentre qui i detenuti le completano con stampa serigrafica, transfer e altre tecniche". La mole di lavoro non consente di allargare il numero di persone coinvolte. "Eppure i numeri dimostrano quanto sia importante proporre attività qualificanti - sottolinea Trucco - che siano utili anche fuori dal carcere. Difficilmente chi fa il cuoco nella mensa, le pulizie o il barbiere durante la detenzione, può spendersi questa qualifica una volta uscito. Le attività proposte danno opportunità alle persone di scontare la pena in maniera costruttiva, non oziando tutto il giorno". Il progetto Press è gestito come un’impresa a tutti gli effetti: "Non c’è nessuno che copre gli eventuali passivi a fine anno e periodicamente accediamo a finanziamenti per l’acquisto dei macchinari, come ogni altra azienda". La rete carcere del Celivo è attiva dal 2010 ed è composta da un gruppo di associazioni che si occupa in vari modi di giustizia penale e riparativa. Si riunisce una volta al mese nella sede del Centro ed è aperta a tutti gli enti che desiderano dare un contributo. L’avvio di un progetto in carcere dipende molto anche dalla disponibilità della direzione, che fortunatamente a Marassi, a quanto riferisce Trucco, è stata particolarmente ricettiva, anche dopo l’avvicendamento tra Salvatore Mazzeo e Anna Maria Milano. "Trovare gli spazi, ottenere la disponibilità del personale non è sempre facile", puntualizza Trucco. Etta Rapallo presidente dell’associazione Sc’Art e Manuela Musso, coordinatrice del progetto Creazioni al fresco, annunciano fiere che domani Coop Liguria (per la terza volta nella storia del progetto) consegnerà all’assemblea dei soci 850 borse fatte dalle detenute coinvolte da Creazioni al fresco: "Abbiamo due laboratori - dice Rapallo - uno nel carcere di Pontedecimo e l’altro in un circolo Arci a Bolzaneto, in sostanza realizziamo borse, complementi d’arredo e accessori di moda, con striscioni pubblicitari dismessi e tele di ombrelli rotti. Al momento ci lavorano 7 persone, 4 in borsa lavoro e 3 part-time, abbiamo anche una detenuta in regime di semilibertà". Creazioni al fresco è sostenuto da una rete di imprese e di realtà profit e non profit sia con commesse di lavoro sia con donazioni e contributi. "Lavorare in carcere - sottolinea Musso - aiuta a vedere le cose con una prospettiva diversa e a ripensare il futuro, ad avere un approccio con la normalità, con una vita che non ha contatti con l’esperienza da cui le detenute provenivano". In Liguria ci sono altre esperienze che sono state raccontate nella giornata di confronto: a Pontedecimo c’è Grafiche KC, un laboratorio di stampa e legatoria, a Chiavari la Cooperativa sociale Nabot si occupa di trasporti, sgomberi, raccolta indumenti e pulizie. Anche l’associazione Sc’Art denuncia la mancanza di un coordinamento nazionale: "C’è stata l’esperienza del Progetto Sigillo - ricorda Rapallo, la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute, sostenuto dal ministero della Giustizia, che si occupava di certificare con un marchio la qualità e l’eticità dei prodotti realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni dei più affollati penitenziari italiani". Sigillo era gestito da una vera e propria agenzia dedicata, che ne curava le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato, come un brand a tutti gli effetti, ma è stato sospeso, il sito è però ancora attivo e l’ultimo aggiornamento risale al 2015. Il sovraffollamento è uno degli altri grossi problemi delle carceri italiane, Cassa depositi e prestiti avrebbe anche un piano carceri con investitori pronti a fare la loro parte, ma se dalla politica non arriva l’input tutto è destinato a restare immobile. 41bis. Una Circolare del Dap uniformerà il "carcere duro" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2017 I 6 internati al 41 bis dell’Aquila andranno in un istituto idoneo. Hanno già scontato la pena, sono ritenuti ancora socialmente pericolosi e ospitati in "Casa lavoro" per facilitarne il reinserimento. Ma il lavoro non c’è e la misura viene prorogata. Miglioramenti generali e soluzione per gli internati in 41 bis del carcere de L’Aquila. A breve ci saranno due importanti iniziative per il regime duro. Come già anticipato da Il Dubbio, presto verrà trasmessa una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che punterà a uniformare l’applicazione del 41 bis per tutti i 13 istituti penitenziari che ospitano la detenzione dura. Tale circolare si prefigge di raggiungere una piena funzionalità del regime nel corretto bilanciamento degli interessi connessi alla sicurezza penitenziaria ed alla dignità del detenuto, titolare di diritti soggettivi che non devono venire meno per effetto della sottoposizione al regime speciale, con l’esclusione di ogni disposizione che possa essere interpretata come inutilmente afflittiva. L’uniformità di metodo, oltre ad implementare le buone prassi nel rispetto dei diritti inviolabili dei detenuti, consentirà di fornire risposte univoche alle richieste di intervento della Magistratura di Sorveglianza. Come ha già anticipato la relazione del ministero della Giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, inoltre, per migliorare l’organizzazione amministrativa e operativa dello speciale regime cui sono sottoposti tali detenuti, nei prossimi programmi formativi sarà inserito un apposito corso per il personale funzionalmente dipendente dal Gom - deputato al servizio di custodia di tale tipologia di detenuti - finalizzato a fornire un’istruzione propedeutica alla operatività e un approccio uniforme alla gestione del servizio. Sul piano delle garanzie di sicurezza - vista la peculiarità dei soggetti affidati al Gom e l’intrinseco alto livello di esposizione al rischio per un’adeguata tutela degli operatori, anche in linea con il piano nazionale anticorruzione, si è provveduto alla costante movimentazione del personale fra i vari reparti. L’altra notizia riguarda la situazione dei sei internati al carcere di L’Aquila in 41 bis. C’è una differenza tra "detenuti" e "internati". Il detenuto è colui o colei che si trova in carcere in stato di custodia cautelare o in stato di esecuzione penale, mentre per "internato" s’intende colui o colei che è sottoposto all’esecuzione delle misure di sicurezza detentive come la colonia agricola, casa di lavoro e la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems). Cosa accade per gli internati in "Casa lavoro"? Prendiamo, appunto, come esempio il carcere di L’Aquila. In questa struttura vengono "parcheggiati" ex-detenuti che hanno già scontato una pena, ma ai quali il magistrato ha applicato un’ulteriore misura di sicurezza perché considerati socialmente pericolosi. Tali misure di sicurezza hanno l’obbligo del lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento sociale, ma, nella realtà, lavoro non ce n’è. Così i periodi di internamento post carcere diventano a tutti gli effetti misure di sicurezza senza date finali certe e il giudice di sorveglianza può prorogarli finché non ritenga cessata la pericolosità sociale. In sostanza senza lavoro non c’è reinserimento sociale e di conseguenza non c’è fine della pena. E questo riguarda 6 internati in regime di 41 bis al carcere de L’Aquila. La situazione era stata denunciata dall’esponente radicale Rita Bernardini con una lettera rivolta al capo del Dap Santi Consolo. "Visitai l’istituto la scorsa Pasqua - denunciò l’esponente del Partito Radicale - e rimasi basita. Vi trovai 5 internati letteralmente ristretti nel regime di carcere duro. Chiesi a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto rieducarsi e mi risposte che faceva lo scopino per 5 minuti al giorno; uno che faceva il "porta vitto" mi chiese "come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?". Il Dap finalmente ha accolto la denuncia. Roberto Calogero Piscitello, dirigente della direzione generale detenuti e trattamento, ha riferito a Il Dubbio che stanno predisponendo un trasferimento verso un altro istituto penitenziario che sarà attrezzato per questa funzione rieducativa. Studiare in carcere: una scelta illuminista. L’esperienza dei Poli Universitari Penitenziari di Andrea Borghini eticaeconomia.it, 17 giugno 2017 Andrea Borghini illustra l’iniziativa dei Poli Universitari Penitenziari che ha lo scopo di consentire ai carcerati con diploma di svolgere attività di studio universitario. Borghini sostiene che si tratta di una realtà in crescita ma che sono ancora molte le difficoltà, legate all’introduzione in carcere di metodologie didattiche innovative o alla scarsa e cattiva informazione sull’esperienza. Egli sottolinea anche che il progetto rispecchia una scelta illuminista, finalizzata a garantire il diritto costituzionale allo studio e a far sì che i detenuti possano, una volta scontata la pena, avere qualche chance in più di reinserimento in società. Carcere e Università possono apparire, a prima vista, mondi estremamente lontani tra loro. Il primo rappresenta, storicamente, un luogo di privazione di libertà, di violenza e di segregazione; la seconda è il luogo per eccellenza della libera ricerca e della diffusione della conoscenza. Eppure, recuperando la dimensione storico-etimologica del lemma Università - che possiamo far risalire, con qualche sforzo di memoria, al Medioevo - incontriamo la nozione di studium generale (o comune, o universale), nel senso di "luogo di studî aperto a tutti", con particolare riferimento, come suggerisce l’Enciclopedia Treccani, al pubblico che poteva frequentarlo. E, se, dall’altra parte, pensiamo all’evoluzione del carcere, che passa, attraverso una serie di riforme storiche, da istituto di mero e provvisorio contenimento a luogo dove vengono progressivamente introdotte misure di trattamento finalizzate alla risocializzazione e al reinserimento del reo, ecco che le distanze iniziano a farsi meno vistose e i nessi tra carcere e studio universitario si fanno più evidenti, in quanto le due istituzioni sono soggette agli effetti della svolta illuminista e moderna propria delle nostre società. In tale quadro storico e valoriale si iscrive l’impresa intellettuale e istituzionale rappresentata dai PUP, i Poli Universitari Penitenziari. I PUP sono sezioni a regime attenuato, sorti in molti istituti di pena italiani, dove detenuti, italiani e stranieri, in possesso del diploma di scuola superiore, possono svolgere un’attività di studio universitario, seguiti e coordinati da docenti universitari appositamente incaricati. Regolati, almeno in Italia, da alcune norme costituzionali, in particolare l’art. 34, da alcune leggi e regolamenti - la legge 26 luglio 1975, n. 354, contenente Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà - e dal D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, contenente il Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà - che ha introdotto "diverse agevolazioni per gli studi universitari, come la possibilità per gli studenti di essere assegnati a camere e reparti adeguati per potersi concentrare nello studio e/o di tenere nella propria camera libri, pubblicazioni ed altri strumenti didattici", i poli sono luoghi fisici, all’interno del carcere, attrezzati per svolgervi attività universitaria: lezioni, seminari, esami, studio in presenza di docenti e/o tutor. A disposizione di studenti e tutor vi sono di solito sale computer, sale studio e una biblioteca. A tale impresa partecipano, oltre al personale universitario e agli studenti, anche il mondo del volontariato e ovviamente il personale penitenziario, dagli educatori al personale di polizia, impegnati, come da legge, a facilitare il percorso di reinserimento del reo. Da esperienza minore nell’ambito delle molteplici attività trattamentali previste in prigione (attività lavorative, teatro, pittura ecc.), lo studio in carcere si è via via dilatato, moltiplicando il numero di sedi e divenendo oggetto di un’ampia e approfondita discussione istituzionale, attraverso l’avvio, nel 2015, degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, occasione per confrontarsi sul carcere e programmare interventi futuri. Tra i 18 tavoli tematici degli Stati Generali, che hanno affrontato una serie di questioni, dal lavoro agli spazi all’affettività, il Tavolo 9 si è misurato con il tema dell’istruzione e della formazione universitaria, evidenziando in particolare il ruolo che la cultura riveste rispetto al ‘tempo’ in carcere, per tramutarlo in strumento utile all’acquisizione di elementi positivi per la propria soggettività e per un reale percorso di reinserimento sociale. Gli Stati Generali hanno rappresentato un passaggio istituzionale fondamentale perché per la prima volta hanno assunto come centrale il ruolo della formazione universitaria e hanno riconosciuto, cercando di metterla a sistema, quella complessa e frastagliata esperienza sul campo, sorta in Italia negli ultimi anni e rappresentata dai Poli Universitari Penitenziari. Infatti, il progetto PUP costituisce un’esperienza tutta italiana, perlomeno nella sua diffusione e nelle sue caratteristiche funzionali (analoga esperienza è presente in Spagna ma è basata su di un sistema di e-learning). Il panorama dei poli è, però, estremamente eterogeneo. Ne sono censiti 19 in tutta Italia, ognuno con storie e percorsi differenti. Si va da quelli storici come Torino e Padova, a quelli regionali come il Polo della Toscana, fino a quelli di Rebibbia, Bologna e Lecce, e alle recentissime esperienze di Catanzaro e Sassari. Ogni Polo tende a sorgere in prossimità di una sede universitaria in modo che sia garantita la funzionalità pressoché quotidiana. L’eterogeneità delle esperienze riflette anche le diverse metodologie didattiche - che vanno dalle lezioni frontali all’e-learning e allo Skype controllato - e risente fortemente delle caratteristiche proprie del carcere, come luogo dove la sicurezza ha sempre la priorità. Pur non ancora in possesso di statistiche sistematiche e complete, i dati presenti sul sito del Ministero della Giustizia segnalano al 31.12.2016 un numero di iscritti e laureati pari rispettivamente a 200 e 46, in sensibile aumento rispetto al 2015 (rispettivamente 178 e 17), nella quasi totalità di sesso maschile, dato che la popolazione detenuta femminile è in generale molto bassa (attorno al 4%). Il quadro che emerge dalle esperienze dei Poli italiani si presenta disomogeneo e ambivalente: se molti sono i Poli, essi incontrano altrettante difficoltà riguardanti l’introduzione degli strumenti didattici più innovativi, l’inadeguatezza degli spazi destinati alle attività istruttivo/formative, la difficoltà a conciliare i tempi della formazione con quelli della vita interna dell’istituto di pena (sovrapposizione scuola-lavoro); e, ancora, l’elevato turnover dei detenuti (soprattutto nelle Case Circondariali) che rende impossibile sia il completamento di cicli scolastici strutturati in modo tradizionale, sia la sistematizzazione e validazione dei percorsi già realizzati. È qui, dunque, che l’Illuminismo del progetto che richiamavamo precedentemente deve fare i conti con la ‘spietatezzà del carcere e con la ragion di Stato che lo guida. Nonostante la buona volontà del personale penitenziario, ed in particolare degli educatori, le difficoltà nell’ottenere i permessi per la partecipazione dei docenti, le difficoltà nel reperire i testi e farli arrivare ai detenuti, l’impossibilità nell’individuare delle best practices omogenee sul territorio, i limiti nella governance del processo che mette insieme attori con un diverso background, ciascuno geloso delle proprie competenze e della propria storia, costituiscono una serie di criticità nella vita quotidiana dei Poli. Va anche sottolineato il ruolo negativo che può giocare il clima sociale: il carcere è tema poco spendibile sul piano elettorale a meno che non si scelga un approccio giustizialista e populista; e la diffusione, negli ultimi anni, all’interno dell’opinione pubblica, di forme di populismo penale e di panico morale non aiuta di certo il progetto. Il carcere è sempre più percepito come pattumiera sociale e non come un luogo di risocializzazione. Aggiungeremmo, in ultimo, la scarsa conoscenza del fenomeno coniugata ad un certo sensazionalismo mediatico. Nel senso che, da un lato, vi è scarsa informazione - e questo si deve probabilmente alla delicatezza del tema e alle strumentalizzazioni politiche evidenti, spesso ricorre la frase: "gli consentono anche di studiare e magari laurearsi!" - dall’altro, a nostro parere, i casi mediatici, legati a nomi celebri, pensiamo a Carmelo Musumeci o Rudy Guede, attirano l’attenzione dei media solo in modo superficiale e momentaneo, salvo spegnersi di fronte ad un’indagine più approfondita che metta in luce l’importanza del progetto. Perché ciò che interessa, e probabilmente vende, è la coniugazione tra criminale famoso e laurea, a scapito delle centinaia di detenuti, con reati meno gravi, che studiano e provano a impiegare diversamente il tempo infinito e privo di senso della detenzione. Nonostante le tante difficoltà, vale la pena andare avanti. La sfida che i poli si trovano ad affrontare è duplice: da un lato avvicinare il mondo universitario a quello degli esclusi, dall’altro aprire il carcere al mondo esterno, consentendo ad alcune persone di riprendere gli studi interrotti o di iniziarli ex novo, per prepararsi al rientro in società, oppure semplicemente per consentire loro di trascorrere in modo diverso il tempo in carcere. Vi è però un pericolo su tutti che, a nostro parere, al di là delle criticità menzionate, dovrebbe incoraggiarci ad andare avanti sulla strada del progetto e a non cedere alla tentazione di chiudere la cella e gettare via la chiave. Per illustrarlo, facciamo riferimento al volume di un celebre criminologo americano, J. Simon, Il Governo della paura, tradotto in Italia nel 2008. Nel descrivere le profonde trasformazioni che da qualche anno investono la politica americana, sempre più orientata a sfruttare, in primis costruendola, la paura del crimine, per governare la società, Simon individua, riferendosi a momenti storici diversi, due tipologie di detenuti e le mette a confronto, offrendo un’utile prospettiva per individuare gli aspetti salienti dell’involuzione del sistema penitenziario negli Stati Uniti. Da un lato, abbiamo i prigionieri politici George Jackson e Malcom X, figli di un’America che nutriva ancora residue speranze nelle politiche del New Deal e pronta a infiammarsi per la guerra in Vietnam o contro la discriminazione dei neri. I due attivisti maturarono i loro ideali rivoluzionari durante la prigionia, esposti come erano alle contraddizioni di una penalità riformista e modernista, che li spinse a intravedere un destino rivoluzionario per la società americana, all’altezza di quegli ideali di libertà e democrazia sbandierati dalla Costituzione. Una volta tornati in libertà, lottarono per rendere la società americana meno discriminante e migliorare lo stato degli istituti di pena e la condizione dei neri. Dall’altro lato, trent’anni dopo, abbiamo José Padilla, che da oscuro detenuto, prodotto della guerra alla criminalità nell’America degli anni 90, si è progressivamente trasformato, durante la sua lunga prigionia, in un nemico interno degli Usa, convertendosi all’Islam. La ragione del mutato atteggiamento di Padilla sta nel cambiamento di condizioni degli istituti di pena americani, esito a sua volta del mutamento in atto in quella società: sostiene Simon che a pene molto più lunghe, trascorse in istituti dove le attività di risocializzazione sono ridotte al minimo e ad una impossibilità di immaginare una società esterna diversa da quella che si vive nelle carceri, corrisponderà sempre più una tipologia di detenuto molto simile a quella di un José Padilla qualsiasi, il cui unico scopo, a fine pena, non sarà di tornare ad una vita normale o men che mai di lottare, da uomo libero, per migliorare il sistema della giustizia penale americana, ma solo e unicamente di annientare il Grande Satana. Ne traiamo l’ammonimento che la scelta dello studio in carcere è una scelta illuminista, una scelta di campo e di civiltà, soprattutto di fronte ai rischi di radicalizzazione a cui assistiamo oggi. Per tutte queste ragioni, i PUP sono un’esperienza preziosa e da difendere. Le prossime tappe, che prevedono, tra l’altro, un convegno nazionale a Firenze, molto ci diranno sul loro destino. Opg. L’On. Patriarca (Pd): "le nuove norme non ostacolino il percorso di superamento" pdmodena.it, 17 giugno 2017 Il deputato modenese del Pd Edoardo Patriarca, componente della Commissione Affari sociali, è uno dei firmatari dell’ordine del giorno approvato nel corso del dibattito sul disegno di legge di modifica del codice penale e di quello di procedura penale. Una norma della riforma rischiava, infatti, di rimettere in discussione il percorso di superamento dei vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari, a lungo seguito dal deputato modenese. Con l’odg approvato si impegna il Governo a ricorrere alle Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza per i detenuti (con sopraggiunta malattia mentale o in osservazione) e per le persone con misure di sicurezza provvisoria solo come estrema ratio. Ecco la sua dichiarazione: "Ieri alla Camera è stata approvato il disegno di Legge recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", provvedimento che contiene un comma che rischiava di riportare in vigore le norme sui vecchi Ospedali psichiatrici giudiziari. Considerato che la questione di fiducia posta dal Governo ha impedito di presentare emendamenti, sono stati approvati alcuni Ordini del Giorno, tra cui uno a mia firma, per condizionare l’attuazione della norma. Trattandosi di una legge delega, infatti, per la sua attuazione sono previsti specifici decreti legislativi del Governo. L’Ordine del Giorno che ho presentato insieme a un gruppo di colleghi restringe di molto la possibilità di ricovero nelle Rems, Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza, per i detenuti (con sopraggiunta malattia mentale o in osservazione) e per le persone con misure di sicurezza provvisoria. Dopo la riforma del 2014 che ha stabilito il superamento degli Opg, l’internamento nelle Rems riveste carattere di eccezionalità e transitorietà. Infatti ogni Dipartimento di Salute mentale deve predisporre per ogni internato un progetto terapeutico riabilitativo individualizzato, in modo da rendere residuale e transitorio il ricovero in queste strutture. Quindi si impegna il Governo, in sede di attuazione della delega, a valutare attentamente l’ipotesi del ricovero nelle Rems di tali soggetti solo come extrema ratio. Inoltre, ci impegneremo in Commissione Affari sociali, assieme alla rete StopOpg, affinché venga assunta, anche in sede parlamentare, un’iniziativa per la riattivazione dell’Organismo nazionale di monitoraggio del superamento degli Opg (composto da rappresentanti dei Ministeri della Salute e della Giustizia, delle Regioni, della Magistratura e che va aperto alla partecipazione delle associazioni impegnate sul tema). Ci impegneremo, inoltre, affinché il Governo mantenga l’impegno a presentare la Relazione periodica al Parlamento sul superamento degli Opg e affinché sia organizzato a settembre, a cura della Commissione Affari Sociali, un seminario di approfondimento sul processo di superamento degli Opg". Processo penale, tutti i pro e i contro della riforma di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 giugno 2017 Convegno al Cnf sul processo accusatorio. Il processo accusatorio è un sistema in crisi? La provocazione, lanciata a pochi giorni dal l’approvazione del ddl penale, è stata al centro del convegno organizzato dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura del Consiglio Nazionale Forense. A dibattere sul tema - introdotto dalle relazioni dei professori di penale e procedura penale Ennio Amodio, Filippo Raffaele Dinacci, Alessandro Diddi e Gorgio Spangher - tre avvocati e parlamentari di schieramenti avversari: Anna Rossomando, del Partito democratico, Francesco Paolo Sisto di Forza Italia e Alfonso Bonafede del Movimento 5 stelle. Al centro, forte, il riferimento al ddl penale, da poco approvato in Parlamento e che ha suscitato forti rimostranze da parte della minoranza. "Noi chiediamo un messaggio da parte della politica, perché operi delle scelte in materia di politica giudiziaria: decida se tornare a una concezione autoritaria del paese oppure se sposare l’idea liberale", è stata la domanda di Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione Camere Penali italiane, che ha ribadito la necessità di intervenire soprattutto sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, "perché il vincolo di colleganza così stretto porta a snaturare il processo, facendo prevalere lo spirito di lotta contro questo o quel fenomeno criminale e perdendo la bussola del principio di legalità". A difesa del ddl è intervenuta Anna Rossomanno, che ha premesso: "Il testo tocca punti che sono il presupposto per rinvigorire il processo accusatorio e le garanzie del cittadino". Nessuna difesa d’ufficio di un testo che è il frutto di un lavoro iniziato nel 2014 e terminato attraverso un iter complesso, ma che "punta a razionalizzare gli snodi del processo, affronta il tema dell’alleggerimento della giurisdizione penale e offre nuove garanzie in tema di segretezza nella fase delle indagini". In sintesi, il testo "non insegue il populismo giudiziario ma rimane in equilibrio tra le varie esigenze, mettendo al centro i principi del processo accusatorio: dibattimento, contraddittorio, oralità e giudice terzo e imparizale". Uno spunto subito accolto dal grillino Alfonso Bonafede: "Il sistema penale accusatorio è il migliore e quello più idoneo a garantire i diritti fondamentali della persona". Il problema, invece, è il legislatore: "rispetto a questo impianto, si sono susseguiti interventi del legislatore completamente sbagliati", ha detto riferendosi al ddl penale. "In uno stato di diritto, l’intervento sul processo penale va fatto con un confronto con gli addetti ai lavori e soprattutto in Parlamento, perché la democrazia non è un optional". Il riferimento, nemmeno troppo velato, è alla formula della fiducia negli ultimi due passaggi parlamentari, in cui sono state approvate delle deleghe al governo: "sostanzialmente il governo si auto-delega a scrivere norme fondamentali del processo, senza interlocuzione con gli eletti". Il problema di fondo del ddl penale, dunque, è la farraginosità del testo approvato: "Il giudice deve applicare legge, non riscriverla perché legislatore non ha saputo scriverne una buona". "Tutto quello che è tecnico è rimasto fuori da questo testo approvato, che vira pericolosamente verso il diritto penale sociale, di piazza" è il duro giudizio di Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia e avvocato, che ha espresso tutta la sua contrarietà sia sui metodi di approvazione che sui contenuti del ddl: "Prima le norme si scrivevano perché la dottrina dava un input e si formavano su un consenso fondato sul diritto vivente. Oggi é il contrario: è la giurisprudenza insegue". Per Sisto, "il ddl penale è implosione endo-codicistica", operata da un maggioranza che ha legittimato il governo "a scrivere ciò che vuole viste le deleghe sostanzialmente in banco, il cui unico argine è il parere solo facoltativo delle commissioni". Su che cosa riservi il futuro di una legislatura ormai al termine in tema di politica giudiziaria, nessuno si esprime, però. "Non c’è spazio per nuovi interventi, anzi spero che non ci sia se mai saranno come il ddl approvato", ha polemizzato Bonafede. "In questa legislatura violato il principio di ragionevolezza", ha chiosato Sisto, che però ha sottolineato come anche i 5 Stelle siano stati incoerenti rispetto ai principi costituzionale nel chiedere "prescrizione senza sconti e cacciata di chi è stato condannato in primo grado". Eppure, "noi ci siamo trovati a intervenire in un sistema intoccato da vent’anni", si è difesa Rossomanno, che in tema di intercettazioni ha rigettato al mittente le critiche: "Noi nella scorsa legislatura abbiamo bloccato una proposta che impediva di sapere tutto, adesso stiamo lavorando per trovare un equilibrio non facilmente individuabile tra diritto e informazione". Le critiche ingenerose alla riforma del processo di Donatella Ferranti* Corriere della Sera, 17 giugno 2017 I lavori delle Commissioni (come Giostra sul carcere) davvero recepiti, e infatti ottimi, non vanno confusi con quelli invece stravolti dai compromessi politici. Mi rendo conto che una riforma della giustizia e del processo penale così ampia come quella approvata in via definitiva dalla Camera richiede del tempo per un giudizio ponderato e sereno. Basta scorrere i singoli capi per cogliere la portata e la complessità di un provvedimento che ha davvero natura e ambizione di riforma strutturale. Ed è per questo che mi sento di respingere come ingenerose, parziali e riduttive le critiche mosse (da ultimo quelle di Luigi Ferrarella) ad alcuni specifici aspetti della riforma. Una riforma, è bene ricordarlo, che nasce dal lavoro di ben quattro commissioni ministeriali: le commissioni Riccio, Fiorella, Canzio e Giostra. Commissioni a cui hanno partecipato docenti, magistrati e avvocati e il cui lavoro - forse per la prima volta - invece di finire in qualche armadio del ministero della Giustizia, ha trovato sbocco e felice esito nelle aule parlamentari. Parlare quindi di "compromesso al ribasso" mi pare ingiusto, perché si è trattato in realtà di ponderare ed equilibrare tutti gli interessi in gioco. Ferrarella scrive, ad esempio, che meglio sarebbe stata "una prescrizione del reato non troppo lunga, ma combinata dopo la sentenza di primo grado a uno stop definitivo della clessidra, temperato poi da rimedi compensativi". Era precisamente il contenuto di una mia proposta di legge, discussa e poi abbandonata a favore della soluzione formulata dalla commissione Fiorella. Si è infatti valutato che un sistema basato su un "fermo lancette" secco con la necessità di termini inderogabili di fase avrebbe potuto rivelarsi scelta non sempre appagante, proprio nell’interesse dell’imputato e delle vittime. Si è alla fine optato per una soluzione che, sospendendo la prescrizione per un massimo di 18 mesi dopo la condanna in primo grado e per altri 18 mesi dopo quella in appello, evita l’eterna giudicabilità concedendo però un congruo termine per celebrare in tempi ragionevoli tutti i gradi del giudizio. Ritengo incontestabile l’incompatibilità logica tra oblio (che giustifica la prescrizione) e sentenza di condanna (pur non definitiva). Una soluzione - ecco il richiamo a una lettura complessiva della riforma - che va raccordata con altre due norme: la prima, in attuazione della Convenzione di Istanbul, posticipa al compimento della maggiore età il decorso della prescrizione per reati sessuali di cui sono vittime i minorenni. La seconda, riconoscendo la specificità dei reati corruttivi quali reati di difficile emersione, prevede che il tempo limite di prescrizione non possa superare la pena edittale massima aumentata delle metà (non di un quarto come per i reati comuni). Le nuove regole sulla prescrizione vanno poi in parallelo con la previsione di un tempo certo per l’esercizio dell’azione penale - 3 mesi (prorogabili di altri 3) nella generalità dei casi e 15 mesi nei casi di mafia o terrorismo - dopo il decorso dei termini massimi per le indagini preliminari. Proprio per evitare stasi arbitrarie è stata espressamente prevista l’avocazione da parte del Procuratore generale presso la Corte d’appello. È chiaro che l’avocazione dovrà essere utilizzata con misura e cautela, essendo suo presupposto operativo non tanto il mero decorso del termine ma la vera e propria omissione decisoria del pubblico ministero. Ed è altrettanto chiaro che tali disposizioni devono necessariamente essere lette assieme ai recenti provvedimenti governativi che hanno disposto l’assunzione entro l’anno di altri duemila amministrativi negli uffici giudiziari e l’ingresso di nuovi magistrati con concorsi banditi ormai annualmente. *Presidente Commissione Giustizia della Camera Verini (Pd): "Ddl penale, tanti punti a favore di difesa e garanzie" di Errico Novi Il Dubbio, 17 giugno 2017 Il capogruppo Pd in Commissione Giustizia alla Camera: avvocati intercettati, richiamo Mascherin sarà raccolto. In tempi in cui tutto è giustizia - la politica come la cronaca - dalla giustizia intesa come riforma ci aspetta di tutto. E nel caso del ddl penale appena approvato la delusione è forse eccessiva quanto le aspettative. Al punto da disconoscere diversi meriti del provvedimento, che il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Walter Verini ha difeso con una certa grinta nella dichiarazione finale alla Camera. "Si tratta di un intervento organico dopo anni di misure parziali, o magari concepite contro o a favore di qualcuno", dice. Organico lo è senza dubbio nel senso dell’ampiezza della materia interessata, e alla fine tante novità rilevanti svaniscono nel trambusto delle contestazioni. "Ci sono norme che vanno nel senso delle maggiori garanzie e contemporaneamente favoriscono la deflazione della domanda: la possibilità di estinguere il reato con condotte riparatorie va senz’altro in questa direzione. Si è parlato poco dell’estensione ai reati patrimoniali minori della procedibilità a querela. Sul punto è attivata una delega, e in questo caso l’attenzione ai cittadini è intesa come tutela della persona offesa, che a 6 mesi dalla querela, senza pregiudicare il segreto, potrà esercitare il diritto a conoscere dal pm lo stato del procedimento. Si avrà più tempo per opporsi alle richieste dell’archiviazione". E nel senso di tutelare l’indagato e i suoi diritti di difesa, secondo il capogruppo dem in commissione, muove anche "la norma sull’avocazione obbligatoria, contestata dall’Anm: vuol dire dare tempi certi alle indagini, il timer dei 3 mesi inizia a decorrere una volta inoltrate tutte le notifiche di chiusa inchiesta. Viene mitigato il rischio che l’indagato si trovi per anni ad essere schiacciato dall’incertezza sull’esito di un procedimento penale". Condizione che spesso è utilissima alla pubblica accusa per trovarsi in un oggettivo vantaggio rispetto alla difesa, "tanto che", osserva Verini, "da qui ad accettare un patteggiamento pur di uscirne fuori, il passo è breve". Le difficoltà dovute al limitatezza degli organici "saranno contemperate dagli sforzi messi in atto sia per l’assunzione di amministrativi che per i concorsi in magistratura". Ci sono giudizi sulla qualità della riforma che potranno essere dati "solo alla luce dei decreti attuativi". È il caso delle intercettazioni, "e qui coinvolgeremo tutti gli operatori del diritto e lo stesso mondo dell’informazione. Tre mesi di tempo per precisare una delega comunque dettagliata, in cui non sarà neppure scalfita, anzi sarà potenziata la forza dello strumento investigativo, ma che trova un equilibrio tra due principi costituzionalmente garantiti, diritto alla privacy e libertà di informazione. Era un obiettivo cerchiato di rosso nel programma del Pd del 2008, il primo della nostra storia". Tra i criteri indicati dalla delega c’è il "particolare riguardo" alle conversazioni tra avvocato e assistito. "Il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha denunciato la gravità di simili episodi, riscontrata purtroppo anche di recente: ha molti buoni motivi per chiedere attenzione e, visto che la delega è stringente sulla vigilanza del pm rispetto alla non trascrivibilità delle conversazione lesive dei diritti di estranei all’indagine, le conversazioni tra difensore e assistito rientreranno chiaramente in quelle di cui va assicurata la segretezza e quindi scongiurata la pubblicazione" Separazione delle carriere in magistratura, questione irrisolta di Massimo Krogh La Repubblica, 17 giugno 2017 La riforma della giustizia, quanto al processo penale, arriva dopo gli oltre cento "aggiustamenti" già fatti sul rito accusatorio introdotto nel 1988. Dopo ogni aggiustamento il processo ha funzionato peggio, al punto di rendere il nostro un Paese senza giustizia. Non è superflua un’analisi che denunci la preoccupante inconsapevolezza sul problema, un problema che purtroppo non si risolve con le riforme, richiedendo una crescita culturale. Sicché vi è poco da sperare che la riforma intervenuta modifichi la situazione. Le indagini di Mani Pulite, 1992, seppure non politiche in senso stretto, lo furono senz’altro in senso lato per i rilevantissimi effetti politici che ebbero, tanto rilevanti da modificare l’intero scenario dei partiti. Risultò chiaro che la magistratura poteva estendere il proprio ruolo fino ad incidere risolutivamente nella vita politica del paese. Questo avrebbe dovuto far riflettere, perché in una democrazia ordinata i poteri devono essere reciprocamente immuni da possibili interferenze. Invece, si è andato sempre più avanti. Il controllo di legalità da parte della magistratura è insostituibile, ma non è condivisibile un potere giudiziario che possa svuotare a colpi di mandati gli altri poteri dello Stato. Cosa da noi resa possibile dalla sinergia che scaturisce dalla compatta omogeneità fra la magistratura inquirente e la magistratura giudicante. Proprio in questa unità di carriera pm/giudici, che in qualche modo comprime il contraddittorio, molti vedono un successo nella lotta alla criminalità, specie dei colletti bianchi; ma bisognerebbe avvertire l’allarme dello squilibrio fra i poteri statuali che ne deriva. Indubbiamente va salvaguardata l’indipendenza del pubblico ministero quale titolare dell’azione penale. Peraltro, non sembra coerente con il principio della terzietà del giudice (articolo 111 Cost.) un pubblico ministero integrato nell’esecutivo; d’altra parte, non è congeniale al processo di modello accusatorio un pm che per carriera sia anche giudice. Ma da noi le cose stanno così, nonostante la riforma. Per dare alla funzione giudiziaria la dimensione che le spetta in una democrazia avanzata, vale a dire parità delle parti nel processo ed equilibrio con gli altri poteri statuali, sarebbe assolutamente necessaria la separazione delle carriere di pubblico ministero e di giudice, realizzata in modo tale da garantire al pm l’indipendenza dall’esecutivo. Questo problema implica delicate questioni di natura transitoria e costituzionale di difficoltosa soluzione, sicché sembra che si tema di affrontarlo; ed invece andrebbe affrontato, come andrebbe affrontato il problema dell’obbligatorietà dell’azione penale, notoriamente incompatibile con il processo di rito accusatorio. In Italia, è tale l’intasamento dei processi, che le sentenze arrivano dopo anni, quando per lo più, di condanna o di proscioglimento, a nessuno più interessano. E si allunga il termine di prescrizione del reato, dimenticando che ogni allungamento della prescrizione ha allungato la durata del processo. L’esperienza dovrebbe servire a qualcosa! Per tornare all’obbligatorietà dell’azione penale, si tratta di un antiquato "unicum" del nostro Paese, che sembra disinteressarsi dell’intasamento processuale. Nei paesi del mondo avanzato, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, l’esercizio dell’azione penale è discrezionale, con qualche limite in Germania per reati particolarmente gravi. Non può tacersi, d’altra parte, che da noi non mancano casi di uso strumentale della obbligatorietà, passandosi per "atti dovuti" vere e proprie interferenze fra i poteri dello Stato. Sulle intercettazioni, è superfluo ricordare l’invasività di questo strumento investigativo, divenuto da noi prevalentemente ma anche pericolosamente sperimentato, con gli effetti distorti che possono derivarne. Casi recenti, come del passato, ammoniscono in proposito; eppure credo che superiamo in volume gli Stati Uniti! Senza un freno nell’applicazione, diventa aria fritta discorrere della diffusione. In definitiva, non può sfuggire l’assoluta e purtroppo persistente inconsapevolezza italiana sul tema della giustizia, per non parlare di quella civile. In tema di giustizia, nella classifica mondiale l’isola di Cipro ci salva dall’ultimo posto. Infatti siamo i penultimi! Cosa si spera da questa riforma che trascura i punti centrali? Toscana: tutela della salute in carcere, gli obiettivi per i prossimi tre anni gonews.it, 17 giugno 2017 Intensificazione dell’assistenza psicologica, azioni per la prevenzione del suicidio in carcere, rispetto dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza) e tutte le attività sanitarie per garantire alla popolazione carceraria la stessa assistenza sanitaria che viene data ai cittadini liberi. Sono questi i principali obiettivi per la tutela della salute in carcere per il triennio 2017-2019, individuati dalla delibera approvata dalla regione Toscana nel corso della sua ultima seduta. Una delibera nella quale vengono aggiornate le attività rivolte sia agli adulti presenti nei 16 istituti penitenziari della Toscana che ai minori accolti nei due istituti per minori (Pontremoli e Firenze) e nel centro di prima accoglienza di Firenze. "La salute è un diritto di tutti, indistintamente - dice l’assessore al diritto alla salute Stefania Saccardi - Tutti, che siano liberi cittadini o detenuti, sono uguali davanti alla malattie e hanno diritto ad avere le stesse opportunità e prestazioni sanitarie. Come Regione Toscana ci preoccupiamo di garantire a tutti i cittadini in carcere la stessa assistenza sanitaria che diamo ai cittadini liberi. E con questa delibera abbiamo individuato obiettivi precisi per il prossimo triennio". Questi gli obiettivi principali individuati dalla delibera: Organizzazione dei servizi per adulti: vengono individuate le figure di riferimento di livello aziendale, la classificazione dei presidi sanitari penitenziari e la dotazione di posti letto in ospedale dedicata alla popolazione detenuta; sono definite le attività sanitarie dei presidi sanitari penitenziari perché alla popolazione detenuta sia garantita la stessa assistenza sanitaria che viene assicurata alla popolazione libera. In particolare, il rispetto dei Livelli essenziali di assistenza, la medicina di base, la tutela della salute mentale, la cura e riabilitazione per i detenuti alcol e tossicodipendenti, gli screening oncologici, la tutela della salute delle donne e dei bambini eventualmente presenti; - I servizi minorili: negli Istituti per minori viene garantita la presa in carico sanitaria, attraverso un’équipe di base (medico, infermiere, psicologo), che viene integrata su segnalazione del medico di presidio in caso di bisogno; - La prevenzione del rischio di suicidio in carcere, sia per gli adulti che per i minori: le linee di indirizzo sono state definite nel 2011 da un gruppo di esperti e vengono costantemente aggiornate; - L’implementazione dell’assistenza psicologica in tutti gli istituti del territorio toscano. - La formazione professionale: le Aziende sanitarie potranno organizzare eventi formativi, anche in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria. Gli obiettivi prioritari sono individuati per il triennio 2017-2019. Per il 2017, la cifra destinata alla realizzazione di questi obiettivi è di 208.000 euro, mentre per gli anni successivi l’identificazione del fabbisogno sarà definita entro il 31 dicembre di quest’anno. Il Laboratorio MeS (Management & Sanità) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa valuterà le performance delle Aziende sanitarie anche sulla tutela della salute in carcere, mentre all’Agenzia Regionale di Sanità sono affidate le indagini epidemiologiche sullo stato di salute della popolazione detenuta. Il monitoraggio di tutte le attività è affidato all’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, costituito nel 2008, del quale fanno parte Regione, Aziende sanitarie, Agenzia Regionale di Sanità, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Bolzano: "i detenuti si cuciono la bocca". Il Consigliere Dello Sbarba: "subito il Garante" di Luigi Ruggera Corriere Alto Adige, 17 giugno 2017 "Un carcere sovraffollato, che ospita 108 detenuti, quasi tutti stranieri, contro una capienza definita tollerabile di 105. Una struttura fuori norma, che vive di provvisorietà in attesa del nuovo carcere. Intanto passano gli anni e sia i detenuti che il personale vivono una situazione indecente". Questa la fotografia scattata dal senatore Francesco Palermo, dal consigliere regionale dei verdi Riccardo Dello Sbarba e dall’avvocato trentino Fabio Valcanover, radicale, al carcere di via Dante a Bolzano. "La situazione è inadeguata rispetto alle norme minime di civiltà - ha detto Dello Sbarba - e, come ci ha riferito la direttrice, ci sono ormai casi estremi di autolesionismo: ci sono detenuti che, per cercare di parlare con il giudice di sorveglianza o per avere una visita medica, si cuciono la bocca e le palpebre per protesta". L’avvocato Valcanover, commentando l’alta percentuale di tossicodipendenti detenuti, ha criticato le "leggi proibizioniste" sugli stupefacenti. La visita, organizzata per valutare le condizioni di detenuti e personale di polizia penitenziaria, segue altre iniziative, mirate all’istituzione di un "garante per le carceri" per la provincia di Bolzano, e all’istituzione di un autonomo provveditorato per le carceri di Bolzano e Trento. Queste due richieste sono state avanzate con delle mozioni presentate dai verdi nei consigli provinciale e regionale (in quest’ultimo caso la richiesta è sostenuta anche dal Pd trentino e dal Patt). "Mancano i fondi per la manutenzione ed il personale è sotto organico - ha spiegato Dello Sbarba al termine della visita in carcere - tanto che negli spazi comuni della struttura si è deciso di installare un impianto di videosorveglianza in modo da ridurre il numero di agenti, che dovrebbero essere 81 in totale, mentre invece sono 67. Gli impiegati civili (educatori, ragionieri, contabili ed altro) dovrebbero essere 25 e sono 10". Al riguardo il senatore Palermo rivela che la Provincia ha già dato la disponibilità a concedere un finanziamento per coprire la pianta organica del personale civile, ma bisogna ancora realizzare la norma di attuazione per questa delega. L’altro ieri, intanto, il Senato ha approvato la cosiddetta "manovrina", che contiene anche lo sblocco del finanziamento da 25 milioni di euro per l’avvio del cantiere (i lavori sono già stati appaltati alla società Condotte) nella zona Agruzzo a Bolzano sud. "Questo per quanto riguarda il finanziamento statale, ed anche quello provinciale da 100 milioni sarebbe pronto. Resta però da definire formalmente - spiega Dello Sbarba - il valore della struttura di via Dante, che passerà alla Provincia e che sarebbe stata stimata circa 14 milioni di euro". Cuneo: cosa funziona e cosa ancora non va nel carcere di Saluzzo cuneocronaca.it, 17 giugno 2017 Nella mattinata di ieri i consiglieri regionali Marco Grimaldi (SEL-SI, nella foto) e Paolo Allemano (Pd), con l’esponente dei Radicali Italiani Igor Boni si sono recati in visita alla Casa di reclusione di Saluzzo (Cuneo). La struttura ospita 357 detenuti in due circuiti: uno di media e uno di alta sicurezza. Nel primo circuito ci sono cinque sezioni con una capienza di 50 posti letto l’una, ma con effettivi 246 posti letto (poiché una sezione è un po’ ridotta per poter ospitare un detenuto disabile). Il circuito di alta sicurezza è diviso in un vecchio padiglione con due sezioni della capienza complessiva di 100 posti letto e in un padiglione nuovo composto da quattro sezioni con capienza di 196 posti letto. Tuttavia qui sono aperte solo due delle quattro sezioni per carenza di personale, quindi rimarrebbero 96 posti liberi. Nel carcere sono attivi un biennio di scuola superiore uguale per tutti e un diploma quinquennale di liceo artistico con indirizzo design, nonché tre percorsi di formazione professionale destinati sia ai detenuti di media sicurezza, sia, di recente, a quelli di alta sicurezza. Vi sono un corso di cucina e panificazione, uno di falegnameria e uno di giardinaggio. Il prossimo anno verrà avviato un corso di informatica per i detenuti di alta sicurezza. Esiste poi un laboratorio teatrale attivo da 17 anni destinato a entrambi i gruppi di detenuti, in totale sono circa 40 coloro che vi partecipano. Nella Casa sono presenti solo quattro educatori anziché gli otto previsti, che aumenterebbero con l’apertura della parte nuova. Si riscontrano poi carenze sostanziali di impiegati amministrativi e agenti di polizia penitenziaria. Il direttore Leggieri ha spiegato che vi sono telecamere nel vecchio padiglione e, nel nuovo, anche l’automazione nell’apertura dei varchi, benché non nelle chiusura. Tuttavia la tecnologia non consente di fare a meno del personale, soprattutto nell’intenzione espressa di applicare il più possibile una gestione dinamica e una politica di apertura delle sezioni e delle celle anche per gli ergastolani. Meno della metà dei detenuti fa uso di psicofarmaci, sebbene siano in aumento detenuti con problemi psichici o psichiatrici e si riscontri una forte sacca di disagio fra i condannati a pene brevi, in gran parte stranieri. Nella struttura, oltre a un medico e agli infermieri, è presente un odontoiatra. Tuttavia vi è l’impossibilità per gli indigenti di accedere a protesi e impiantistica, non coperte dal servizio sanitario. I colloqui con le famiglie si svolgono ogni giorno, ma i collegamenti di mezzi pubblici con la struttura sono scarsi e frammentati, il che è causa di molte difficoltà soprattutto per le famiglie dei detenuti meno abbienti o che arrivano da lontano: si pensi che chi atterra a Caselle è costretto a quattro passaggi. Inoltre servirebbero dei fondi per climatizzare gli ambienti. "La carenza di organico risulta ancor più problematica per detenuti in regimi di alta sicurezza, sottoposti a limiti e restrizioni e tuttavia in diritto di accedere a percorsi riabilitativi e spazi di autonomia" - dichiara il capogruppo di Sel Grimaldi. "Facciamo appello alle aziende del territorio e alle fondazioni per sostenere i progetti di inserimento lavorativo, che il carcere ha già pronti e tuttavia restano inattuati" - aggiunge il consigliere Pd Allemano. "Inoltre" - conclude Boni dei Radicali - "facciamo appello alle istituzioni competenti affinché provvedano a migliorare il servizio di trasporto pubblico, la cui inadeguatezza è davvero inaccettabile. In alternativa, esistono già esperienze di noleggio auto con conducente che potrebbero essere attivate con gli Enti attraverso convenzioni, permettendo così alle famiglie di raggiungere la struttura". Campobasso: area verde rinnovata in carcere per colloqui fra detenuti e famiglie primonumero.it, 17 giugno 2017 Una nuova area verde destinata ai colloqui tra le persone detenute in carcere e le loro famiglie è stata inaugurata ieri sera a Campobasso. Si tratta di uno spazio migliorato e più accogliente allestito per allontanare in particolare dai bambini, figli di detenuti, la percezione negativa dello stato del proprio genitore. Questo angolo di umanità valorizzata è stato curato dagli studenti dell’Istituto professionale per l’agricoltura "Pilla" di Campobasso grazie all’alternanza scuola-lavoro, questa volta all’interno di un progetto nato alla fine del 2015 e finanziato dalla Regione Molise, assieme a un intervento analogo attivato a Larino, per la promozione della genitorialità in carcere. "Percorsi, quelli di Campobasso e Larino, di assoluta importanza, ai quali abbiamo partecipato da subito con convinzione. E sempre con molta convinzione, come Regione, portiamo avanti nuove iniziative concrete in stretta sinergia con le Direzioni delle carceri molisane, illuminate e attente a dare alla reclusione il suo significato principale, la rieducazione tesa al reinserimento sociale - afferma il presidente Paolo di Laura Frattura -. L’ultima comprende la previsione di una riserva all’interno degli avvisi per i tirocini per l’inclusione lavorativa, di recente finanziati con il Fondo Fse 2014-2020, destinata alle persone recluse a Campobasso, Isernia e Larino e affidate alla custodia dell’Ufficio dell’esecuzione penale esterna. La collaborazione tra istituzioni è fondamentale per sostenere il recupero di chi ha sbagliato, come lo è il coinvolgimento delle scuole: un plauso speciale va all’Istituto "Pilla" di Campobasso e alla sensibilità del dirigente e degli insegnanti capaci di avvicinare in maniera costruttiva i loro studenti a realtà complesse e anche difficili. I ragazzi dell’Agrario hanno dato al nostro progetto il tocco finale della bellezza. E i sorrisi raccolti ieri sera per l’inaugurazione del nuovo spazio verde riempiono ancora adesso di senso e valore tutto l’impegno messo in campo". Matera: presentato il progetto "Dalla pena alla consapevolezza, la rinascita" sassilive.it, 17 giugno 2017 L’Aipg - Associazione Italiana Psicologi Giuridici - Basilicata ha presentato in mattinata nel corso di una conferenza stampa presso il complesso Le Monacelle il progetto "Dalla Pena alla Consapevolezza, la Rinascita" per i detenuti del carcere di Matera. Si tratta di un progetto sperimentale pilota per la Regione Basilicata condotto dall’Associazione Aipg Basilicata (Associazione Italiana Psicologi Giuridici) e rivolto ai detenuti condannati per reati di violenza, ristretti presso la Casa Circondariale di Matera. All’incontro con i giornalisti hanno partecipato il Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria, Carmelo Cantone, il direttore della Casa Circondariale di Matera, Michele Ferrandina, il responsabile dell’Area pedagogica, Walter Gentile, lo staff di progetto diretto da Assunta Basentini, responsabile scientifica nonché presidente dell’Aipg di Basilicata. Il progetto ha l’obiettivo di favorire il recupero di persone accusate o condannate per reati commessi con atti di violenza o persecuzioni nei confronti delle proprie compagne o di abusi sui minori. Avviato nel carcere di Matera, il progetto ha una durata di 6 mesi e coinvolge 23 delle 50 persone ristrette presso la casa circondariale per reati di violenza, che hanno aderito volontariamente all’iniziativa. Gli psicologi stanno lavorando su due gruppi, rispettivamente di 12 e 11 persone. "L’obiettivo - ha spiegato la dottoressa Assunta Basentini, referente dell’Aipg di Basilicata - è quello, sul piano sociale, di evitare che si verifichino recidive, a conclusione della pena, attraverso la piena consapevolezza di quanto è accaduto e che ha segnato la loro vita". Larino (Cb): "Mani in alto", i detenuti diventano street artist nell’ora d’aria primonumero.it, 17 giugno 2017 Un gruppo di dieci detenuti della casa circondariale di Larino coinvolto in un interessante progetto culturale dedicato alla street art e intitolato "Mani in alto". Grazie alla collaborazione del collettivo di artisti "Guerrilla Spam" i ragazzi hanno realizzato un murales nel cortile dedicato all’ora d’aria e sono stati coinvolti in attività di poster art con opere che porteranno anche a uno scambio di esperienze ‘esterno’ in varie città italiane. Un laboratorio riuscito che ha permesso ai detenuti che frequentano la scuola di vivere un momento di incontro e di partecipazione condividendo l’idea di libertà espressiva. Il progetto, condiviso dalla direttrice del carcere, Rosa La Ginestra è stato supportato dalle insegnanti della sede Cpia di Termoli, Filomena Di Lisio e Angela Pietroniro e dall’Acag (Associazione Culturale Antonio Giordano) con l’architetto Marianna Giordano che ha inserito l’evento nell’ambito del premio Pag di Santa Croce. Presto l’inaugurazione. Le mura del carcere cambiano colore ed esprimono un valore forte e significativo, quello della condivisione e del desiderio di imparare cose nuove pensando a quel senso di libertà che solo l’arte sa esprimere. Un progetto innovativo intitolato "Mani in alto!" e nato dalla collaborazione tra la Casa Circondariale di Larino, il Centro provinciale istruzione adulti Campobasso (sede di Termoli) l’associazione Acag (Associazione Culturale Antonio Giordano di Santa Croce di Magliano) e il collettivo di artisti Guerrilla Spam. Il progetto si inserisce nel filone di iniziative promosse dal festival d’arte urbana Pag di Santa Croce, dirette a promuovere le arti visive in tutte le sue forme. Perché "Mani in alto!"? Ironizzando sul significato più comune della frase che la collega all’intimazione di resa e all’arresto di un individuo, più in generale, è possibile pensare al gesto di alzare le mani come legato a vari momenti della vita: "poniamo le mani in alto per protestare, per attirare l’attenzione, per salutare, per incitare, per esultare, per disegnare e dipingere o in senso figurato per arrendersi ad una situazione; il nome del progetto quindi vuole giocare sul multiforme significato del gesto e della frase: alzo le mani per arrendermi, ma anche per esultare, disegnare e dipingere! Un gesto quindi che ha il sapore della sconfitta ma anche del riscatto. Il progetto, che ha coinvolto dieci detenuti ha previsto la realizzazione di un murales e di un workshop di posterart. La prima parte ha previsto lezioni sulla street art e sulle tecniche grafiche e pittoriche impiegate per la realizzazione di opere su muro o in generale in luoghi pubblici all’aperto. Successivamente si è passati alla socializzazione di idee per stabilire il tema ed il soggetto/i del murale, quindi alla progettazione delle fasi e realizzazione del murales, assegnando specifici compiti ad ognuno dei soggetti coinvolti nel progetto. La seconda parte consiste in un workshop di posterart. "Il poster - spiegano gli organizzatori - è il mezzo privilegiato per la realizzazione di opere, anche complesse, ma di immediato impatto e di veloce realizzazione. Il semplice disegno su carta può diventare un veicolo per messaggi o l’espressione di sensazioni, idee e pensieri. Il workshop di poster art vuole mostrare la semplicità e l’efficacia di questa tecnica, che permette una rapida esecuzione del disegno ed una libera fruizione dell’opera una volta attaccata nello spazio pubblico". La parte fondamentale del laboratorio sta invece nel poter "portar fuori" dalla struttura alcuni messaggi e pensieri dei partecipanti al workshop. Per fare questo, alla fine del laboratorio, potranno essere scelte alcune opere da attaccare all’interno del carcere insieme ai ragazzi e altre, invece, consegnate agli artisti; quest’ultime potranno essere affisse dagli stessi in diverse città italiane, in spazi pubblici da concordare, in modo da portare metaforicamente una parte degli ospiti della Casa Circondariale all’esterno del luogo che li circonda quotidianamente. Gli artisti si impegneranno poi a recapitare, agli organizzatori, delle fotografie con le opere attaccate all’esterno nelle città. Il progetto, condiviso dalla direttrice del carcere, Rosa La Ginestra che ha accolto con entusiasmo l’iniziativa, ha coinvolto un gruppo di dieci detenuti, supportati dalle insegnanti della sede Cpia di Termoli, Filomena Di Lisio e Angela Pietroniro e dall’Acag (Associazione Culturale Antonio Giordano) nella persona dell’architetto Marianna Giordano. Il murales ha interessato un cortile interno utilizzato come" passeggio" e "solarium" nell’ora d’aria da tutti gli ospiti dell’Istituto penitenziario. È prevista l’inaugurazione dell’opera realizzata, alla presenza delle autorità locali e scolastiche. Rieti: detenuti e studenti mettono in scena il Cyrano de Bergerac rietilife.com, 17 giugno 2017 Il seguito del positivo riscontro delle precedenti edizioni, è il quinto anno consecutivo che nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso si realizza il progetto sociale e culturale "Al Centro della Scena". Fortemente sostenuto dal Direttore dell’istituto di reclusione Vera Poggetti e realizzato dagli Assistenti Volontari della Sesta Opera San Fedele Rieti, associazione di volontariato penitenziario, gli obiettivi del programma educativo "Al Centro della Scena", sono il potenziamento delle capacità comunicative ed espressive dei detenuti, attraverso il linguaggio verbale, la gestualità, la recitazione, rafforzare le capacità di lettura con testi originali o noti, la scrittura, l’interpretazione, l’esecuzione musicale, la valorizzazione della creatività artistica, attraverso l’interazione tra i componenti il gruppo di detenuti e gli studenti reatini. Il lavoro, diretto dagli Assistenti Volontari della Sesta Opera San Fedele Rieti Benedetta Graziosi e Francesco Rinaldi, attraverso il testo della famosissima opera teatrale "Cyrano de Bergerac" di Rostand, viaggia tra valori e sentimenti universali quali l’amore, la difesa della libertà, il superamento dei pregiudizi, la fiera esistenza, il non piegarsi mai alla mediocrità o alle convenienze. Il lavoro viene rappresentato venerdì 16 giugno nel teatro dell’istituto penitenziari di Rieti, estrae momenti e dialoghi dall’ opera di Rostand, ironici e divertenti, con incursioni artistiche, musicali, canore, di danza. Il progetto educativo "Al Centro della Scena" della Sesta Opera San Fedele Rieti, tende ad un salto di qualità per la crescita umana e culturale dei detenuti, vedono anche la partecipazione dei loro familiari allo spettacolo, ed alla creazione di un rapporto sempre più stretto tra carcere e territorio, elemento essenziale per il graduale reinserimento dei detenuti nella famiglia e nella società civile. San Gimignano (Si): "Lucia Ammor Mie", detenuti in scena con parodia dei Promessi sposi di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2017 È trascorso un mese dallo spettacolo "Lucia Ammore Mie" e se ne parla ancora. Se ne parla con entusiasmo, con allegria, se ne parla ricordando soprattutto quanto ci si sia divertiti. Se ne parla per l’impegno e per la qualità, per l’energia percepita e per la capacità di aver interpretato i personaggi calandosi letteralmente. Lo spettacolo la Parodia Lucia Ammore Mie realizzato il 17 maggio 2017 presso la Sala Teatro della C.R San Gimignano è stato il prodotto del laboratorio di espressività creativa, iniziato a febbraio 2017, condotto dal FGP Emanuela Cimmino che nei panni di una inarrestabile regista assieme a 16 ristretti del Circuito di Alta Sicurezza hanno pensato, progettato, scritto anzi riscritto il romanzo di Alessandro Manzoni, rivisitandolo in chiave ironica e contestualizzandolo ai giorni nostri tanto da modificare perfino il nome dell’autore, da Manzoni ad Alessandro O’Chiattone. Tanti i temi della giustizia e dell’ingiustizia affrontati ed indirettamente anche quelli delle azioni devianti(la minaccia, i bravi che minacciano Don Abbondio, l’estorsione, la vendetta, il sequestro di persona, Egidio che per conto dell’Innominato ed a sua volta di Don Rodrigo rapisce Lucia). Uno spettacolo dalle mille sfaccettature e per certi versi buffo, come buffo è stato vedere personaggi come I tre moschettieri, i due cowboy, Cappuccetto rosso ed il lupo, Elena di Troia e Marco Antonio, la giornalista signorina Buonasera, entrare in maniera invadente, sbagliando "scena", sbagliando rappresentazione. Ma il tutto è stato pensato, nulla al caso, proprio con lo scopo di far ridere e creare suspense. Partendo da una storia "Sedici signori con l’ambizione di diventare attori, tentano un provino a Cinecittà, per l’occasione decidono di scrivere e mettere in scena una Parodia, quella dei Promessi Sposi, per l’appunto, chiamandola Lucia Ammor Mie. Ma non sarà facile. Cinecittà è grande, ambita, c’è sempre tanto movimento, ballerini, truccatori e potrebbe capitare di vedere personaggi che con il romanzo avranno poco a che vedere e che si mescoleranno confondendo le idee, ma che di certo, si auspica che questo gran casino, possa far ridere". Lucia Ammor Mie uno spazio per ridere, un’occasione per riflettere divertendosi. Un plauso ai protagonisti che non solo hanno mostrato impegno ma voglia di mettersi in gioco, oltre che negli abiti anche da donna (Perpetua, Agnese, Lucia, monaca di Monza con tanto di giarrettiera sotto l’abito monacale e di rossetto rosso), cosa non sempre facile e semplice, causa timidezza e vergogna Un pomeriggio diverso quello del 17.5.17 che viene ricordato per aver donato uno spaccato di prosa diverso dal solito, uno spettacolo ben riuscito che inteso come percorso e progetto, al dire dei protagonisti è stata un’esperienza "per fare quel piccolo salto di qualità personale in ognuno di noi". *Funzionario Giuridico Pedagogico della Casa di Reclusione San Gimignano Napoli: al premio letterario "Una Città Che Scrive" vince un detenuto dailycases.it, 17 giugno 2017 Una poesia straordinaria che è valsa il terzo posto nella sezione Poesie inedite. Un premio in danaro e la pubblicazione nell’antologia "Una Città che Scrive, Una Città che Rinasce". Il premio è stato ritirato, nella serata del 27 maggio, da Samuele Ciambriello, giornalista e docente, promotore dell’iniziativa "Lettura libera" nei carceri napoletani con l’associazione "La Mansarda". Ecco la poesia premiata: "Il mio sogno" Questa notte ti ho sognata, eri più bella che mai. Eri lì seduta, in riva al mare i tuoi capelli ondeggiavano nell’aria. Io ero lì, accanto a te. Le mie mani sfioravano il tuo bel viso. Ad un tratto i nostri sguardi si sono rivolti al cielo, con tante piccole stelle. Fra queste la più bella sei sempre tu Ti amo, orizzonte di Libertà. Giovanni Gallo Una vera e propria dichiarazione d’amore alla libertà. Abbiamo raggiunto Giovanni Nappi, fondatore del Premio Letterario "Una città che scrive" e attuale Presidente del Consiglio Comunale di Casalnuovo di Napoli, per chiedergli il perché della scelta: "La mission del nostro concorso è stata, sin dalla sua nascita, quella di mettere in evidenza la forza della scrittura. La scrittura come riscatto sociale, personale o collettivo. Vince il detenuto, così come ha vinto Michelangelo, un ragazzo dislessico, e così come hanno vinto i nostri amici di Visso, abitanti nelle zone colpite dall’ultimo terremoto". A Nappi chiediamo pure quando partirà il nuovo bando: "credo a settembre, con alcune novità e con la solita voglia di girare l’Italia e non solo, per far crescere sempre più questa comunità che scrive". "Dustur". Chi ha paura dell’Islam? Dal carcere una lezione di dialogo di Andrea Pocosgnich teatroecritica.ne, 17 giugno 2017 Un’esperienza nel carcere in cui il dialogo con i detenuti musulmani avviene attraverso la Costituzione, è raccontato nel film Dustur e nello spettacolo Leila della tempesta. Visti a I Teatri del Sacro, Ascoli. È un personaggio fuori dagli schemi Padre Ignazio De Francesco, si aggira per il festival, I Teatri del Sacro, ad Ascoli, con la sua tunica; è un monaco dossettiano e tiene un laboratorio, nel carcere Dozza a Bologna dove lavora a stretto contatto con alcuni detenuti musulmani. Il progetto è unico perché al centro di questo dialogo c’è la Costituzione. La punta più estrema della gerarchia delle fonti del diritto, quella legge fondamentale che è alla base della strutturazione di qualsiasi organizzazione, come uno Stato, e che ne regola natura e forme basilari viene utilizzata dal monaco come spazio di scambio e riflessione, punto di partenza e di arrivo. In Dustur, film documentario del 2015 di Marco Santarelli (presentato nella rassegna delle Sale della Comunità durante il festival), i detenuti islamici si ritrovano nella biblioteca del carcere per discutere su temi quali la libertà di culto e di pensiero, il significato del lavoro nella sfera privata e sociale. Si parte dalla Costituzione Italiana per poi metterla in relazione con le primavere arabe, uno di loro accenna al fatto che spesso però i buoni principi delle costituzioni sono disattesi. De Francesco su questo però è netto, le regole fondamentali devono essere scritte, la nostra libertà di esseri umani passa anche attraverso questo atto; la presenza delle regole basilari ci permette di misurare quando e dove la realtà quotidiana si distacca da queste. L’aria si fa tesa tra i detenuti nel momento in cui la riflessione sulla libertà di culto sfocia nel dibattito sulle conversioni, qui iniziano a mostrarsi le diverse anime dell’Islam: accettare o non accettare un amico o un familiare che si converte al Cristianesimo? La complessità fortunatamente ci spinge oltre le solite banali categorie da prima pagina, bisogna volgere lo sguardo oltre i concetti di Islam radicale e Islam moderato. È materiale infuocato, è inutile prenderci in giro, l’enough is enough di Teresa May dopo la violenza terroristica subita dagli inglesi nelle scorse settimane è vuoto prologo a derive securitarie che ben conosciamo, invece la forza di progetti come quello del carcere di Dozza sta nell’azione sui singoli, il dialogo finalizzato alla comprensione, la messa in crisi delle certezze attraverso la scoperta anche di altri modelli. Non è un caso che questo avvenga in un carcere, luogo spesso di passaggio che può determinare un nuovo corso (se si incontrano insegnanti e percorsi come quelli raccontati nel film) oppure far precipitare definitivamente. D’altronde per Padre Ignazio il carcere "è oggi uno dei punti di maggior trasformazione sociale […]. Se si vuol capire come sarà l’Italia di domani è da qui che bisogna partire". De Francesco, che a I Teatri del Sacro ha avuto modo di raccontare la sua esperienza anche attraverso un incontro pubblico, è l’autore di un romanzo, Leila della tempesta (2017, Zikkaron), nel quale confluisce una delle storie incontrate in carcere. Alessandro Berti, della compagnia Casavuota ne ha ricavato una versione teatrale portata ad Ascoli (fuori bando) prima nel ridotto del Teatro Ventidio Basso e poi in replica nella sala grande, vista l’enorme affluenza. Leila è una giovane donna tunisina, è in carcere per traffico di stupefacenti, nel parlatorio incontra una volta a settimana De Francesco. Berti è in giacca nera e agisce per mezzo di una recitazione asciutta, netta; come d’altronde è affilatissima anche quella di Sara Cianfriglia (nei panni di Leila), senza retorica, affettazione o inutili ampollosità. Si muovono su una piattaforma rialzata, al centro un tavolo e due sedie, nessuna musica riempie i silenzi, nessun contrappunto registico ci salva dallo scandire del tempo. "Tu non sei un fratello, tu sei un cristiano!", De Francesco parla perfettamente arabo (ha passato dodici anni in Medio Oriente) per questo la donna lo crede un musulmano, è da qui che il dialogo attraversa l’assolutezza dei valori religiosi facendo emergere quelli civili. È ancora una volta la costituzione a rappresentare il tramite laico per impostare la relazione. De Francesco naturalmente le proprie ragioni le trova anche nel Corano: intenso il filo rosso con il quale rintraccia insieme a Leila gli episodi in cui per l’Islam la solidarietà è rivolta a tutti, per superare proprio quel rigido "tu non sei fratello" perché non sei musulmano. La combinazione delle due visioni, quella cinematografica e quella teatrale, ha rappresentato forse il momento più fertile nel lungo programma di Teatri del Sacro, dando dimostrazione di come sia possibile alimentare il dialogo interreligioso attraverso azioni concrete, in maniera profonda e senza pregiudizi, anzi, cogliendo la forza dei valori laici. In una scena di Dustur De Francesco va in visita a Marzabotto con un ex detenuto musulmano; non sono a San Pietro o in un altro luogo in cui far risplendere la fede, ma sono lì, nel cimitero, a ricordare che i nostri valori discendono anche dalla Resistenza, da quel sangue versato. Unicef: un bambino su cinque vive in stato di povertà nei Paesi ricchi di Anna Maria De Luca La Repubblica, 17 giugno 2017 "La Report Card 14 - dice Sarah Cook, direttrice dell’Unicef Innocenti - è un campanello d’allarme, che ci ricorda che anche nei Paesi ad alto reddito il progresso non va a beneficio di tutti i bambini". I dati presentati dall’Unicef nel primo rapporto che valuta le condizioni dei bambini in 41 Paesi ad alto reddito: "Costruire il futuro - I bambini e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile nei paesi ricchi". Per quanto riguarda gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, l’Italia è al 24° posto su 41 paesi dell’Unione Europea. Essere annoverati nella parte ricca del mondo non equivale a vivere bene. Lo dimostrano i dati presentati dall’Unicef nel primo rapporto che valuta le condizioni dei bambini in 41 Paesi ad alto reddito: "Costruire il futuro - I bambini e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile nei paesi ricchi". Tutti i Paesi si collocano su due o più obiettivi a metà o nell’ultimo terzo della classifica. Commenta Sarah Cook, direttrice dell’Unicef Innocenti: "Redditi più alti non portano automaticamente a condizioni migliori per tutti i bambini, possono anzi aggravare le disparità. I governi di tutti i paesi devono agire per assicurare che le differenze vengano ridotte e che si effettuino progressi per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per i bambini". Il rapporto: insicurezza alimentare per un bambino su 8. Nei Paesi ricchi, un bambino su cinque vive in condizioni di povertà relativa rispetto al reddito, con differenze rilevanti: per esempio, in Danimarca, Islanda e Norvegia un bambino su dieci è nell’elenco dei poveri; in Israele e Romania uno su tre. Che nei Paesi ricchi ci sia insicurezza alimentare sembra incredibile, eppure la difficoltà riguarda, in media, un bambino su otto. Anche in questo caso le variazioni sono notevoli: nel Regno Unito e negli Stati Uniti riguarda un bambino su cinque, in Messico e in Turchia un minore su tre ha difficoltà ad accedere ad un’alimentazione adeguata. Circa un bambino su dieci vive in famiglie in cui nessuno ha un impiego. Nella fascia 15 - 19 anni, un giovane su 13 non lavora, non studia e non segue un programma di formazione (sono i cosiddetti Neet). Nel 2012, il suicidio è stato la principale causa di morte tra gli adolescenti (il 17,6% di tutti i decessi); almeno un bambino su 10 nei paesi esaminati è regolarmente vittima di bullismo. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I dati del rapporto Unicef sono calcolati in base ai risultati dei vari Paesi rispetto agli indicatori del benessere per i bambini: sono gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, come porre fine alla povertà ed alla fame. Nessun Paese ha avuto risultati positivi su tutti gli indicatori. Rispetto all’obiettivo "assicurare una vita in salute" la buona notizia è che la mortalità neonatale è calata drasticamente nella maggior parte dei Paesi, cosi come i tassi di suicidio fra gli adolescenti, di fertilità adolescenziale e di alcolismo. Quella cattiva è che un adolescente su quattro soffre di due o più sintomi psicologici, più di una volta a settimana: l’Italia si posiziona male sotto questo punto di vista. Siamo il Paese con la più alta percentuale di bambini e adolescenti di età compresa tra gli 11 e i 15 anni che riferiscono di soffrire di due o più sintomi psicologici più di una volta alla settimana (36,5%). Le differenze tra i Paesi. Sebbene siano stati compiuti grandi progressi su diversi indicatori, rimangono ancora profonde differenze in altre aree. I livelli di reddito nazionali non rivelano tutte queste differenze: per esempio, la Slovenia è molto più avanti rispetto a Paesi decisamente più benestanti su molti indicatori, mentre gli Stati Uniti si classificano al 37° posto su 41 nella classifica generale. Altro obiettivo di sviluppo sostenibile è quello di assicurare un’istruzione di qualità: anche nei Paesi con risultati migliori, inclusi Giappone e Finlandia, circa un quinto dei quindicenni non raggiunge livelli di competenza minimi nella lettura, in matematica e scienze. Altro obiettivo ancora da raggiungere è la parità di genere: in media, il 14% degli adulti intervistati in 17 Paesi ricchi ritiene che l’istruzione universitaria sia più importate per i ragazzi che per le ragazze. La posizione dell’Italia. Siamo un’eccellenza, al secondo posto, per quanto riguarda la "Pace, giustizia e istituzioni efficaci", mentre siamo molto scarsi, al 31° posto su 41, nell’obiettivo "Eliminazione della povertà". Secondo il rapporto Unicef, in Italia il 25,1% dei bambini vive in condizioni di povertà relativa e il 51% in povertà multidimensionale (è il quinto tasso più alto) un concetto che ha molto a che fare con l’ineguaglianza, concepita all’interno della idea generale di assetto sociale auspicabile e al sistema di valori diffuso. Abbiamo l’11,2 per cento di Neet tra i 15 e i 19 anni, dato che ci colloca al trentesimo posto della classifica. Il 9,7 per cento dei minorenni vive in famiglie senza lavoro (31° posto). Qualche notizia buona c’è: rispetto agli altri Paesi abbiamo il secondo più basso tasso di suicidio tra gli adolescenti (1,9 su 100.000), il quinto tasso di omicidio infantile più basso (0,19 su 100.000) ed il terzo tasso più basso di bullismo cronico auto-segnalato: il 5,2% degli 11-15enni ha subito episodi di bullismo almeno due volte al mese. Ci attestiamo al quarto tasso di ubriachezza più basso tra gli 11 e 15 anni, pari al 4,4%. In totale, rispetto ai nove obiettivi di sviluppo sostenibile analizzati dal rapporto Unicef, l’Italia è 24esimo posto su 41 paesi Eu-Ocse (Sdgs). Le richieste di Unicef. In base ai risultati del rapporto, Unicef chiede cinque impegni ai Paesi ad alto reddito. - Primo: porre i bambini al centro di un progresso equo e sostenibile perché "migliorare il loro benessere oggi è fondamentale per raggiungere sia equità sia sostenibilità". - Secondo: Non lasciare nessun bambino indietro: le medie nazionali spesso nascondono estreme disuguaglianze e una condizione di grande svantaggio dei gruppi più poveri. - Terzo: Migliorare la raccolta di dati comparabili, in particolare sulla violenza sui bambini, sullo sviluppo della prima infanzia, sulle migrazioni e sul genere. - Quarto: Utilizzare le classificazioni per adattare le risposte politiche in base ai contesti nazionali. - Quinto: Onorare gli impegni presi per lo sviluppo globale sostenibile. Migranti. Il nodo è la Libia, è l’ora di cambiare politiche di Franco Venturini Corriere della Sera, 17 giugno 2017 Le preoccupazioni sono più che giustificate dall’importanza della minaccia, ma serve, da parte degli attori politici e sociali, una chiarezza che oggi manca. Molta attenzione è stata data nei giorni scorsi alla svolta anti-migranti del Movimento 5Stelle, pochissima ne viene invece concessa in queste ore alla decisione di Bruxelles di aprire una procedura di infrazione contro i Paesi est-europei che rifiutano di accogliere le loro "quote" di migranti. Eppure si tratta di due facce della stessa medaglia. Nella dimensione nazionale prevalgono le competizioni politico-elettorali, si va a caccia di consenso, e quando manca una forma di tutela sociale le migrazioni finiscono per produrre un effetto destabilizzante nei confronti dei governi e dei partiti che li sostengono. Nella dimensione europea la partita si radicalizza, e la destabilizzazione diventa rischio di frantumazione. La Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria (appoggiate dalla Slovacchia) che la commissione di Bruxelles ha ora spinto sul banco degli imputati, difendono a spada tratta il diritto di tutelare la loro identità etnica e religiosa, rivendicano un nazionalismo che nel dopoguerra ha dovuto restare sotterraneo fino al crollo dell’Unione Sovietica, esibiscono un consenso anti-immigrati che nel tempo può portare alla rottura con Bruxelles. Basterà la prossima Europa a "velocità diverse" a scongiurare un maxi-Brexit orientale con il distacco di tutto il Gruppo di Visegrad? Del resto, non è forse l’Europa odierna già divisa in tre, il centro-nord attorno alla Germania protetta dalla chiusura della rotta balcanica e dall’accordo con la Turchia, l’est arroccato nel suo rifiuto, il sud greco e italiano inevitabilmente aperto sui flussi mediterranei? Soltanto così, soltanto unendo impatto nazionale e impatto europeo diventa possibile misurare la vera dimensione del fenomeno migratorio, che non è soltanto umanitaria. E soltanto così, in una condizione da "prima linea" come quella italiana, ci si rende conto di quanto arretrato e strumentale sia il nostro dibattito interno su un tema che in prospettiva, per chi non abbia la possibilità di chiudere la porta, può arrivare a minacciare la democrazia attraverso destabilizzazioni politiche successive. Le preoccupazioni e anche le polemiche sono più che giustificate dall’importanza della minaccia, ma serve, da parte degli attori politici e sociali, una chiarezza che oggi manca. Tralasciamo in questa sede l’azione delle Ong (che comunque va regolamentata). Le domande fondamentali, allora, sono due. Dovremmo limitarci a respingere l’avvicinamento dei migranti alle nostre coste revocando ogni azione di soccorso in mare? Oppure sarebbe il caso di occupare militarmente le coste libiche, per impedire le partenze? Si deve dire senza equivoci che queste sono vie non percorribili, nel primo caso perché nessuna formazione politica è pronta a suggerire annegamenti di massa, nel secondo perché riusciremmo ad unire tutti i libici contro di noi e il presidio costiero diventerebbe una guerra senza fine. Perché questi elementari elementi di valutazione non vengono forniti all’opinione pubblica se non molto timidamente, e calcolandone l’impatto elettorale? Perché non viene fatta luce sulle ambiguità propagandistiche che ci assediano più dei migranti, perché nel dibattito politico mancano invece le proposte percorribili ? Si direbbe che l’Italia, affacciata sul mare e sull’Africa com’è, vulnerabile ai flussi migratori come nessun altro in Europa, fatichi a comprendere di avere a che fare con un interesse nazionale primario, che può diventare rapidamente una emergenza nazionale primaria. E il ritardo non è soltanto nostro, è anche europeo. Il progetto delle "quote" che quelli di Visegrad rifiutano doveva aiutare l’Italia e la Grecia ridistribuendo 160.000 rifugiati: l’operazione è andata in porto per 18.418 persone, e anche Paesi che hanno sottoscritto lo schema, come la Francia, hanno fatto poco. Peraltro la delibera "quote" scade fra tre mesi, bisognerà allargarla agli africani e agli asiatici oggi non compresi, e Roma, Berlino, Stoccolma e Bruxelles guardano con favore al taglio dei fondi europei per i Paesi inadempienti. Ma tutti sanno che non saranno le "quote" a risolvere il problema mentre l’Europa ha bisogno di unità e di rilancio. Più promettente può essere la revisione del Protocollo di Dublino (i migranti restano dove sbarcano), ma il Gruppo di Visegrad si oppone di nuovo e la discussione langue, mentre il 90 per cento dei migranti arrivati in Italia resta in Italia a causa della semi-chiusura dei confini settentrionali. E allora eccolo, il cuore del problema: la Libia, dalle cui coste proviene oltre l’ottanta per cento dei migranti che sbarcano in Italia. Una Libia in guerra civile strisciante ma permanente, dove prevalgono inimicizie antiche e profonde, dove è illusorio pensare a un governo unitario con una forza armata nazionale. L’Italia ha inseguito molto (troppo) a lungo questo miraggio patrocinato dall’Onu, ma non è di sicuro l’unica responsabile del fallimento cui oggi assistiamo e di recente la sua azione è diventata più pragmatica: si tenta di sviluppare il dialogo con Haftar (Bengasi) accanto all’eccessivo legame con Serraj (Tripoli), il Viminale tenta di patrocinare una ardua intesa tra le tribù del Fezzan (sud) per sbarrare le vie migratorie che salgono dal Sahel, i fondi elargiti dalla Ue (troppo pochi) vengono usati nella speranza di poter riprodurre in Africa accordi di contenimento come quello tra Europa e Turchia. Nessuno ha la bacchetta magica. Nessuno può impedire all’Africa di raddoppiare la sua popolazione entro il 2050, nessuno può garantire che la guardia costiera libica (foraggiata dall’Italia) non abbia pesanti compromissioni finanziarie con il traffico dei nuovi negrieri, nessuno ha sin qui ottenuto che sorgano in territorio africano o altrove strutture da affidare a operatori umanitari per l’identificazione dei rifugiati da distribuire poi in Europa (in tal caso le Marine europee potrebbero intercettare i migranti nel Mediterraneo e indirizzarli verso tali strutture). Quest’ultima è forse l’ipotesi più valida di cui disponiamo. Ma servono tanti soldi, che si devono trovare e che comunque non garantiscono l’ospitalità del Paese beneficiario. E poi, davvero i migranti economici vanno respinti a differenza dei rifugiati? L’Italia è, quasi, in campagna elettorale. L’auspicio è che su un tema per noi decisivo si apra un dibattito serio tra i partiti, nessuno escluso, e tra gli elettori. Diversamente da quanto è accaduto sin qui. Migranti. I cattolici divisi sullo Ius Soli di Salvatore Cernuzio La Stampa, 17 giugno 2017 Da un lato le istituzioni ecclesiali come Caritas italiana, Acli, Fondazione Migrantes (Cei) e Centro Astalli, che sperano in una rapida approvazione del ddl, dall’altro frange conservatrici e tradizionaliste, critiche verso la Chiesa di Papa Francesco. I cattolici si spaccano sullo Ius soli. Da un lato le istituzioni ecclesiali da sempre impegnate per garantire dignità e diritti a stranieri e migranti, come Caritas italiana, Acli, Fondazione Migrantes (Cei) e Centro Astalli, che sperano in una rapida approvazione del ddl per l’inclusione sociale e culturale di quelli che saranno "i nostri futuri cittadini". Dall’altro frange conservatrici e tradizionaliste, voce di una fetta numericamente poco rilevante ma risonante e agguerrita su social, blog e forum cattolici che lamentano un "abbassamento di profilo" della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, che titolano i loro editoriali con frasi del tipo: "Lo ius soli è il vero razzismo" o "Se lo ius soli diventa legge ci alleveremo il terrore in casa". Al centro della querelle sul disegno di legge in discussione al Senato ricasca il tema dell’immigrazione, o meglio, dell’"invasione" degli stranieri che la norma incentiverebbe rischiando di mettere in discussione l’identità - e la cattolicità - di un intero Paese. "Lo Ius soli non ha un senso pratico: infatti, siamo già invasi, da anni, e lo siamo ogni giorno di più. Non c’è bisogno dello Ius soli per far entrare milioni di immigrati, né, specificamente, per far arricchire Ong varie di varia natura, e in particolare quelle pacifiste sinistrorse e quelle pseudo cattoliche (insieme alla criminalità organizzata, ovviamente)", scrive Massimo Viglione, saggista e filosofo, docente presso l’Università Europea di Roma, sulle pagine web di Radio Spada. Un portale che sulla home page si presenta come "sito di controinformazione che ritiene il Cattolicesimo Romano l’unica forma veridica ed efficace di antagonismo culturale, sociale e politico alla grave decadenza e alle pulsioni dissolutrici del mondo in cui viviamo". "La portata dello Ius soli è immensa, ed è precipuamente ideologica. Occorre, ormai, a invasione in atto - nella tranquillità derivante dal fatto che nessuno si oppone veramente, nel senso concreto, pratico, ma anzi si ha l’appoggio pieno di interi settori della società, clero in primis - far passare nella mentalità generale il principio che se esiste l’Italia, non devono esistere più gli italiani. Si tratta insomma di costituire un nuovo "demos"", afferma il filosofo. Ancor più duro l’articolo apparso sul sito Corrispondenza Romana, agenzia cattolica di informazione diretta dallo storico Roberto De Mattei, che pubblica (e sottoscrive) la lettera di un lettore che recita testualmente: "Se a giugno al Senato passa lo Ius Soli, possiamo chiudere baracca e burattini. Possiamo dire addio all’Italia. Avremo le seconde generazioni radicalizzate a farci la festa […] Sarebbe davvero il punto di non ritorno e la vittoria schiacciante e definitiva dell’immigrazionismo di massa. ? l’ultimo boccone avvelenato del PD, dopo divorzio breve e simil-matrimonio sodomitico". Punti di vista distanti anni luce da quelli di vescovi, religiosi e laici a capo degli organismi ecclesiali che invece plaudono a questo "grande passo verso una prospettiva che deve prendere definitivamente consapevolezza del fatto che la nostra è una società multiculturale e lo sarà sempre di più", come ha affermato alla Radio Vaticana Olivero Forti, responsabile per l’immigrazione della Caritas. In prima linea per lo Ius soli c’è monsignor Giancarlo Perego, attuale vescovo di Ferrara, per otto anni direttore generale della Fondazione Migrantes, la "costola" della Cei che si occupa di accompagnare e sostenere le Chiese nella cura e nella difesa dei diritti dei migranti, italiani e stranieri. Perego era già sceso in piazza al Pantheon di Roma, nel febbraio scorso, per la manifestazione promossa dai giovani del movimento #ItalianiSenzaCittadinanza, nato sui social per protestare contro la mancata approvazione della legge, ferma al Senato da più di un anno. Il ddl "latita", affermava il vescovo in quell’occasione, "si ha paura di esporsi politicamente, per una realtà che non farebbe che migliorare e facilitare i percorsi di partecipazione, d’integrazione". Come direttore di Migrantes, Perego - insieme a Caritas e Acli - aveva aderito alla campagna "L’Italia sono anch’io", che ha raccolto oltre 200.000 firme per allargare lo Ius soli e sollecitava a "superare paure, limitazioni, per condividere un atto politico intelligente che rappresenti la realtà dell’immigrazione oggi". Tra questi poli diametralmente opposti nella galassia cattolica c’è chi si trova in mezzo, in una posizione che gli piace definire "più moderata" e lontana da certe "derive": l’avvocato Simone Pillon, tra i membri del Comitato Difendiamo i nostri Figli promotore degli ultimi due Family Day di Roma. "Jus Sola", ha scritto Pillon sulla sua seguitissima pagina Facebook, giocando con la parola romana "sola" usata per indicare una truffa, una fregatura. Perché? "Il mio punto di vista e che lo ius soli è una falsa risposta capace di illudere le persone, le masse, che denuncia ancora una volta la mancanza di qualsiasi strategia generale di gestire il fenomeno migratorio da parte del nostro governo", spiega al telefono. "Oltre al fatto che la questione sulla cittadinanza agita il dibattito politico da anni, bisogna fare attenzione alle parole che usiamo perché una ragazza africana di 19 anni, incinta, si convince così a partire su quei terribili barconi per venire a partorire nel nostro Paese". Riflette l’avvocato: "Siamo sicuri che introdurre la divisione in cui i figli sono cittadini italiani mentre i loro genitori rimangono cittadini dei loro Paesi di appartenenza sia una buona idea che aiuta la coesione sociale?" Peraltro, in Italia, "ci sono già delle leggi sul diritto alla cittadinanza. Non capisco perché bisogna modificarle". "Se proprio dobbiamo", propone Pillon, bisognerebbe "offrire percorsi privilegiati, più rapidi, non per i singoli ma per interi nuclei familiari che emigrano nel Paese". Perché "se uno è qua con la famiglia dà prova di stabilità temporale e professionale, è sicuro che non viene a spacciare droga, ad ingrossare le file della criminalità, a ciondolare nelle stazioni, ma a contribuire alla produttività del Paese". Questo, chiarisce l’avvocato, "non significa che dobbiamo buttare i bambini nell’acqua sporca. Se c’è qualcuno da ospitare e da aiutare lo si fa, per carità, ma bisogna avere un equilibro di fondo e sapere anche che tanti villaggi in Centrafica o nell’Africa subsahariana sono sulla via della distruzione avendo perso le potenzialità produttive degli uomini e dei giovani e ospitando solo anziani e bambini. Me lo hanno riferito alcuni vescovi che sono disperati. Secondo sondaggi, tra qualche anno nei Paesi sottosviluppati ci saranno un miliardo e centomila persone che condurranno la loro vita senza dignità. Che facciamo li ospitiamo tutti?". Il problema, quindi, non è tanto il "no" alla immigrazione ma "il diritto a non emigrare". "Non è questione di essere cristiano ma di essere in grado di affrontare con dovuta ampiezza di respiro un fenomeno epocale", sottolinea Pillon. E conclude: "Al di là di quello che dice una certa sinistra che attacca sul piano personale e morale chiunque non la pensi come loro, è molto più "morale" chi affronta l’immigrazione con responsabilità ottemperando le esigenze di tutti e soprattutto delle popolazioni in disagio, piuttosto che illudere persone e indurle nelle mani dei trafficanti per poi buttarle in cooperative gestite dai loro amici". Migranti. Ius Soli, quei riflessi fascisti in Parlamento di Michele Ainis La Repubblica, 17 giugno 2017 In quanto accaduto ieri al Senato c’è come un déjà-vu. Qui è in questione la buona creanza, categoria a quanto pare ormai obsoleta, come il "galateo parlamentare". Dopo un paio d’anni di stallo, con quella legge sepolta da migliaia di emendamenti, cominciavamo a sospettare che i nostri senatori fossero insensibili alla riforma della cittadinanza. Alleluia, ieri ci hanno offerto la prova contraria. Sono così sensibili da dover ricorrere agli antidolorifici, dopo una giostra di mischie, spinte, pestoni, dopo un andirivieni concitato verso l’infermeria di Palazzo Madama. Merito della Lega, che ha innescato la bagarre. Ma questo genere di spettacoli mortifica l’intero Parlamento, non soltanto chi se ne renda artefice. Perché non è in questione il diritto al dissenso, anche nelle sue forme estreme, anche con l’ostruzionismo che proprio le destre imbastirono da quegli stessi banchi, negli anni Settanta, contro le Regioni o contro la riforma della Rai. No, qui è in questione la buona creanza, categoria a quanto pare ormai obsoleta, come il "galateo parlamentare" di cui ancora si legge nei manuali di diritto. Eppure la prima seduta della Camera, a Roma, fu inaugurata da una votazione sul cappello: succedeva infatti che l’aula fosse ancora priva di termosifoni, sicché alcuni deputati chiesero di derogare al protocollo indossando un berretto di lana, per proteggersi dal freddo. E la presidenza mise ai voti la richiesta. Altri tempi, altre tempre. Ma in tutta questa storia c’è un altro sapore del passato che ci sale alla gola, c’è come un déjà-vu. C’è un riflesso fascista, proprio così. Non solo per i saluti romani che contemporaneamente s’impennavano a piazza Vidoni, a qualche metro di distanza dal Senato, per una manifestazione di Forza nuova. Non solo perché anche il fascismo additava lo straniero come nemico potenziale, tenendolo in un perenne stato d’incertezza circa la sua permanenza nel Paese. È fascista, in sé, la violenza (ahimè, da ieri pure fisica, oltre che verbale) opposta a una legge che l’Italia attende da un quarto di secolo, che ci era stata già promessa nella legislatura scorsa, che ha addensato 26 progetti di legge nel 2013, all’alba di questa legislatura. Anche perché la proposta in discussione non è affatto un colabrodo. Allarga la cittadinanza, però la sottopone a condizioni e limiti stringenti. È il caso dello ius culturae, che trasforma i minori stranieri in italiani, purché abbiano fatto ingresso nel nostro territorio entro i 12 anni, e purché frequentino le nostre scuole per almeno cinque anni. Ma è anche il caso dello ius soli, che rovescia lo ius sanguinis (è cittadino chi sia figlio di un genitore italiano) cui s’ispira la legge in vigore. Significa che d’ora in poi la cittadinanza s’accompagnerebbe alla nascita nel territorio dello Stato, come avviene negli Usa e in varie altre contrade; tuttavia soltanto per chi abbia almeno un genitore munito del permesso di soggiorno dell’Unione europea. D’altronde qual è l’alternativa a questa legge? Lo status quo, ovvero un doppio danno: alla sicurezza e alla giustizia. Quanto alla prima, non c’è dubbio che la minaccia terroristica sia figlia della separazione, non dell’integrazione; i muri lì per lì ti rassicurano, ma alla lunga sono scelte suicide. Quanto alla giustizia, ne circola ben poca in un sistema che tiene fuori dall’uscio un milione di ragazzi per lo più nati in Italia, iscritti in un istituto scolastico italiano, che tifano Juve o parlano in dialetto calabrese. Potranno forse chiedere la cittadinanza più tardi, quando diventeranno grandicelli; ma con le norme vigenti servono dieci anni di residenza ininterrotta sul suolo italiano, che in pratica diventano perlomeno 13 anni. Nel frattempo a un cittadino bastano 30 giorni per rinnovare il passaporto, a uno straniero ne occorrono in media 291 per rinnovare il permesso di soggiorno. E gli immigrati regolari non votano però pagano le tasse, mentre gli italiani residenti all’estero votano senza pagare dazio. Insomma, mettiamoci rimedio. Per loro, ma dopotutto anche per noi: l’ingiustizia è un veleno che intossica tanto le vittime quanto gli assassini. Libia. Migranti detenuti e torturati, in video su Facebook la richiesta di denaro ai parenti Reuters, 17 giugno 2017 Trafficanti di esseri umani e altre bande criminali in Libia stanno usando i social media per trasmettere video delle violenze inflitte ai migranti tenuti da loro prigionieri e chiedere denaro alle loro famiglie. In un video di mezz’ora pubblicato il 9 giugno su Facebook, si vedono centinaia somali ed etiopi, tra cui diversi bambini, stipati in una stanza. Alcuni di loro raccontano d’essere stati picchiati, torturati e privati del cibo, e che i loro genitori e parenti hanno ricevuto il video attraverso i social network con richieste fino a 10.000 dollari per evitare che venissero uccisi. Uno di loro dice di essere prigioniero da 11 mesi. È a sdraiato terra con un blocco di cemento sulla schiena, perché i parenti non avrebbero pagato gli 8.000 euro richiesti. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), almeno 20.000 migranti sono detenuti in Libia - principale accesso per coloro che cercano di raggiungere l’Europa via mare - sequestrati per lo più nei dintorni di Raybana, nel sud, nei pressi del confine con il Sudan. Molti sono detenuti e torturati per ottenere soldi dalle famiglie, e un numero crescente di migranti e rifugiati viene invece venduto in una sorta di mercato degli schiavi, e usato per lavoro forzato e sfruttamento sessuale. In una Libia divenuta terra senza legge, in cui prolifera ogni tipo di commercio illecito, fa notare ancora l’Oim, i contrabbandieri stanno inoltre spingendo l’acceleratore sul redditizio business delle partenze via mare, stipando sempre più persone su barche sempre meno sicure. L’agenzia Onu fa notare il numero record di migranti arrivati in Italia via mare dall’inizio dell’anno: oltre 61.000 persone, il 35% in più rispetto allo scorso anno. Iraq. Amnesty International: a Raqqa la coalizione Usa ha impiegato fosforo bianco di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 giugno 2017 Amnesty International ha confermato che l’impiego, da parte della coalizione a guida statunitense, di munizioni al fosforo bianco nella zona di al-Raqqa, in Siria, è stato illegale e può costituire crimine di guerra. L’organizzazione per i diritti umani ha esaminato cinque video, pubblicati in rete l’8 e il 9 giugno, in cui si vede l’artiglieria della coalizione lanciare munizioni al fosforo bianco (con ogni probabilità degli M825A1 da 155 millimetri di fabbricazione statunitense) contro le zone di Jezra ed el-Sebahiya. Le immagini mostrano chiaramente, da diverse angolature, il lancio di munizioni al fosforo bianco e la loro caduta incendiaria sugli edifici. Il fosforo bianco è prevalentemente usato per creare una densa cortina fumogena per rendere invisibili al nemico i movimenti delle truppe e per indicare gli obiettivi dei successivi attacchi. In casi del genere, il suo uso non è vietato anche se è richiesta estrema cautela, mentre è assolutamente vietato nelle vicinanze di insediamenti di civili. Secondo il gruppo locale di monitoraggio "Raqqa viene massacrata nel silenzio" e altre fonti locali, in uno degli attacchi sono stati uccisi almeno 14 civili. Nelle zone oggetto dell’attacco erano presenti anche molti profughi in fuga dai quartieri occidentali di al-Raqqa. I combattimenti si sono intensificati con l’inizio dell’offensiva delle Forze democratiche siriane, sostenute dalla coalizione a guida Usa, destinata a strappare la città allo Stato islamico. I civili intrappolati in città e nei suoi dintorni sono centinaia di migliaia. Anche se non si è ancora espressa su al-Raqqa, la coalizione a guida Usa ha confermato il recente uso di fosforo bianco a Mosul, a suo dire per creare una cortina fumogena che favorisse la fuga dei civili dalle aree ancora sotto il controllo dello Stato islamico. Australia. Le torture contro i giovani detenuti di cui nessuno parla tpi.it, 17 giugno 2017 La Abc ha mandato in onda alcuni filmati scioccanti che mostrano il trattamento brutale riservato ai minori ospiti di un centro di correzione nel Territorio del Nord. Il network australiano Abc ha causato un’ondata di indignazione mandando in onda alcuni filmati che mostrano il trattamento riservato ad alcuni minori detenuti in un centro nel Territorio del Nord. Il centro di detenzione per minori Don Dale, situato nell’area di Darwin, la capitale dello stato settentrionale australiano, adopera metodi piuttosto estremi. I video mostrano infatti alcune scene scioccanti: ragazzi investiti con del gas lacrimogeno; un prigioniero piuttosto minuto tenuto giù e spogliato completamente da alcune guardie; un altro legato a una sedia e incappucciato per due ore. Il governo del Territorio del Nord ha approvato nuovi strumenti per immobilizzare i detenuti, come la sedia sulla quale è costretto il ragazzo ripreso, il 17enne Dylan Voller, ma il richiamo ai metodi usati in prigioni tristemente famose come Abu Ghraib, a Baghdad, o Guantánamo Bay, ha fatto inorridire gli spettatori. Il pubblico australiano, il governo federale e l’opposizione non possono non chiedersi se queste pratiche brutali e inumane non siano la regola piuttosto che l’eccezione. Sarebbe gravissimo se quello di Don Dale non fosse un caso isolato ma un metodo radicato nel sistema della giustizia minorile dello stato. E l’Australia ha già fatto parlare di sé riguardo i centri di detenzione obbligatoria in cui i richiedenti asilo arrivati illegalmente nel paese vengono condotti - per altro su territorio non australiano - in attesa che venga esaminata la propria domanda e ospitati in condizioni disumane. Il primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, ha fatto sapere che una commissione d’inchiesta si occuperà di fare luce sulla questione, ma non ha chiesto la chiusura immediata del centro coinvolto, limitandosi ad asserire che i minori detenuti devono essere trattati umanamente. Il premier del Territorio del Nord ha declinato qualsiasi responsabilità e dopo aver estromesso il ministro responsabile del dipartimento di correzione, John Elferink, ne ha assunto il portafoglio (Elferink resta però ministro della giustizia). L’Unicef si è immediatamente espressa in termini di chiara condanna contro pratiche come l’isolamento, il denudamento e l’uso ingiustificato della forza, asserendo che possono essere considerati atti di tortura. Ma una questione ulteriore che emerge da questi fatti è quella del trattamento riservato agli aborigeni australiani: il 96 per cento dei minori detenuti nel Territorio del Nord sono infatti ragazzi indigeni, ma la popolazione aborigena nello stato è solo il 30 per cento. Emirati Arabi Uniti. Detenuti politici in sciopero della fame ad Abu Dhabi Nova, 17 giugno 2017 Attivisti politici emiratini hanno annunciato l’avvio di uno sciopero della fame nel carcere al Razin di Abu Dhabi. Secondo le Ong locali, si tratta della peggiore tra le prigioni degli Emirati Arabi Uniti. Lo sciopero della fame è iniziato perché i detenuti sono entrati in un contenzioso con l’amministrazione carceraria per chiedere migliori condizioni di detenzione. Alcuni detenuti sostengono di trovarsi da alcuni anni in carcere senza essere stati sottoposti ad alcun processo. Secondo il Centro internazionale di studi sulle carceri, quella di al Razin è tra le 10 peggiori carceri al mondo. Corea del Nord. Detenuto americano 22enne rimpatriato in coma di Andrea Pira Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2017 Gli Usa smentiscono Pyongyang. "La causa non è il botulismo". Secondo la versione del regime, Warmbier - condannato a 15 anni di lavori forzati - è finito in coma per un’infezione alimentare poco dopo la sentenza. Ma dalle analisi in Ohio non è emersa traccia di botulino. E il 22enne è rientrato a casa in stato vegetativo. Qualunque sia la causa del coma in cui versa Otto Warmbier non si tratta di botulismo. Le conclusioni cui sono arrivati medici dell’University Of Cincinnati Medical Center smentiscono la versione del regime nordcoreano sulle condizioni di salute dello studente statunitense, scarcerato mercoledì scorso dopo un anno e mezzo di detenzione e una condanna a 15 anni anni lavori forzati per "atti ostili". La stampa di Pyongyang si è affrettata a dire che il giovane, condannato con l’accusa di aver tentato di rubare uno striscione di propaganda, è stato liberato per ragioni umanitarie. Secondo la versione ufficiale, Warmbier, che al momento del fermo si trovava in Corea per una vacanza, avrebbe contratto il botulismo, normalmente causato da una tossina presente nei cibi, e sarebbe in un secondo momento caduto in stato di coma per l’assunzione di sonniferi. Dalle analisi in Ohio non sarebbe però emersa traccia di botulino. Presenta invece un danno cerebrale diffuso compatibile con un arresto cardio-respiratorio e con l’interruzione del flusso di sangue al cervello. Uno stato in cui il ventiduenne verte da circa un anno. Il tutto sarebbe infatti avvenuto ad aprile dello scorso anno, poche settimane dopo il processo di appena un’ora che gli costò i lavori forzati. Le sue attuali condizioni sono stabili, ma Warmbier resta comunque in uno stato di fatto vegetativo e senza capire gli stimoli che arrivano dall’esterno. Ciò che i medici escludono sono però violenze nei confronti dell’ostaggio. Il che conferma quanto già avvenuto in casi analoghi. Il New York Times ne ha ricordati alcuni, precisando che le torture fisiche non sono di solito riservate ai detenuti statunitensi. Almeno così emerge dai racconti degli ultimi anni. Dal 1996 sono stati almeno 16 gli americani incarcerati e fermati dal regime, di cui tre ancora in mano a Pyongyang. Nei loro resoconti descrivono interrogatori durati anche 15 ore, finalizzati alla confessione di ciò che il regime vuole. Ma ai detenuti Usa sembra essere concesso un trattamento speciale. Laura Ling, fermata nel 2009 assieme alla giornalista Euna Lee e condannata a 12 anni (furono rilasciate lo stesso anno con l’intercessione di Bill Clinton) ricorda di non essere stata mandata in un campo di lavoro. Rimase in una stanza, normale, per essere curata dall’ulcera. Anche Kenneth Bae, missionario di origine coreana, ha raccontato che gli era consentito leggere le email che riceveva dalla famiglia. È stato anche ricoverato tre volte, a causa di diabete e problemi alla schiena. Addirittura, spiega nelle sue memorie, gli è stato concesso di poter leggere la Bibbia. Questo comunque soltanto dopo gli interrogatori e il lavoro in un campo di soia. Per Stephan Haggard, esperto di Corea al Peterson Institute for International Economics, il rilascio di Warmbier riflette la volontà di dialogo non soltanto da parte nordcoreana, ma anche statunitense. "Gli ostaggi non vengono rilasciati per magia", scrive in un commento sul suo blog. Non a caso sottolinea gli incontri avvenuti tra Joseph Yun, inviato speciale del Dipartimento di Stato, con alcuni rappresentanti di Pyongyang. Il primo faccia a faccia c’è stato il mese scorso a Oslo, l’ultimo una settimana fa a New York. Allora gli Usa sono stati informati delle sue condizioni di salute e la Corea del Nord ha accettato di fare rimpatriare il giovane americano.