I nodi da sciogliere del 41 bis di Andrea Pugiotto* Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2017 Le esterrefatte reazioni seguite alla decisione della Cassazione penale sullo stato detentivo di Totò Riina hanno travalicato il suo perimetro giuridico, descrivendola come un placet alla scarcerazione del boss. Non è così. La Corte si è limitata a svolgere il suo mestiere di giudice del diritto, non del fatto. Ha annullato, per vizi di motivazione, il diniego al differimento della pena per ragioni di salute deciso dal competente Tribunale di sorveglianza. Quest’ultimo dovrà rivalutare il caso, nel rispetto dei principi della Costituzione e della Cedu, distillati - in modo ineccepibile - dai giudici di Cassazione. Necessiterà seguire gli sviluppi della vicenda, il cui esito non è scontato: nel 2013 e nel 2014 analoghi ricorsi di Riina alla Corte di Strasburgo furono respinti, sia pure in relazione alle sue condizioni detentive e di salute di allora. Qui e ora, invece, sono proprio gli automatismi scattati nell’opinione pubblica a meritare un supplemento di riflessione, per ciò che rivelano. Ben oltre il caso in questione. Innanzitutto, si è alzata l’invocazione a un uso simbolico del diritto penale nei confronti dei rei di grande spessore criminale. Il simbolico e il diritto abitano mondi diversi: emotivo e irrazionale perché agìto da pulsioni profonde il primo; ragionevole perché frutto di scelte misurate e predeterminate il secondo. Non a caso - diversamente dai regimi autoritari - lo Stato di diritto è molto cauto nel plasmare norme in chiave simbolica, escludendole categoricamente in materia di reati e sanzioni. Un diritto penale liberale, infatti, persegue reati, non fenomeni criminali. Accerta responsabilità individuali, non collettive. Punisce persone, non gruppi. Sanziona secondo proporzione, non in modo esemplare. Privato di questi connotati, si trasformerebbe in un diritto penale del nemico finalizzato al suo annientamento. Una logica bellica del tutto extra ordinem, perché il diritto serve a domare la violenza, non a scatenarla. È emersa, inoltre, l’idea che il divieto di pene contrarie al senso di umanità sia derogabile in base alla gravità delle colpe accertate. Eppure solo pochi giorni fa, pronunciandosi sul regime di carcere duro per i reati associativi più gravi (il 41-bis dell’ordinamento penitenziario), la Corte costituzionale è stata chiara: lo stato di reclusione "non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali" del detenuto (sentenza n. 122/2017). Vale per il diritto alla salute che, se incompatibile con il regime carcerario, può giustificare il differimento della pena. Vale per il rispetto essenziale della dignità umana che, "come non si acquista per meriti, neppure si perde per demeriti" (il copyright è di Gaetano Silvestri, già Presidente della Consulta). La condanna a un "fine pena mai" imposta da mostruose biografie personali rende irrealistica ogni prospettiva di reinserimento del reo. Ma non intacca quel divieto di trattamenti inumani e degradanti, che la Cedu considera generale e assoluto (art. 3), inderogabile anche in caso di "pericolo pubblico che minacci la vita della nazione" (art. 15). A molti, poi, è parsa incredibile e capziosa la richiesta della Cassazione di una verifica in concreto della pericolosità sociale di un boss mafioso. Qui raccogliamo quanto seminato da tempo: ad esempio, con la trasformazione del 41-bis da misura temporanea a regime penitenziario immanente, perché immanente è considerata la criminalità organizzata. Un’emergenza quotidiana - vero e proprio ossimoro giuridico - che regge tutte le presunzioni legali di pericolosità dei suoi affiliati, e il conseguente divieto di accesso agli ordinari benefici penitenziari (art. 4-bis). Così però è la funzione della magistratura di sorveglianza ad essere sfiduciata dal legislatore e dall’opinione pubblica plaudente: dei suoi accertamenti caso per caso si fa a meno, come pure di una verifica delle progressioni del detenuto nella sua vita carceraria, prodromo a possibili misure alternative al carcere. Nel gioco della torre, il consenso popolare non ha dubbi: salva i pubblici ministeri, a scapito dei giudici chiamati ad assicurare una esecuzione penale costituzionalmente orientata. Autorevolmente, si è anche prospettato un baratto: un regime carcerario meno duro e più umano, in cambio di una collaborazione con la giustizia. È la legge a prevederlo, per gli ergastolani senza scampo detenuti in 41-bis. Così disponendo, però, l’esecuzione della pena si svela strumento di pressione diretto all’ottenimento di informazioni, e l’apparato carcerario agisce come protesi aguzzina dell’azione investigativa. È in ragione di tale scopo (mascherato) che il regime del carcere duro è stato progressivamente inasprito, spesso con restrizioni vessatorie estranee all’esigenza (dichiarata) di impedire collegamenti tra i capi dentro e chi delinque fuori. Qui, davvero, la legge è sempre in bilico sul filo dell’incostituzionalità. Perché "ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per ottenere da essa informazioni o confessioni", secondo l’art. 1 della pertinente convenzione Onu del 1984, ha un nome proprio: tortura. Resta da dire del risentimento dei familiari di Abele contro Caino, cui andrebbe negata una morte dignitosa, avendola lui negata a tanti e troppe volte. Il loro timbro sdegnato è spesso scivolato nei toni intimidatori. Più che comprensibilmente. Tuttavia - anche se è impopolare dirlo - la loro voce non va confusa con quella della legge. Soddisfare le aspettative della vittima non è lo scopo prioritario del diritto penale: non saremmo, altrimenti, molto lontani dal linciaggio. Lo Stato di diritto, infatti, nasce proprio per sottrarre il reo alla vendetta privata, affidandolo alla giustizia di un’autorità imparziale. Anche quando si tratta del peggior pendaglio da forca. *Università Ferrara Al carcere duro ci si suicida di più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2017 Studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere: sono 3,5 volte maggiori rispetto al resto della popolazione detenuta. Nella sentenza Cedu del 17 settembre 2009 sul caso "Enea contro Italia", la Corte sottolinea che le condizioni di detenzione di una persona malata devono garantire la tutela della sua salute. Casi di suicidi, morti per malattia, disturbi psichici. In 41 bis, secondo uno studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, la frequenza di suicidi tra i detenuti è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa. Il caso di Totò Riina - come fu con la morte di Provenzano - ha acceso un forte dibattito sull’incompatibilità o meno con la carcerazione dura per chi soffre di disturbi psicofisici. In realtà la questione fu già sollevata dalla Corte europea di Strasburgo riguardo all’opportunità di confermare il carcere duro nel caso di detenuti anziani e in condizioni di salute critiche. Nella sentenza Cedu del 17 settembre 2009 sul caso "Enea contro Italia", la Corte sottolinea che "le condizioni di detenzione di una persona malata devono garantire la tutela della sua salute, tenuto conto delle ordinarie e ragionevoli contingenze della carcerazione. Se non è possibile dedurne un obbligo generale di rimettere in libertà o di trasferire in un ospedale civile un detenuto, anche se quest’ultimo soffre di una malattia particolarmente difficile da curare, l’articolo 3 della Convenzione impone comunque allo Stato di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà". Poi continua: "La Corte non può escludere che, in condizioni particolarmente gravi, ci si possa trovare in presenza di situazioni in cui una buona amministrazione della giustizia penale richieda l’adozione di misure di natura umanitaria". Dopodiché, la Corte ha chiesto di tener conto soprattutto di tre elementi per valutare la compatibilità del mantenimento in carcere di un ricorrente con uno stato di salute preoccupante, ovvero: la condizione del detenuto, la qualità delle cure dispensate e l’opportunità di mantenere la detenzione visto lo stato di salute del ricorrente. Inoltre, il tema era stato sollevato nel corso dell’indagine conoscitiva sul 41 bis della Commissione diritti umani dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini a proposito delle condizioni di salute di Bernardo Provenzano. Sulla base del "cronico e irreversibile decadimento intellettivo" e della incapacità di comunicare dell’uomo, ultraottantenne e malato, i difensori, Rosalba di Gregorio e Maria Brucale, avevano presentato reclamo contro la proroga del regime di carcere duro. Sappiamo però com’è andata: è morto, in regime di 41 bis, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale milanese di San Paolo. Tanti sono i casi di morte in carcere. C’è il caso di Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, che morì in regime di 41 bis nonostante soffrisse di diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci e con un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa ed una metastasi al fegato. Oppure il caso di Palmerino Gargiulo, ergastolano sottoposto al regime del 41 bis, che fu ritrovato impiccato nel carcere di massima sicurezza del Cerialdo di Cuneo. Utilizzò una corda rudimentale fatta di lenzuola e lacci. Attualmente ci sono diversi casi che Il Dubbio ha segnalato. La storia dei tre detenuti ultranovantenni che attualmente sono in regime del 41 bis al carcere di Parma, tra i quali uno che soffre di diverse patologie come l’Alzheimer e ci si chiede come mai possa ritenersi ancora pericoloso e lucido, tale da giustificare il regime duro. Altro caso emblematico riguarda la storia di Vincenzo Stranieri, ex boss della sacra corona unita, che presenta gravi patologie come il tumore alla faringe e viene alimentato con un sondino: infatti, attualmente recluso al carcere milanese di Opera, fa andirivieni tra il carcere e l’ospedale di San Paolo. Ovviamente sempre in regime di 41 bis. In realtà avrebbe già da tempo finito di scontare la sua pena, ma il ministero della Giustizia ha deciso di internarlo per altri due anni. Anna, la figlia di Stranieri, sta conducendo una battaglia giudiziaria per ottenere almeno la revoca del 41 bis, vista la sua vistosa incompatibilità con tale regime. Chiede di poterlo almeno abbracciare o dargli una carezza, ma non può farlo: c’è sempre il vetro divisore a separarli. Il gesto estremo di Diana Blefari e le sue condizioni psicofisiche compromesse Si tolse la vita il 31 ottobre del 2009 a Rebibbia. Gli effetti del 41 bis, possono creare problemi psichiatrici a distanza. C’è il caso di Diana Blefari, detenuta alla quale era stato applicato il 41 bis per diversi anni, ma le sue condizioni psicofisiche erano ormai definitivamente compromesse. In una lettera scritta dal 13 al 23 maggio del 2009, in cui si susseguono frasi deliranti di ogni tipo, la Blefari diceva: "Se vogliono che mi cucino la bocca, me la cucio. Se vogliono che parlo, dico tutto quello che mi dicono di dire, ma io non posso più stare così. Io non so proprio cosa fare, io chiedo perdono a tutti, ma basta per pietà. Basta, basta, basta!!! Io voglio uscire. Devo uscire. Giuro che esco e mi ammazzo e vi libero della mia presenza, ma io di questa tortura non ne posso più". Gli inquirenti - spinti probabilmente da quel retro-pensiero che si insinua pericolosamente in ogni dove hanno interpretato queste parole come un messaggio verso l’esterno, rivolto a presunti referenti che avrebbero dovuto dare indicazioni sul suo modo di comportarsi. In realtà la Blefari nel suo fare ondivago e schizofrenico - attestato dalle perizie mediche - meditava altro. Infatti si suicidò il 31 ottobre del 2009 nel carcere di Rebibbia. Carceri, in Italia le donne sono il 4%. "E hanno meno di tutto" di Laura Pasotti Redattore Sociale, 16 giugno 2017 Meno spazi, meno attività, meno lavoro. Daniela de Robert (Ufficio Garante nazionale detenuti) riassume così la situazione delle detenute. "Sistema pensato al maschile, l’unica norma che le riguarda è quella sulla maternità, ma le donne non sono solo madri". Molte criticità su sezioni nido e Icam. "Le donne sono il 4% della popolazione carceraria. Una minoranza che si traduce in uno svantaggio perché se nei 4 istituti femminili c’è più attenzione, nelle 56 sezioni femminili all’interno degli istituti penitenziari l’attenzione è residuale: le donne hanno meno di tutto, meno spazi, meno attività, meno lavoro". Daniela de Robert dell’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale riassume così la situazione delle detenute nelle carceri italiane a margine del convegno "Carcere e questione femminile: normativa, criticità e proposte. Un progetto per Bologna" che si è tenuto oggi a Bologna a Palazzo Malvezzi. "C’è una questione di genere - continua de Robert - Sono stata in un carcere in cui le donne erano più degli uomini ma avevano stanze da 2 e gli uomini singole, non avevano la palestre e gli uomini sì, non avevano la stanza di socialità al piano che nella sezione maschile era presente. Inoltre, c’era lo stereotipo dell’attività trattamentale: le donne lavoravano in cucina e si occupavano di cucito, gli uomini facevano informatica e tipografia. Questa situazione va superata". Insomma, il sistema penitenziario è pensato al maschile e mal si adatta alle (poche) donne presenti (2.394 su 56.863 al 31 maggio, dati ministero della Giustizia). "L’unico articolo dell’ordinamento penitenziario che riguarda le donne è quello sulle madri in carcere come se la maternità esaurisse la questione femminile. Non sto dicendo che non c’è un problema che riguarda le madri, l’ho vista la sofferenza dei figli lontani, ma le donne non sono solo madri". Attualmente sono 45 le madri detenute nelle carceri italiane con i loro 53 bambini, solo 21 sono in un Icam (gli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri con i loro figli), le altre sono sparse nelle sezioni comuni o nelle sezioni nido, dove ci sono (dati Ministero della giustizia al 31 maggio). A Rebibbia, ad esempio, sono 16 le madri con 18 bambini. A Bologna sono 4. Lo scorso settembre è stata rinnovata la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti (sottoscritta da ministro della Giustizia, Garante per l’infanzia e l’adolescenza e associazione Bambinisenzasbarre) in cui l’attenzione viene spostata dalla madre detenuta al bambino innocente. "Nelle nostre visite negli istituti penitenziari verifichiamo sempre se questa attenzione è applicata nella quotidianità - spiega de Robert. Ci sono alcune eccellenze con spazi gioco, volontari e ludoteche ma ci sono realtà inaccettabili con stanze dei colloqui grigi e qualche macchinina rotta giusto per far vedere che ci sono dei giochi. Quello che serve è un cambiamento culturale che porti a un cambiamento nelle strutture perché per molti bambini il carcere è la prima istituzione che conoscono nella loro vita, prima ancora della scuola, ed è un’esperienza che può segnare la loro vita". Anche le sezioni nido presentano delle criticità, "spesso non sono nemmeno sezioni nido, ma camere di pernottamento comuni", così come i 4 Icam (gli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri con i loro figli). "Milano e Venezia sono centrali, è vero, ma quello di Torino è dentro al carcere, a Cagliari si è scelto un paesino sperduto e in Campania aprirà a breve a Lauro, perché devono essere in luoghi isolati?", si chiede de Robert. Oltre ai bambini presenti in carcere insieme alla madre, "numeri che stanno tornando a crescere", ci sono quelli che entrano regolarmente in carcere per far visita al genitore detenuto, circa 100 mila. "Serve personale formato e luoghi accoglienti in cui tenere gli incontri - conclude de Robert - e poi bisogna aiutare i genitori in carcere a crescere come genitori, perché quando sono dentro il rapporto è fatto di una visita ogni tanto e dei soldi che inviano ai figli, ma quando escono deve esserci una relazione, un rapporto altrimenti i figli non li riconoscono come tali". "Carcere, porte aperte": l’iniziativa per capire il valore rieducativo della pena di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 16 giugno 2017 Il progetto promosso dall’Osservatorio dell’Unione Camere Penali porta gli uomini e le donne liberi a visitare i luoghi di detenzione. Due esperimenti realizzati a Napoli e Verona. Aprire le porte del carcere al territorio, rendere partecipe la comunità della vita che si svolge dentro le mura, è lo scopo dell’iniziativa "Carceri, porte aperte", che l’Osservatorio dell’Unione Camere Penali ha proposto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e che, in via sperimentale, si è tenuta negli istituti di Napoli-Poggioreale e di Verona-Montorio. Se i principi costituzionali del 1948 e le norme dell’ordinamento penitenziario del 1975, stentano a trovare applicazione nell’esecuzione penale, ciò è dovuto, in gran parte, alla specifica volontà politica di non "educare" i cittadini al senso della pena e alla conseguente indifferenza dell’opinione pubblica rispetto alle problematiche della detenzione. Abbiamo così voluto invitare donne e uomini ad entrare, da "liberi", in carcere per comprenderne l’importante funzio- ne che dovrebbe avere e che, purtroppo, spesso non ha. Martedì scorso, dunque, l’istituto di Poggioreale ha ospitato, per alcune ore, 40 persone che avevano risposto al comunicato stampa dell’Osservatorio. Le richieste erano state maggiori, ma correttamente il Dipartimento aveva fissato un limite per consentire una visita gestibile e formativa. I partecipanti sono stati accolti dal direttore dell’istituto, dal comandante della polizia penitenziaria, dal presidente del tribunale di Sorveglianza, dal Garante regionale dei diritti dei detenuti e da una rappresentanza di avvocati dell’Unione Camere Penali. Ciò ha consentito di "prepararli" alla visita e di far conoscere loro, a mezzo diapositive, la parte detentiva dell’istituto, alla quale non avrebbero avuto accesso. Sono state proiettate, infatti, immagini dell’interno di alcuni padiglioni ove sono collocate le c. d. celle, che dovrebbero essere "stanze di pernottamento", ma che, per la maggior parte dei detenuti di Poggioreale, rappresentano il luogo dove passare gran parte della giornata. Foto di mura rose dall’umidità, di bagni indecenti, ma anche di ambienti ristrutturati con servizi a norma. La sensazione generale di coloro che hanno assistito alla proiezione è che la detenzione in un padiglione piuttosto che in un altro, fa la differenza tra chi è privato della sola libertà e chi, invece, vede offesa anche la dignità. Non vi è dubbio che, in questi ultimi anni, l’istituto, da un punto di vista logistico, ha fatto enormi progressi con il rifacimento di reparti e ambienti. Gli ospiti hanno manifestato il loro stupore rispetto al numero dei detenuti presenti (poco più di 2.100) e quello degli educatori (18), che lascia comprendere l’impossibilità di gestire un serio percorso di reinserimento sociale. Anche il dato sul sovraffollamento - la capienza tollerabile è di circa 1.500 unità - ha destato curiosità, ma l’istituto ha conosciuto tempi molto più bui con presenze fino a oltre 3.000 detenuti. La visita è iniziata dall’ufficio matricola, dove vengono portati i "nuovi giunti". Qui il comandante ha spiegato l’attività svolta, rispondendo alle domande dei visitatori. Si è passati poi ai locali dove vengono effettuati gli interrogatori e a quelli per i colloqui con gli avvocati. Gli ospiti si sono, successivamente, intrattenuti con i maestri della scuola che hanno descritto le problematiche del loro lavoro. Vi è stato l’incontro con il cappellano nella chiesa e subito dopo sono stati visitati i laboratori di ceramica, di arte presepiale, la tipografia e la falegnameria. Luoghi dov, e purtroppo, hanno accesso solo pochi detenuti. Grande interesse ha suscitato il prototipo di un letto a scomparsa, che si alza a parete, commissionato dal Dipartimento, per essere poi distribuito anche in altri istituti per superare il problema dell’insufficienza dei metri quadri utili nelle stanze di pernottamento. Ultima tappa la sala colloqui con i familiari e l’area attrezzata per l’incontro con i bambini. Luogo da alcuni anni completamente ristrutturato e ampliato, circostanza che ha fatto cessare la vergogna delle lunghe file dei parenti in strada dalle 4 del mattino. Ai visitatori è stato consegnato un questionario per esprimere un giudizio sull’esperienza, da restituire all’Unione Camere Penali. Sin da ora possiamo affermare che l’esperimento di Napoli è pienamente riuscito e che l’amministrazione penitenziaria dovrà valutare di "aprire" le porte di tutti gli istituti, almeno una volta al mese, perché finalmente il carcere possa dialogare con il territorio e viceversa. Le Camere Penali, come sempre, faranno la loro parte. *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane La sfida perduta di un diritto penale minimo di Giovanni Verde Il Mattino, 16 giugno 2017 Sono stato coinvolto con il Suo giornale, caro Direttore, in una battaglia di civiltà, che Ella ama definire "liberale" e che io preferisco senza aggettivi. Il Parlamento, a botta di voti di fiducia, ha approvato la riforma del processo penale (una delle tante di una vicenda senza fine). Abbiamo perso e ci resta l’amaro in bocca della sconfitta. Credo, tuttavia, che non ci fossimo fatte illusioni. Sapevamo che avremmo perso. Non so che cosa ne pensi, ma io, da ragazzo, sono stato sempre dalla parte di Ettore e ho sempre avuto sulle scatole Achille. Mi affascinava (e tuttora mi affascina) l’idea romantica dell’eroe che combatte la sua battaglia, sapendo di non avere possibilità di successo, ma di doverla combattere in difesa di quanto gli è più caro. In definitiva, in difesa della propria dignità. La riforma oramai è legge. Lasciamola da parte (e aspettiamola alla prova dei fatti) per alcune considerazioni di carattere generale. Il Parlamento - si dice - ha approvato. Ne siamo certi? Quando pochi mesi fa ci siamo trovati - io e il Suo giornale- schierati su fronti opposti in ordine al referendum per la riforma della Costituzione, la mia posizione contraria era dettata dalla esigenza di difendere la centralità del Parlamento, che vedevo messa in pericolo (e i comportamenti di Renzi avevano accresciuto i miei timori). Mi illudevo. Questa riforma è l’esempio tangibile che oramai il Parlamento non conta nulla. Non solo la riforma è imposta dal Governo, che ha - diciamola brutalmente - ricattato il Parlamento, chiedendo la fiducia, ma si tratta di una riforma, per così dire, abbozzata, che molto rimette all’esecutivo e ai decreti che dovrà emanare (con correlati problemi di costituzionalità). E in questo campo esecutivo vuol dire soprattutto magistratura, che da tempo oramai ha il monopolio nell’imporre e scrivere leggi in materia di giustizia (quando si farà un’effettiva riforma del Ministero della giustizia, oggi presidiato da magistrati che circondano e condizionano il Ministro, imponendo la loro prospettiva che è quella della corporazione e non quella del cittadino?). Il processo. Da tempo immemorabile ci abbarbichiamo all’idea che i problemi della giustizia si risolvano riformando il processo o i processi. E facciamo altrettanti buchi nell’acqua, se non di peggio. Il fatto è che non sappiamo bene che cosa vogliamo con la giustizia. Da un lato, perseguiamo la chimera di una giustizia sovrumana che dà esattamente a ciascuno il suo ("suum cuique tribuere", come ci ricorda l’icastica frase dei nostri antenati) e che, di conseguenza, punisce tutti, ma proprio tutti coloro che infrangono una legge (come vuole, chimericamente, la nostra Costituzione, imponendo l’obbligatorietà dell’azione penale). Dall’altro lato, ci accontentiamo di una giustizia sempre più approssimativa, tale che i processi, che si accumulano a montagne negli uffici giudiziari, sono pratiche da evadere e, nel caso del processo penale, da chiudere con un timbro di avvenuta prescrizione. Come contribuenti paghiamo il costo di un ufficio monumentale quale è la Corte di cassazione, le cui spese complessive sono ben superiori a quelle che paghiamo per gli stipendi dei magistrati, e ogni giorno di più ci chiediamo se abbia senso sostenerle. Infatti, oramai la Corte di cassazione, sposando l’idea di "grandeur" che, per la verità, è propria anche di altre Corti cosiddette supreme, si appropria di funzioni legislative e sempre più di frequente si esibisce in chilometriche pronunce nelle quali detta le regole, spesso anticipando con i propri "desiderata" scelte che il legislatore non ha saputo o voluto fare. E per curare questo aspetto, poco o nient’affatto si preoccupa delle esigenze di giustizia (di qui una ricerca minuziosa di pretesti per dichiarare inammissibili o improcedibili i ricorsi senza esaminarli nel merito). Come contribuenti, prima ancora che come cittadini, avremmo diritto ad un processo gestito da un giudice esperto e qualificato. Oggi, perfino in Corte di appello si fa ricorso a giudici avventizi, contro i quali nulla c’è da osservare se non che il sistema è organizzato in maniera che l’affidabilità del magistrato è collegata ad una valutazione preventiva di idoneità e ad un attendibile tirocinio; ciò che nel magistrato avventizio manca. Mi fermo qui, anche se il "cahier de doléances" si potrebbe allungare all’infinito. Confessiamolo. Il nostro senso civico è modesto, non siamo rispettosi delle regole e abbiamo qualche propensione all’illegalità. E tuttavia abbiamo un legislatore che ci asfissia e ci avviluppa con un reticolato di regole quale non esiste in altri Paesi e abbiamo controllori arcigni che pretendono da noi comportamenti virtuosi, che spesso hanno come metro di valutazione più che le leggi i principi dell’etica. Strabismo. Schizofrenia. Se non curiamo queste malattie non saremo in grado di fare alcun intervento in tema di giustizia che non sia peggiorativo. Le risorse sono poche e la spesa per la giustizia non è tra quelle produttive (e non a caso gli economisti l’hanno sullo stomaco). In coerenza, bisognerebbe ridurre l’area del penalmente rilevante, limitandola a ciò che davvero confligge con i valori fondanti della nostra civiltà. E invece siamo capaci di inventarci reati come il traffico di influenze o altre figure consimili. Dovremmo comprendere che non tutte le pretese debbono essere veicolate su percorsi di giustizia uniformi e con sbocco finale in Cassazione. Ed invece non sappiamo rinunciare all’idea che tutto debba essere tutelabile e allo stesso modo dinanzi al giudice. In questo modo riversiamo la giustizia nel processo. L’esito del processo, ossia il verdetto, dopo dieci o venti o più anni ci lascia indifferenti. L’imputato, nel processo penale, avrebbe già scontato la sua pena, anche se per avventura dovesse essere assolto. E nel processo civile, la parte vittoriosa si è oramai rassegnata, quando non ha accettato una soluzione transattiva (anche se iniqua). L’eterogenesi dei fini comporta che giustizia è fatta perché si è celebrato il processo. Possiamo addebitare al Ministro l’incapacità di vedere la radice del problema? Assolvo il Ministro. Il problema è dentro di noi. Purtroppo. La riforma del processo penale, una rivoluzione mancata di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 giugno 2017 È buona sulla carta ma inattuabile in un paese come il nostro. Parla Nordio. II governo ha ottenuto mercoledì la fiducia sul disegno di legge di riforma del processo penale, che è così diventato legge dopo quasi tre anni di discussione parlamentare, I commenti sulle novità contenute nel provvedimento rispecchiano il clima da stadio che ha accompagnato il dibattito pubblico e politico sulla riforma: c’è chi parla di giustizia più rapida ed efficiente, e chi invece continua a lanciare allarmi su misteriosi "bavagli" alle intercettazioni e su modifiche morbide alla prescrizione in grado di favorire solo l’impunità dei "soliti noti". In pochi, come abitudine, scendono al merito. Dov’è, dunque, la verità? La verità è che la riforma penale voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando sarebbe stata rivoluzionaria in un paese normale, che il nostro sfortunatamente non è. Perché prevede una norma che, in teoria, possiede un grande potenziale rivoluzionario: quella che impone al pubblico ministero di stabilire entro tre mesi (sei nei casi più complessi) dalla fine delle indagini preliminari il destino dell’indagato, chiedendo cioè l’archiviazione o l’avvio dell’azione penale. Una semplice norma di buon senso, ma che in Italia apparirebbe rivoluzionaria per due ragioni. Primo, perché andrebbe a porre rimedio a una violazione di legge tacita che oggi impera nelle procure italiane, cioè di giungere al termine delle indagini preliminari (fino a due anni) per poi abbandonare l’inchiesta senza decidere se archiviarla o chiedere il rinvio a giudizio (come previsto dal codice), lasciando sulla graticola gli indagati in attesa che scatti la prescrizione. La seconda ragione per cui questa disposizione sarebbe rivoluzionaria è che in Italia, come noto (a pochi), circa il 70 per cento dei reati cade in prescrizione nella fase delle indagini. Imponendo ai pm di stabilire cosa intendono fare con le indagini da loro svolte entro tre o sei mesi, salvo avocazione da parte del procuratore generale, come previsto dalla legge approvata, si risolverebbe il problema del gran numero di processi che finisce in prescrizione. Ma qui casca l’asino di un paese non normale. Perché in un paese normale le procure generali chiamate a porre rimedio ai ritardi, e in alcuni casi alle negligenze, delle procure sarebbero investite di risorse sufficienti a svolgere questo compito. Invece nella grande riforma penale varata dal governo Gentiloni non vi è menzione di uno stanziamento di risorse, né di una loro razionalizzazione. Il rischio, così, è che i procuratori generali siano inondati di procedimenti senza essere in grado di smaltirli, trasferendo così la violazione tacita della legge dalla fine delle indagini alla fase dell’avocazione. "Questo è il peggior vizio italiano, di mandare in Russia i soldati con le scarpe di cartone", dichiara al Foglio Carlo Nordio, storico procuratore aggiunto di Venezia, andato in pensione lo scorso febbraio. "Sarebbe bello e giusto che tutte le donne italiane potessero fare la mammografia entro 24 ore da quando decidono di farlo - aggiunge - ma ciò non è possibile perché le risorse non ci sono e un decreto che dicesse che le donne devono sottoporsi all’esame entro tre giorni resterebbe sulla carta, perché non ci sono le strutture e le risorse. Con la giustizia è Lo stesso: ci sono incombenze burocratiche, carenze di personale e pochi soldi. Le procure generali, inoltre, sono in una situazione di sofferenza persino maggiore rispetto alle procure e potrebbero essere intasate da inchieste che non riuscirebbero ad esaminare. Anche loro, insomma, dovranno tirare a sorte per decidere quali procedimenti portare avanti e quali no". Siamo di fronte, in altre parole, a una norma bella e rivoluzionaria solo nella teoria, ma inefficace nella pratica. E la valutazione complessiva sulla riforma penale, ora legge, diventa ancor più problematica se si considera la pigrizia intellettuale con cui la classe politica ha deciso di accogliere le spinte forcaiole dell’opinione pubblica, aumentando i termini di prescrizione, in particolare per i reati di corruzione, con il risultato che le persone potrebbero essere travolte da processi infiniti con tutto ciò che questo comporta in termini di distruzione della vita professionale, familiare e personale. Per reati di corruzione e induzione indebita, una volta iniziato il processo il tempo di prescrizione potrà aumentare della metà, con l’aggiunta di 18 mesi dopo la condanna di primo grado e altri 18 mesi in appello, Risultato: quasi 20 anni di processo per i casi di corruzione. Ma se uno Stato, come sottolinea Nordio, non è in grado di concludere le indagini su reati economici entro setto o otto anni, come previsto attualmente, è uno Stato incivile e intervenire aumentando i tempi della prescrizione significa guardare il dito e non la luna. Insomma, un grande occasione mancata, anche perché l’obbligo di decidere le sorti delle indagini in tempi certi (con le necessarie risorse) sarebbe anche in grado di ridurre il rischio di alimentare processi mediatici, che solitamente esplodono in tutta la loro inciviltà proprio durante le indagini preliminari. Ora, però, allungando la fase dibattimentale il processo mediatico tenderà a spostarsi in quest’ultima fase (sempre che l’indagine ci arrivi), con effetti ancora più distruttivi sulla reputazione delle persone e anche sul corretto andamento della giustizia. Nulla, poi, viene previsto per riformare la custodia cautelare, il cui uso (abuso) sta producendo risultati allarmanti: il numero di arrestati ancora in attesa di sentenza definitiva è passato dai 18,800 di dicembre ai 19.500 di fine maggio, di cui 9,700 ancora in attesa di primo giudizio, cioè il 17 per cento del totale dei detenuti (erano 9,300 a dicembre). Ultimo capitolo; lo sputtanamento mediatico, ossia la pubblicazione di intercettazioni e di atti penalmente irrilevanti sui giornali. Su questo campo, il ddl prevede una delega al governo per punire (fino a 4 anni) la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati diffuse solo per recare danno alla reputazione e all’immagine di qualcuno, e soprattutto una delega per evitare la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti o riguardanti persone estranee. Ancora tutto da definire, dunque, ma il fatto che la decisione sulla rilevanza o meno delle conversazioni continui a essere affidata a pm e gip, in contradditorio con le parti, lascia campo libero a qualsiasi genere di fuga di brogliacci e atti coperti da segreto. Andrà inoltre stabilita una responsabilità del pubblico ministero, che dovrà assicurare la riservatezza degli atti contenenti registrazioni non penalmente rilevanti. Anche qui il rischio, piuttosto prevedibile, è che senza la previsione di effettivi meccanismi di valutazione dell’operato dei magistrati (affidata ai magistrati stessi) queste responsabilità rischino di restare lettera morta. "La soluzione - spiega Nordio - sarebbe ricondurre le intercettazioni nel loro vero ambito, cioè quello non di prova ma di mezzo di ricerca della prova, e disciplinarle come sono attualmente le intercettazioni preventive usate per terrorismo, mafia e altri reati gravi: non hanno valore processuale ma sono solo input per capire dove proseguire le indagini e rimangono chiuse nella cassaforte del pm, senza che nessuno possa vederle. Le intercettazioni da sole non servono a nulla, infatti io in quarant’anni di carriera non ho mai visto un processo basato solo sulle intercettazioni". In attesa di vedere i contenuti del decreto legislativo che il governo dovrà emanare entro tre mesi, possiamo già dire che la Repubblica della gogna e dello sputtanamento collettivo può tranquillamente proseguire il suo cammino. Intercettazioni, il Governo accelera di Giovanni Negri e Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2017 Dopo sei anni, l’Italia sarà esonerata dal regime di "sorveglianza speciale" dell’Ocse sul tema della prescrizione dei reati di corruzione. È il primo effetto tangibile dell’approvazione della legge sul processo penale, sancito ieri dal Working Group on Bribery, la task force sulla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni economiche internazionali. Merito soprattutto della norma che allunga il termine di prescrizione per i reati di corruzione: sarà pari alla pena massima aumentata della metà, anziché di un quarto come accade per i reati meno gravi. Non è un caso che il provvedimento sia stato varato definitivamente alla Camera, con la fiducia, alla vigilia dell’appuntamento fissato ieri dagli esperti di diritto dell’organizzazione di Parigi. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sostenuto dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, voleva lanciare un segnale concreto e confidava nel disco verde dell’Ocse. Un disco verde salutato con soddisfazione dal Guardasigilli, che più di tutti si è speso per il via libera alla legge, mentre il segretario del Pd Matteo Renzi frenava. Di fatto, fanno sapere dal ministero, la decisione del Wgb mette al riparo l’Italia da ulteriori attività di monitoraggio fino al 2020. Resta soltanto l’obbligo di riferire semestralmente. Una scelta letta come un riconoscimento agli sforzi intrapresi dal nostro Paese, più di altri, per dotarsi degli strumenti necessari a combattere la corruzione. E al ministero si stringono i tempi anche sull’attuazione delle deleghe che la legge, in attesa di pubblicazione sulla "Gazzetta Ufficiale", affida al Governo. Sono tante (intercettazioni, ordinamento penitenziario, impugnazioni, casellario, misure di sicurezza, procedibilità) ma indubbiamente quella più sensibile in questo momento è quella sulle intercettazioni. L’intenzione di Orlando è di fare il più presto possibile. Di certo potrà contare almeno su 4 mesi di tempo (1 per l’entrata in vigore della legge, ammesso che vada subito in "Gazzetta", e 3 per l’esercizio). Al Senato il termine iniziale era di 12 mesi ma venne abbassato a riprova della volontà di fare comunque presto. Già nei prossimi giorni dovrebbero essere resi noti i nomi dei componenti della commissione che dovrà scrivere l’atteso decreto delegato. E nella commissione un posto di primo piano sarà riservato ai procuratori. Un po’ come mossa politica per mettere a tacere le accuse di volere mettere un freno alle inchieste limitando uno degli strumenti di indagine più efficaci (nella delega uno dei criteri ha sollevato un allarme particolare, quello che prevede "prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni", anche se Orlando ha più volte voluto essere rassicurante), un po’ perché è da alcune Procure che sono arrivate, nel corso di questi ultimi mesi, circolari che in varia misura hanno di fatto provveduto a un’autoregolamentazione. Con diverse soluzioni, appunto, ma con un unico obiettivo, quello di impedire la divulgazione dei contenuti di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con il procedimento penale. Orlando: "Intercettazioni, ora basta abusi, la legge è una buona mediazione" di Alessandro Barbano Il Mattino, 16 giugno 2017 "Fiducia necessaria, dispiace il dissenso di alcuni ministri". Ministro Andrea Orlando, nel mio editoriale di ieri ho definito la riforma del processo penale, approvata ieri in via definitiva con voto di fiducia alla Camera, il simbolo di un finto riformismo in cui rischia di declinare la fine della legislatura. A tre anni dal suo insediamento a via Arenula e dalla nascita di un governo che aveva messo la riforma della giustizia tra i suoi punti programmatici - lo stesso Napolitano subordinò il suo bis al Quirinale a questo impegno - si partorisce un topolino, fatto di norme penali e norme... "Intanto noi abbiamo una prescrizione che, a differenza degli altri, non si blocca con l’esercizio dell’azione penale. In molti Paesi ce una doppia prescrizione, una dell’azione e una del reato. Altrove, una volta che sei rinviato a giudizio, tutta la prescrizione che è decorsa prima non vale più. E lo Stato ti deve processare entro un tempo certo. Personalmente non sono un fan dell’aumento delle pene. È stata una spinta venuta dal Parlamento. Se lei guarda il testo che avevo preparato all’inizio dell’iter legislativo, l’aumento non c’era. Ma va anche detto che i principali processi che riguardano la pubblica amministrazione hanno praticamente una precedenza rispetto agli altri. Ed è molto difficile che un processo per corruzione si protragga per tempi molto lunghi in questa fase storica. Sono rarissimi i casi di corruzione che si siano prescritti e sono convinto che questi giudizi, anche per una spinta dell’opinione pubblica, si faranno sempre con maggiore speditezza". Ma se i processi per corruzione non corrono questo rischio, perché aumentare la prescrizione per questo reato’ La maggior parte delle prescrizioni sono concentrate su 4-5 tribunali, tra cui quello di Napoli, che assorbe oltre il 20 per cento dei casi. Non sarebbe stato meglio intervenire su processi di efficientamento dell’organizzazione giudiziaria, invece di comprimere le libertà degli imputati, facendo pagare loro i ritardi del sistema? "Abbiamo fatto entrambe le cose. Abbiamo investito circa un miliardo di euro nell’informatizzazione del processo civile e quest’anno inizierà anche quella del penale. Abbiamo fatto il primo concorso per cancellieri da 25 anni a questa parte. Abbiamo spostato 1500 persone da altri rami della pubblica amministrazione al comparto giustizia. Sono stato io a fare una conferenza stampa, in cui ho spiegato che con le stesse leggi, e spesso con le stesse realtà criminologiche, ci sono uffici giudiziari che funzionano e altri che non funzionano. Dopodiché c’è un punto al quale non posso arrivare. È la scelta dei capi degli uffici. Sono questi che fanno la differenza. E qui il ragionamento passa al Csm. Però, per come abbiamo congegnato noi la prescrizione, la norma si giustificherebbe anche se riguardasse un caso soltanto. Non abbiamo previsto un’interruzione indiscriminata. Siamo invece partiti da una constatazione: una parte dei processi si prescrivono durante le indagini preliminari. Lì non ci si può fare niente. È l’altra faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale. Poi si arriva alla sentenza di primo grado. Qui lo Stato ha esercitato la sua pretesa punitiva: se si è arrivati ad accertare che il signor X è colpevole, si può accettare che questi non sia punito solo perché il processo muorè Noi abbiamo risposto di no. Diamo altri 18 mesi per verificare se dall’appello lo Stato riesce a provare in via definitiva la colpevolezza. Sono più importanti i primi 18 mesi di quelli che intercorrono tra l’appello e il terzo grado. Perché in Cassazione non si prescrive quasi nessun processo. Ma tenga conto che inizialmente il testo prevedeva una sospensione di due anni dopo il primo grado". Se è per questo, nelle intenzioni di magistrati-parlamentari come Casson c’era una sospensione sine-die. Infatti non pensiamo che sia stato facile per lei, ma il risultato non è quello che un Paese civile e un giornale liberale possono condividere. Però lei ha fatto accenno a due questioni assunte con rassegnazione, come ineluttabili. La prima è l’obbligatorietà dell’azione penale: ne ha parlato come se fosse un male immodificabile del nostro sistema. Ma è davvero inimmaginabile che una politica superi l’ipocrisia di questo totem e lo affronti, riformandolo? La seconda questione è il ruolo del Csm. Il Csm è quello che è anche perché lei ha rinunciato, per eccesso di prudenza, a fare una riforma che la politica avrebbe avuto il diritto e il dovere di fare, e perché ha messo nelle mani dei magistrati l’onere di farla. E quindi di non farla. Non le pare? "In tre anni si possono fare alcune cose, non tutte. L’obbligatorietà dell’azione penale sono convinto che vada meglio registrata, nel senso che non si concilia con un diritto penale così esteso. Ma sono altrettanto convinto che sia un presidio essenziale per difendere il principio di eguaglianza. Guardi, io vedo tutti i limiti di questo sistema, un po’ come Churchill vedeva la democrazia: è la più imperfetta, se non fosse che tutti gli altri regimi o sistemi sono peggiori. In questa fase storica una discrezionalità del pm rischierebbe di essere condizionata dalla ricerca di forme di consenso. Non dimentichi che c’è una domanda forcaiola di una parte non marginale dell’opinione pubblica. Allo stesso modo, io non sono mai stato un fan della carriera unica dei magistrati, ma mi sono convinto in questi anni che costituisce una garanzia. Perché nei Paesi in cui c’è un pm più a contatto con l’opinione pubblica, assistiamo a forme di spettacolarizzazione del contrasto al crimine". Dipende dai poteri che si consegnano al pm. Se gli si consente, come fa la sua riforma, di intercettare da remoto, cioè a telefono spento, senza autorizzazione del gip, la preoccupazione è fondata, eccome. Se invece il pm non avesse "superpoteri" contrari alla Costituzione e fosse una parte effettiva come in tutti i sistemi accusatori del mondo, dotati di un giudice davvero terzo, allora la sua preoccupazione sarebbe fugata, non le pare? "Si vada a fare un giro nelle carceri degli Stati Uniti e si convincerà del contrario. L’80 per cento dei detenuti appartiene a minoranze etniche. Il problema della ricerca del consenso legata all’esercizio dell’azione penale spinge in una direzione pericolosa, soprattutto in una stagione in cui c’è un utilizzo politico della paura. Lei lo vede che accade quando un gip libera un detenuto che poi delinque. I titoli dei giornali recitano: il killer era stato liberato". Nuova mossa per rafforzare il rito abbreviato di Francesco Zacché* Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2017 Non conosce pace la disciplina del codice di rito dedicata alle alternative alla celebrazione del dibattimento, né potrebbe essere altrimenti. Sullo sfondo aleggia sempre il medesimo problema, irrisolto e, forse, irrisolvibile. Ricostruire il fatto di reato nel contraddittorio fra le parti è sicuramente una garanzia del "giusto processo", oltreché dell’imputato, ma lo svolgimento del dibattimento ha comunque per il sistema un costo insopportabile in termini di tempi e risorse: ad esso, quindi, bisognerebbe ricorrere con parsimonia, come si fa con una merce rara, incentivando l’imputato il più possibile a rinunciarvi, in cambio dei più svariati benefici di natura premiale. Ed è proprio su questa linea che insiste, per l’ennesima volta, il legislatore. Dopo le recenti riforme in tema di sospensione del processo con messa alla prova e di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, che buona prova stanno dando di sé, la legge appena approvata prevede sia l’introduzione d’una nuova ipotesi d’estinzione del reato per condotte riparatorie sia la rivisitazione d’alcuni aspetti della normativa in materia di giudizio abbreviato, patteggiamento e decreto penale di condanna. Se, per quest’ultimo, il legislatore prova a disincentivare la sua opposizione mediante la correzione del criterio di ragguaglio della pena detentiva in pena pecuniaria, le novità relative al patteggiamento sono due: la prima attiene alla sua ricorribilità per Cassazione, circoscritta - in ossequio al motto pacta sunt servanda - all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione del fatto e all’illegalità della pena; la seconda concerne le procedure di correzione degli errori materiali quando sia necessario rettificare specie e quantità della pena. Maggiori e più articolate le interpolazioni sul giudizio abbreviato. Nell’ottica della premialità, si è imposto all’organo giudicante di ridurre la pena della metà, allorché il processo termini con una condanna per una contravvenzione. Sul fronte della deflazione, si è autorizzato l’imputato a presentare, in via subordinata alla domanda d’abbreviato condizionato, la richiesta d’ammissione all’abbreviato semplice o al patteggiamento. Quanto al resto, si è colta l’occasione per tentare di risolvere alcune delle questioni più spinose che, in questi anni, sono emerse nella prassi: dagli effetti sananti della richiesta d’abbreviato in tema di nullità, all’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti probatori in seno al rito; dai termini ultimi per far valere l’incompetenza per territorio, ai poteri del pubblico ministero in caso d’accesso all’abbreviato con deposito "a sorpresa" dei risultati dell’inchiesta difensiva. Si tratta di punti nevralgici negli assetti d’un rito sul quale grava, più di tutti, il compito di rendere il dibattimento un’evenienza statisticamente residuale. E, per certi versi, una maggiore attenzione alle garanzie da riconoscere all’accusato sarebbe stata auspicabile. Paradossalmente, il rischio è che l’imputato, per far valere i propri diritti, preferisca sempre e comunque difendersi nel dibattimento. Ma, se si pensa anche alle scelte sottese al patteggiamento, è indubbio come la riforma in oggetto abbia cercato di controbilanciare i vantaggi che derivano dai due principali riti premiali con la tendenziale "intangibilità" della decisione presa al loro esito. *Professore di Diritto processuale penale - Università Milano Bicocca Con la riparazione si cancella anche il reato di Bruno Giordano Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2017 Esordisce l’estinzione del reato per condotte riparatorie. Per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, il nuovo articolo 162 ter del Codice penale attribuisce al giudice il potere di dichiarare estinto il reato in cambio della riparazione (restituzione o risarcimento) del danno e della eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose. L’obiettivo è quello di agevolare la risoluzione extraprocessuale di taluni reati mediante la soddisfazione della vittima ed evitando all’imputato il processo e la condanna. Nulla a che vedere con la giustizia riparativa, dove v’è un percorso di comprensione reciproca del torto fatto e subito. Qui v’è soltanto pagamento a tacitazione della vittima, alla quale può essere recapitata dall’imputato anche solo l’offerta reale di una somma (articoli 1208 e seguenti Codice civile), che se non viene accettata, ma dal giudice ritenuta congrua, porta comunque all’estinzione del reato. La vittima viene privata del diritto di rimettere la querela in ogni stato e grado: se non accetta la congrua riparazione scatta il nuovo meccanismo dell’articolo 162 ter Codice penale. Il limite temporale è la dichiarazione di apertura del dibattimento; pertanto si pone il tema dell’ammissibilità di una richiesta nella fase delle indagini preliminari davanti al gip. Depongono positivamente a favore sia la lettera della legge sia considerazioni di deflazione processuale; di contro vi si oppone l’assenza della sede processuale dove il giudice verifichi l’offerta (rifiutata) di riparazione. Infatti l’inciso "sentite le parti" impone l’obbligo, da un lato, di un contraddittorio ancorché minimo sulle posizioni (in omaggio all’articolo 111 Costituzione) e, dall’altro, la necessità che i soggetti siano diventate "parti" di un costituito rapporto processuale: quindi, che la persona offesa si sia costituita quale parte civile. Così argomentando il campo di applicazione del nuovo articolo 162 ter Codice penale si ridurrebbe, però, al momento successivo alla fase di instaurazione del rapporto processuale (ad es. in udienza preliminare) e prima dell’apertura del dibattimento. In quest’ultimo caso certo il giudice del dibattimento con lo scarno fascicolo formato ex articolo 431 Codice di procedura penale dovrà congetturare sulla congruità del risarcimento, non avendo ancora prova alcuna del danno, salvo allegazioni difensive predibattimentali. Nel caso in cui entro tali termini l’imputato non abbia potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, il giudice sospende il processo per non più di sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento, imponendo specifiche prescrizioni. Durante la sospensione del processo, la prescrizione resta sospesa. Diversamente dall’oblazione, dove lo Stato rinuncia alla pena in cambio di una ridotta somma di denaro a favore della cassa delle ammende, qui lo Stato rinuncia alla pena, senza incassare alcunché, laddove la persona offesa invece vorrebbe insistere, pur in presenza di un’offerta serie e congrua di riparazione. Evidenti gli scopi deflattivi. Prescrizioni. La scelta della sospensione è a rischio di inefficacia di Fabio Basile* Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2017 In tema di prescrizione la modifica di maggior impatto, e anche quella più contrastata, consiste indubbiamente nell’introduzione di una nuova causa di sospensione endo-processuale. In base al nuovo articolo 159, comma 2 del Codice penale, in futuro il corso della prescrizione rimarrà, infatti, sospeso dalla scadenza del termine per il deposito della motivazione della sentenza di condanna fino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il successivo grado di giudizio - sia in appello che in Cassazione - per un tempo non superiore a un anno e sei mesi. Viene, quindi, espanso fino a tre anni il tempo complessivo della prescrizione nel caso in cui, intervenuta una sentenza di condanna, tale sentenza venga impugnata. Questa innovazione - di per sé apprezzabile perché finalmente introduce una causa di sospensione funzionale allo svolgimento del processo - rischia, però, di creare nuovi problemi. La sospensione di un anno e mezzo per il giudizio di impugnazione potrebbe risultare, infatti, troppo breve per processi particolarmente complessi (si pensi a certi appelli con riapertura dell’attività istruttoria), con conseguente permanere del pericolo di frustrazione, a seguito di prescrizione, dell’attività processuale fino a quel punto svolta, e, per contro, troppo lunga per processi di agevole trattazione, con conseguente vulnus all’esigenza di una ragionevole durata del processo. Significativamente colpiti dalla riforma della prescrizione risultano, poi, taluni reati contro la pubblica amministrazione: per effetto del nuovo comma secondo dell’articolo 161 Codice penale, infatti, i termini di prescrizione delle varie ipotesi di corruzione, dell’induzione indebita a dare o promettere utilità e della truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche potranno prolungarsi, in presenza di atti interruttivi, della metà. Il legislatore ha qui preso indubbiamente atto delle più recenti statistiche giudiziarie, le quali evidenziano che i reati contro la pubblica amministrazione sono quelli a più alto rischio di prescrizione. Il rimedio apprestato contro tale rischio, tuttavia, risulta, per un verso, solo parziale, giacché restano fuori altri reati contro la pubblica amministrazione, in primis la concussione, parimenti esposti ad una frequente prescrizione. Per altro verso, tale rimedio sembra destinato in molti casi al fallimento. La maturazione posticipata della prescrizione è, infatti, qui subordinata al compimento di atti interruttivi, ma il compimento di tali atti presuppone la già avvenuta acquisizione della notizia di reato, mentre il principale problema in relazione ai reati in parola è proprio la fisiologica emersione tardiva della notitia criminis. Le altre modifiche sono, invece, di portata più circoscritta. La novella introduce alcuni aggiustamenti tecnici in relazione all’autorizzazione a procedere e al deferimento della questione ad altro giudice; aggiunge la previsione espressa della rogatoria all’estero tra le cause di sospensione e dell’interrogatorio reso alla polizia giudiziaria su delega del Pm tra gli atti interruttivi della prescrizione. Essa, inoltre, per taluni reati commessi nei confronti dei minori (come ad esempio maltrattamenti e violenza sessuale) sposta in avanti il dies a quo della prescrizione, fissandolo alla data di compimento dei diciotto anni della vittima o, se l’azione penale è stata esercitata prima di tale data, al momento dell’acquisizione della notizia di reato. La riforma, infine, modifica il comma primo dell’articolo 161 in modo tale che, in futuro, mentre l’interruzione della prescrizione continuerà ad avere effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato, la sospensione, invece, avrà effetto solo per gli imputati nei cui confronti si sta procedendo (quest’ultima pare essere l’unica innovazione in bonam partem della disciplina della prescrizione contenuta nella novella). Complessivamente si tratta di una riforma che, limitandosi ad alcuni ritocchi e interpolazioni, darà solo una boccata d’ossigeno ad una disciplina stantia della prescrizione, senza intervenire in radice per curarne i mali. *Professore ordinario di diritto penale - Università degli Studi di Milano Cantone: "Un’Italia senza corruzione? Con regole certe ce la può fare" di Simona Casalini La Repubblica, 16 giugno 2017 Il magistrato a capo dell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, racconta il malaffare del Terzo Millennio, attraverso le domande della giornalista Liana Milella e di Gianluca De Feo, uno dei vicedirettori di Repubblica. E lascia anche capire che, col principio che tutto deve essere reso conoscibile e senza prevedere pene carcerarie più severe, anche il nostro paese può uscirne fuori. "Non servono pene più severe, io sono più favorevole a pene adeguate, ma che siano almeno in parte effettivamente scontate. E poi massima trasparenza sui meccanismi che finanziano la politica, più controlli su associazioni e fondazioni, che ora sono regolate come se fossero semplici bocciofile e non sono nemmeno obbligate a pubblicare i bilanci. Sì agli agenti infiltrati nelle pubbliche amministrazioni, quelli che possono diventare testimoni di episodi di malaffare, ma no agli agenti provocatori che offrono soldi per far scattare la trappola. Tutto deve essere reso conoscibile. E le gare d’appalto si possono già da ora bandire in maniera corretta, con progetti chiari, sistemi ferrei di penali se non vengono rispettate le clausole firmate e poi fare controlli diffusi. All’Expò di Milano le gare sono state fatte bene, penso invece, all’opposto, all’appalto della metro C di Roma in cui è stato approvato un progetto senza fare alcun saggio archeologico. E poi no a una black list di aziende a basso tasso di legalità, piuttosto agevolerei una white list di società che si sanno comportare bene, si adeguano a principi di legalità ineccepibili. Al paese servono le grandi infrastrutture e in Italia le sappiamo fare anche molto bene" Raffaele Cantone, il magistrato di ferro a capo dell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, racconta a Repubblica delle Idee il malaffare del Terzo Millennio, attraverso le domande della giornalista Liana Milella e di Gianluca De Feo, uno dei vicedirettori di Repubblica, ma lascia anche capire che, con regole certe, massima trasparenza, e no a pene più alte, anche l’Italia ce la può fare. E cita due esempi all’opposto: un collega svedese al quale lui ha chiesto quale fosse il segreto del suo paese tra i più virtuosi al mondo per mancanza di corruzione, che gli ha risposto semplicemente: nessuno, solo la trasparenza di ogni atto pubblico, anche il costo di una singola matita. E, viceversa, un ministro messicano, paese ritenuto tra i più malversatori, che parlando del potere deterrente di pene carcerarie contro i corrotti, gli ha ricordato che proprio il Messico è lo Stato con le pene carcerarie previste tra le più alte del mondo. "Ma chi è e cosa fa il corrotto? Lei dice che i comportamenti corrotti sono di tutti" gli chiede Di Feo. "Sì, è qui il tema centrale" risponde Cantone, "per troppo tempo abbiamo pensato che non ci riguardava, è roba di politici, imprenditori, altra gente e non noi, e questo è sbagliato. Interessa tutti noi, perché l’opera pubblica non finita, il lavoro che manca, le trafile negli ospedali, gli uffici pubblici che non danno risposte, riguarda tutti. Ma è corrotto anche chi salta le file negli ospedali o chi non paga le tasse. Il rispetto delle regole è basilare. Etimologicamente corruzione significa spaccare la società. Molti sottovalutano i suoi effetti, per molti è molto meno dannosa di un furto, di una rapina, e invece anche papa Francesco dice che il corrotto pensa di essere più furbo e che lui e il corruttore non possono essere perdonati. E non a caso ho parlato di papa Francesco perché proprio stamattina ho partecipato a un grande incontro all’interno del Vaticano voluto dal pontefice incentrato sui temi della corruzione nella Chiesa, un’altra piccola rivoluzione del nostro papa, che non a caso dice che la corruzione ruba ai poveri per dare ai ricchi". "Il lavoro di magistrato: lei sente ancora intorno a sé grande solidarietà oppure dopo che ha cominciato a fare le pulci alla Rai, agli appalti milanesi del Palazzo di Giustizia ha avvertito un clima cambiato?" chiedono Milella e De Feo. "Devo dire che c’è stato anche un periodo in cui la gente mi diceva per strada "arresta tutti!", ma io non posso arrestare nessuno. Però abbiamo sancito irregolarità, scovato appalti irregolari e inviati gli atti alle Procure. Abbiamo dato forti segnali. La magistratura perde consenso? Io credo che il motivo sia perché è stata caricata di troppe aspettative, un eccesso di delega dai politici che non sanno risolvere i problemi e che hanno buttato tutto addosso a noi. E, certamente, certe regole deontologiche di correttezza nei comportamenti privati vanno applicate anche a noi magistrati". Lei è contrario ai magistrati in politica? incalza Milella. "Diciamo che non mi dispiace se non vengono candidati, a meno di prestigiose eccezioni. Io in politica? Non penso proprio". E sulle intercettazioni dice: "Servono alle indagini, meno a finire sui giornali". E spiega: "Per combattere la corruzione sarei favorevole anche ad ampliare la possibilità di intercettare l’indagato, ma qualche altra domanda ce la dobbiamo porre. Spesso finiscono sui giornali tante persone collegate a un indagato senza che ci sia stato un processo e senza che entrino minimamente nell’inchiesta in corso. Gli sms dell’indagato alla fidanzata, ad esempio, interessano davvero all’opinione pubblica? Chiunque potrebbe finire in un tritacarne". I grandi numeri delle aziende criminali di Antonio Parbonetti* La Repubblica, 16 giugno 2017 In un recente studio, condotto assieme al professore Michele Fabrizi e alla dottoressa Patrizia Malaspina presso il Dipartimento di Scienze Economiche ed Aziendali dell’Università di Padova, abbiamo analizzato 2.507 bilanci appartenenti a 643 aziende localizzate nel Centro-Nord Italia connesse con la criminalità organizzata attraverso un amministratore o un azionista. L’obiettivo dello studio è quello di quantificare la dimensione del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nelle aziende del Centro-Nord Italia, offrendo una descrizione basata su dati effettivi e una stima degli effetti economici. L’analisi della distribuzione delle aziende criminali per settore industriale ha consentito di evidenziare come la mafia imprenditoriale, che si è diffusa nel Centro-Nord Italia, infiltra in maniera sistematica ed estesa quasi tutti i settori industriali e non solo il settore delle costruzioni o del movimento terra. Nel Veneto, ad esempio, solo il 14% delle aziende criminali individuate opera nel settore delle costruzioni, mentre un 17% opera nel settore immobiliare e un 12% offre servizi professionali. L’analisi, inoltre, evidenzia come le aziende criminali siano in media più grandi di quelle non criminali, sfatando pertanto la convinzione che si tratta di aziende piccole, dal basso impatto economico. In Veneto, ad esempio, le aziende criminali registrano un fatturato medio di 7,5 milioni di euro ed un totale delle risorse investite superiore agli 11 milioni di euro. È stata inoltre individuata un’interessante variabilità nel campione che rivela l’esistenza di tre tipologie di aziende criminali che abbiamo denominato di "Supporto", "Cartiere" e "Star". Ogni tipologia di azienda svolge, nella nostra interpretazione dei dati, attività distinte ma tutte volte a supportare l’organizzazione criminale nel suo complesso. Il lettore interessato ad approfondire i risultati della ricerca trova il lavoro completo pubblicato sulla "Rivista di Studi e Ricerche sulla Criminalità Organizzata". In un secondo studio che stiamo conducendo, ci focalizziamo invece sull’impatto che le aziende criminali hanno sulla performance dei concorrenti non criminali. Coerentemente con l’ipotesi che le aziende criminali sottraggono risorse alle aziende concorrenti che operano sul mercato senza l’appoggio di un’organizzazione criminale, abbiamo documentato un significativo aumento della performance operativa delle aziende legali quando un’operazione di polizia elimina da un settore un’azienda connessa alla criminalità. Tale effetto è stimabile in un aumento della performance operativa di circa il 20%. Tali risultati confermano che le aziende criminali godono di un vantaggio competitivo che deriva dalla loro connessione all’organizzazione criminale che introduce una significativa distorsione nelle dinamiche competitive di un settore e danneggia pesantemente le altre aziende concorrenti. *Docente dell’Università degli Studi di Padova, Dipartimento Scienze Economiche e Aziendali Toscana: approvata in Giunta delibera per salute detenuti controradio.it, 16 giugno 2017 Maggior assistenza psicologica e prevenzione suicidi tra gli obiettivi per prossimi 3 anni della delibera per tutela salute popolazione carceri. Saccardi: "la salute è diritto di tutti, senza distinzioni". Intensificazione dell’assistenza psicologica, azioni per la prevenzione del suicidio in carcere, rispetto dei Lea (i livelli essenziali di assistenza) e di tutte le attività sanitarie per garantire alla popolazione carceraria la stessa assistenza sanitaria che viene data ai cittadini liberi. Sono alcuni tra i principali obiettivi per la tutela della salute in carcere per il triennio 2017-2019, individuati dalla delibera approvata dalla giunta nel corso della sua ultima seduta. Una delibera nella quale vengono aggiornate le attività rivolte sia agli adulti presenti nei 16 istituti penitenziari della Toscana che ai minori accolti nei due istituti per minori (Pontremoli e Firenze) e nel centro di prima accoglienza di Firenze. "La salute è un diritto di tutti, indistintamente - ha detto l’assessore al Diritto alla salute Stefania Saccardi - Tutti, che siano liberi cittadini o detenuti, sono uguali davanti alla malattie e hanno diritto ad avere le stesse opportunità e prestazioni sanitarie. Come Regione Toscana ci preoccupiamo di garantire a tutti i cittadini in carcere la stessa assistenza sanitaria che diamo ai cittadini liberi. E con questa delibera abbiamo individuato obiettivi precisi per il prossimo triennio". Gli obiettivi prioritari sono individuati per il triennio 2017-2019. Per il 2017, la cifra destinata alla realizzazione di questi obiettivi è di 208.000 euro, mentre per gli anni successivi l’identificazione del fabbisogno sarà definita entro il 31 dicembre di quest’anno. Il Laboratorio MeS (Management & Sanità) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa valuterà le performance delle Aziende sanitarie anche sulla tutela della salute in carcere, mentre all’Agenzia Regionale di Sanità sono affidate le indagini epidemiologiche sullo stato di salute della popolazione detenuta. Il monitoraggio di tutte le attività è affidato all’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, costituito nel 2008. Trento: perché i Garanti proliferano di Giovanni Pascuzzi Corriere del Trentino, 16 giugno 2017 La recente istituzione, nella nostra provincia, del Garante dei diritti dei minori e del Garante dei diritti dei detenuti induce a qualche riflessione di carattere generale. Il recente passato ha visto un proliferare di "garanti". In ambito fiscale esiste il garante del contribuente. Il mondo universitario conosce il garante di ateneo, il comitato unico di garanzia per le pari opportunità e contro le discriminazioni, il garante degli studenti. In ambito lavorativo si parla di garante della sicurezza. Esistono poi figure molto famose come il garante della privacy o il garante per le comunicazioni. Ma l’elenco sarebbe molto più lungo. Non è possibile approfondire qui tutte queste figure, anche perché sono diverse sia per fonte normativa sia per funzioni. Ci si può chiedere tuttavia il perché del proliferare di tale parola. Un indizio ci viene proprio dalla legge provinciale che ha istituito i due nuovi garanti. Quello dei diritti dei detenuti deve "contribuire a garantire i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale". Quello dei diritti dei minori deve assicurare la "piena attuazione dei diritti riconosciuti alle persone minori di età nell’infanzia e nell’adolescenza". Un po’ come dire che il garante dei diritti garantisce i diritti. Un’affermazione al tempo stesso tautologica e paradossale: se un diritto è già riconosciuto, quale bisogno c’è di qualcuno che lo garantisca? Il problema è invece proprio lì. Dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in giù esistono tante disposizioni, tante leggi che riconoscono diritti, tutele, protezioni. Nella realtà, però, questi diritti vengono disattesi o non attuati del tutto. E non si tratta solo di violazioni conclamate: spesso ci si scontra con semplici inadempienze, comportamenti neghittosi, piccoli abusi di autorità che però di fatto vanificano i diritti. È come se esistesse una zona grigia nella quale si sperimenta la violenza delle dinamiche di potere nella consapevolezza che ricorrere alla magistratura per tutelare i propri diritti sarebbe costoso e lungo, quindi sostanzialmente inutile. Si ricorre insomma alla figura dei garanti per provare a ridurre lo scarto esistente tra i diritti e la loro attuazione. E perché dimentichiamo troppo spesso che ognuno di noi dovrebbe essere garante dei diritti degli altri. Rinunciando, ad esempio, ad approfittare delle dinamiche proprie dei rapporti di potere. Piacenza: "gli agenti mi hanno pestato in cella", acquisiti i video del carcere di Giovanni Tizian L’Espresso, 16 giugno 2017 Dieci agenti, alcuni dei quali in tenuta antisommossa, si fiondano sul detenuto. Lui è seduto su un sgabello, sulla soglia della sua cella del carcere di Piacenza. Alcuni di loro restano fuori, i colleghi all’interno sembrano, a un certo punto, trattenere il più anziano tra loro. Finito il blitz si muovono in squadra verso le altre celle a sedare probabili proteste per quella missione contro il loro compagno detenuto. Cinque ore dopo in un secondo video altri poliziotti penitenziari entrano sempre nella stessa cella. Uno ha il casco e regge un estintore che usa contro il recluso. Subito dopo fanno irruzione e lo trascinano fuori tenendolo per la coda dei capelli. È il 16 maggio 2016, frammenti di vita carceraria, metodi che possono sembrare di altre epoche. Eppure un magistrato in Emilia li definisce "uso legittimo della forza". E per questo motivo ha chiesto l’archiviazione per tre agenti penitenziari, indagati del reato di lesioni personali. Nei video registrati dalle telecamere a circuito chiuso del penitenziario emiliano - agli atti dell’inchiesta della procura di Piacenza - si vedono due momenti di altissima tensione. Il protagonista è Rachid Assarag, detenuto per violenza sessuale (tra tre mesi uscirà per fine pena) che in passato ha denunciato altri pestaggi subiti nelle carceri da cui è passato, in particolare nel supercarcere di Parma, dove peraltro riuscì a registrare le confessioni di alcuni uomini in divisa. Intercettazioni effettuate grazie a un minuscolo registratore introdotto illegalmente all’interno del penitenziario consegnatogli dalla moglie. Dopo la pubblicazione di quei nastri la procura di Parma aveva aperto un fascicolo contro alcuni agenti. Tuttavia non furono sufficienti né gli audio né le testimonianze raccolte perché anche in quel caso il pm chiese l’archiviazione con motivazioni simili: "Seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti, visto che la guardia dice di non aver mai usato violenza e Assarag conferma". Insomma, secondo il pm della città ducale le accuse erano state smentite dalle indagini e gli agenti penitenziari sotto accusa andavano prosciolti. Nelle intercettazioni raccolte da Assarag si potevano ascoltare frasi del tipo "qui comandiamo noi", oppure "Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu". Il detenuto ha cambiato undici penitenziari in sei anni, un periodo segnato da denunce, botte e presunti abusi. Ora, invece, la nuova denuncia arriva da Piacenza, dove fino all’anno scorso era recluso Assarag. Nel frattempo è stato trasferito prima a Bollate e poi in Sardegna. Ma è nel carcere modello della Lombardia che il 17 maggio è stato accusato di aver aggredito un agente senza alcun motivo. In quel frangente peraltro gli furono sequestrati anche altri audio che aveva registrato all’interno dell’istituto che dimostrerebbero ulteriori abusi subiti. L’episodio scatenò la reazione del segretario del sindacato Sappe, Donato Capece: "Il detenuto protagonista dell’ultima aggressione è stato destinatario nel suo peregrinare tra le carceri italiane di ben 40 procedimenti disciplinari e deferimenti a diverse procure della Repubblica per resistenza, minacce, oltraggio, lesioni a pubblico ufficiale. Anche quest’ultimo episodio è gravissimo, eppure le nostre denunce restano inascoltate". Nuovi particolari nell’inchiesta sui presunti pestaggi del 2010 nel carcere di Parma. Il pm ha chiesto l’archiviazione ma la difesa del detenuto marocchino si è opposta. Presentando un’ulteriore memoria. Con altre registrazioni inquietanti. In una di queste i sospetti per la morte di un recluso italiano. Ora, dicevamo, un nuovo capitolo di questa vicenda, una nuova scena di vita carceraria in presa diretta. E una nuova richiesta di archiviazione. Le immagini riproducono fedelmente quanto accaduto. È, dunque, uso legittimo della forza quello ripreso dalla videosorveglianza? È consentito che un poliziotto usi un estintore in quel modo? C’era forse un’incendio all’interno della cella? Queste le domande che si pongono l’avvocato Fabio Anselmo e la moglie del detenuto Emanuela Arcangeli. Intanto dopo la pubblicazione del primo video sui Rai Tre e sui social del senatore Luigi Manconi in cui Rachid viene trascinato fuori dalla cella, è arrivata la prima reazione del sindacato. Per l’Uspp (Unione sindacati polizia penitenziaria) è tutto regolare. Il responsabile sostiene che "il detenuto aveva rotto alcuni vetri e aveva distrutto la cella, non voleva uscire e aveva anche minacciato e aggredito alcune guardie. Per tutelare lui, e gli operanti la procedura vuole che il protagonista venga preso e portato in infermeria per toglierlo dalla situazione di pericolo e dal luogo in cui era avvenuto il fatto. E non è stato tirato per i capelli". Totalmente differente la versione di Assarag agli atti dell’inchiesta che descrive i presunti pestaggi subiti quel 16 maggio 2016. Versione che se confrontata con la sequenza dei video è utile a ricomporre i frammenti di verità in questa vicenda dai contorni tutti da chiarire. Partiamo dalle dichiarazioni del detenuto. Rachid Assarag ripercorre quei momenti con il pm di Piacenza: "Stavo per andare a fare la doccia; una guardia mi ha detto che se volevo fare la doccia dovevo farla da solo; preciso che mi accompagnava sempre il detenuto che si trovava nella stanza a fianco, io anche quel giorno ho chiesto di essere accompagnato da lui, ma mi hanno detto che dovevo andarci da solo, la guardia mi ha risposto che se volevo dovevo fare da solo,a llora ho chiesto alla guardia di poter parlare con un ispettore o il comandante; dopo nemmeno cinque minuti sono arrivati l’ispettore e il comandante che è un signore anziano con gli occhiali, con altri agenti; o ero seduto su uno sgabello in cella vicino alla porta che era aperta, visto appunto che era l’orario che dovevo andare in doccia; l’ispettore indossava i guanti cosi come il comandante, senza dire nulla mi ha spinto e sono caduto dallo sgabello a terra; anche lo sgabello è caduto; l’Ispettore dicendomi: "pezzo di merda, violentatore di merda, pedofilo, ti scopo tua moglie che ti da questo sostegno" ha iniziato a picchiarmi con le mani sul viso, dandomi schiaffi e pugni, sputandomi in faccia; in questo momento io ero a terra a faccia in alto; poi sono arrivati altri sei o sette; tutti quanti loro mentre Marra mi colpiva in viso, mi colpivano alle gambe e sul torace, con i loro piedi; poi uno di loro ha detto: "giratelo" e mi hanno messo a pancia in giù; siccome io opponevo resistenza per potermi girare mi hanno preso dal pantalone e così facendo si è strappato; a questo punto due mi hanno bloccato le mani e due le gambe; con la mia stampella mi ha colpito da tutte le parti; nel frattempo un altro mi picchiava con le chiavi in testa; tutto questo è durato alcuni minuti". Assarag ripercorre punto per punto anche il secondo blitz nella cella ripreso dalle telecamere: "Ho chiesto all’agente di turno di poter telefonare al mio avvocato; lui si era informato e mi ha detto che si poteva chiamare solo dopo le 16.00; Alle 16.00 ho chiesto ancora di poter telefonare e mi hanno detto ancora di aspettare; ho aspettato ancora 20 minuti e poi mi sono messo a sbattere lo spioncino contro la porta; poi ho aperto l’acqua al punto che ormai usciva fuori dalla cella; a quel punto è arrivato un ispettore capo che mi ha chiesto cosa era successo; io ho detto che avevo chiesto già da parecchio tempo di parlare con il mio avvocato; l’ispettore si è allontanato e poi è tornato e mi ha detto che potevo andare a telefonare; io ero pronto ad uscire ma proprio sull’uscio della porta ho visto che nel corridoio c’erano tre agenti con i guanti; ho chiesto all’ispettore cosa ci facevano ma lui mi ha risposto di non preoccuparmi e di andare con lui a telefonare; io però ho preferito restare in cella; a quel punto sono entrati nella cella, uno di loro aveva un estintore in mano e mi ha spruzzato della polvere in faccia; sono caduto a terra e mi hanno afferrato e portato via dalla cella, portandomi in una cella "liscia" cioè completamele vuota tranne una branda con i! materasso,· questa cella era nello stesso corridoio, sullo stesso lato, a circa otto porte alla destra uscendo dalla mia cella". Il pm che ha chiesto l’archiviazione ha sentito vari testimoni. Tra questi il medico in servizio nella struttura, il dottor Kotto, che conferma quanto detto dagli agenti. Interessante, poi, è una relazione di servizio scritta da uno degli indagati in cui sostiene che gli atteggiamenti provocatori di Rachid Assarag siano frutto di una strategia precisa per creare tensioni e ottenere vantaggi economici. "Credo che il soggetto - scrive il poliziotto - malato di protagonismo e di deliro di onnipotenza, salvo non abbia patologie psichiatriche in atto, abbia intenzione di creare analoga situazione ad hoc per poter riportare nuovamente il caso all’attenzione dell’opinione pubblica attraverso programmi televisivi che magari sono anche disposti a pagare le interviste e le notizie". Con queste motivazione, il 6 maggio 2016, dieci giorni prima, quindi, dell’irruzione nella cella, l’agente Marro chiede all’autorità giudiziaria un decreto per potere intercettare le telefonate di Assarag, "al fine di accertare eventuali notizie utili per la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza dell’Istituto". Due settimane prima, il 21 aprile, Assarag era stato peraltro sentito a sommarie informazioni dal procuratore capo di Piacenza, Salvatore Cappelleri. Cosa si erano detti? Assarag aveva iniziato a riferire dei primi presunti abusi subiti: "Mi è stata tolta la carrozzina dopo due giorni e mi sono state date delle stampelle nonostante io abbia fatto presente che non riuscivo a muovermi in questo modo. Ho anche chiesto che venisse chiamato il medico, ma si sono rifiutati di chiamarlo. Siccome io non volevo, la carrozzina mi è stata tolta con la forza... erano un ispettore, un brigadiere e tre appuntati che mi hanno preso per le braccia per mettermi giù. Siccome un piede si è incastrato in un ferro della carrozzina, l’ispettore con la gamba ha fatto forza contro la mia gamba procurandomi dei lividi, mentre il brigadiere mi spingeva dandomi colpi sulla testa, procurandomi anche sanguinamento al naso". Il detenuto ricorda anche un particolare, il giorno dell’ingresso in carcere a Piacenza ha avuto un colloquio con uno psicologo, che "mi ha invitato ad adeguarmi alle regole della vita carceraria". Un mese dopo questo colloquio con il capo della procura, le telecamere del penitenziario riprendono i due blitz contro Assarag. Irruzioni di cui neppure il pm nelle sue conclusioni della richiesta di archiviazione chiarisce i motivi. Il magistrato non si sofferma molto sulle cause scatenanti e neppure dai video si capisce quali potessero essere. Il pm, però, nella sua richiesta ammette un fatto grave. Fa notare, infatti, che "è possibile che le lesioni (di Assarag ndr) siano da ricollegare al fatto che egli sia stato calpestato in occasione degli spostamenti forzati; tale condotta degli agenti potrebbe essere stata involontaria e conseguenza dell’azione di resistenza attiva posta in essere dal detenuto (confermata dagli agenti chiamati a testimoniare), non può escludersi peraltro che taluno degli agenti, anche approfittando della concitazione del momento, ricollegabile anche alla presenza di fumo (come ha raccontato il medico della struttura, ma che dalle immagini non si rileva ndr) abbia inflitto volontariamente dei colpi all’Assarag". In pratica il pubblico ministero non esclude che qualcuno degli uomini in divisa abbia volontariamente fatto del male al detenuto approfittando del momento di caos all’interno della cella. Resta, però, una domanda: perché? Non sembrano esserci stati momenti di tensione prima dell’entrata in massa nella cella del detenuto. Interrogativi a cui neppure quei video muti potranno dare risposta. E che hanno spinto l’avvocato Fabio Anselmo a opporsi all’archiviazione. Pescara: detenuti al lavoro per riaprire i sentieri del parco dopo la tragedia di Rigopiano di Teresa Valiani Redattore Sociale, 16 giugno 2017 Terminata la fase formativa, da lunedì la squadra sarà all’opera sul territorio di Farindola colpito dall’eccezionale ondata di maltempo dell’inverno scorso. Al centro del progetto, un protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia, ente parco e comune. Farindola riparte dalla solidarietà e dopo la tragedia di Rigopiano e l’eccezionale ondata di maltempo che nello scorso inverno ha danneggiato alcuni tra i più importanti sentieri del parco, si dà una seconda opportunità. Un’occasione che parte dal territorio comunale, abbraccia l’area naturalistica del parco Gran Sasso-Laga e arriva fino al mare, con un protocollo d’intesa sottoscritto da ministero della Giustizia, provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise, Ente parco e Comune. Al centro del progetto, il lavoro di 8 detenuti del carcere di Pescara che contribuiranno a recuperare e a far riaprire ai turisti i più importanti sentieri naturalistici del territorio. Impegnati in questi giorni in un corso formativo che li sta preparando professionalmente al lavoro che si apprestano a fare, da lunedì 19 giugno e fino al 30 luglio raggiungeranno la località montana per il recupero delle risorse naturalistiche. Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, a settimane alterne, la squadra raggiungerà Farindola da Pescara con un mezzo dell’amministrazione penitenziaria condotto dalla polizia penitenziaria a cui è affidato anche il compito di vigilanza durante l’attività lavorativa esterna. L’Ente parco fornirà le attrezzature di lavoro necessarie, impegnerà "le risorse umane competenti a guidare il lavoro dei detenuti e a indicare i lavori necessari" e regolarizzerà i detenuti impegnati nelle opere di pubblica utilità dal punto di vista assicurativo. Mentre il Comune di Farindola favorirà la realizzazione degli interventi e fornirà ad ogni detenuto un pasto giornaliero che sarà preparato dall’associazione nazionale Alpini, gruppo locale. L’ente parco indicherà, inoltre, i referenti dell’intervento che avranno l’obbligo di impartire le direttive e verificare il buon andamento del progetto, risolvendo eventuali problemi di carattere logistico e operativo. Soddisfazione per la realizzazione del progetto è espressa dal sottosegretario di Stato al ministero della Giustizia, Federica Chiavaroli per una "iniziativa complessa che è riuscita a mettere insieme tante istituzioni solide a livello amministrativo e burocratico: dall’ente parco, all’amministrazione penitenziaria. È questa una seconda opportunità per tutti: per Farindola, per i suoi sentieri, per i detenuti, addirittura per il legno che sarà rigenerato e utilizzato per le staccionate. Un progetto di giustizia riparativa che vedrà coinvolti 8 detenuti con un impegno quotidiano e gratuito e che, grazie al protocollo, al personale del carcere e alla polizia penitenziaria che li accompagna, potranno contribuire alla rinascita di questa comunità. Ringrazio Area Legno s.r.l. per aver detto subito ‘si’ alla nostra richiesta. Questa iniziativa può essere un esempio di collaborazione istituzionale replicabile soprattutto nel settore della giustizia riparativa: un settore che fa fatica a decollare proprio perché realizzare progetti di questo tipo vuol dire mettere in gioco più istituzioni e più interessi". "Non posso che essere grato a questa cordata di solidarietà - aveva detto il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, nel corso della firma del protocollo -, perché questo territorio in questo momento ha bisogno di rinascere e ricominciare a vivere". Soddisfazione anche da Tommaso Navarra, presidente Ente parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, secondo cui "la motivazione, lo stimolo del sottosegretario e del sindaco e l’amore per questo territorio hanno consentito una larga intesa istituzionale che deve costituire uno stimolo a perseverare in questa direzione", mentre Cinzia Calandrino, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise ricorda come di fronte alle calamità che hanno colpito il centro Italia le azioni di ricostruzione e ripresa dei territori non siano mancate: "Ho avuto modo di inaugurare un progetto di giustizia solidale del carcere di Rieti per Amatrice e sono orgogliosa e grata al carcere di Pescara di poter fare altrettanto qui a Farindola per l’Abruzzo". Coinvolto nel progetto anche Area Legno, un’impresa nel settore delle costruzioni in legno della provincia di Pescara che ha offerto subito la propria disponibilità "perché si tratta di un progetto che è giusto sostenere e che ha un oggettivo valore positivo per questi luoghi e per i detenuti", mentre Franco Pettinelli, direttore della Casa Circondariale di Pescara, ha sottolineato come questi progetti siano importanti per la funzione rieducativa della pena, sancita dalla Costituzione: "Credo - ha detto il direttore - che questi progetti siano tra i più significativi dal punto di vista della rieducazione e che davvero possano contribuire a far crescere nei detenuti una coscienza civica e solidaristica che potrà guidarli una volta tornati in società". Bologna: Polo universitario penitenziario alla Dozza, numeri confortanti di Cristian Casali cronacabianca.eu, 16 giugno 2017 Il responsabile del progetto ha chiesto il coinvolgimento diretto della commissione sul problema per i detenuti dell’inserimento lavorativo all’uscita dal carcere. "Continua a crescere il numero degli studenti in carcere iscritti all’Università di Bologna". La direttrice di Er.Go, Patrizia Mondin, è intervenuta nell’audizione programmata dalla commissione Cultura, scuola, formazione, lavoro, sport e legalità, presieduta da Giuseppe Paruolo, sul progetto "polo universitario penitenziario" attivato nella casa circondariale della Dozza. Un progetto, ha spiegato Mondin "che si pone l’obiettivo di riconoscere e garantire il diritto allo studio anche in carcere: nonostante gli ostacoli e le difficoltà della detenzione, infatti, è aumentato il numero degli studenti iscritti ai corsi dell’Alma Mater". In tre anni di attività, ha riferito, "dai 25 iscritti nell’anno accademico 2014-15 si è passato ai 40 nel 2016-17, dal 2014 sono 92 i detenuti coinvolti in questo progetto". La responsabile di Er.Go ha poi parlato degli aiuti rivolti ai singoli studenti: "È previsto un contributo economico pari a 400 euro: 157,64 euro per gli adempimenti burocratici e 242,36 euro collegati invece al merito". Viene valutato, ha quindi ribadito, "l’impegno dei detenuti coinvolti, una misura non assistenziale". Nelle annualità 2014/2015 e 2015/2016, ha concluso, "hanno ottenuto l’accesso al credito, collegato appunto al merito, 20 detenuti". L’Università di Bologna, è poi intervenuto il responsabile del polo universitario penitenziario, Giorgio Basevi, "è impegnata da oltre tre anni in questo progetto; cerchiamo di rendere il percorso di chi studia in carcere il più possibile lineare, dando la possibilità di confrontarsi costantemente con i docenti". Il professore si è poi appellato direttamente ai componenti della commissione: "Abbiamo bisogno di aiuto, non economico, per facilitare ai detenuti la fase di inserimento lavorativo all’uscita dal carcere, chiediamo l’attivazione di progetti funzionali a questo scopo". Sollecitazione che è stata accolta dallo stesso presidente Paruolo. Credo, è intervenuto Enrico Aimi (Fi), "nel recupero dei ragazzi che hanno commesso dei reati, molto spesso prigionieri del gesto di un momento". Io stesso, ha affermato, "ho consigliato, in quanto avvocato, a diversi dei miei assistiti di intraprendere un percorso formativo in carcere". Il consigliere ha poi indicato tre priorità che potrebbero essere applicate al progetto: "Prevedere un’attività di proselitismo all’interno delle case circondariali per coinvolgere il numero maggiore di detenuti, eliminare la tassa regionale per questa particolare tipologia di studenti e garantire loro l’accesso a lezioni registrate". Con questo incontro, ha dichiarato Francesca Marchetti (Pd), "vogliamo comprendere gli aspetti positivi e le criticità del progetto". A mio giudizio, ha sottolineato, "si tratta di una buona prassi che vale la pena sviluppare, facendo particolare attenzione, per non lasciare soli questi ragazzi, alla fase post carcere, sia lavorativa sia formativa". Ai relatori sono infine state rivolte due domande. Silvia Prodi (Misto-Mdp) ha chiesto in quali discipline si cimentano principalmente gli studenti, mentre il presidente Giuseppe Paruolo ha richiesto notizie sull’esperienza dei tutor, delle persone che vanno in carcere. Quesiti cui ha risposto Basevi, riferendo che le discipline di studio più diffuse sono giurisprudenza, agraria, lettere e scienze politiche. Sul volontariato nelle carceri ha parlato del coinvolgimento di numerosi soggetti: "circa 70 in questo progetto, fra responsabili del corso di laurea, professori di ruolo che operano a titolo di volontariato, docenti in pensione e studenti che aiutano i detenuti a preparare gli esami". Aosta: il Garante dei detenuti "la situazione del carcere è insostenibile" valledaostaglocal.it, 16 giugno 2017 La denuncia del Garante dei diritti dei detenuti della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, che ha inviato una nota al Garante nazionale dei detenuti e al Provveditore regionale, per sottolineare la situazione di criticità in cui versa la Casa circondariale di Brissogne, a causa dell’ormai annosa assenza di un Direttore titolare. "Dopo segnalazioni per le vie brevi, ho ritenuto di inoltrare una nota ufficiale al Garante e al Provveditore, in quanto, a mio avviso, la situazione del carcere di Brissogne è divenuta insostenibile". È quanto denuncia oggi con determinazione Enrico Formento Dojot, Garante dei Diritti dei detenuti della Valle d’Aosta. Precisa il Garante: "L’assenza di un Direttore stabile comporta un vuoto che spesso i detenuti, che lamentano di non ricevere risposte, colmano rivolgendosi al Garante, che non può e non deve vicariare la funzione. I Direttori "in missione" non possono che trattare le urgenze e si avvicendano in tempi sempre più brevi: nel mese di maggio ho ricevuto due note di richiesta di colloqui dei detenuti sottoscritte da due dirigenti diversi". Per Formento Dojot "Senza una guida, che riporti unitarietà di azione l’attività degli Uffici si frammenta e si disperde. Per altro, il personale della Casa circondariale opera sotto organico, a causa dei distacchi verso altri Istituti". Tutto questo perché occorrerebbe dare un’identità al carcere di Brissogne che, oggi, è sostanzialmente un ‘polmonè nei casi di sovraffollamento in altri Istituti, il che produce un turn over elevato, che si ripercuote negativamente sull’implementazione di attività lavorative e formative, attualmente molto carenti". Enrico Formento Dojot sottolinea che quello di Brissogne: "È un carcere che appare abbandonato a se stesso, quando, opportunamente ripensato, potrebbe sperimentare la custodia attenuata e diventare un fiore all’occhiello per l’intero sistema detentivo nazionale". Anche per questo Dojot ha chiesto al Provveditore " se condivide le mie riflessioni e quali azioni si intenda intraprendere, assicurando la mia disponibilità. Credo che sia doveroso intervenire, per prevenire eventuali episodi spiacevoli o gravi". Campobasso: area verde rinnovata in carcere per colloqui fra detenuti e famiglie primonumero.it, 16 giugno 2017 Una nuova area verde destinata ai colloqui tra le persone detenute in carcere e le loro famiglie è stata inaugurata ieri sera a Campobasso. Si tratta di uno spazio migliorato e più accogliente allestito per allontanare in particolare dai bambini, figli di detenuti, la percezione negativa dello stato del proprio genitore. Questo angolo di umanità valorizzata è stato curato dagli studenti dell’Istituto professionale per l’agricoltura "Pilla" di Campobasso grazie all’alternanza scuola-lavoro, questa volta all’interno di un progetto nato alla fine del 2015 e finanziato dalla Regione Molise, assieme a un intervento analogo attivato a Larino, per la promozione della genitorialità in carcere. "Percorsi, quelli di Campobasso e Larino, di assoluta importanza, ai quali abbiamo partecipato da subito con convinzione. E sempre con molta convinzione, come Regione, portiamo avanti nuove iniziative concrete in stretta sinergia con le Direzioni delle carceri molisane, illuminate e attente a dare alla reclusione il suo significato principale, la rieducazione tesa al reinserimento sociale - afferma il presidente Paolo di Laura Frattura -. L’ultima comprende la previsione di una riserva all’interno degli avvisi per i tirocini per l’inclusione lavorativa, di recente finanziati con il Fondo Fse 2014-2020, destinata alle persone recluse a Campobasso, Isernia e Larino e affidate alla custodia dell’Ufficio dell’esecuzione penale esterna. La collaborazione tra istituzioni è fondamentale per sostenere il recupero di chi ha sbagliato, come lo è il coinvolgimento delle scuole: un plauso speciale va all’Istituto "Pilla" di Campobasso e alla sensibilità del dirigente e degli insegnanti capaci di avvicinare in maniera costruttiva i loro studenti a realtà complesse e anche difficili. I ragazzi dell’Agrario hanno dato al nostro progetto il tocco finale della bellezza. E i sorrisi raccolti ieri sera per l’inaugurazione del nuovo spazio verde riempiono ancora adesso di senso e valore tutto l’impegno messo in campo". Ancona: il Garante dei diritti Andrea Nobili aderisce a "Orto sociale in carcere" centropagina.it, 16 giugno 2017 Ai detenuti verrà affidata la gestione autonoma di uno spazio da coltivare ad orto, con il supporto dei "tutor" agricoltori. Le attività operative, già avviate per il 2017, prevedono la formazione dei detenuti attraverso corsi su orticoltura, apicoltura, produzione della birra e gestione di un oliveto con l’assistenza dei tecnici dell’Assam. Il Garante dei diritti Andrea Nobili, aderisce al progetto "Orto sociale in carcere" da attuare presso l’istituto penitenziario di Barcaglione. É stato siglato l’accordo con l’Assam (Agenzia per i servizi nel settore agroalimentare delle Marche) che dal 2014 gestisce l’attività formativa per conto della Regione. Ai detenuti verrà affidata la gestione autonoma di uno spazio da coltivare ad orto, con il supporto dei "tutor" agricoltori. Le attività operative, già avviate per il 2017, prevedono la formazione dei detenuti attraverso corsi su orticoltura, apicoltura, produzione della birra e gestione di un oliveto con l’assistenza dei tecnici dell’Assam. La dotazione di attrezzature e materiale necessario per le attività agricole e per la produzione di piante direttamente in serra sarà incrementata. Ampliando le attività, potrà essere coinvolto un maggior numero di detenuti. "Il progetto si inserisce nell’ambito di quelle attività trattamentali che sono indispensabili per la responsabilizzazione, la risocializzazione e la riabilitazione del detenuto, nonché per la sua formazione professionale che può contribuire al futuro reinserimento lavorativo" afferma il Garante Andrea Nobili. Palermo: teatro, cucina e pet therapy, così i detenuti sono meno soli di Claudia Brunetto La Repubblica, 16 giugno 2017 Kira e Sara li aiuteranno a guarire dalla depressione, dall’insonnia e dalla solitudine. Sono due cani Labrador di colore nero che nelle scorse settimane hanno fatto il loro ingresso al carcere Ucciardone per stare al fianco di un gruppo di detenuti. Si tratta di un corso di pet therapy - uno dei primi nelle carceri italiane - che punta non solo ad aiutare chi vive in carcere sul fronte della sfera emotiva, ma anche a trasformare chi sta scontando una pena in un "assistente" di pet therapy. "Ci siamo resi conto - dice Maurizio Artale del centro Padre Nostro che organizza il corso all’Ucciardone - che i detenuti soffrono di molte patologie legate alla mancanza di relazioni e di affetti. La pet therapy può aiutare anche a diminuire l’uso dei farmaci, è molto importante". Così dieci detenuti, insieme con i cani, eseguono diversi esercizi che li aiutano a muoversi e a socializzare. "Anche lanciare una pallina aspettando che il cane la riporti - dice Nadia Adragna, biologa responsabile del corso - può essere utile come riabilitazione psico-motoria per un detenuto che soffre di depressione e che non ha più voglia neppure di fare movimento. I cani funzionano bene con i bambini autistici, con i down, con i malati di Alzheimer e devo dire che anche con i detenuti stiamo avendo ottimi riscontri". I detenuti studiano per diventare "assistenti" di pet therapy grazie ad alcune dispense preparate da un ragazzo autistico, Riccardo, che frequenta il centro Padre Nostro. Un piccolo circolo virtuoso che è destinato a coinvolgere sempre più detenuti. "Tanti detenuti - dice Rita Barbera, direttrice del carcere Ucciardone - mi chiedono di poter incontrare i loro cani, ma qui al momento non è possibile. Non siamo ancora attrezzati. Chissà se ci riusciremo un giorno. Questo corso per loro significa molto perché è un modo per portare i noti benefici dell’entrare in contatto con gli animali e in particolare con i cani all’interno del carcere". La pet therapy è soltanto l’ultima delle iniziative nate in carcere a favore dei detenuti. C’è anche il teatro e il cineforum e presto, sempre all’Ucciardone, un progetto per realizzare una lavanderia industriale, un pastificio e una sartoria. Anche al Pagliarelli ci sono già esperienze collaudate per offrire ai detenuti una finestra sul resto del mondo. Come il laboratorio delle "pupe" del Pagliarelli. Bambole di pezza cucite con materiali riciclabili, realizzate dalle donne in carcere. Oppure la manutenzione ordinaria della struttura affidata a una squadra di detenuti che stanno realizzando le docce dove ancora non ci sono. "Sono attività molto importanti - dice Francesca Vazzana, direttrice del Pagliarelli - Perché impegnano la popolazione detenuta e offrono un modello di riferimento molto utile a chi sta in carcere". Anche i ragazzi del carcere minorile Malaspina si danno da fare. Il progetto "Cotti in fragranza", per esempio, ha avuto un grande successo. Con lo slogan "Se non li gusti non li puoi giudicare", i giovani detenuti, grazie al supporto della cooperativa Rigenerazioni, hanno lanciato prodotti da forno, diventando così la prima impresa del sud Italia all’interno di un istituto penale minorile. Fiore all’occhiello due biscotti: "Buonicuore" frollino al mandarino, raccolto in terreni confiscati alla mafia a Ciaculli e "Parrapicca" con limone e zenzero. Presto saranno prodotti anche biscotti salati da accompagnare ai vini per l’ora dell’aperitivo. E in città i punti vendita che vogliono i biscotti si moltiplicano. C’è tanta richiesta. Milano: "Parole liberate", premiati i detenuti "poeti della canzone" comune.milano.it, 16 giugno 2017 Il riconoscimento a Giuseppe Catalano e Pietro Citterio. Presentato in anteprima nazionale il brano "P.S. Post Scriptum" musicato e interpretato da Virginio Simonelli, vincitore nel 2011 del talent show Amici. Parole e musica superano le barriere delle carceri italiane e arrivano al grande pubblico, per dare voce a chi voce non ha. È questo lo spirito di "Parole liberate: oltre il muro del carcere", il premio riservato ai poeti della canzone detenuti nelle carceri italiane, promosso dall’omonima associazione in collaborazione con l’Assessorato alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data, il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria- Ministero della Giustizia), il Cetec (Centro europeo Teatro e Carcere), con le associazioni A buon diritto, Ancot, Antigone, Centro Ramdass, Fed.I.M. (Federazione Italiana Musicoterapia), Ristretti Orizzonti, La Ribalta-Centro Studi Enrico Maria Salerno e Storieria.com. Questa mattina, presso l’Urban Center in Galleria Vittorio Emanuele II, i rappresentanti dell’Amministrazione comunale hanno premiato Giuseppe Catalano e Pietro Citterio, vincitori delle edizioni 2015/16 e 2016/17. L’evento è stata anche l’occasione per la presentazione del brano "P.S. Post scriptum" che il cantante Virginio Simonelli, vincitore dell’edizione 2011 del talent show Amici, ha eseguito per la prima volta davanti al pubblico presente. L’iniziativa nasce nel febbraio del 2014 dall’autore Duccio Parodi che l’ha sviluppata con Michele De Lucia (giornalista e scrittore) e Riccardo Monopoli (attore). L’idea, unica nel suo genere in Italia, è chiedere ai detenuti di non scrivere semplicemente una poesia ma diventare co-autori di una canzone. A una giuria di esperti è affidato il compito di selezionare il testo vincitore tra i partecipanti, che sarà poi affidato a un "big" della musica italiana perché la trasformi in canzone. In questo modo, sollecitando la creatività delle persone e combinando parole e musica, si apre un nuovo canale di comunicazione tra carcere e società civile. Attraverso la partecipazione a "Parole liberate, il detenuto viene invitato a esprimere i propri pensieri e le proprie emozioni portandoli all’esterno, oltre le mura del carcere, mentre le persone "libere", grazie a una maggiore conoscenza della realtà penitenziaria veicolata attraverso un registro inedito, si avvicinano a un mondo spesso soggetto a pregiudizi e paure. Il big della prima edizione 2014/15, che ha visto 58 testi in gara, è stato il cantautore Ron, che ha musicato "Clown Fail" di Cristian Benko in arte Lupetto, allora detenuto presso il carcere di San Vittore. Il big della seconda edizione (129 testi in gara) è Virginio Simonelli, già vincitore di Amici nel 2011. Virginio ha musicato e interpretato la lirica "P.S. Post scriptum" di Giuseppe Catalano, che all’epoca della partecipazione al Premio era detenuto presso il carcere di Opera. La terza edizione, dedicata alla memoria di Marco Pannella, è stata vinta da Pietro Citterio, detenuto presso il carcere di Opera, che con "Frammento" ha conquistato la giuria composta dall’attore Toni Garrani, il giornalista del quotidiano la Repubblica Ernesto Assante, il giornalista e conduttore televisivo Michele Cucuzza, il pianista di fama internazionale Giampaolo Pape Gurioli e la storica voce del gruppo I Giganti, Enrico Maria Papes. Il "big" che la musicherà verrà annunciato entro l’autunno del 2017. "Parole liberate" è una iniziativa di impegno sociale e civile senza scopo di lucro, che vuole contribuire a dare concreta espressione all’articolo 27 della Costituzione ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"), sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni nelle quali le persone detenute oggi scontano la pena e richiamare l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica sulla necessità di un effettivo reinserimento sociale - innanzitutto attraverso il lavoro - per coloro che hanno finito di scontare la pena. Milano: "Prova a sollevarti dal suolo", Festival di teatro-carcere milanopost.info, 16 giugno 2017 Parte il 24 giugno la Sesta edizione del Festival "Prova a sollevarti dal suolo", articolato tra il Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera e lo spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Punta dell’est, dove per l’occasione verrà inaugurata la Biblioteca Liquida, per un servizio di prestito di libri e dvd ai fruitori del Parco. Apre il Festival una raffinata fiaba per adulti e bambini, "Il lupo e i sette capretti", de La Casa delle storie, per le famiglie dei detenuti dell’Associazione Bambinisenzasbarre e tutti coloro che vorranno giocare con noi. La stagione estiva in Idroscalo riprende la nostra indagine sull’universo femminile con "Nonostante voi. Storie di donne coraggio", lo spettacolo reportage di Livia Grossi e prosegue con il nostro "Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama" che vedrà in scena la compagnia di detenuti ed ex detenuti, residente. A settembre la compagnia e.s.t.i.a. del carcere di Bollate porta in scena una drammaturgia collettiva che indaga il bullismo, la fragilità umana e le sue trasformazioni. Anche "La mula", di Rossella Raimondi, ci è parsa un’indagine profonda, ironica, tutta al femminile, di un universo che è molto presente, seppur taciuto, quello delle donne madri sacrificanti e sacrificabili. In quell’amplificatore emotivo che è il teatro del carcere, il festival prosegue all’insegna delle risate, per pensare, condividere un momento culturale, affrontare temi e miserie umane, insieme alla popolazione detenuta, nella leggerezza dell’ironico sentire. Allora ecco il Recital di Ale e Franz, David Anzalone con il suo "Targato H", il Recital di Max Pisu e la chiusura dell’esilarante regia di Rita Pelusio con "L’ultima cena - 3 Chefs Trio Comedy Clown". Opera Liquida, che incontra ogni giorno gli uomini reclusi nel carcere di Opera, con i quali lavora anche presso lo spazio in Idroscalo e agisce, attraverso la prassi teatrale, in assenza di giudizio, vuole con questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’essere umano, anche se ristretto o in fase di reinserimento. Firenze: i detenuti recitano Dante alle cinque del mattino quinewsfirenze.it, 16 giugno 2017 Centotrenta attori nel parco del Giardino Bardini impegnati dall’alba al tramonto a recitare le terzine dantesche. È il progetto "Piume 2021". Cinque repliche della durata di un’ora a partire dalle 5.30 del mattino, poi alle 7, alle 18.30, alle 20 e alle 21. A esibirsi saranno, domenica prossima, detenuti, migranti, persone con disagio economico, fisico e psichico e a rischio di esclusione sociale. In realtà non è la prima che accade una cosa del genere a Firenze. L’anno scorso, ad esempio, gli attori salirono sul Campanile di Giotto per cantare i versi danteschi. Quest’anno lo faranno nel giardino di villa Bardini. Il progetto si chiama ‘Piume2021. Legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna" e prosegue nell’esplorazione dell’universo letterario dantesco avviata dall’associazione Culter da anni, in vista delle celebrazioni per i 700 anni della morte di Dante Alighieri che si svolgeranno nel 2021. L’obiettivo dell’iniziativa è di promuovere l’inclusione sociale attraverso la poesia, in modo da fare un’esperienza culturale e artistica che finisce per accomunarli al di là delle appartenenze sociali, religiose, professionali. Sulmona (Aq): detenuto vince il Premio Internazionale di poesia "Il Liri" ilgerme.it, 16 giugno 2017 Ha vinto la terza edizione del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa "Il Liri". Il poeta, che parla al suo mare, all’attracco ad un lido straniero segnato da sabbia con il sogno di libertà, è un detenuto del carcere di Sulmona. Perché nonostante il luogo di ristrettezza e rieducazione, la parola poetica risulta non aver ostacoli e forse, i ricordi, le immagini, i sapori, sono ancora più nitidi e aiutano a sperare. Itaca, Ulisse Penelope e le atmosfere del ritorno. Negli ultimi versi il cambio di rotta, in una marea che cancella il passato, lo azzera e lo conduce allo stato di uomo libero. L’ospite della casa circondariale sulmonese oltre a cimentarsi con i versi poetici conquistando il prestigioso premio, si dedica allo studio, frequenta infatti il quarto anno della scuola agraria. Il percorso di avvicinamento all’evento e al premio è stato sostenuto dalla dottoressa Fiorella Ranalli capo dell’area trattamentale della struttura penitenziaria sulmonese e dalle insegnanti, le professoresse Settimia Marisa Valeri e Daniela Verzino. Al bando le armi nucleari, appello all’Italia Il Manifesto, 16 giugno 2017 Nei giorni scorsi sono iniziati nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite i lavori della sessione decisiva del negoziato che il 7 luglio definirà il trattato che si propone di eliminare le bombe nucleari dal mondo. Sarà un evento storico. Oggi esistono trattati internazionali che mettono al bando le armi chimiche e batteriologiche, il cui uso è considerato dalla comunità internazionale come crimine, ma rimane il paradosso che non esiste nessun trattato che metta al bando le armi più inumane di tutte, quelle nucleari. Circola già la bozza di un trattato che sarebbe il primo a coinvolgere i paesi della Terra in una iniziativa per la liberazione del nostro pianeta dal più grave pericolo per l’umanità, il possibile uso delle armi di sterminio di massa che non siamo ancora stati capaci di vietare. La sola minaccia dell’uso e la sola esistenza delle armi nucleari sono fonti di violenza e di paura fra i popoli. Come Manlio Dinucci ricordava sul manifesto del 6 giugno, fino ad ora il governo italiano non ha partecipato al negoziato, allineandosi con gli Stati Uniti e gli altri paesi della Nato. Vari appelli hanno chiesto al Parlamento di dare disposizioni al governo perché partecipi attivamente a tali trattative e aderisca al trattato che sta per essere approvato dalla maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, ma finora il governo italiano non ha indicato tale intenzione. L’esigenza di eliminare per sempre dalla storia le armi nucleari è stata rimarcata con parole molto ferme da papa Francesco, ma anche autorevoli esponenti politici, che avevano ricoperto cariche di grande responsabilità nella politica degli Stati Uniti, l’avevano proclamata da vari anni: gli ex Segretari di Stato o della Difesa Henry Kissinger, William Perry e George Shultz nel 2007, e nuovamente nel 2008, avevano chiesto un mondo libero dalle armi nucleari. E come dimenticare l’appello di D’Alema, Fini e Parisi del 2008? Perché non fanno sentire di nuovo la loro voce ora, per risvegliare un mondo politico obnubilato da squallide manovre elettoralistiche e i miopi giochi di potere? Una guerra nucleare seminerebbe milioni di vittime e farebbe regredire l’umanità a livelli primordiali. Il rischio che essa scoppi, a causa delle tensioni esasperate e incontrollabili, o per un tragico errore (come si è verificato più volte, scongiurato solo per il sangue freddo di alcuni ufficiali), è oggi il più alto dall’inizio della guerra nucleare. Lo ha denunciato all’inizio di quest’anno il pool di esperti del Bulletin of the Atomic Scientists, che valuta l’insieme delle tensioni e dei problemi che gravano sull’umanità, dal riscaldamento globale, allo sviluppo demografico, alle manovre della finanza pubblica e privata, alle esplosive sperequazioni economiche e sociali, alle guerre sempre più devastanti. L’umanità ha assoluto bisogno di un alto livello di cooperazione e di coordinamento sul flusso e la distribuzione di energia, di soldi, di risorse umane. Il divieto delle armi nucleari e il relativo disarmo sarebbero una misura essenziale per ridurre questa palese altissima conflittualità. Sarebbe un segnale di arresto e inversione di questa tendenza distruttiva, che sta portando l’umanità verso l’abisso. Probabilmente ridurrebbe anche l’ansia globale che incombe su miliardi di persone, che li rende facile preda per pensieri patologici estremi, collettivi e individuali, visto che la violenza nucleare esercitata con la sua permanete minaccia è incomparabilmente più grande di qualsiasi altra violenza bellica, incluso gli atti assassini-suicidi. La minaccia nucleare con la sua eventuale immensa distruttività dissimula e manipola facilmente ogni sistema e valore normativo ed etico, che di regola rende possibile senza estrema violenza la convivenza umana in qualunque contesto sociale e familiare. Pertanto il disarmo nucleare dovrebbe essere al primo posto nella discussione politica nazionale e internazionale. Su coraggio, signore e signori che siete stati eletti in Parlamento perché ci assicuriate un futuro meno violento e più sicuro, e voi del governo, che siete stati incaricati dal Parlamento di operare per il bene della presente e delle future generazioni, fate sì che l’Italia aderisca ad un trattato che consenta, davvero, di arrivare ad un "mondo senza armi nucleari". ***Angelo Baracca, Claudio Giangiacomo, Joachim Lau, Giorgio Nebbia (Ialana Italia) Ius Soli. Negare la cittadinanza non allontana i pericoli di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 giugno 2017 Sarebbe auspicabile che un provvedimento così delicato per il nostro futuro passasse da un’intesa larga Perché questa riforma necessaria va anche condivisa. Le intemperanze leghiste di ieri al Senato (in piena sincronia con quelle di gruppuscoli dell’ultradestra appena fuori dal Palazzo) segnano un nuovo picco di tensione, di certo non l’ultimo, nell’assai accidentato percorso parlamentare dello ius soli. La legge, passata quasi due anni fa alla Camera e insabbiata finora sotto migliaia di emendamenti in gran parte strumentali, è ora incardinata in Aula e, ove approvata, consentirebbe a circa 800 mila ragazzi, figli di stranieri ma nati o cresciuti qui, di prendere infine la nostra cittadinanza (per "diritto di suolo", appunto). Attenzione, i dettagli contano. E qui conta proprio quell’avverbio: infine. Perché, certo, in questi tempi di ferro e sangue, non sono incomprensibili i timori di tanti italiani di fronte a chi si percepisce diverso per abitudini, cultura o magari opzione religiosa. Eravamo "brava gente", aliena dal razzismo, finché in Italia gli unici stranieri erano i turisti. Le migrazioni degli ultimi vent’anni hanno cambiato il sentire comune, i morsi della crisi economica e il terrore islamista in tante piazze europee hanno fatto il resto. Non è casuale che i leghisti nell’Aula e i neofascisti fuori gridassero all’"invasione", cavalcando appunto tali non incomprensibili timori. E tuttavia nella cavalcata c’è un imbroglio. Perché questi ragazzi, le "seconde generazioni", non ci stanno invadendo: da un pezzo sono già qui, tra noi; sono i figli dei primi migranti e da anni in mezzo a noi studiano o lavorano, chiedendo infine di essere riconosciuti da quella che considerano la loro nuova patria. Intendiamoci: nessuno può immaginare lo ius soli pressoché automatico (la cittadinanza assunta tout court in base al luogo di nascita) che ha in fondo segnato la storia di un grande Paese dalla frontiera mobile e dall’immigrazione fondante come gli Stati Uniti. La vecchia Europa ha radici ben più profonde, tradizioni secolari. E il cuore culturale di questa vecchia Europa, certo, siamo noi. Ma, attenzione, in Europa siamo anche il fanalino di coda, o quasi, nel riconoscimento dei nuovi cittadini: Germania, Francia e Inghilterra, pur con ragionevoli paletti, ci stanno ben davanti. La versione italiana ora in discussione prevede un diritto di suolo assai temperato (subordinato in sostanza allo status di lungo soggiornante di almeno un genitore) e, accanto ad esso, uno ius culturae assai intrigante: ne beneficia lo straniero entrato in Italia prima dei 12 anni che abbia frequentato regolarmente un percorso formativo di almeno cinque anni. Chi avesse modo di conoscere qualcuno delle "seconde generazioni" scoprirebbe che l’opzione culturale non è secondaria: spesso questi ragazzi hanno fior di titoli di studio e parlano un italiano assai migliore di molti tra coloro che ieri protestavano (vale appena la pena di notare come la Lega, che ha considerato storicamente l’italianità un disvalore o un insulto, tenti in nome dell’italianità di escludere dall’Italia i nuovi italiani...). Detto questo, però, sarebbe davvero auspicabile che un provvedimento così delicato per il nostro futuro passasse da un’intesa larga e raggiungesse il punto di compromesso più accettabile per la più ampia platea. Perché questa riforma necessaria va anche condivisa. E se perfino esponenti responsabili dell’area moderata (valga per tutti Stefano Parisi) avanzano dubbi sul tema della sicurezza nazionale, significa che il dibattito deve essere quanto più possibile serio e autentico. In realtà mischiare i problemi non pare una buona cosa. Negare ai nuovi italiani la cittadinanza (che poi significa lasciarla così com’è adesso: più lenta e umiliante da ottenere) non ci mette affatto al riparo da ondate migratorie fuori controllo e pericolosi radicalismi tra i nuovi arrivati. Sostenere che la questione migratoria non sia un’emergenza, qui e ora, in un Paese che ha attorno frontiere sbarrate, perde di vista ogni giorno frotte di clandestini e dovrà forse accogliere quest’anno più di 200 mila sbarchi è certamente puro abbaglio irenico. L’Italia è un imbuto senza sbocchi e la questione migratoria rischia di far da detonatore a tutte le nostre questioni irrisolte (da quella meridionale a quella abitativa, dall’abulia burocratica al feroce attivismo criminale), stravolgendo la nostra democrazia. A questa emergenza il Viminale sta lodevolmente cercando risposte che, condivise, sarebbero ben più cogenti. Così come la nostra politica estera si gioverebbe di forze responsabili del Paese che facessero quadrato in Europa, isolando chi specula per un pugno di voti in più. Ma i ragazzi delle seconde generazioni non sono il problema, sono una possibile soluzione. Sono mediatori naturali tra la cultura dei padri e la nostra, che è diventata loro facendone in qualche modo degli "arcitaliani", perfino pieni di ingenuo orgoglio d’appartenenza: l’esatto contrario di quei terroristi naturalizzati in Inghilterra o in Francia le cui foto ieri mattina i militanti di Casa Pound inalberavano davanti al Senato con lo slogan irridente "grazie ius soli". Considerare compatrioti, come facciamo adesso in virtù del diritto di sangue, quei figli di italiani che magari non hanno mai messo piede in patria, e stranieri questi figli d’Italia che ci siamo cresciuti, trasmettendo loro le nostre leggi e la nostra cultura, beh, quella sì che sarebbe la ricetta del risentimento futuro: un piatto avvelenato che faremmo ancora in tempo a evitare. Ius Soli in Senato, tra urla e spintoni. Lega: "Legge folle" di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 giugno 2017 Urla, spintoni e insulti. Nel giorno in cui lo ius soli viene incardinato al Senato, Palazzo Madama si trasforma in una bolgia. L’idea di concedere la cittadinanza italiana ai bimbi, figli di cittadini stranieri, nati nel nostro Paese non va proprio giù alla Lega che fa scattare "la rissa" in Aula con tanto di cartelli, assalti ai banchi del governo e un contuso: la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, finisce in infermeria con un gomito dolorante. "Sto bene, grazie a tutte e a tutti. Non saranno i tentativi di sopraffazione a fermare una battaglia di civiltà come lo Ius soli", twitta poco dopo la titolare dell’Istruzione. Ma se il Carroccio fa rumore, il M5S trama contro il ddl dietro le quinte. A innescare la miccia della contestazione, infatti, sono i grillini che insistono perché prima dello ius soli il Senato si esprima sulle pregiudiziali di costituzionalità del decreto sui vaccini, come previsto. I pentastellati usano tutte le armi dell’ostruzionismo parlamentare per prendere tempo. Ma Loredana De Petris, di Sinistra italiana, chiede e ottiene l’inversione dell’ordine del giorno: prima lo ius soli, poi i vaccini. I dem votano a favore, i grillini e il resto della destra contro. È l’inizio del caos. "Prima gli italiani", "stop invasione", "no ius soli" c’è scritto sui cartelli esposti dai rappresentanti del Carroccio. I commessi fanno fatica a contenere i parlamentari. L’obiettivo è farsi espellere per costringere il presidente Pietro Grasso a sospendere la seduta. E in parte ci riescono, quando il senatore Raffaele Volpi assesta un "vaffa" nei confronti della presidenza. Grasso non può far altro che mostrare il cartellino rosso all’indirizzo del parlamentare leghista, con grande soddisfazione di Roberto Calderoli che immediatamente puntualizza: "Presidente, lei ha completamente disatteso quanto prevede il regolamento perché il senatore Volpi è ancora presente quindi lei ha l’obbligo di sospendere la seduta". Grasso non ci pensa due volte e ritira il provvedimento spiazzando il suo interlocutore. "I senatori della Lega stanno facendo di tutto per bloccare la folle legge voluta dal Pd", scrive Matteo Salvini su Facebook. "La cittadinan- za va desiderata, e conquistata! Noi non molliamo!". Sui figli dei migranti, Carroccio e Forza Italia ritrovano la sintonia di un tempo. "Gentiloni e Renzi hanno più a cuore gli stranieri che entrano illegalmente in Italia che i nostri cittadini", tuona Maurizio Gasparri. "È una legge incostituzionale, assurda, che incoraggerebbe l’invasione da parte degli stranieri". Il Pd non sembra intenzionato a cedere, forte anche del sostegno di Cgil, Cisl e Uil. "Non parliamo solo di dare cittadinanza a bambini che sono nati in Italia, ma a ragazzi che hanno vissuto in Italia, hanno studiato in Italia, sono cresciuti in Italia", precisa capogruppo dem Luigi Zanda. "Abbiamo il dovere di approvare questa legge perché le persone cui ci rivolgiamo sono italiani e per questo hanno diritto ad avere cittadinanza". E mentre i 5 Stelle si nascondono dietro i tecnicismi, fuori dall’Aula i fascisti di Casa Pound e Forza Nuova provano a sfondare i cordoni della polizia per occupare il Palazzo. Per impedirglielo intervengono gli idranti e qualche carica. La legge è incardinata. Cari politici, votate lo Ius Soli, è una questione di civiltà di Annamaria Furlan* Il Dubbio, 16 giugno 2017 Caro direttore, sono più di un milione gli italiani senza cittadinanza, considerati stranieri dalle nostre istituzioni e dalle leggi, ma di fatto persone che studiano nelle nostre scuole, si laureano nelle nostre Università, lavorano e pagano le tasse come ciascuno dei cittadini italiani. Ecco perché sono assolutamente inconcepibili le titubanze del ceto politico, le divisioni ideologiche in Parlamento sull’approvazione definitiva della nuova legge sulla cittadinanza. È una questione di civiltà, di maturità culturale del nostro paese, oltre che di giustizia sociale. Da molti anni il sindacato si batte con l’obiettivo di consentire a migliaia di giovani nati e cresciuti in Italia, figli di immigrati che hanno scelto di vivere nel nostro Paese, di essere riconosciuti come cittadini italiani. Il sindacato è stato e sarà sempre un punto di riferimento per gli immigrati e per le loro famiglie. Questo progetto di riforma è stato ampiamente dibattuto e sostenuto dalla società civile e da tante componenti dell’associazionismo cattolico e laico che, condividendo le stesse sensibilità, hanno a loro volta dato vita ad altre campagne a favore del riconoscimento dello "Ius soli". Ora siamo al punto di svolta. Il Senato può approvare in questi giorni, prima della fine della legislatura, le norme già votate dalla Camera due anni fa. Le istanze di tutela e di promozione richieste da questi "giovani di seconda generazione" non devono e non possono essere disattese. Non possiamo consentire che lì dove l’integrazione ha superato ogni diversità, sia la politica ad alzare le barriere. Sarebbe un errore molto grave. Questi ragazzi non sono immigrati, non vengono o fuggono da un altro paese, non hanno attraversato frontiere. Sono qui in Italia dall’inizio della loro esistenza. Sono una risorsa per il nostro paese, si battono per la cultura della legalità, fanno sport insieme ai nostri figli. Per l’Istat oltre il 70% dei cittadini italiani è favorevole alla riforma. Eppure c’è chi vuole negare a questi giovani il diritto di partecipare alla vita politica e sociale di un Paese che è il loro, ma che li considera "stranieri", soggetti con permesso di soggiorno, "cittadini di serie b". Non facciamo diventare questo tema oggetto di ulteriori populismi, di "revanche" politiche, di chiusure antistoriche o di sentimenti xenofobi che nulla hanno a che fare con la storia sociale di un paese di immigrati come è stata per tanti anni l’Italia. Ecco perché facciamo appello al senso di responsabilità di tutte le forze politiche affinché mettano da parte le divisioni e diano finalmente al Paese ed ai figli d’immigrati nati e/ o cresciuti in Italia il diritto di essere considerati definitivamente italiani. La politica deve prendere atto che i tempi sono ormai maturi, che dare la cittadinanza alle "seconde generazioni" è un gesto di democrazia, di civiltà, di rispetto dei diritti universali. Non dobbiamo più permettere che la vita di ragazzi a tutti gli effetti italiani sia legata ad un permesso di soggiorno ed al rischio di un foglio di via. Basta con gli italiani senza cittadinanza. Basta con il sentirsi stranieri a casa propria. *Segretaria Generale Cisl No ai profughi, anche in Polonia il referendum modello Orbán di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 16 giugno 2017 Polemiche per la frase su Auschwitz dalla premier Szydlo che suona come una giustificazione al "nie" incondizionato di Varsavia al ricollocamento dei rifugiati. Frizioni con Bruxelles. "Auschwitz è stata una grande lezione e dimostra che bisogna fare tutto ciò che è possibile per proteggere i nostri cittadini", ha dichiarato la premier polacca Beata Szydlo mercoledì in un discorso che strumentalizza la tragedia del Novecento. Una sortita infelice quella di Szydlo, in occasione dell’inaugurazione del museo dei Giusti polacchi a Auschwitz, che suona come una giustificazione al nie incondizionato di Varsavia al ricollocamento di profughi sul proprio territorio. Non è certo una coincidenza che le parole della prima ministra della destra populista del partito Diritto e giustizia (PiS) siano state pronunciate all’indomani dell’annuncio dell’apertura di una procedura di infrazione Ue contro Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia per il mancato accoglimento dei rifugiati da Italia e Grecia. Una decisione che era stata presa a maggioranza qualificata due anni fa dai ministri dell’Interno Ue. Praga, Budapest e Varsavia non hanno preso bene la notizia ma Angela Merkel non si è scomposta: "La Commissione Ue fa quello che è suo dovere fare o crede di dover fare, per cui non c’è, per me, nessuna ragione per criticarla", ha commentato la cancelliera tedesca. Nel caso della Polonia il nie è anche un dietrofront nei confronti di Bruxelles, visto che la formazione di centro-destra Piattaforma civica (Po) dell’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, aveva dato il proprio via libera all’accoglienza di almeno 6.000 immigrati prima della débâcle elettorale alle politiche dell’ottobre 2015 per mano del PiS. Chi pensava che la visita di papa Francesco lo scorso luglio, durante la Giornata mondiale della gioventù a Cracovia, potesse in qualche modo ammorbidire la posizione del PiS, in nome della misericordia cattolica, si è dovuto ricredere: "Un via libera ai profughi sarebbe comunque peggio delle multe dell’Unione europea", aveva tuonato il mese scorso il ministro degli Interni polacco Mariusz Blaszczak quando la notizia dell’ennesima reprimenda Ue nei confronti di Varsavia era già alle porte. L’annuncio da parte del presidente polacco Andrzej Duda di un referendum sui profughi, sulla falsariga di Budapest, è un altro sintomo chiaro della politica di orbanizacja della Polonia voluta dal partito fondato dai fratelli Kaczynski. La notizia data dal tabloid Super Express, è attendibile anche alla luce dalle circa 400.000 firme finora raccolte dalla lista parlamentare degli zmieleni "frantumati" del rocker populista Pawel Kukiz, promotrice del plebiscito. Ne mancano ancora 100.000 all’appello, quota che dovrebbe essere comunque raggiunta entro il 2019, l’anno in cui il PiS intende indire il referendum. Non a caso Duda ha intenzione di organizzare la consultazione a ridosso delle prossime elezioni parlamentari proprio per sfruttare alle urne lo spauracchio degli immigrati. Pochi detenuti, la Svezia chiude 4 carceri Ansa, 16 giugno 2017 Il numero di chi vive dietro le sbarre è sceso dell’1% ogni anno dal 2004. Le strutture saranno vendute o riconvertite Una delle celle del carcere di Åby. Né indulto, né amnistia. In Svezia non ce n’è bisogno. Perché il numero delle persone che nel Paese scandinavo vive dietro le sbarre decresce "naturalmente" da quasi dieci anni. I dati parlano chiaro: dal 2004 il calo delle presenze è stato dell’1 per cento ogni anno. Mentre dal 2011 al 2012 il crollo è stato addirittura del 6 per cento. Un andamento virtuoso che, secondo Nils Öberg, a capo dei servizi penitenziari svedesi, si ripeterà anche quest’anno. È nata da qui la decisione delle autorità svedesi di chiudere quattro delle carceri del Paese - quelle di Åby, Håja, Båtshagen e Kristianstad - oltre a un centro di recupero. Strutture che saranno vendute o riconvertite. Non è chiaro perché in Svezia i detenuti siano sempre meno. "La speranza è che alla base di questa tendenza ci siano i nostri sforzi in materia di riabilitazione e prevenzione", ha detto Öberg in un’intervista al "Guardian". "Ma se anche fosse così non sarebbe sicuramente sufficiente per spiegare un calo così grande delle presenze". Un’altra possibilità potrebbe essere la tendenza dei giudici di assegnare pene più miti per i reati legati alla droga, in seguito ad una decisione del 2011 della Corte suprema svedese. O per quelli legati a furti e crimini violenti che, dal 2004 al 2012, sono scesi rispettivamente del 36 per cento e 12 per cento. "Quel che è certo - conclude Öberg - è che la pressione del sistema della giustizia penale negli ultimi anni è diminuita notevolmente". Secondo l’"International Centre for Prison Studies", tra i Paesi con il più alto numero di detenuti la Svezia si colloca al 112 esimo posto (6,364, 67 ogni 100,000 abitanti). L’Italia è alla posizione numero 27 (64,835 persone che vivono dietro le sbarre, 106 ogni 100,000). In cima alla classifica ci sono gli Stati Uniti, dove vivono dietro le sbarre 2,239,751 persone (716 ogni 100,000). Al secondo posto la Cina, con 1,640,000 carcerati (475 ogni 100,000). Terzo posto per la Russia dove la popolazione carceraria è pari a 681,600 (475 ogni 100.000). Turchia. Dalla cattedra al carcere duro, l’ingiustizia infinita di Erdogan di Sabrina Duarte e Davide Lemmi Il Manifesto, 16 giugno 2017 Da piazza Taksim alle aule dei tribunali. Il paese si mobilita per Nuriye e Semih, simbolo della resistenza alle purghe scattate dopo il fallito golpe dello scorso luglio. Monta la protesta contro i quasi 140 mila licenziamenti e i processi farsa. Una folla di giovani e meno giovani riempie ancora una volta piazza Taksim, simbolo della rivoluzione di Gezi Park e teatro della repressione. "Lunga vita alla nostra causa e alla nostra resistenza", intonano a gran voce mentre sollevano cartelli con le scritte, "rivogliamo il nostro lavoro" e "governo illegale". Gli agenti di polizia restano in disparte, ai margini della piazza. La protesta è pacifica, ma decisa. Alcuni mostrano le foto di Nuriye Gülmen e Semih Özakça, divenute ormai simbolo della lotta contro l’oppressione; "Ridategli il lavoro", "Non siete soli", continuano a ripetere. È anche per loro che la Turchia si sta mobilitando. Da settimane manifestazioni spontanee vanno avanti nelle maggiori città del paese. Nuriye era docente universitaria, mentre Semih, insegnava in una scuola elementare. Entrambi sono stati licenziati, come altri 138.147 tra funzionari, insegnanti e accademici, nel corso delle purghe volute da Erdogan dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016. Tra i primi a inscenare proteste, i due insegnanti si ritrovavano a Yuksel, una piccola stradina del centro di Ankara, per difendere i propri diritti. "Nuriye è stata arrestata 15 volte, e 15 volte è tornata in strada per chiedere al governo di ridarle il lavoro", racconta la giornalista turca Günes Seferoglu. Al 60° giorno di protesta entrambi hanno avviato lo sciopero della fame. "A quel punto sono diventati il simbolo della resistenza - continua Günes - Il loro gesto ha dato forza a migliaia di altri che hanno cominciato a seguirli in piazza". Il sentimento di forte solidarietà da parte della popolazione, ha però scatenato la dura repressione del governo. Il 23 maggio di quest’anno, Nuriye e Semih sono stati arrestati ad Ankara con l’accusa di "fomentare il caos". In carcere stanno continuando lo sciopero della fame, oggi è il 94esimo giorno, e le loro condizioni di salute sono sempre più critiche. "Vanno avanti solo con acqua e zucchero. Nuriye si muove sulla sedia a rotelle perché non riesce più a camminare, ed entrambi cominciano a perdere lucidità", spiega Ebru Timtik, il loro avvocato, che incontriamo durante la protesta di Taksim. L’8 giugno, due giorni prima di scendere in piazza, Ebru, in una piccola aula del tribunale di Caglayan a Istanbul, ricordava anche al giudice le pessime condizioni di salute dei suoi assistiti e attaccava le crescenti violazioni di diritti umani nel Paese. Il discorso però va oltre la storia di Nuriye e Semih. Ebru infatti è lì per difendere anche se stessa. A gennaio del 2013 è stata arrestata insieme ad altri 9 avvocati. L’accusa, essere membro dell’organizzazione terroristica di Fethullah Gullen, l’imam che secondo il presidente turco Erdogan avrebbe ideato il fallito golpe. Ebru è stata in prigione 14 mesi, poi la scarcerazione. Ma il processo, giunto alla settima udienza, sembra non avere mai fine. "Cercano in tutti i modi di allungare i tempi" dice Günes, seduta al nostro fianco nell’aula. Il tono determinato con cui si rivolge al giudice che la guarda impassibile, ci distrae: "Smettetela di dire che siamo membri di organizzazioni terroristiche. Sapete tutti la verità. Il punto è che non accettiamo atteggiamenti fascisti, per questo ci hanno arrestato". Günes il meccanismo: le accuse mosse ad Ebru sono supportate da testimoni fantasma che nessuno ha mai visto. Secondo la giornalista, i teste sarebbero stati costretti a deporre false testimonianze sotto minaccia di tortura. In tutta la Turchia quasi 3mila tra giudici, avvocati e procuratori sono in carcere, a molti di loro è stata revocata la licenza. "La maggior parte di quelli che invece sono seduti ancora al loro posto vive nella paura di perdere il lavoro o di essere arrestati, per queste ragioni si adattano alle disposizioni del governo", ci spiega Ebru in un momento di pausa prima di rientrare nell’aula. L’udienza continua. A prendere la parola sono gli avvocati difensori che attaccano con determinazione il giudice. Le parole sono dure, ma l’atmosfera non è tesa. A quattro anni dall’inizio del processo, in aula tutti conoscono il proprio ruolo. L’impasse sembra creato ad hoc. I continui rinvii, le gravi accuse, l’indifferenza dei giudici, la stagnante burocrazia che aleggia sugli atti, sono gli ingredienti di un meccanismo a spirale che mira ad annientare la resistenza degli attori di questo teatro. In mezzo al pubblico ci sono anche molti avvocati europei. "Siamo francesi, spagnoli, italiani, tedeschi - ci dice una di loro, veniamo qui da quando il processo è cominciato per sostenere i nostri colleghi e difendere, con la nostra presenza, i diritti fondamentali dell’essere umano". Si rientra in aula. La parola va al giudice che liquida tutti velocemente, fissando l’ennesima udienza. Usciamo dal tribunale insieme a Ebru. "Lo chiamano palazzo di giustizia, ma sono solo pietre e pilastri - gli occhi si abbassano e il sentimento di amarezza prende per un attimo il sopravvento - Sono molto preoccupata per il futuro del mio paese, non per me. Io sono una combattente". Una combattente che ha subito i soprusi delle carceri turche, "Ci hanno preso a calci, ci hanno legato, ci buttavano a terra, sedendosi sopra di noi. Si rifiutavano persino di darci un bicchiere d’acqua". Ma la prigione e le torture non sono riuscite ad annientare la determinazione e la speranza di Ebru. La sua forza nasce da una consapevolezza, "Ho il supporto della mia grande famiglia, di tutti i miei colleghi e clienti, come Nuriye e Semih. Persone che ogni giorno lottano per la verità, la libertà e la giustizia". Turchia. Gli oppositori di Erdogan in marcia per la giustizia di Valerio Sofia Il Dubbio, 16 giugno 2017 Il leader Kilicdaroglu: "non c’è pace senza legge". Una media di quasi 150 persone al giorno sono state arrestate in Turchia nell’ultimo anno, dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016. Da al- lora vige lo stato di emergenza e sono 50 mila le persone in carcere per presunti legami con il tentato colpo di Stato e soprattutto con la rete di Fetullah Gulen, leader religioso ex alleato del presidente Erdogan e ora considerato il nemico pubblico numero uno e l’ispiratore del golpe. Ankara ha stabilito che il primo anniversario del butch sarà celebrato con una settimana di commemorazioni dal 10 al 16 luglio. Nonostante tutto però le opposizioni non mollano nella loro lotta contro la repressione e la stretta sui diritti e ieri, dal parco Guven ad Ankara, è partita la "Marcia per la Giustizia’ diretta a Istanbul. "Non vogliamo vivere in un Paese in cui non esiste giustizia. Non c’è pace in un Paese in cui non esiste giustizia. Vogliamo vivere in pace", ha dichiarato il leader del principale partito turco di opposizione, il Chp, Kemal Kilicdaroglu. Migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione che vuole arrivare a Istanbul in concomitanza con la celebrazione dello sventato golpe (che anche le forze di opposizione condannarono immediatamente). Il deputato del Chp non è certo l’unico politico messo in carcere per svariati motivi, molti legati appunto agli eventi di un anno fa, altri ad attentati e soprattutto alla repressione dei curdi e del partito curdo. I curdi rappresentano un’altra categoria consistente di chi è stato imprigionato negli ultimi mesi. Mentre per quel che riguarda i gulenisti, dietro le sbarre sono stati messi militari, poliziotti, giornalisti, magistrati, insegnanti e molti altri, senza contare il numero ancor maggiore di professionisti in questi campi cui è stato tolto il diritto di lavorare: 150 mila persone sono state licenziate o sospese in Turchia. In particolare due professori epurati dopo il fallito golpe in Turchia, Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, sono il simbolo della protesta contro quelle purghe, e proprio oggi raggiungeranno il centesimo giorno di sciopero della fame contro il proprio licenziamento. Turchia. 25 anni di carcere al deputato d’opposizione Berberoglu euronews.com, 16 giugno 2017 Ancora un gradino nella discesa agli inferi dell’opposizione in Turchia. Il tribunale di Istanbul ha pronunciato una condanna a 25 anni di reclusione per Enis Berberoglu, deputato socialdemocratico del Chp. Berberoglu è stato arrestato immediatamente dopo la sentenza. "Cari colleghi, compagni di partito, cari amici, non è la prima volta che entro in un tribunale. Già tante volte abbiamo visto massacrare la giustizia in questo edificio che solo nominalmente è una Corte ma che con la giustizia non ha nulla a che vedere" ha detto Berberoglu subito prima della sentenza. Una sentenza che ha scatenato la protesta dell’opposizione che in Parlamento ad Ankara ha abbandonato l’aula. Berberoglu, a sua volta giornalista ed ex-direttore della testata "Hurriyet", è stato riconosciuto responsabile della fuga di notizie riguardo all’entrata in Siria, nel gennaio 2014, di un convoglio carico di armi scortato dai servizi di Ankara. La notizia e le immagini dei tir erano stati pubblicati nel 2015. La stessa vicenda era costata 3 mesi di carcere all’ex-direttore di "Cumhuriyet" Can Dundar, fuggito in Germania, e al caporedattore Erdem Gul. È la prima volta che la giustizia turca condanna un parlamentare turco, nonostante Berberoglu raggiunga nelle carceri di Erdogan altri 11 deputati curdi, tra cui il leader dell’Hdp Selhattin Demirtas. Egitto. Escalation della censura digitale: i siti bloccati sono oltre 60 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 giugno 2017 "Pubblichiamo quello che le autorità non vogliono che la gente legga". Sono le parole di Lina Attallah, direttrice del portale indipendente d’informazione Mada Masr, tra i primi su cui si è abbattuta, il 24 maggio, la censura egiziana, seguito a ruota da Daily News Egypt, Elborsa e Masr al Arabia. Da allora, i siti bloccati risultano almeno 63, 48 dei quali a contenuto informativo più altri cinque dai quali fino all’11 giugno si potevano scaricare applicazioni di messaggistica come Vpn e Tor. Le autorità egiziane non hanno chiarito quali attività illegali stessero svolgendo e non hanno fornito dettagli sulla base legale dei provvedimenti. In alcune interviste, funzionari del governo hanno fatto generico riferimento al "sostegno al terrorismo" e alla "pubblicazione di notizie false". La stampa governativa ha riportato fonti d’intelligence che avevano giustificato i provvedimenti invocando il "contrasto al terrorismo" e accusando - senza fornire alcuna prova - il Qatar di sostenere alcuni dei portali bloccati. Persino nei peggiori momenti della repressione ai tempi di Mubarak le autorità non erano arrivate fino al punto d’impedire l’accesso a tutti i portali informativi indipendenti. Non è neanche chiaro se, per bloccare i siti siano state utilizzate le leggi ordinarie - che già prevedono la censura per motivi di sicurezza nazionale - o le disposizioni dello stato d’emergenza, dichiarato per tre mesi il 9 aprile a seguito degli attentati contro due chiese a Tanta ed Alessandria. Lo stato d’emergenza conferisce al governo ampi poteri di sorveglianza e di censura. Il 10 aprile il presidente del parlamento, Ali Albel’al, ha annunciato che questi poteri avrebbero riguardato anche Twitter, Facebook e YouTube, piattaforme usate a suo dire dai "terroristi" per comunicare tra loro e ha minacciato di procedimenti giudiziari gli autori di reati informatici. Due dei siti bloccati, Daily News Egypt ed Elborsa, appartengono alla Business News Company, già munita di licenza governativa. Nel novembre 2016, tuttavia, il governo ha congelato i suoi patrimoni accusandola di legami con la Fratellanza musulmana, senza fornire alcuna prova. Da allora i 230 dipendenti non ricevono lo stipendio. I rappresentanti di molti dei siti bloccati hanno presentato esposti al Sindacato dei giornalisti, al Consiglio nazionale della stampa, al ministro delle Comunicazioni e alla procura generale senza ricevere finora alcuna risposta. Mada Masr si è rivolto a un tribunale amministrativo ma il suo appello non è stato ancora preso in esame.