L’ergastolo non è la soluzione: l’ergastolo è il problema Il Dubbio, 15 giugno 2017 Rosy Bindi, affermando la necessità di tenere Totò Riina in cella fino alla morte, martedì ha dichiarato: "A meno che non si voglia postulare l’esistenza di un diritto a morire fuori dal carcere che non è supportato da nessuna norma". Pubblichiamo di seguito una lettera inviata dal Papa in gennaio ai carcerati di Padova. Messaggio di Jorge Mario Bergoglio: "Ho saputo che nella Casa di reclusione Due Palazzi di Padova avrà luogo un convegno per riflettere sulla pena, in particolare su quella dell’ergastolo. In questa occasione vorrei porgere il mio saluto cordiale ai partecipanti ed esprimere la mia vicinanza alle persone detenute. Immagino di guardarvi negli occhi e di cogliere nel vostro sguardo tante fatiche, pesi e delusioni, ma anche di intravedere la luce della speranza. Vorrei incoraggiarvi, quando vi guardate dentro, a non soffocare mai questa luce della speranza. Tenerla accesa è anche nostro dovere, un dovere di coloro che hanno la responsabilità e la possibilità di aiutarvi, perché il vostro essere persone prevalga sul trovarvi detenuti. Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive. Vorrei incoraggiare anche la vostra riflessione, perché indichi sentieri di umanità, vie realizzabili perché l’umanità passi attraverso le porte blindate e perché mai i cuori siano blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno. In questo senso mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere. Perché se la dignità viene definitivamente incarcerata, non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono. In Dio c’è sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla misericordia che perdona: a Lui affido i vostri cammini, la vostra riflessione e le vostre speranze". I Radicali per la riforma delle carceri Libero, 15 giugno 2017 La Bernardini al ventesimo giorno di sciopero della fame. "Il voto sul ddl penale era scontato, il mio sciopero della fame ha come obiettivi la riforma dell’ordinamento penitenziario, l’accessibilità vera alla cannabis per i malati che si possono curare con i cannabinoidi e rompere il muro del silenzio sulle iniziative del Partito Radicale, proseguo lo sciopero della fame". Lo ha detto Rita Bernardini, giunta al ventesimo giorno di sciopero della fame, collegandosi a Radio Radicale da San Luca, in Calabria, dove fa tappa la carovana per la giustizia. "Proseguo lo sciopero della fame", ha aggiunto, "anche perché, pur nella delusione e amarezza totale che l’ordinamento penitenziario sia stato inserito in un ddl che dice tutto e il contrario di tutto, un vero pacco per la giustizia, vorrei sapere quali sono i tempi e i contenuti per la emanazione dei decreti delegati, come è noto la legislatura è in bilico e non possiamo far cadere tutto. Seguiamo questo con la nonviolenza e per quel che riguarda la cannabis terapeutica attendiamo notizie dalla ministra della Sanità". Altro che Skype, al 41 bis ogni mese solo una telefonata o un colloquio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2017 Dal 2009 sono state inasprite le norme che regolano i rapporti dei detenuti con i familiari. Il Dap è pronto a emanare una Circolare che punta a uniformare le regole per tutti gli istituti penitenziari che ospitano i reclusi al carcere duro. Sospensione di tutti i benefici della pena previsti dall’ordinamento penitenziario; isolamento pressoché totale; l’ora d’aria (massimo due ore al giorno) avviene in vasche di cemento con la presenza di piccoli gruppi di detenuti, anche se normalmente il passeggio avviene in completa solitudine oppure con un’altra persona e basta; il divieto di ricevere libri e qualsiasi altra forma di stampa dall’esterno. Per quanto riguarda i colloqui con la famiglia, la norma è rigidissima. Per capire meglio basta leggere cosa prevede la nuova normativa del 2009 che inasprì ulteriormente il 41 bis. In particolar modo ha inteso limitare la fruizione dei colloqui visivi, per contenere il pericolo che il detenuto continui a comunicare con l’esterno trasmettendo ordini e messaggi. È prevista, pertanto, la fruizione di un solo colloquio visivo mensile - tramite vetro divisorio - che deve essere comunque videoregistrato; la nuova legge ha imposto il controllo auditivo dei colloqui visivi, ovviamente previa motivata autorizzazione della competente autorità giudiziaria. Per i colloqui telefonici, la nuova normativa ha apportato una sostanziale modifica: la telefonata deve essere effettuata esclusiva- in caso di mancata fruizione, nell’arco del mese solare, del colloquio visivo. Per quest’ultima disposizione si chiarisce che il colloquio telefonico potrà essere effettuato in qualsiasi giorno del mese. Successivamente, con una nota del maggio 2013 ai direttori degli istituti, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha specificato che il colloquio visivo deve essere mensile e cioè che "tra un incontro e l’altro dovrà trascorrere un intervallo di tempo di circa un mese", escludendo la possibilità che i colloqui avvengano a distanza ravvicinata, come ad esempio negli ultimi giorni di un mese e nei primi del mese successivo. La legge del 2009 stabilisce inoltre che i detenuti hanno la possibilità di effettuare, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio con i loro difensori, della stessa durata di quelli previsti con i familiari (dieci minuti per la telefonata e un’ora per il colloquio visivo). Poi qualcosa è cambiato. Nel giugno 2013, il Dap, con un’ulteriore circolare, torna sui colloqui con i legali a seguito di una sentenza della Corte costituzionale: viene quindi stabilito che ai detenuti sottoposti al regime speciale 41- bis dovrà essere consentito, al pari di quelli a regime ordinario, di effettuare colloqui con i difensori senza limiti di frequenza e di durata. In seguito al rapporto sul 41 bis redatto dalla commissione sui diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi, è nata una indicazione al Parlamento affinché apporti delle modifiche che rendano più umana la pena. Lo stesso Manconi ha più volte detto che "lo scopo della norma non è rendere più afflittiva la pena ma interrompere i legami del demente tenuto con l’organizzazione criminale", e che quindi "tutto ciò che eccede tale scopo è illegale". Anche dal documento finale degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, è emerso che il 41 bis presenta delle restrizioni che vanno al di là di quanto previsto dal legislatore. Il documento punta il dito in particolar modo all’applicazione che varia da Istituto a Istituto. Proprio per questo motivo, il Dap è pronto a emanare una circolare per risolvere questo gap e puntare a uniformare le regole per tutti gli istituti penitenziari che ospitano i detenuti al 41 bis. Roberto Calogero Piscitello, dirigente della direzione generale detenuti e trattamento del Dap, ha riferito a Il Dubbio che presto firmeranno la circolare. Nella prossima puntata parleremo di alcuni casi che riguardano gli effetti degradanti del 41 bis. Sì al Ddl penale. Con il virus del processo alla "Gratteri" di Errico Novi Il Dubbio, 15 giugno 2017 Resta la macchia delle "video- udienze" proposte dal pm. Tre anni dopo il ddl penale è legge. Non una riforma epocale del processo, eppure il Parlamento l’ha vissuto con un tormento degno di un cambio di forma di Stato. L’ultimo dibattito non fa eccezione. Sarà pure che "avevano perso e qualcosa dovevano dire", come concede un Andrea Orlando comprensibilmente rasserenato, ma sentire i grillini che urlano in Aula "è una schifezza piena di porcate" fa un po’ impressione. Certo di rado si registra tanta divergenza di vedute su un provvedimento. Il premier Paolo Gentiloni ricorre a un tweet per rilevarvi "equilibrio e garanzie nelle procedure". Poi visto che neppure il sobrio premier vive sulla luna, negli altri 30 caratteri a disposizione ricorda che il testo include "pene severe per i reati più odiosi", ovvero rapine e furti in appartamento. Al giorno d’oggi la merce che tira sono le manette e anche i garantisti di governo si adeguano. Ma se senti Ignazio La Russa apprendi che le misurate aperture sui trattamenti detentivi sono "un’istigazione a delinquere". E se parla il leghista Nicola Molteni scopri che in carcere non ci andrà più nessuno. Punti di vista? No, propaganda acquistata al mercato meno costoso, quello della giustizia penale appunto. Finisce con un doppio voto: in mattinata la "chiama" sulla fiducia (320 sì, 149 no e un astenuto). In prima serata il voto finale sul testo, piuttosto diverso nei numeri: 267 sì, quasi 60 in meno, 24 astenuti di Mdp e 139 voti contrari. Uno rischia di aprire un caso: è quello del ministro per la Famiglia Enrico Costa, che al momento di schiacciare il pulsante si siede tra i banchi del gruppo alfaniano anziché in quelli del governo. E poi dichiara: "Una prescrizione del genere rende perpetuo il processo: è una riforma in cui c’è ben poco di liberale". Intercettazioni, le gaffes del M5S - In mezzo ai due scrutini una discussione in due atti infarcita di iperboli e qualche verità. Si scopre che il moderatissimo Andrea Mazziotti sa cantarle ai Cinque Stelle: "Dite che l’eccessiva durata dei processi è irrilevante e che possono andare avanti per sempre, ma se servirà a qualcuno dei vostri cambierete il regolamento in modo che della prescrizione possa avvalersi". Il presidente della prima commissione ricorda anche che "se alzi le pene per la corruzione non c’è bisogno poi di prevedere anche un aumento specifico dei termini in cui quel reato si estingue". L’altro ex montiano Lorenzo Dellai riconosce che "il carcere non farà cassetta ma per onestà è giusto dire che le norme inserite nella delega penitenziaria evitano agli istituti di scivolare in una situazione criminogena". Poi arriva la grillina Giulia Sarti e sembra di stare su scherzi a parte: attacca con un sobrio "codardi!", poi passa alle "porcate più eclatanti" e infila diverse gaffes. Legge il testo che devono averle preparato e dice più volte che i decreti delegati seguenti al ddl impediranno la pubblicazione delle intercettazioni "penalmente rilevanti". L’aggettivo giusto, e probabilmente stampato nel discorso, sarebbe "irrilevanti", ma lì per lì dev’essere sembrato persino alla deputata M5s che fosse assurdo criticare la secretazione di conversazioni funzionali solo a sputtanare, e deve aver pensato a un errore del ghost writer. Orlando: avocazione? norma garantista - Più circostanziate le critiche all’avocazione obbligatoria del procuratore generale, vero incubo dell’Anm. Ma qui è il guardasigilli Orlando a difendere il principio. "È una norma garantista, come l’estinzione dei reati mediante condotte riparatorie", dice a Radio Radicale. In effetti, come gli fa eco in Aula David Ermini, chi contesta l’obbligo di sbrigarsi imposto ai pm "vuole togliere al cittadino il diritto di sapere, dopo anni di indagini, che fine farà". A sua volta il ministro parla di "giornata positiva per la giustizia" e vede nel ddl da lui difeso con ostinazione "una risposta, in termini di efficienza, di tutela dei diritti e di garanzie, a tante persone che oggi ne sono prive". Compresi i carcerati, sottratti a una logica di "mera segregazione" e restituiti alla "rieducazione" che per Orlando vuol dire "superamento della recidiva". Non basta a Rita Bernardini: interpellata, la dirigente radicale conferma di "andare avanti con lo sciopero della fame: vorrei rassicurazioni su tempi e contenuti dei decreti attuativi della riforma penitenziaria". Leggende varie sulle norme del ddl - Bernardini evoca un’incognita. La norma sul processo a distanza proposta da Nicola Gratteri è invece un dato certo e una "barbarie" per l’Unione Camere penali. Che attacca: "Il governo blinda una legge nonostante il parere contrario di magistrati e avvocati: siamo ancora in un Paese democratico?". Quasi identica l’obiezione dell’Anm: il testo, secondo il sindacato dei giudici, "scontenta tutti". Vero, anche se attorno al maxi ddl fioriscono leggende. Come sulla norma che delega l’esecutivo a fissare i "costi standard" su server e assistenza tecnica per le intercettazioni: l’hanno rivoltata in un taglio di spesa. Su corruzione e induzione indebita, i termini di prescrizione vengono ampliati, in caso di "fatti interruttivi", della metà del massimo edittale anziché di un quarto. Vuol dire che un giudizio per corruzione propria potrà restare in piedi anche 18 anni. Non c’è alcun superamento dell’ergastolo ostativo per i mafiosi, esplicitamente esclusi dalla "revisione" della disciplina sui benefici. Fino all’asserito abominio del divieto di usare i trojan in casa per i presunti corrotti: è lo stesso limite già previsto, per tutte le captazioni investigative, all’articolo 266 del Codice di rito. Che nessuno, neppure i grillini, si era mai sognato di bollare come un favore ai corrotti. Riforma penale con la fiducia, senza i voti di alfaniani e bersaniani di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 giugno 2017 Ap giura di votare a favore ma sparisce al momento decisivo (e un ministro vota anche contro). Mdp denuncia il tentativo di fare scherzi al governo, ma nel passaggio decisivo lo sostiene con solo la metà del gruppo. Una maggioranza scarsa e una fiducia piccola piccola, la più stretta per il governo Gentiloni alla camera (escludendo quella sulla manovrina, alla quale erano dichiaratamente mancati tutti i voti di Mdp). È passata così, e sarà legge dello stato dopo la firma di Mattarella, la riforma del processo penale. Contiene anche le deleghe al governo per intervenire sulle intercettazioni (entro tre mesi, e il ministro Orlando intende farlo anche prima) e sull’ordinamento penitenziario (entro un anno, le intenzioni del ministro sono le stesse ma non potrà essere altrettanto rapido). La legge è un contenitore (un solo articolo con 95 commi) che mette assieme diverse proposte dall’iter tormentato nella legislatura. Si va da alcune misure deflattive del carico di processi (come l’estinzione mediante riparazione dei reati procedibili a querela, nuove regole per le impugnazioni, una stretta sui ricorsi in Cassazione) alla facilitazione del ricorso alle misure alternative al carcere, al (contraddittorio) aumento delle pene per i reati di furto e rapina, alla riforma della prescrizione che sostanzialmente sarà sospesa (ma per i reati commessi da dopo l’entrata in vigore della legge) per un anno e mezzo dopo il primo grado e un altro anno e mezzo dopo l’appello - solo però in caso di condanna. Un’altra novità è il potere del procuratore generale di avocare al suo ufficio, quindi presso le corti d’appello, i fascicoli per i quali il pm non ha chiesto il rinvio a giudizio o l’archiviazione in tre mesi dalla chiusura delle indagini. Novità contro la quale è tornata a protestare l’Associazione magistrati, prevedendo "gravi disservizi negli uffici": quelli dei pg sono assai meno dotati di quelli dei pm. L’Anm critica anche la delega sulle intercettazioni, non tanto per le norme che cercheranno di limitare la diffusione dei colloqui non rilevanti, quanto per i nuovi limiti all’uso dei software spia (da adesso riservati alle indagini per mafia e terrorismo). "Dopo un lungo percorso parlamentare è una giornata importante per la giustizia italiana", festeggia finalmente Orlando, che non sempre ha avvertito il sostegno di Renzi e del Pd durante tre anni di trattative sulla legge. Eppure questa, come tante in questa legislatura alla camera dove pesa l’incostituzionale premio di maggioranza, è una legge votata essenzialmente dal Pd. Le trattative il ministro ha dovuto farle con Alfano e il suo gruppo, i quali alla fine non hanno sabotato ma neppure aderito. Su 267 voti favorevoli al provvedimento, 239 sono del Pd (e mancano all’appello una quarantina di voti renziani). Nel gruppo di Alfano, dopo una sofferta dichiarazione di voto a favore ("c’è un po’ di dolce e un po’ di aspro", ha spiegato Adornato, indicando tra le cose aspre la prescrizione troppo lunga e la videoconferenza per gli imputati), hanno votato a favore solo in 7 su 26. Quasi tutti in missione o assenti al momento del voto (anche lo stesso Adornato è risultato assente) e un contrario di peso, il ministro agli affari regionali Costa (ex vice alla giustizia): "La riforma spinge verso un illiberale processo perpetuo", ha detto. Più o meno la stessa linea aveva seguito Ap in occasione del precedente voto di fiducia, che è servito al governo per mettere al riparo la legge dai voti segreti: un terzo del gruppo centrista non ha votato la fiducia al suo governo, come pure aveva garantito. Ma il gruppo dei bersaniani ha fatto anche di più. Anche i deputati Mdp (ma con motivazioni opposte rispetto agli alfaniani) non hanno troppo apprezzato la legge, dichiarando alla fine un voto di astensione. Sulla fiducia invece nessun dubbio: "La si voterà perché non ci prestiamo a giochi che possano mettere in difficoltà il governo", ha detto il deputato Zoggia. Poi però metà gruppo, 20 deputati su 40, la fiducia non l’ha votata, risultando assente nel momento della chiama dei parlamentari. Consapevoli loro come tutti che la sovrabbondanza della delegazione Pd tiene al riparo il governo da qualsiasi incidente alla camera. Almeno nel voto palese. Quello segreto, come ha dimostrato la legge elettorale, è tutta un’altra storia. Nuovo processo penale, mille giorni sprecati per un compromesso al ribasso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 giugno 2017 La confusione sulle intercettazioni e sulla prescrizione non si evita che gli imputati restino vittime di patologiche lentezze giudiziarie. Allegria: con 18 mesi in più dopo la sentenza di tribunale e altri 18 dopo quella d’appello, prima di prescriversi un processo per corruzione potrà durare quasi vent’anni. C’è da stappare lo champagne? Magari sì, per chi intende le "riforme" come medagliette da appuntarsi su vestiti rattoppati alla vigilia (domani) della periodica tirata d’orecchie europea dell’Ocse; o come segnaletica stradale da spendere ai semafori del mercato elettorale (come negli aumenti di pena per furti e rapine). Magari no, invece, per le vittime di reato più interessate a sentenze in tempi accettabili, e per gli imputati immeritevoli di restare appesi a vita a un processo. Il 70% di 1 milione e 550 mila prescrizioni in 10 anni è maturato in indagini, e 4 distretti di Corte d’Appello (22% Napoli, 12% Roma, e 7,5% l’uno Torino e Venezia) producono da soli quasi metà di tutte le prescrizioni d’Italia, mentre 70 tribunali su 135 stanno sotto il 3%. Eppure non si è avuto il coraggio di puntare su una prescrizione del reato non troppo lunga, ma combinata dopo la sentenza di primo grado a uno stop definitivo della clessidra, temperato poi da rimedi compensativi (sconto sulla pena in caso di condanna, indennizzo in caso di assoluzione) per evitare che gli imputati restino in indefinita attesa di un verdetto per colpa non loro ma di patologiche lentezze giudiziarie. Confusa e generica - Il ritornello di ogni compromesso al ribasso recita che il testo votato sarebbe il più avanzato equilibrio raggiungibile negli attuali rapporti di forza parlamentari. Ma la verità è che riforme davvero ottime - come l’ordinamento penitenziario frutto del lavoro sul carcere della commissione Giostra, o la semplificazione delle impugnazioni mutuata dalla commissione Canzio - sono state usate come norme "ostaggio" da opporre al fuoco amico nella maggioranza, e come norme "digestivo" per farne invece trangugiare altre discutibili. È il caso della delega sulle intercettazioni: ondivaga quando tra i concetti di "irrilevante" e "non pertinente" perde il "manifestamente" contenuto invece nelle tanto lodate circolari dei capi pm; confusa quando non fa più capire come avverrà il contradittorio con i difensori sullo stralcio delle intercettazioni irrilevanti, ora che il testo non parla più di "udienza"-stralcio; e talmente generica, laddove prevede "prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni", che tutti sarebbero insorti se a scriverla fosse stato Berlusconi. Paziente manutenzione - Ma è il caso anche dell’estensione dei processi a distanza in videoconferenza, che oggettivamente sacrifica parte del margine di manovra del diritto di difesa, specie se si fa la legge prima che siano attrezzati i tribunali dove oggi penzolano moncherini di rari microfoni gracchianti. Ed è il caso persino del problema delle indagini scadute che il pm né mandi a processo né archivi: "malattia" reale, che le toghe sbagliano a vivere come lesa maestà, ma che la legge affronta con la "medicina" (controproducente come tutti i rigidi automatismi) dell’avocazione allo scadere di 3 mesi, destinata a risolversi nel mero spostamento di carte dalle Procure alle Procure Generali: quando, invece, ben si sarebbe potuto pensare a un potere del gip di valutare di volta in volta la fondatezza delle contingenze addotte dal pm per chiedergli un (limitato e variabile) tempo supplementare. Su questo, come su altri punti, sarebbe bastata una paziente manutenzione. Invece sia al Senato sia ieri alla Camera il governo ha imposto di nuovo la camicia di forza del voto di fiducia sul non-senso di 95 commi stipati (sui più eterogenei temi) in un unico articolo. E pensare che, dal primo annuncio nel Consiglio dei ministri del 30 agosto 2014, sono passati 1.018 giorni: una media di 10 giorni interi per ciascun comma, a volerli discutere nel merito. Prescrizione e indagini: cambia la giustizia penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 Effetto condanna sulla prescrizione: fino a tre anni in più. Alla fine ricorda un po’ le finanziarie dei tempi d’oro, un articolo solo, ma 95 commi. Per toccare tutta la giustizia penale, dal processo ai reati, passando per il carcere. Il disegno di legge approvato ieri sera definitivamente dalla Camera è assai composito, un moloch all’interno del quale misure subito in vigore si mischiano a deleghe che rinviano (forse) a un futuro prossimo. Di certo a cambiare saranno molti aspetti cruciali, sui quali da tempo forze politiche e operatori del diritto dibattono e si scontrano. In primo luogo, inevitabile, la prescrizione. Il disegno di legge sceglie di non modificare la ex Cirielli nella determinazione dei termini massimi; nello stesso tempo evita di seguire le sollecitazioni soprattutto della magistratura per un blocco del decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale, manifestazione della volontà dello Stato di perseguire il reato. Percorre invece una via intermedia, che punta sull’introduzione di nuove ipotesi di sospensione. A partire dai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge, diventa possibile uno stop del decorso della prescrizione per 18 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per altrettanti dopo la condanna in appello. Al netto di un altra pausa di 6 mesi in caso di rogatoria, oggi non prevista, la sospensione non sarà però valida in caso di assoluzione e il periodo oggetto del blocco verrà riconteggiato se nel grado successivo di giudizio il verdetto è stato di proscioglimento. Per i reati di corruzione (propria e impropria), corruzione in atti giudiziari, induzione indebita e truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche, reati che possono emergere molto tempo dopo essere stati commessi, il termine di prescrizione massimo sarà pari alla pena massima aumentata della metà (anziché un quarto come per i reati di minor gravità). Un insieme di disposizioni affidate a una delega da esercitare entro 3 mesi caratterizza poi la "manovra" sulle intercettazioni. Il futuro decreto delegato, sul quale sarà a breve al lavoro una commissione del ministero della Giustizia, ha come obiettivo quello di evitare la pubblicazione di conversazioni non rilevanti per l’attività d’indagine. soprattutto quando riguardano persone a essa del tutto estranee. In questo senso si prevede che per la selezione del materiale da inviare al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare, il pubblico ministero dovrà assicurare la riservatezza anche degli atti contenenti intercettazioni inutilizzabili, irrilevanti o su dati sensibili che non riguardano l’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede o per altri reati emersi nello stesso procedimento o nel corso delle indagini. Questi atti dovranno essere custoditi in un archivio riservato, con facoltà di esame e ascolto, ma non di copia, da parte dei difensori e del giudice. Quattro gli anni di carcere per il nuovo reato di divulgazione di intercettazioni ottenuto con frode. Con la delega andrà anche disciplinato l’utilizzo dei trojan horses o captatori informatici, ammettendone comunque l’impiego quando si procede per mafia, terrorismo o criminalità organizzata. Molto contestato, soprattutto dagli avvocati, che vi vedono lo stigma dell’impronta autoritaria che caratterizza, a loro giudizio, l’intero provvedimento, anche il pacchetto di norme che allarga in maniera significativa la possibilità di partecipazione a distanza al procedimento, anche al di fuori dei casi in cui questa è obbligatoria (mafia, terrorismo). Il giudice potrà così disporre la partecipazione a distanza per ragioni di sicurezza, per la complessità del dibattimento o per la testimonianza di un detenuto. Tra le norme subito in vigore, c’è poi l’aumento delle pene minima per furto in abitazione (da 1-6 anni si passa a 3-6) e furto aggravato (da 1-6 a 2-6), per rapina semplice (da 3-10 a 4-10) e aggravata (da 4 anni e 6 mesi-20 a 5-20 se mono-aggravata e a 6-20 se pluriaggravata) e per estorsione aggravata (da 6-20 a 7-20). Inasprito anche il trattamento per il voto di scambio che dagli attuali 4-10 anni passerà a 6-12 anni di reclusione. Introdotta poi una nuova causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie (restituzione, risarcimento). Potrà incidere però sul solo perimetro dei reati procedibili a querela (oggetto di remissione). Di norma la nuova causa dovrà essere applicata prima dell’apertura del dibattimento. C’era una volta la culla dei diritti di Alessandro Barbano Il Mattino, 15 giugno 2017 Il disegno di legge di riforma del processo penale, con l’approvazione del voto di fiducia di ieri, apre la fase del finto riformismo in cui rischia di declinare la fine di questa legislatura. Una fase di riforme virtuali, prive di un disegno che rappresenti il collante di un’ identità politica, di scarsa efficacia sui sistemi su cui vanno a incidere, necessarie forse a giustificare la vita di un governo che non è più in rapporto effettivo con una maggioranza parlamentare, abbellite da una narrazione retorica la cui vera finalità è di natura elettorale, come nella migliore tradizione della Seconda Repubblica. Ma di più, questa legge è anche un ulteriore fardello illiberale che un sistema giudiziario ingiusto carica sulle spalle dei cittadini. Non nasce da una dialettica tra la migliore cultura giuridica del Paese, ma da una trattativa estenuante tra potere esecutivo e giudiziario. Una trattativa a perdere, sia perché, come abbiamo già avuto modo di avvertire, fa compiere alla giustizia italiana un altro brusco passo indietro, e a una parte della magistratura un altro deciso passo avanti nel mettere sotto tutela i diritti e la democrazia; sia perché non riceve, nel giorno della sua approvazione, neanche il plauso della magistratura associata. Paga il prezzo del protagonismo di un guardasigilli preoccupato di capitalizzare, dal suo faticoso passaggio a via Arenula, un risultato personale. Ed incontra l’adesione di ministri e parlamentari storditi dagli incerti che la crisi dei partiti ha prodotto, e bisognosi di trovare, dopo il flop della legge elettorale, un senso a una continuità di legislatura che, come direbbe una celebre canzone, un senso rischia di non averlo più. La riforma è una iattura per tre motivi che abbiamo spiegato ai lettori nei giorni scorsi: 1) Allunga la prescrizione di tre anni fino al giudicato, e la àncora al massimo di pena previsto per ciascun reato. Il risultato è la vergogna di indagini e processi che, anche per reati di lieve-media entità, possono superare i dieci anni, e nei casi corruzione possono raggiungere i due decenni. 2) Si propone di limitare la diffusione delle intercettazioni e, allo stesso tempo, di facilitarne l’acquisizione. Arrivando a consentire al pm la possibilità di intercettare a telefono spento senza autorizzazione preventiva, salvo poi chiedere la convalida al gip a cose fatte. 3) Trasforma l’interrogatorio a distanza da eccezione, giustificabile solo in casi estremi, a prassi quasi ordinaria, per consentire risparmi alle casse dello Stato, ma con serio pregiudizio per l’esercizio del diritto di difesa e per la natura stessa del processo. Per questi motivi la legge andava accantonata e ripensata in una stagione politica più serena e all’interno di un disegno che non smarrisse alcune chiare coordinate riformatrici: ridurre il tempo dei processi; riassorbire il pericoloso slittamento del diritto penale dal giudicato alle indagini preliminari e dal reato al reo; contrastarne la patologica mediatizzazione; rifondare, rafforzandola, la cultura dell’investigazione, ancorandola alle prove e non al sospetto; rendere effettive le garanzie della difesa da troppo tempo denegate. Per questi motivi, ancora, si sarebbero potute stralciare, approvandole, le norme sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, che sono l’unica parte del disegno di legge coerente con uno spirito riformatore e liberale. Invece è accaduto il contrario: la riforma è stata imposta a una maggioranza parlamentare numerica e non politica, facendo leva su due motivazioni, molto diverse tra loro ma in questa congiuntura convergenti: la responsabilità di garantire il completamento della legislatura per rispondere alle urgenze economiche e sociali; la preoccupazione di molti parlamentari di arrivare a fine corsa per garantirsi un vitalizio altrimenti irraggiungibile, in assenza di una ricandidatura certa. È grave che una riforma di tale portata, che tocca diritti inviolabili dell’individuo, sia passata con due successivi voti di fiducia, senza che nessuna voce politica e istituzionale si levasse ad impedirlo. Ciò crea un precedente infausto per la civiltà delle regole su cui si fonda e si regge una democrazia, esponendola ad un’usura e a un degrado che non fanno onore alla tradizione di un Paese che è stato per molto tempo una culla dei diritti. Due immagini chiudono questa opaca giornata della democrazia italiana. Hanno segno opposto. La prima è l’imbarazzante esultanza di Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera, che gioisce per quella che definisce "una riforma di sistema che interviene per davvero sulla certezza della pena". Senonché la certezza della pena è l’unico aspetto che la riforma ignora, a meno di non volerla far discendere dall’aumento di pena previsto per alcuni reati. Una confusione davvero pericolosa. La seconda immagine è la dignitosa presa di distanze di un ministro, Enrico Costa, che ha trovato il coraggio di votare contro una riforma del suo governo e di dirlo pubblicamente, "poiché ci sono - ha spiegato - principi costituzionali che non possono essere soffocati neppure per una condivisibile ricerca della mediazione". C’è ancora, in questa politica, un filo di speranza. Nella riforma della giustizia un passo avanti e due indietro di Carlo Nordio Il Messaggero, 15 giugno 2017 Per chi è digiuno di giuridichese, occorre una premessa. Il codice penale, che prevede i delitti e le pene, è stato promulgato nel 1930 ed è firmato da Mussolini. Dopo settant’anni di Costituzione "nata dalla Resistenza" questo codice regge ancora, ed è stato modificato solo in modo marginale. Al contrario, il codice di procedura penale, che disciplina lo svolgimento delle indagini e del processo, ha meno di trent’anni, ed è firmato da Giuliano Vassalli, partigiano valoroso e illustre giurista. Ebbene, questo codice, sulle cui modifiche ieri il governo ha posto la fiducia, è stato ristrutturato, emendato, corretto, integrato e rettificato almeno un centinaio di volte. Per di più, la Corte Costituzionale (dove, paradossalmente sedeva il professor Vassalli) ne ha dichiarato alcune parti manifestamente irragionevoli. Questo la dice lunga sulla capacità tecnica del nostro legislatore di affrontare una sua riforma sistemica. Ieri, l’ennesimo tentativo ha riguardato, tra le altre cose, la prescrizione e le intercettazioni. Due terreni minati sui quali sono saltate, nei decenni, parecchie maggioranze. La soluzione ha scontentato magistrati e avvocati, e questo è abbastanza normale. Senofane affermava che se un triangolo potesse immaginare Dio, lo descriverebbe come un triangolo: intendeva dire che ognuno vede le cose secondo la lente deformante dei propri pregiudizi. Così i Pm chiedono più rigore, e i difensori più garanzie. Purtroppo la riforma non accentua il rigore e diminuisce le garanzie. Un pasticcio che si aggiunge ai precedenti. La prescrizione. Essa consiste nell’estinzione del reato per decorso del tempo, e ubbidisce a due criteri: la perdita dell’interesse dello Stato a punire il reo dopo un certo periodo dalla commissione del crimine, e il diritto del cittadino ad avere una sentenza definitiva in tempi ragionevoli, il cosiddetto giusto processo garantito dalla Costituzione. Ora, gli attuali termini di prescrizione sono troppo brevi per giustificare la rinunzia dello Stato a punire, ma anche troppo lunghi per la tollerabilità emotiva di una persona inquisita. Si prenda la frode fiscale, o la gran parte dei reati economici: si prescrivono, grosso modo, in otto anni. È ragionevole pensare che dopo così poco tempo lo Stato perda interesse a incriminare l’evasore? Evidentemente no, anche perché questi reati sono di accertamento difficile, richiedono esami documentali, riscontri bancari e altro: quando arriva la denuncia metà dei termini è già trascorsa. E nessuno griderebbe allo scandalo se fossero aumentati, e anche raddoppiati. Ma sette o otto anni sono anche troppi per la durata di un processo. Uno Stato che non sappia concludere in un tempo così lungo è a dir poco incivile: perché per l’inquisito, innocente o colpevole che sia, questi anni sono un’eternità. Ora questi termini vengono aumentati. Perderemo la faccia, davanti a Dio e all’Europa, e non guadagneremo in Giustizia. Eppure il rimedio ci sarebbe. Basterebbe far decorre i termini di prescrizione non, come accade ora, dalla commissione del delitto, ma dal momento in cui il malcapitato viene inquisito. Distinguere cioè la prescrizione del reato, che è troppo breve, da quella del processo, che è troppo lunga. Prediche inutili. Le intercettazioni. Qui lo sforzo del governo è certamente encomiabile, ma assolutamente vano e velleitario. La riforma vuole (vorrebbe) evitare che finiscano sui giornali le intercettazioni irrilevanti, che spesso "sputtanano" (per usare un’espressione icastica dell’onorevole D’Alema) il cittadino estraneo all’indagine. È un obiettivo sacrosanto, ma la battaglia è persa in partenza. Perché la decisione sulla rilevanza o meno delle conversazioni è devoluta al Pm e al Gip, in contraddittorio con le parti. Come dire che, nel frattempo, i famigerati brogliacci della Polizia saranno finiti tra mille mani, e in caso di divulgazione sarà impossibile individuarne il responsabile. Non solo: la decisione del Pm e del Gip sulla rilevanza è insindacabile. Se quindi un magistrato fantasioso ritenesse che alcuni dialoghi intimi fossero significativi nel cosiddetto contesto, nulla gli impedirebbe di trascriverli rendendoli, alla fine, di pubblico dominio. È quello, del resto, che si sta facendo da anni, anche se esiste una norma assai simile a quella ieri promulgata: è l’ articolo 268 del codice di procedura, quello del defunto professor Vassalli. Ma questa norma è stata così male applicata e interpretata dai magistrati che ha perso completamente significato. A conferma del noto detto di Platone che è meglio avere una legge cattiva a e un giudice saggio, piuttosto del contrario. Legge sui processi, roba da manette di Filippo Facci Libero, 15 giugno 2017 La Camera approva con un voto di fiducia la riforma penale. Su custodia cautelare e intercettazioni nulla di fatto, in compenso i tempi si allungheranno. Non si capisce neppure perché la chiamino "riforma penale": sta di fatto che la Camera ha dato la fiducia a questa "riforma del processo penale" che è identica a quella votata dal Senato oltre un anno fa, ergo: dal 23 dicembre 2014 a oggi - quando lo presentò Andrea Orlando - di sostanza ne è cambiata poca. Ecco, qual è la sostanza? Non si può certo capirlo dalle obiezioni delle opposizioni, che non entrano troppo nel merito e ieri sparacchiavano propaganda. Non si può capirlo neppure dalla contrarietà al ddl espressa sia dagli avvocati sia dai magistrati: il che, in sé, potrebbe essere un buon segno. In generale non si può capirlo: perché, a parte le enunciazioni di principio, tanto per cambiare sarà il "come" a fare la differenza. Ma dividiamo per voci tutto quello che non capiamo. 1) La fiducia. Utilizzare la fiducia parlamentare non è stato proprio il massimo, visto che il disegno interviene (o vorrebbe farlo) anche in tema di diritto penale sostanziale e insomma avrebbe meritato un dibattito parlamentare di buon livello. Ma oggigiorno va così, a colpi di fiducia, anche perché c’è da dubitare che il livello della discussione parlamentare sarebbe fuoriuscito da binari di urla e strepiti. Il Parlamento ne esce male, ma da qualche lustro. 2) La prescrizione. L’errore più grave della riforma consiste nel fermare gli orologi per 18 mesi dopo una sentenza di primo grado, e poi di sospendere i conteggi per altri 18 mesi dopo una sentenza di appello in vista della Cassazione. Detta malissimo, in pratica, si concede molto più tempo ai magistrati per prendersela comoda tra un processo e l’altro. Dimenticando - in questo le Camere Penali hanno stra-ragione - che nella maggior parte dei processi la prescrizione matura già nella fase delle indagini preliminari, quando il solo responsabile delle lungaggini è il pm con le sue proroghe infinite. La dimostrazione è nei numeri: nel 60-70% dei processi la prescrizione giunge prima ancora che il pm formuli la richiesta di rinvio a giudizio. Ecco perché la magistratura si è opposta strenuamente all’unica parte davvero buona della riforma: quell’articolo 18 che prevede non più di tre mesi dalla fine delle indagini preliminari perché il pm chieda un rinvio a giudizio o un’archiviazione. Una regola del genere impedirebbe ai pm di tenere l’indagato eternamente sotto scacco, e, soprattutto, costringerebbe molti pm a lavorare più di quanto facciano ora, cioè poco. Le controproposte dell’associazione magistrati, su questo, hanno messo a nudo la natura ancora prettamente inquisitoria di molte toghe: in pratica, per ridurre i tempi del processo, vorrebbero che avessero valore probatorio gli interrogatori effettuati nelle caserme, in assenza del difensore: con tanti saluti alla centralità del processo e del contraddittorio, e con altrettanrti saluti alla riforma dell’articolo 513 della Costituzione. Incredibile. 3) Le intercettazioni. Qui alziamo bandiera bianca, perché la legge, in pratica, dice solo che bisogna fare una legge. I propositi sono ufficialmente sempre buoni: impedire che un malcapitato finisca sui giornali solo perché ha parlato con un indagato, o impedire che un indagato veda squadernata in pubblico la sua vita privata senza una ragione per farlo. Insomma, la solita tiritera: "Contemperare le esigenze dell’investigazione con quelle della privacy". Bene: ma il disegno di legge, in concreto, non fa che dare delle linee guida e rimettere tutto a una legge delega che darà al governo la facoltà di cambiare le norme sulla pubblicabilità delle intercettazioni. Si parla genericamente di una "udienza di selezione" per smistare le intercettazioni, si prevede che il pm debba assicurare la riservatezza delle registrazioni inutilizzabili perché penalmente irrilevanti: tutta roba che in un modo o nell’altro è già prevista anche se tutti se ne fottono regolarmente. Aspetteremo e vedremo, ma per ora non c’è nulla all’orizzonte che faccia pensare che qualsiasi intercettazione non possa continuare a circolare sui giornali. L’unico modo possibile, come tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo, sarebbe proibire e sanzionare severamente la pubblicazione sui giornali: ma questo non lo faranno mai. 4) Le impugnazioni. Anche qui: giusto il proposito, ma l’esecusione è un’incognita. La Cassazione è oberata da 80mila ricorsi l’anno, dunque vogliono aumentare le sanzioni (multe) per i ricorsi giudicati inammissibili. Se è un modo per fare cassa, bene: ma perché gli avvocati dovrebbero smettere di ricorrere, e di sottoporre dunque un ricorso a un giudizio di ammissibilità? Tanto i soldi sono del cliente. Il disegno, è vero, prevede forme semplificate per valutare l’inammissibilità e maglie più strette nei vari passaggi interni tra le varie sezioni della Cassazione e le sezioni unite: ma non pare che i problemi legati ai tempi della giustizia italiana passassero da qui. Perlomeno dovrebbero aumentare - si legge - i casi in cui la Cassazione potrà annullare una sentenza senza neppure rinviarla al giudice che l’ha vergata: un modo per prevenire le sentenze pazze. 5) Furti in casa. Il minimo passa da un anno a 3. Per rapina, passa da 3 a 4. Il calcolo delle circostanze attenuanti sarà di manica più stretta, nella speranza - anche con l’aumento dei minimi - di rendere più difficili le scarcerazioni. 6) Custodia cautelare. Niente, non c’è niente. Abbiamo pagato 700 milioni di euro dal 1992 a oggi tra risarcimenti per errori giudiziari e ingiuste detenzioni, il 35% di chi è in cella è in attesa di giudizio, tutta roba che esiste solo da noi. Ma su questo niente. 7) Riforma del Consiglio superiore della magistratura. Non hanno riformato niente. Albamonte (Anm): "sull’avocazione rigidità pericolosa" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 Presidente, l’Anm è stata fortemente critica sulla norma che prevede l’avocazione in caso di inerzia da parte del Pm al termine delle indagini preliminari... Non solo. Quella norma non ci piace anche perché non consente di distinguere tra veri casi di negligenza e altri invece giustificati, per esempio, dai carichi di lavoro sul pubblico ministero. Ci sono però altre misure che non ci convincono. Per esempio, quella che autorizza l’utilizzo delle nuove tecnologie solo per le indagini contro mafia e terrorismo. Ci saranno ricadute sulle indagini in corso? È possibile, una volta approvata il decreto delegato. Di certo è un arretramento rispetto alla situazione attuale: la Cassazione oggi permette un utilizzo più ampio. Se, per esempio, fosse in corso un’indagine per associazione a delinquere a fini di corruzione attraverso l’utilizzo di un virus informatico, con l’entrata in vigore non potrebbe proseguire. Oltretutto, dimenticando la realtà criminale di questo Paese, dove indagini per criminalità economica, ad esempio, possono condurre alla scoperta di associazioni criminali. E sulla prescrizione? Certamente è meglio questo intervento della ex Cirielli, ma bisognerebbe prima ripristinare la piena funzionalità del sistema giustizia attraverso lo stanziamento di risorse, poi andrebbe effettuata una depenalizzazione seria e migliore di quella del 2016. Solo allora si dovrebbe intervenire sui termini. Partire dalla fine non è mai un buon modo per risolvere il problema. Oltretutto in questo modo si dà spazio a un meccanismo di screditamento della funzione giudiziaria. Ma c’è un bicchiere mezzo pieno? Senza dubbio. La parte sull’ordinamento penitenziario, per esempio, oppure quella sul ricorso in Cassazione o il giudizio in appello, quella sul penale sostanziale con la nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie. Ma ce ne sarebbero magari state anche di più se si fosse potuto riflettere a fondo sul testo. Tanto più che ora la legislatura non pare proprio destinata a concludersi a breve. Migliucci (Ucpi): "i tempi più lunghi comprimono i diritti" di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 Avvocato Migliucci, la Camere penali sono molto ostili a questa riforma. No chiariamo, siamo ostili al metodo. La riforma ha anche aspetti positivi. Il metodo. Non si dovrebbe mai porre la fiducia quando si tratta di diritti dei cittadini, tanto più se parliamo di diritti costituzionali. Due aspetti sono inaccettabili. Quali? La prescrizione allungata e la compressione del diritto a partecipare al dibattimento. Ma non siamo il paese con la più ampia falcidie di processi per decorso termini? Ma lo sa che ci sono reati quasi imprescrittibili? La bancarotta ha 18 anni e mezzo, il riciclaggio e la concussione 15 anni, mentre la media Ue indica 8,5 anni per i casi complessi e 5 per la prescrizione ordinaria. La verità è un’altra. Cioè? Che in questo paese si enfatizza il valore delle indagini preliminari "infinite" e, va da sè, il processo mediatico. Resta il fatto che la mortalità dei processi, per la gran parte dei casi a prescrizione ordinaria, è a livelli di guardia. Guardi che con la prescrizione allungata si andranno solo a comprimere ancora di più i diritti degli indagati, delle parti offese e della stessa economia del paese. Perché c’è anche questo problema di "certezza", che è perdita di competitività. L’altra questione di ostilità? La partecipazione a distanza (videoconferenza, ndr) del detenuto al processo. Allargarla a tutti i reati, e non solo al 41 bis, è un’offesa allo stato di diritto ed è un trattamento discriminatorio rispetto agli indagati non detenuti. Intercettazioni. Cosa vuole che dica? Il tema andava affrontato a monte, chi le divulga, non a valle, chi le pubblica. Sull’esecuzione carceraria? Qui siamo in piena sintonia, giusto puntare sul reinserimento e sulla risocializzazione del condannato:?se si studiassero le statistiche si vedrebbe che la pena fuori dal carcere produce quattro volte meno la recidiva. Si rafforza il rischio di processi infiniti di Filippo Sgubbi* Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 Il disegno di legge di riforma del diritto e della procedura penale è stato definitivamente approvato, e con uso della fiducia: dopo la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica diventerà legge. A nulla sono valsi gli interventi provenienti da varie fonti (docenti, operatori, Unione Camere penali) volti a richiamare il legislatore - Governo e Parlamento - alle proprie responsabilità istituzionali. Ma è risaputo che la materia penale è da tempo entrata nel dibattito politico come tema primario: e questo non giova certo alla redazione competente e razionale dei testi di legge. Il che costituisce un serio pregiudizio in termini di certezza del diritto, proprio in un ambito in cui la sicurezza dei confini fra lecito e illecito e le garanzie del giusto e celere processo dovrebbero essere massime. Dal dibattito parlamentare è così uscito un provvedimento estremamente complesso, disorganico, contraddittorio e non coordinato con il sistema normativo vigente. La nuova disciplina della prescrizione porta a un allungamento consistente della sua durata: al punto che per taluni reati (dalla corruzione, alla violenza sessuale, alla pedopornografia) l’imputato potrà restare assoggettato - personalmente e con i propri beni sequestrati - a un procedimento penale per una larga parte della propria vita. Certo, si tratta di reati gravi, ma è egualmente iniqua l’irragionevole durata del processo penale. Sul piano processuale, la riforma, appena approvata dalla Camera dei deputati, lo ripetiamo, in via definitiva, è frammentaria e decisamente complicata: anche a causa di una tecnica legislativa discutibile, seppur ormai ampiamente praticata: inserire o abrogare commi o parti di testo all’interno di singoli commi, col risultato di disorientare perfino l’addetto ai lavori. Comunque, in questo contesto, emergono alcune novità meritevoli di segnalazione. La più eclatante è la reintroduzione del cosiddetto patteggiamento in appello: uno strumento deflattivo che aveva dato buona prova di sé, ma che era stato abrogato una decina di anni fa sull’onda emotiva di una qualche vicenda processuale; non era scomparso del tutto, perché nella pratica era rimasto occasionalmente in vita, seppur in modo informale e di fatto. Il meccanismo è semplice: la parte rinuncia a taluni motivi concordando con la Procura Generale l’accoglimento di altri motivi d’appello, generalmente concernenti la quantificazione della pena; determinando con ciò uno sfoltimento dei giudizi d’appello. Ma vi sono altre disposizioni che è opportuno segnalare per le loro potenzialità applicative. Mi riferisco alle modifiche al rito abbreviato e, in particolare all’articolo 438 del Codice di procedura penale: la riforma stabilisce che la richiesta di rito abbreviato determina la sanatoria delle nullità (salvo le nullità assolute) e preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice. Il che comporta un riflesso significativo sulla conduzione dell’udienza preliminare, che deve diventare necessariamente "bifasica", contrariamente alle tendenze dominanti odierne. Si impone quindi che il giudice dell’udienza preliminare (Gup) decida le questioni di nullità, inutilizzabilità e competenza prima che l’imputato richieda il rito. Altrimenti l’accesso al rito significherebbe un sacrificio indebito di garanzie processuali, con rinuncia a una serie di questioni che attengono alla utilizzabilità degli atti e attinenti all’individuazione del giudice naturale. Altre disposizioni concernono la disciplina delle impugnazioni: mirano a imporre una redazione dei motivi di gravame molto più articolata e precisa e precludono alla parte personalmente di provvedere al ricorso per Cassazione. Da ultimo, ci si deve soffermare sulla disciplina del processo a distanza. Le nuove disposizioni estendono decisamente questa modalità di celebrazione del processo penale e arrivano al punto di consentire alle parti e ai loro difensori di intervenire a distanza, "assumendosi l’onere dei costi del collegamento". Il processo può svolgersi così perfino in un’aula vuota, alla sola presenza dei giudici e del pubblico ministero. Le decise critiche che sono state rivolte a questa parte della riforma sono ampiamente giustificate: risultano obliterati alcuni canoni fondamentali del giusto processo, quali il principio del contraddittorio, il principio dell’immediatezza e anche il principio costituzionale del diritto di difesa. *Università Luiss-Roma Orlando: provvedimento garantista di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 "Il complesso del provvedimento è garantista. Le norme renderanno il nostro processo penale più giusto, più celere, più certo". Il vincitore morale della partita sulla riforma approvata ieri definitivamente dalla Camera è il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che da settimane - mentre il segretario Pd Matteo Renzi frenava, anche per evitare che si potesse collegare la stretta sulle intercettazioni al caso Consip che coinvolge suo padre - chiedeva di blindare il testo anche alla Camera con la fiducia. Il premier Paolo Gentiloni ci mette la firma in prima persona, twittando: "Varata riforma processo #penale. Equilibrio e garanzie nelle procedure, pene severe per i reati più odiosi". Il taglio del nastro, ieri, suggella l’allontanarsi del voto anticipato, dopo il naufragio della trattativa sulla legge elettorale, e il ricompattarsi della maggioranza. Con i centristi di Alternativa popolare che si calano nel ruolo di difensori del governo fino alla scadenza naturale della legislatura. "Noi appoggiamo Gentiloni, ci assumiamo il compito di sminatori", ha chiarito Ferdinando Adornato in Aula. Anche gli alfaniani, nonostante la recalcitranza sulle norme sulla prescrizione, hanno quindi detto "sì" alla fiducia, posta per evitare la trappola dei voti segreti e dei franchi tiratori. Lo stesso hanno fatto i bersaniani di Articolo 1- Mdp. I 320 voti favorevoli alla fiducia incassati a Montecitorio (149 i contrari: M5S, Fi e Lega; un astenuto) sono la maggioranza assoluta e sono più di quelli finali al provvedimento (267, con 136 contrari tra cui il ministro di Ap Enrico Costa e 24 astenuti). Cifre che raccontano un governo che torna a rilanciare la sua azione a partire da uno dei provvedimenti rimasti chiusi da più tempo nei cassetti delle Camere e contenente deleghe di peso. La prima approvazione a Montecitorio risale a settembre 2015, poi un anno e mezzo di palude in commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, complici i veti incrociati, la contrarietà degli alleati di centrodestra, le criticità espresse dall’Anm, convinta che la fiducia sia stata "una forzatura", e dai penalisti. Che ieri tuonavano: "Siamo ancora in un Paese democratico?". È toccato al renziano David Ermini, nelle dichiarazioni di voto finali, affrontare la questione intercettazioni, spiegando che "nessuno le tocca come strumento investigativo, ma si cerca di non far finire sui giornali le cose su persone che con i processi non c’entrano niente, e di non far finire in galera chi è soggetto di informative sbagliate". Chiaro il riferimento a Tiziano Renzi. Ma i Cinque Stelle hanno continuato ad attaccare: una "riforma scempio", uno "stupro della giustizia" che mette "un bavaglio alla stampa". Basta "insulti e violenza verbale" da voi "leghisti mascherati", ha reagito il dem Walter Verini, difendendo il testo nel merito, punto per punto. Insieme alla presidente della commissione Giustizia, Donatella Ferranti, secondo cui si tratta di "una riforma coraggiosa" che "inciderà in modo significativo sulla durata dei processi". E chissà se oggi, alla luce del via libera, gli esperti di diritto dell’Ocse chiamati a pronunciarsi sui progressi italiani in tema di prescrizione e tempi della giustizia, accenderanno il semaforo verde. Un argine agli abusi delle regole di Paolo Tonini* Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 La "riforma Orlando" ha un contenuto molto ampio che, a prima vista, può sembrare carente di una visione unitaria. L’intervento è senz’altro imponente: oltre a modifiche del Codice penale e di quello di procedura penale, vi sono deleghe concernenti il sistema penitenziario, le intercettazioni, il captatore informatico e le impugnazioni. Nonostante la complessità delle materie trattate, riteniamo possibile trarre le linee di intervento che hanno un’ispirazione comune. Da un lato, il perseguimento dell’efficienza; da un altro lato, il contrasto agli abusi processuali che possono essere compiuti dai soggetti del procedimento. Sul primo versante, il perseguimento dell’efficienza è stato operato, di regola, non più con meccanismi automatici di mera economia processuale, bensì con un bilanciamento tra princìpi fondamentali ed esigenze contrapposte. Salvo una grave eccezione che ancora risente di schematismi di tipo tradizionale, le esigenze di efficienza sono state perseguite senza annullare i diritti fondamentali delle parti contrapposte. L’eccezione esiste ed è l’estensione abnorme della partecipazione a distanza dell’imputato al dibattimento: essa dovrebbe essere limitata ai soli condannati per gravi delitti che richiedono la prevenzione di violenze. Qui l’auspicio è che possa intervenire la Corte costituzionale per sanzionare la violazione dei princìpi fondamentali del contraddittorio. Sul secondo versante, la novità sta nella lotta all’abuso del processo; abuso che, come è noto, si ha quando un soggetto usa gli strumenti processuali in modo contrario alla finalità per la quale sono stati costruiti e introdotti nel sistema. Così, vi sono interventi contro abusi da parte del pubblico ministero, del difensore, dell’imputato e perfino del giudice. Il duplice meccanismo di intervento sembra denotare un cambiamento di mentalità. In passato ogni modifica del processo penale faceva sorgere contrasti ideologici simili alle vecchie guerre di religione. In tempi più recenti il dibattito sembra perdere i connotati ideologici e ridursi a una valutazione pragmatica sugli effetti positivi o negativi che si potranno verificare e che, dopo le modifiche legislative, dovranno essere misurati e valutati in modo laico. Possiamo dare una valutazione complessiva. Si tratta di una manovra che cerca di tamponare le carenze più vistose del vigente processo penale. La caratteristica di intervento di emergenza è il pregio e il limite delle norme introdotte. Nonostante ciò, siamo di fronte al primo intervento non settoriale dai tempi della lontana riforma del 1999 (la cosiddetta legge Carotti) e dalla successiva legislazione sul "giusto processo". Oggi manca una visione generale sulla necessità di evitare che il processo si tramuti in un giustizialismo in mano a quelle forze politiche che di volta in volta vogliono utilizzarlo per i propri scopi. Il legislatore dovrebbe interpellare gli studiosi per farsi indicare gli strumenti che sono necessari per ricondurre il processo penale a un neutrale accertamento dei fatti che sia rispettoso della presunzione di innocenza dell’imputato. *Università di Firenze La memoria corta della giustizia di Francesco Caringella Corriere del Mezzogiorno, 15 giugno 2017 Il processo è una pena, ci insegna Salvatore Satta nel suo "Mistero del processo". E non può essere una pena senza fine. La lentezza non è un problema, ma il problema della nostra giustizia. Justice delayed is justice denied, ammoniva Gladstone. Le lancette del processo devono essere sincronizzate con quelle della vita umana pesata dalla bilancia del giudice. Altrimenti l’orologio va fuori giri e genera mostri. Nel Belpaese i procedimenti penali impiegano molti anni prima di conoscere la parola "fine", mentre i tribunali americani e tedeschi impiegano meno di dodici mesi per giungere al verdetto definitivo, quelli francesi e inglesi non più di ventiquattro. Le vittime della lentezza del processo sono sei. La prima è la funzione rieducativa della pena: una pena tardiva colpisce una persona diversa dal criminale da reinserire nel tessuto sociale. La seconda è la vittima, dal momento che il dolore deve essere lenito nel momento più acuto. La terza è la sicurezza collettiva, in quanto i tempi biblici lasciano a spasso troppo a lungo persone socialmente pericolose. La quarta è la legalità, visto che, come ammonisce Kelsen, "una norma non è una norma se non è sanzionata". La quinta è l’economia italiana, dal momento che la giustizia pachidermica scoraggia gli investitori stranieri e allontana le imprese italiane. La sesta vittima del processo lento è il processo stesso. L’arma del delitto è la prescrizione, ossia l’estinzione del reato per effetto del tempo. È una strage, un delitto di massa. Nel solo distretto della Corte d’Appello di Bari si sono estinti migliaia di processi nell’ultimo anno. Colpisce la percentuale di giudizi colpiti da eutanasia, pari al 24% in appello. È un’abdicazione allo Stato di diritto e alla sete di tutela della comunità. Una prevalenza del tempo dell’oblio rispetto al tempo della memoria, dei diritti dell’imputato rispetto all’angoscia della persona offesa, dell’impunità rispetto alla mano della legge. La particolarità della prescrizione italiana sta nella circostanza che, diversamente da quanto accade in Germania e in Francia, essa decorre anche a processo avviato, sebbene la pretesa punitiva dello Stato si sia già manifestata con la volontà di perseguire il reato. Non è questa la sede per chiedersi se i reati si prescrivano perché i processi sono lunghi o se, al contrario, i processi vengano dilatati dalla prospettiva della prescrizione. Certo è che un processo che si conclude con la prescrizione è un processo che nega se stesso. Il sacrosanto diritto dell’imputato a un giudizio veloce non può essere confuso con il ben diverso diritto a non essere giudicato. Va nella giusta direzione la legge di riforma della giustizia penale, all’esame del Parlamento. Tra le altre cose, prevede, infatti, la sospensione, fino a un massimo di un anno e mezzo, del termine di prescrizione tra la sentenza di primo grado e la definizione del giudizio d’appello, nonché tra la sentenza di secondo grado e il giudizio in Cassazione. La "prescrizione endo-processuale" è quindi dilatata, pur se non eliminata. È un primo passo. Si poteva essere forse più rigorosi, abbracciando una soluzione che strozzasse in via radicale la prescrizione dopo il rinvio a giudizio o, almeno, a seguito della sentenza di condanna di primo o secondo grado. È comunque un passo, nella giusta prospettiva dell’anteposizione dei diritti della vittima e dei bisogni della società rispetto a un eccesso di garanzie per l’imputato. Altri passi sono ancora necessari, primo tra tutti il bilanciamento dei nuovi termini prescrizionali con forti misure di accelerazione del processo. Mafia. Minacce di Riina a don Ciotti: archiviata l’indagine di Manuela Messina La Stampa, 15 giugno 2017 Il boss era stato intercettato nel carcere di Opera il 14 settembre 2013 mentre parlava con un presunto appartenente alla Sacra Corona Unita. Archiviazione. Si chiude così la vicenda delle minacce a Don Ciotti del super boss di Cosa Nostra Totò Riina. Il gip Anna Magelli, davanti a cui si è tenuta l’udienza preliminare per il caso delle frasi di Riina, intercettato nel carcere di Opera il 14 settembre 2013 mentre parlava con un presunto appartenente alla Sacra Corona Unita, ha depositato il provvedimento questa mattina. "Ciotti, Ciotti, putissimo pure ammazzarlo", aveva detto il boss, riferendosi - questa la ricostruzione degli investigatori della Dda - all’attività di Libera, l’associazione che gestisce beni confiscati a Cosa Nostra. La procura aveva chiesto l’archiviazione. Una istanza accolta dal gip, secondo cui perché si configuri il reato di minacce è necessaria una relazione tra chi minaccia e chi viene minacciato. "Abbiamo avuto altre minacce, ma andiamo avanti", aveva detto Don Ciotti poco prima dell’udienza davanti al gip il 29 maggio, arrivando in tribunale a Milano dove ad accoglierlo, con un applauso, aveva trovato una piccola folla. Le intercettazioni con le minacce di Riina erano state depositate nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Nella stessa conversazione intercettata, Riina, durante l’ora d’aria, aveva detto a un altro detenuto, Alberto Lorusso, di essere "preoccupato. Sai, con tutti questi sequestri di beni". Una delegazione della Commissione parlamentare Antimafia, ha svolto un sopralluogo all’Ospedale Maggiore di Parma dove Riina è ricoverato, in regime di 41 bis. Il 7 luglio si terrà un’udienza davanti al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che dovrà decidere sulla sua scarcerazione a seguito di una recente pronuncia della Cassazione e di un’istanza della difesa di Riina per il differimento della pena o la detenzione domiciliare per motivi di salute. Riina è stato arrestato dai carabinieri dei Ros il 15 gennaio 1993. Quel giorno, il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, avrebbe commentato: "Ora scoppierà una guerra". Parole riferite durante un’udienza del processo Stato-Mafia, nel 2014, da Fabio Tranchina, pentito e cognato del boss Cesare Lupo. Nel 1997 Riina è stato condannato all’ergastolo per la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorsa. L’87enne è stato anche condannato al carcere a vita come mandante della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque suoi uomini di scorta. Dalle intercettazioni delle conversazioni in carcere di Totò Riina emerge che il telecomando usato per la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino sarebbe stato piazzato nel citofono dell’abitazione della madre del giudice, che avrebbe quindi azionato la bomba che lo uccise. "Un colpo di genio", commentò Riina vantandosi delle proprie azioni stragiste con Lorusso, suo compagno di carcere per mesi. Per la Bindi Totò Riina sta benone di Melania Rizzoli Libero, 15 giugno 2017 La Bindi racconta la visita al boss: "Non ci siamo nemmeno salutati. Non esiste il diritto di morire a casa". Rosy Bindi mi risponde subito al cellulare, anche senza riconoscere il mio numero, direttamente e senza filtri, il che, per una Presidente della Commissione Antimafia, é un segnale di sicurezza, di autorevolezza e di tranquillità. La sua visita a sorpresa, tre giorni fa, al "Maggiore" di Parma, la struttura clinica dove è ricoverato dal gennaio 2016 Totò Riina, ha messo a tacere di colpo le polemiche sulla recente sentenza della Cassazione, la quale sottolineava il "diritto ad una morte dignitosa" per il Capo di Cosa Nostra, lo stesso che deve essere assicurato ad ogni detenuto. "Mi sono recata lunedì, senza preavvertire le strutture interessate, presso la sezione detentiva dell’ospedale nel quale è ricoverato il detenuto Riina, perché ho ritenuto doveroso che la Commissione che presiedo, verificasse se le stesse che lo ospitano, siano adeguate a contemperare le esigenze di tutela della salute del recluso e del suo diritto a ricevere un trattamento non contrario al senso di umanità, con quelle, più generali, di tutela della collettività, che invece impongono la detenzione carceraria del capomafia corleonese, e, per di più, nel regime previsto dall’art. 41-bis". "Sì l’ho visto, ma non sono entrata nella sua stanza, mi sono fermata sulla soglia della camera. Lui era seduto in sedia a rotelle, e no no, non ci siamo scambiati nemmeno una parola, nemmeno un saluto. Il mio compito non era quello di interloquire con lui, ma era quello di verificare le condizioni di cura e di assistenza, che sono continue e che sono identiche, se non superiori, a quelle di cui potrebbe godere in stato di libertà od agli arresti domiciliari. Comunque ho scritto una relazione dettagliata, te la mando subito via e-mail". La relazione - Naturalmente la comunicazione della Presidente mi arriva immediatamente, ed io la leggo avidamente. Totò Riina è stato trovato in buon ordine, abbigliato non in pigiama, ma vestito con camicia, pantaloni e scarpe, con lo sguardo vigile e seduto su una sedia a rotelle, in una camera di confortevoli dimensioni, assolutamente corrispondente ad una qualsiasi stanza di degenza ospedaliera, dotata di bagno privato, attrezzato per i disabili, e in ottime condizioni igieniche. Il personale medico ha inoltre spiegato alla presidente Bindi, che il Riina si alimenta autonomamente, che è capace di intendere e di volere, che dal punto di vista intellettivo ragiona e si esprime normalmente, che svolge i colloqui con i familiari e con i suoi avvocati, che scrive lettere e legge senza difficoltà quelle che riceve, e soprattutto che partecipa alle udienze che lo riguardano, sebbene ciò comporti uno spostamento temporaneo presso la casa di reclusione di Parma, rivelando, oltre che una perfetta lucidità psichica, anche una certa capacità fisica di sottoporsi ai continui trasporti. Per quanto riguarda la sua salute, questa è tenuta sempre sotto stretta osservazione medica, é continuamente monitorato e guardato quasi "a vista", e per il controllo delle sue patologie, non è affatto considerato in fin di vita, anzi, allo stato attuale il paziente non presenta manifestazioni acute, é costantemente assistito da Totò Riina in video-conferenza durante un processo [Fotogramma] una equipe di infermieri che lo accudisce più volte al giorno per ogni necessità. I suoi problemi cardiaci, affrontati e risolti in passato anche con la chirurgia, e quelli, più recenti, di natura neoplastica, sono infatti in fase di accertata stabilità, e ricevono quotidianamente cure adeguate e continue. Dalla relazione si evince quindi che la struttura carceraria ha cercato di adeguarsi progressivamente al mutare delle esigenze del recluso, che ha affrontato le emergenze, e che la sua attuale condizione clinica é certamente mutata in meglio, rispetto allo stato dei fatti accertato dalla Suprema Corte e risalente al maggio 2016, ovvero ad un anno fa. Addirittura nella Relazione si afferma che le condizioni cliniche del recluso, con tutte le esigenze assistenziali legate al decadimento fisico dell’età, sono stazionarie, e potrebbero, a giudizio dei medici, consentire il suo rientro in cella, dove troverebbe una situazione logistica adeguata alle sue sopravvenute necessità. La Presidente Bindi, insieme ai vicepresidenti che la accompagnavano, ha proceduto anche con la visita del carcere di Parma, per visionare la cella dove Riina è stato recluso fino al gennaio 20016, per verificarne le condizioni nel caso in cui il famoso detenuto dovesse farvi ritorno, e nel caso in cui il suo stato di salute attuale dovesse consentirlo. La presidente Bindi aggiunge: "Al di là delle diverse opinioni espresse al riguardo e diffuse dalla stampa, alcune delle quali appaiono ispirate alla "legge del taglione", ed altre invece ad una malintesa umanizzazione della pena, posso affermare che Riina ha sempre goduto della massima attenzione medica ed assistenziale, e la struttura che lo ospita é in grado di far fronte alle malattie di qualunque natura e gravità. A lui é ampiamente assicurato il diritto, innanzitutto ad una vita dignitosa, e, dunque, anche a morire, quando ciò avverrà, altrettanto dignitosamente, a meno che non si voglia postulare l’esistenza di un diritto a morire fuori dal carcere, non riconosciuto dalle leggi vigenti". "Inoltre il detenuto, nei limiti di quanto é stato possibile accertare, conserva immutata la sua elevata pericolosità, concreta e attuale, essendo, nonostante le difficoltà motorie, perfettamente in grado di intendere e di volere, ancora vivamente interessato alle sue vicende processuali, nella piena condizione di manifestare le sue volontà e, di converso, non avendo mai esternato segni di ravvedimento". Sguardo vigile e attento - Claudio Fava, vicepresidente della Commissione Antimafia che ha accompagnato la Bindi a Parma, descrive Riina con queste parole : "Lui non si è scomposto, ha fissato uno per uno gli ospiti arrivati a sorpresa nella sua cella blindata, aveva uno sguardo vigile e attento, gli occhi come due punture di spillo in un corpo invecchiato. Uno sguardo abituato a osservare ed a tacere. Si dà arie da sovrano in esilio". La relazione di Rosi Bindi si conclude con la preoccupazione per quanto potrebbe accadere, invece, ad altri detenuti sottoposti al regime 41/bis, e bisognosi di trattamento similare a quello del Capo di Cosa Nostra. Non sempre, infatti, le strutture ospedaliere pubbliche hanno, nelle sezioni riservate ai detenuti, un numero di stanze sufficienti, ed un numero di personale idoneo per rispondere alle esigenze di cura e di assistenza, che si prevedono crescenti. Il "Centro Diagnostico Terapeutico" di Parma, che io stessa ho visitato in passato, é infatti una eccellenza della sanità intramuraria, che ha ospitato detenuti come Bernardo Provenzano, ma anche come Callisto Tanzi, Marcello Dell’Utri, e molti altri, i quali però non hanno ricevuto sentenze di Cassazione che mettessero in dubbio le condizioni di dignità nelle quali si trovavano. E soprattutto, a parte Provenzano, gli altri succitati, non hanno nella loro fedina penale efferati omicidi, non sono mai stati considerati criminali assassini come Totò Riina, eppure hanno scontato e stanno scontando la loro lunga pena senza fare ricorsi alla Corte, e senza chiedere la inidoneità per malattia e la incompatibilità con il regime carcerario. Non lo hanno fatto nemmeno i nove detenuti paraplegici, ovvero paralizzati dalla vita in giù, e costretti per forza a stare in sedia a rotelle ed a chiedere aiuto ed assistenza anche per andare in bagno, che sono attualmente rinchiusi nel carcere di Parma, e che espiano le loro colpe con una dignità, da me verificata, e che andrebbe ricordata a chi invece l’ha perduta per sempre. Abusi e pestaggi in caserma, carabinieri sotto accusa di Riccardo Chiari Il Manifesto, 15 giugno 2017 Lunigiana. Ad Aulla e anche a Licciana Nardi una lunga scia di violenze. Nove ufficiali dell’Arma nei guai. L’accusa del procuratore: "L’illegalità e l’abuso erano quasi la normalità". Pestaggi, violenze, anche abusi sessuali. In serie, per 104 complessivi capi d’accusa. Tutti commessi da militari in divisa. In Lunigiana se ne parlava da tempo. Ancor prima che nelle stanze della procura di Massa Carrara arrivasse le prima denuncia, fatta nell’autunno scorso da un malcapitato (italiano) finito in una delle caserme dei carabinieri del comprensorio, incastonato al confine fra l’alta Toscana, la Liguria e l’Emilia, lungo il passo della Cisa. Alla fine, dopo indagini naturalmente delicate, e una prima svolta a inizio marzo con una trentina di perquisizioni, il giudice ha dato il via libera alle misure cautelari, chieste due mesi prima. Un carabiniere è finito in carcere, tre sono agli arresti domiciliari, quattro con divieto di dimora, e uno è stato sospeso dal servizio. Tra i coinvolti un maresciallo, un brigadiere, alcuni appuntati. "L’illegalità e l’abuso erano quasi la normalità". Una frase che al procuratore capo Aldo Giubilaro, magistrato espertissimo, con anni e anni di rigoroso servizio per la giustizia, deve essere costata non poco. Perché i carabinieri in Lunigiana sono, o almeno dovrebbero essere, il principale presidio della legalità su un territorio piuttosto vasto, punteggiato da centri medi e piccoli come Pontremoli, Aulla, Fivizzano, Fosdinovo, Licciana Nardi e Mulazzo. Eppure la sua sostituta Alessia Iacopini, che ha coordinato le indagini fatte da altri carabinieri e dalla forestale, ha raccolto le prove di almeno un centinaio di casi di violenze e maltrattamenti. Con l’aiuto anche di intercettazioni ambientali e telefoniche si è composto poco a poco un puzzle ben riassunto dal commento di Giubilaro. Fra i reati contestati ai militari dell’Arma c’è anche il falso in atti pubblici. Perché la regola, in particolare nella caserma di Aulla ma anche a Licciana Nardi, era quella di falsificare i verbali dopo il "trattamento" riservato al malcapitato di turno. La consuetudine era emersa dopo il pestaggio di un immigrato marocchino fermato dopo un controllo e portato in caserma, ufficialmente per l’identificazione. Picchiato ripetutamente, l’uomo era finito per alcuni giorni in ospedale. Alla collezione di illegalità non potevano mancare gli abusi ai danni delle donne. Nelle pieghe dell’inchiesta è denunciato un caso di violenza sessuale, una lucciola presa sulla strada e portata in caserma. Ma quante altre hanno preferito stare zitte? Giubilaro non è voluto entrare nello specifico dei reati, limitandosi a spiegare che si tratta di "varie e molteplici cose", e osservando che ciò che colpisce "oltre alla gravità dei fatti è la loro diffusività e normalità, con condotte irregolari verso chi era sottoposto a controlli, persone sia italiane che straniere, e anche strumentalizzazioni a fini privati". Leggi, probabilmente, alcune modiche quantità di stupefacenti che dovevano essere sequestrate e che invece sparivano. Il lavoro dei magistrati e degli investigatori in questi mesi ha riguardato anche molte persone che erano state fermate e portate in caserma negli ultimi anni. Ed è venuto fuori che i maltrattamenti c’erano ma che per paura le vittime non avevano denunciato i soprusi subiti. "Erano metodici, sistematici" ha sottolineato ancora Aldo Giubilaro. La nota ufficiale della procura di Massa Carrara motiva gli arresti "non essendo consentito in uno stato di diritto quale il nostro che la sola appartenenza a una categoria sociale oppure a un corpo, ancorché meritevole e glorioso come l’Arma dei carabinieri, renda immuni da ogni responsabilità, autorizzi persino la commissione di reati, e metta al riparo dal subire indagini". Al tempo stesso i magistrati apprezzano "che le misure abbiano colpito un numero ristretto di militari, a dimostrazione dell’impegno, della correttezza, del senso delle istituzioni e dello spirito di sacrificio che normalmente pongono nell’adempimento dei loro molteplici e delicati compiti i militari dell’Arma dei carabinieri della provincia di Massa Carrara". Per certo comunque i documenti della pubblica accusa raccontato di una Lunigiana come di un territorio dove i primi a infrangere il codice penale erano quelli che avrebbero dovuto farlo rispettare. I fatti di Lunigiana e il Parlamento di Luigi Manconi Il Manifesto, 15 giugno 2017 Tortura e non solo. Agli otto i carabinieri indagati vengono imputate violenze - che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come "lesioni" - la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale. Le misure cautelari adottate nei confronti di otto carabinieri, su circa una ventina di indagati di due caserme della bassa Lunigiana, costituiscono un utilissimo manuale per la più puntuale lettura e la più attendibile interpretazione della legge sulla tortura di prossima approvazione. Quest’ultima è una cattiva legge, innanzitutto perché - diversamente da quanto previsto dalla convenzione delle Nazioni Unite in materia - non definisce la tortura come un reato "proprio": un reato, cioè, formulato sull’imputazione di quella fattispecie penale ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio. Nel testo approvato al Senato, la tortura è, invece, un reato "comune", volto a punire qualunque violenza intercorsa tra individui. Mentre sarebbe dovuto essere un reato "proprio", in quanto derivante in forma diretta da un abuso di potere. La tortura è, insomma, la fattispecie penale in cui incorre chi, custodendo legalmente un cittadino, abusa del proprio potere per esercitare una violenza illegale. E lo si sarebbe dovuto trascrivere così nel nostro codice, quel reato, non certo per uno speciale accanimento contro i corpi di polizia, ma proprio per tutelare meglio questi stessi corpi. La loro autorevolezza e il loro prestigio, la loro forza e - se volete - il loro "onore" dipendono dalla capacità di individuare e sanzionare adeguatamente chi, tra gli uomini dello Stato, abusa del proprio potere e commette illegalità, separandoli da quanti (e sono la maggioranza) si comportano correttamente. La vicenda, venuta alla luce proprio in queste ore, a carico di numerosi carabinieri della provincia di Massa Carrara, dimostra in maniera inequivocabile quanto il testo della legge sulla tortura che il Parlamento prevedibilmente approverà nelle prossime settimane sia sbagliato. I fatti parlano chiaro. Agli appartenenti all’arma dei Carabinieri indagati vengono imputate violenze - che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come "lesioni" - la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale. Le vittime (spacciatori e prostitute) vengono condotte in caserma in base a una norma esistente (magari pretestuosamente interpretata, ma questo è un altro discorso) e qui subiscono trattamenti inumani o degradanti, se non addirittura torture. Evidentemente tutto ciò va confermato da una sentenza passata in giudicato, ma il quadro che si delinea è estremamente significativo. La tortura nasce nel diritto internazionale come crimine delle autorità pubbliche e non di soggetti privati, per i quali vi sono altri strumenti di repressione penale. Ha bisogno di tempi lunghi di prescrizione perché l’accertamento dei fatti non è agevole. E la sua configurazione come delitto "proprio" sarebbe di ben più concreto aiuto per il lavoro dei giudici. In quest’ultima, come in molte vicende precedenti, non siamo di fronte a ordinarie violenze tra comuni cittadini né a esercizi di efferatezza da parte di criminali sadici. Piuttosto abbiamo a che fare, se quanto finora emerso risultasse vero, con un sistema di comportamenti che, a partire dall’uso legittimo di istituti come il fermo e l’arresto, tendono a trascendere in uso arbitrario della forza che si fa pratica crudele. È qui il fondamento stesso del concetto di tortura e la sua ignobile verità. Tossicodipendente, sì alla "scorta" di marijuana per uso personale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - sentenza 14 giugno 2017 n. 29798. Sì all’acquisto di una maxi "scorta" di marijuana per "uso personale" da parte del tossicodipendente in cura al Sert (per eroina) che da Avellino va nella "piazza di spaccio" di Napoli per fare rifornimento. Lo ha stabilito la Sesta Sezione della Corte di cassazione, con la sentenza 14 giugno 2017 n. 29798, accogliendo il ricorso di un trentenne ed annullando, senza rinvio, la condanna ad otto mesi di reclusione e mille euro di multa comminatagli dalla Corte di appello di Napoli per traffico illecito di sostanze stupefacenti. Nel corso di un controllo presso il casello autostradale di Pomigliano d’Arco, il ricorrente venne trovato in possesso di "21 confezioni di sostanza stupefacente tipo marijuana, risultata del peso di gr. 25,7 e contenente principio attivo dal quale erano ricavabili n. 75,5 dosi medie giornaliere, oltre che di due bussolotti, contenenti eroina e cobret". Condannato per spaccio per la marijuana, venne invece assolto dal reato di detenzione "a fini di cessione" delle droghe pesanti "perché ritenute riconducibili all’uso personale", in quanto "iscritto al Sert come consumatore abituale di eroina oltre che consumatore occasionale di cocaina e cannabinoidi". Proposto ricorso in Cassazione, l’imputato ha sostenuto che il giudice lo ha condannato "in ragione della mera suddivisione in dosi della sostanza stupefacente e del dato quantitativo", senza considerare che il controllo era avvenuto mentre rientrava ad Avellino, "dopo l’acquisto della scorta di droga della quale si riforniva nelle piazze di spaccio del napoletano". E che le conclusioni della Corte erano "contraddittorie" considerata l’assoluzione per la detenzione di droghe pesanti, ritenute riconducibili all’uso personale. Una doglianza accolta dalla Suprema corte secondo cui i giudici di secondo grado hanno valorizzato "il quantitativo di droga, nettamente superiore alle dosi medie singole" e le modalità "sospette del confezionamento in dosi", senza però considerare anche lo "status di tossicodipendenza dell’imputato, che pure ne ha comportato l’assoluzione per la detenzione delle droghe cd. pesanti". Tale status, infatti, risultava documentato dalla certificazione del Sert che ne comprova la dipendenza da più droghe, "di guisa che trova giustificazione nel dedotto uso personale la "scorta" da questi effettuata in Napoli, città ove si era recato per l’acquisto dall’avellinese, zona di residenza". Convincono anche, prosegue la sentenza, le argomentazioni difensive circa il fatto che lo stupefacente viene venduto "già frazionato in dosi" così "predisposte, dai venditori nelle piazze di spaccio". Né vi erano elementi che denotavano "un successivo frazionamento ad opera dell’imputato della droga acquistata, anche tenuto conto delle circostanze e modalità del controllo di Polizia, avvenuto al casello di Pomigliano d’Arco, cioè nella fase di rientro dell’imputato nella zona di residenza". Ue. Sentenza su pirateria internet. Gli esperti: "cominciano guai per Google e Facebook" di Alessandro Longo La Repubblica, 15 giugno 2017 In una sentenza che dichiara illegale Pirate Bay, la Corte di Giustizia Ue rivoluziona il concetto di responsabilità per gli intermediari, come Google e Facebook. Che ora rischiano, per la prima volta, di pagare un conto salato per i contenuti illegali caricati dagli utenti. Nuovi guai in Europa per gli interessi delle multinazionali di internet, come Google-Youtube e Facebook: una sentenza della Corte di Giustizia Ue, comunicata stamattina, li inchioda a una maggiore responsabilità in caso di contenuti illegali caricati dagli utenti. È una rivoluzione rispetto alle logiche che finora hanno consentito lo sviluppo dei loro mercati, basati su contenuti generati dagli utenti, come hanno subito commentato esperti come Enzo Mazza, presidente della Federazione musicale italiana e Fulvio Sarzana, avvocato esperto di diritto d’autore. a sentenza si riferisce in effetti a Pirate Bay, dichiarandone (ancora una volta) l’illegalità. Ma l’aspetto notevole sono le argomentazioni sostenute dalla Corte, che stabiliscono nuovi principi gravanti sul business dei principali intermediari di internet, come appunto Google. La Corte dice per prima cosa che quando gli utenti mettono video, musica sulle piattaforme online è come se facessero "comunicazione al pubblico", quindi in caso di opere protette servirebbe l’autorizzazione del titolare. Aggiunge che Pirate Bay - piattaforma torrent che consente agli utenti di condividere e di scaricare opere che si trovano sui propri computer - è responsabile perché i suoi amministratori svolgono un ruolo attivo in questa attività. "Pur ammettendo che le opere sono state messe online dagli utenti, la Corte sottolinea che gli amministratori della piattaforma svolgono un ruolo imprescindibile nella loro messa a disposizione", ad esempio attraverso "l’indicizzazione dei file torrent". "Gli amministratori di The Pirate Bay non possono ignorare il fatto che tale piattaforma dà accesso ad opere pubblicate senza l’autorizzazione dei titolari di diritti". Il motivo è che la gestione della piattaforma è realizzata "allo scopo di trarne profitto, dal momento che tale piattaforma genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte, considerevoli introiti pubblicitari". Concetti che potrebbero applicarsi tali e quali anche agli over the top. "La sentenza avrà un impatto notevole sul modo di operare di soggetti come Google, perché li richiamerà a una maggiore e più diretta responsabilità", dice Mazza. "Finora Google ha collaborato contro la pirateria eliminando i contenuti illegali dopo che gli venivano segnalati. Ma non è abbastanza. Non è un intervento abbastanza efficace", continua Mazza, con un parere abbastanza condiviso all’interno dell’industria del copyright. Di fondo c’è che il mondo è cambiato. È cambiato il mercato di internet, in particolare. Le regole, internazionali, che hanno permesso ai big di prosperare sono quelle che li consideravano come intermediari neutrali nei confronti dei contenuti degli utenti (siano questi le pagine web linkate da Google, i video su Youtube o su Facebook eccetera). "Ma questo principio è ormai superato dai fatto. Gli intermediari non sono più neutrali: organizzano i propri contenuti, in modo analogo a Pirate Bay", dice Mazza. "Adesso la riforma del copyright in corso a livello di Unione europea dovrà tenere conto di questa sentenza. Il dibattito europeo sarà fortemente influenzato da questa decisione perché proprio in questi giorni il Parlamento europeo sta affrontando la riforma europea del copyright e il tema della responsabilità di piattaforme come YouTube", continua. Concorda Sarzana: "la sentenza è una brutta notizia, anzi una vera tragedia, per quelli come Google, perché dice che chi organizza il materiale pubblicato dagli utenti, con filtri o indicizzazione, è responsabile". "Paradossalmente è invece una buona notizia per soggetti come cyberlocker, che abbondano di materiale pirata scaricabile dagli utenti, perché loro non indicizzano né organizzano", dice Sarzana. Sono archivi online come Zippishare o Rapidgator (ce ne sono decine), che gli utenti usano come tramite per condividere musica o serie tv (soprattutto). Certo è che il vento è cambiato, ormai da tempo, in Europa nei confronti dei big di internet. La sentenza odierna si inserisce in un fenomeno che già si è manifestato in altre ambiti, sempre con batoste per Facebook o Google, a livello di privacy, di fisco e regole antitrust. Reggio Emilia: Andres, suicida nel reparto psichiatrico del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2017 Nell’istituto su 351 ospiti 153 hanno problemi psichiatrici. Ha fatto un cappio con il lenzuolo legato alla finestra e si è lasciato andare. Così, il 7 giugno scorso, si è impiccato un detenuto recluso nel reparto psichiatrico del carcere di Reggio Emilia. Si chiamava Andres Tangerini, aveva 47 anni, soffriva di una patologia psichiatrica ed era recluso da 2 anni e mezzo: a fine luglio sarebbe uscito dal carcere per andare in una comunità per potersi curare. A darne la notizia - confermata dal direttore del carcere di Reggio Emilia -, è stato Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere, programma di Radio Radicale che si occupa delle vicende legate al sistema penitenziario. "Abbiamo avuto notizia di questo suicidio - spiega Riccardo Arena - solo grazie alla mamma di Andres, la signora Maria che ha contattato telefonicamente gli studi. A questo punto ci si domanda: quanti suicidi nelle carceri non si riescono a scoprire e restano nascosti?". La morte di Tangerini riapre però la questione dei detenuti psichiatrici reclusi in carcere. Nonostante la chiusura degli ex ospedali giudiziari psichiatrici e l’apertura delle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems), il problema dei reparti psichiatrici in carcere resta ancora irrisolto. Ed è proprio l’istituto di Reggio Emilia che desta preoccupazione. Il Dubbio si occupò della vicenda e dopo la visita di una delegazione dall’Associazione Radicali Bologna Piero Capone, composta da Maura Benvenuti, Vito Laruccia, Monica Mischiatti, Silvia De Pasquale e Ivan Innocenti, si è saputo che la gestione dei detenuti psichiatrici all’interno della casa circondariale emiliana è insostenibile e il dramma colpisce anche gli agenti penitenziari che si trovano costretti ad operare oltre il proprio turno di lavoro. Grazie al questionario dei Radicali che Il Dubbio ha visionato, era emerso che su 351 detenuti presenti, 153 erano affetti da patologie psichiatriche. Cinquanta di loro erano sotto osservazione al nuovo reparto dell’ex Opg e ad operare c’era un solo psichiatra che effettua un monitoraggio una volta a settimana. Il resto del lavoro compete agli agenti penitenziari mentre, in realtà, nell’articolazione per la tutela della salute mentale dovrebbe operare il personale sanitario specializzato per la cura. Una situazione che ogni giorno diventa sempre più insostenibile sia per il personale che per i detenuti stessi. Non a caso, dal questionario si evince anche che c’è un crescendo di casi autolesionistici. Basti pensare che nel 2015, 70 detenuti hanno prodotto atti di autolesionismo, per poi arrivare nel 2016 a ben 137 casi. E ora c’è scappato anche il morto. Torino: far lavorare i detenuti "conviene", ecco il primo social bond di Gianluca Testa Corriere della Sera, 15 giugno 2017 Ben oltre i temi della sicurezza e del sovraffollamento, la questione delle carceri italiane potrebbe trovare nell’innovazione e nella sperimentazione sociale una risposta davvero coerente con l’articolo 27 comma 3 della Costituzione, secondo il quale le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". È questo il primo e più grande obiettivo. Come raggiungerlo? L’opportunità arriva dall’inserimento lavorativo e dalle misure alternative alla pena. Nel rapporto tra causa ed effetto, un efficace percorso di (re)inserimento professionale è capace di produrre due risultati utili. Uno economico, l’altro sociale. In primo luogo è possibile abbassare la recidiva. E più la recidiva si abbassa, maggiore è il risparmio. Non solo si abbatte il costo dovuto alla permanenza del detenuto in carcere (circa 120 euro al giorno), ma diminuisce anche il livello di criminalità. Senza considerare poi il maggiore gettito fiscale nel caso in cui la persona che ha scontato la pena, una volta libera, riesca a ottenere un impiego stabile. Le forme alternative alla detenzione sono capaci di abbassare la recidiva dal 70 al 20 per cento. E questo, secondo il provveditore Luigi Pagano (già vicecapo dell’amministrazione penitenzia), avrebbe come prima conseguenza un enorme impatto sul piano economico. Come ha più volte ricordato Pagano, infatti, la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponderebbe a un risparmio annuo di circa 51 milioni di euro. In Italia, nel corso degli anni, con questa finalità sono stati sviluppati (e realizzati) molti progetti. Tante buone pratiche che, nonostante abbiamo ottenuto risultati positivi, non sono mai state messe a sistema. Oggi la risposta arriva da una partnership tra pubblico e privato attraverso il primo "social impact bond" per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute. Qualcuno lo chiama "pay for success bond". Ma la definizione non muta il suo significato più profondo: si tratta infatti di uno strumento finanziario con cui il settore pubblico raccoglie investimenti privati per pagare i soggetti che forniscono servizi di welfare. Tradotto: il privato ci mette le risorse; se i risultati non si raggiungono la pubblica amministrazione non ci rimette niente, ma in caso contrario ripagherà gli investitori privati che hanno anticipato il finanziamento. La sperimentazione - promossa da Fondazione Sviluppo e Crescita CRT e Human Foundation in collaborazione col Ministero della Giustizia - avverrà nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. "Si tratta del primo caso in Italia" sottolinea Giovanna Melandri, presidente di Human Foundation. "Siamo convinti che quest’esperienza possa contribuire alla diffusione degli schemi "pay by result", che favoriscono sia l’erogazione di risorse pubbliche collegate ai risultati sia la partecipazione dei privati alle politiche sociali. Solo così. con innovazioni profonde e sperimentazioni coraggiose, possiamo difendere lo Stato Sociale e fare meglio con le risorse date". Il ministro Andrea Orlando, che in un recente passato si è trovato tra le mani una proposta di legge (mai approvata) che prevedeva il riconoscimento formale dell’accesso delle organizzazioni sociali a sostegno dei percorsi di reinserimento dei condannati alle misure alternative, oggi è convinto che "le migliori pratiche possono e devono fare scuola" e che questo pilota "è quanto mai significativo. Non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera. Soprattutto perché apre a una sinergia pubblico-privato innovativa ed estendibile ad altri campi del welfare". Intanto si segnalano felici esperienze di "pay by result" in buona parte del mondo. Dal Massachusetts (a sostegno dei senza fissa dimora) all’Australia (famiglie a rischio), dalla Germania (Neet) al Regno Unito (malattie croniche). Anche in questi casi l’impatto è stato positivo, sia per i beneficiari sia per le stesse comunità. Piacenza: su Rai Tre il caso del detenuto "trascinato per i capelli" di Emanuela Gatti ilpiacenza.it, 15 giugno 2017 Il sindacato: "Gli agenti hanno agito secondo le regole". A #cartabianca su Rai Tre il caso del detenuto che nel 2016 sarebbe stato trascinato per i capelli fuori dalla cella dove stava scontando una pena per violenza sessuale alle Novate. Per gli agenti la procura ha chiesto l’archiviazione: legittimo l’uso della forza. Il sindacato Uspp: "Hanno agito secondo il regolamento". Durante la scorsa puntata di #cartabianca, andata in onda il 13 giugno su Rai Tre e condotta da Bianca Berlinguer si è parlato di un episodio avvenuto nel reparto di isolamento del carcere delle Novate. La conduttrice della trasmissione di attualità e cronaca, durante la messa in onda del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza ha dichiarato: "Parliamo ora di un episodio molto grave avvenuto il 26 maggio nel carcere di Piacenza. Nel video possiamo vedere un folto gruppo di guardie, tredici per l’esattezza, alcuni dotati di scudi e in assetto antisommossa che entrano nella cella di un detenuto e lo tirano fuori trascinandolo per i capelli. Le immagini sono tratte dal fascicolo che la procura della Repubblica di Piacenza ha aperto dopo la denuncia del detenuto e della moglie. È difeso dall’avvocato Fabio Anselmo. La procura ha chiesto l’archiviazione ritenendo legittimo l’uso della forza in quel caso ma l’avvocato si opporrà. Resta da chiedersi se sia però legittimo trascinare per i capelli un uomo inerme". Berlinguer parla di Rachid Assarag che nel carcere delle Novate stava scontando una condanna di nove anni e quattro mesi per violenza sessuale. Dal 2009 ad oggi, dopo la condanna, Rachid è stato trasferito in undici carceri diverse, poi è stato condotto in quello di Parma dove aveva denunciato alcuni presunti pestaggi da parte delle guardie penitenziarie, infine è passato per gli istituti di pena di Sanremo, Torino, Piacenza e ora si trova a Bollate. La moglie nel 2009, si legge nei tanti articoli che raccontano la sua storia, gli aveva fornito dei registratori con i quali l’uomo avrebbe appunto registrato i presunti pestaggi e sevizie da parte dei secondini. Anche la trasmissione Le Iene si era occupata del suo caso. Per alcuni di questi fatti Rachid è stato accusato di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Nell’episodio di Piacenza, e dopo la messa in onda del video nel quale non sono stati oscurati i volti delle guardie, è intervenuto Gennaro Narducci, responsabile regionale dell’Uspp (Unione sindacati polizia penitenziaria): "La procura ha chiesto l’archiviazione ritenendo legittimo l’uso della forza in quel momento. Come sindacato siamo solidali con i colleghi che hanno agito secondo il regolamento che prevede quel tipo di procedura al verificarsi di un evento critico. Il detenuto aveva rotto alcuni vetri e aveva distrutto la cella, non voleva uscire e aveva anche minacciato e aggredito alcune guardie. Per tutelare lui, e gli operanti la procedura vuole che il protagonista venga preso e portato in infermeria per toglierlo dalla situazione di pericolo e dal luogo in cui era avvenuto il fatto. E non è stato tirato per i capelli". Como: "Tra padri e figli", una giornata in famiglia dentro il Bassone di Marco Gatti Il Settimanale, 15 giugno 2017 Abbiamo preso parte anche noi, domenica scorsa, ad uno degli incontri mensili previsti dentro il carcere nell’ambito del lavoro sul tema della genitorialità. Un’occasione preziosa per regalare dignità e umanità alla detenzione. Una giornata in famiglia. Semplicemente questa la sensazione che abbiamo vissuto domenica scorsa presso il carcere del Bassone di Como, condividendo alcuni momenti dell’appuntamento domenicale che da qualche anno ormai permette, una volta al mese, ai papà detenuti di incontrare i loro figli. Momento che rappresenta il punto più alto del percorso sulla genitorialità avviato dentro la Casa circondariale, nell’ambito del progetto "Tra padri e figli". Apice di un cammino che vede i detenuti papà impegnati, ogni martedì, con il supporto di due psicologhe - Nora Conconi e Laura Brambilla - nel rielaborare il senso dell’essere genitore dietro le sbarre e nel preparare l’incontro domenicale. Una giornata in famiglia, dicevamo, in cui non traspariva diversità tra chi "sta dentro" e chi arriva da fuori. Una giornata in cui in alcuni momenti gli stessi papà hanno saputo giocarsi come protagonisti nell’animazione dei giochi, e in cui i bambini, spontaneamente e teneramente, si sono lasciati prendere dalle attività, quasi si trovassero in un parco giochi qualsiasi. "Le positive dinamiche di relazione che vediamo instaurarsi in queste occasioni tra papà e figli - ci hanno spiegato le due psicologhe - sono per noi la soddisfazione più grande, il positivo frutto di un lavoro non semplice di messa in gioco da parte dei detenuti. Un lavoro di condivisione, confronto che consente pian piano ai papà di sintonizzarsi sui bisogni dei loro bambini. Un graduale percorso di avvicinamento che aiuta a superare l’inevitabile distanza che la realtà carceraria crea, restituendo alla relazione spontaneità e naturalezza". "Per i detenuti - continuano Nora e Laura - non è facile far capire ai propri figli dove si trovano. Il lavoro che svolgiamo è anche quello di accompagnare i papà a comprendere che la sincerità è la strada migliore per costruire con i loro piccoli una relazione vera e positiva". "Tra le difficoltà maggiori che incontriamo - proseguono - c’è anche la notevole variabilità del gruppo che lavora sulla genitorialità. Ultimamente sono una quindicina i papà che vi prendono parte, ma sono proprio le caratteristiche della realtà carceraria, con detenuti che arrivano e altri che vanno, che non permettono di rendere questo spazio sufficientemente stabile. Così come non tutti i detenuti-papà partecipano a questo percorso formativo settimanale. Ma per noi è un successo doppio quando un papà arriva stimolato dalle sollecitazioni di altri detenuti che hanno iniziato a vivere con positività questo cammino". Il momento d’incontro iniziale, una piccola colazione con qualche vivanda portata dai familiari, i giochi insieme, la pizza preparata da un volontario, Giuseppe, carico di entusiasmo e "innamorato" di questo mondo ("quando ho detto ai miei familiari che sarei andato in carcere a fare il volontario mi han preso tutti per pazzo" ci confida lui stesso). Questi gli ingredienti per un’iniziativa speciale che regala al mondo carcerario sprazzi di umanità, occasioni preziose per salvaguardare e preservare la dignità di chi vi è immerso. "All’appuntamento mensile sulla genitorialità - ci spiega la responsabile del progetto Federica Pisani, funzionario per la professionalità giuridico pedagogica della Casa Circondariale di Como - partecipano in media tra le 80 e le 100 persone, a seconda delle circostanze e del periodo. Per ogni detenuto sono al massimo tre i familiari ammessi. Nel corso degli anni si è coagulata attorno a questo progetto una rete territoriale che ci ha permesso di realizzare molte cose, anche oltre il momento domenicale. Penso, ad esempio, alla disponibilità sempre mostrata dalla Croce Rossa; alla S. Messa di Natale; all’impegno dell’associazione Stringhe Colorare, che si è fatta carico di insegnare ai papà come preparare i giochi, così dal metterli nelle condizioni di essere protagonisti e non spettatori in questo progetto. Del resto il carcere non è un luogo facile in cui fare il genitore, anche per il diverso peso che le varie culture attribuiscono alla genitorialità. Un plauso e un grazie anche ai tanti volontari che si sono sempre messi in gioco, e agli agenti di Polizia penitenziaria, sempre disponibili e attenti". Agenti che, domenica scorsa, erano presenti non in divisa, aggiungendo, anche da questo punto di vista, un pizzico di normalità a questa giornata. Per Federica Pisani quella di domenica è stata l’ultima genitorialità. Altri prenderanno ora in mano questo progetto. Un’iniziativa preziosa di cui il Bassone non intende certo privarsi. Il progetto - La genitorialità dei detenuti è da anni materia di attenta riflessione da parte del carcere del Bassone di Como, nell’ottica di preservare la qualità e la forza dei legami familiari. È nato nel tempo così il progetto "Genitori crescono", poi diventato "Tra padri e figli". Un percorso deciso per garantire ai figli dei detenuti uno spazio di qualità da condividere con i propri genitori, riunendo quei padri che hanno voluto rendersi disponibili ad affrontare le diverse e, a volte, critiche declinazioni che l’essere genitori in carcere comporta. Opera (Mi): il teatro e l’arte di sconfiggere la mafia, giorno per giorno di Max Rigano glistatigenerali.com, 15 giugno 2017 Accade, raramente. Uomini di mafia che, saltata la barricata, scoprono la dimensione umana. E ritrovando sé stessi, attraverso la cognizione del dolore, puntano il dito ai capibastone che ancora comandano e terrorizzano, dicendo loro: "Scoprirai il dolore". C’è uno Stato che la mafia la combatte e spesso la vince, tutti i giorni. Al carcere di massima sicurezza di Opera, dove si trovano molti detenuti al 41 bis, alle porte di Milano c’é un direttore, Giacinto Siciliano, che i mafiosi li mette davanti alle proprie miserie. E facendoli guardare allo specchio li recupera come uomini, li sottrae alla criminalità organizzata e poi traduce la loro testimonianza nelle scuole, e in quelle acque in cui la mafia cerca nuovi affiliati. È un percorso difficile. Pieno d’incognite e irto di difficoltà. Accanto al direttore, Juri Aparo. Psicologo, studioso dell’anima. Da quaranta anni lavora nelle carceri con lo scopo di recuperare i detenuti ad una vita normale. Negli anni ‘80 lo faceva con i terroristi. Oggi con i camorristi, gli ‘ndranghetisti, gli uomini di Cosa Nostra. È un duro, Aparo. Uno che guarda alla realtà con il cinismo di chi sa che la strada non lascia troppe scelte. O stai di qua, dalla parte dello Stato, o stai di là dalla parte di chi uccide, traffica in droga e armi e afferma la sua presenza attraverso la violenza. Negli scorsi giorni (Venerdì 9 Giugno) con Silvia Chiminelli, che dal 1987 lavora alla Scala, ha organizzato all’interno del penitenziario uno spettacolo dal titolo: "Ehi, Litighiamo? No, dai, giochiamo". Una pièce teatrale in cui i detenuti del gruppo della trasgressione, coordinati proprio dal Prof Aparo, hanno alternato reading di poesia, leggendo A Livella di Totò, a performance di musica contemporanea cantando "Don Rafaè" di Fabrizio De Andrè. A loro si sono uniti due cantanti della Scala di Milano, Giovanni Manfrin e Maria Miccoli, Tenore e Soprano, e la pianista Inseon Lee dell’Accademia della Scala, che hanno portato la musica classica in carcere, chiudendo la serata con il Nabucco di Verdi. L’ arte, la musica, la parola come terapia. Il coraggio di sfidare le regole della mafia sul suo terreno: quello del linguaggio, e dell’onnipotenza dichiarata. Il coraggio di smascherare quella onnipotenza e mostrarla per quella che è: paura, solitudine, impotenza, oscurità. Della serata di Venerdì 9 Giugno voglio ancora raccontare del momento della sfida tra bene e male. Quando due detenuti, interpretando uno un boss di mafia, l’altro un affiliato che ha deciso di pentirsi e di cambiare vita, si guardano e si parlano, faccia a faccia. In una sala gremita non solo di ospiti esterni ma anche di detenuti appena arrivati e invitati a questa serata (pertanto non tenuti dentro la cella ma invitati ad essere partecipi come spettatori di questa performance) viene lanciata una sfida. Uscire per sempre dalla logica della mafia, per abbracciare la vita. Una sfida nella sfida, perché in prima linea a combattere la mafia ci sono prima di tutto ex mafiosi. Alessandro Crisafulli, Francesco Schillaci, e tanti altri, che dopo oltre vent’anni di carcere alle spalle, sono diventati uomini nuovi, diversi, dopo un percorso a ritroso dentro il loro dolore. Giacinto Siciliano, è il protagonista di una lotta cominciata da Giovanni Falcone che credette al pentito Buscetta e da lì partì per istruire il maxi processo. Parlare all’uomo. Questo è quello che porta gli uomini di mafia a cambiare. Con impercettibili cambiamenti quotidiani. Con il faticoso percorso che giorno per giorno porta chi si è macchiato di reati feroci ad interrogarsi su sé stesso. Siciliano è tutt’altro che accondiscendente. Minacciato ripetutamente da Totò Riina, che è stato nel penitenziario, prima di essere trasferito a Parma, e le cui intimidazioni sono state ripetute a partire dal 2013 e anche oltre, il direttore è un uomo rigoroso. Coloro che recalcitrano ad entrare in un percorso di recupero li prende per il bavero. Non sono mancati e non mancano momenti di confronto duro con chi è detenuto. "Perché noi siamo lo Stato e abbiamo vinto, loro sono la mafia e hanno perso" mi disse la prima volta che entrai a Opera, una delle guardie penitenziarie. Questa logica è sempre presente. Con l’attenzione dovuta a chi, immergendosi nel dolore, capisce cosa ha fatto agli altri e a sé stesso. È quando arrivi a quella consapevolezza che allora le maglie si allargano e comincia un percorso nuovo. Diverso. Pieno di valori. Ma non si fanno sconti, qui in carcere. Ai bulli, a tutti quei "Don Rafaè" che non si pentono, lo Stato fa la faccia feroce e restituisce con durezza la pena da scontare. A quanti riescono con il tempo ad avvicinarsi a sé stessi, e agli altri, lo Stato riconosce il diritto ad avere una chance. La prima è la memoria. Per non dimenticare mai quello che si è fatto. Per non dimenticare di non essere stati per lungo tempo, degli uomini. Aosta: incontro con il sottosegretario Ferri per la Casa circondariale di Brissogne aostaoggi.it, 15 giugno 2017 I parlamentari regionali hanno incontrato il sottosegretario alla giustizia per discutere dei problemi dell’istituto penitenziario. I parlamentari valdostani, André Lanièce e Rudi Marguerettaz, hanno incontrato ieri il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri per affrontare alcune problematiche della casa circondariale di Brissogne. Prima tra tutte, la mancanza di una dirigenza stabile da tre anni. Dalla partenza del direttore nel giugno 2014 sono la funzione è stata "svolta da Commissari provenienti da altri istituti con incarichi provvisori di breve e brevissima durata che non hanno consentito la pianificazione del lavoro a medio e lungo termine, ma soltanto la gestione delle urgenze", hanno sottolineato il senatore e il deputato. La struttura detentiva deve poi affrontare le difficoltà causate dal continuo trasferimento di detenuti da altri istituti penitenziari sovraffollati. La casa circondariale, affermano Lanièce e Marguerettaz, "ha assunto nel tempo una funzione prevalente di "serbatoio" di altri istituti penitenziari, senza poter svolgere anche percorsi rieducativi e di recupero". I detenuti trasferiti sono infatti "scarsamente collaborativi" e vivono una situazione di "disagio psicologico per l’allontanamento dai propri riferimenti" e dalle proprie famiglie. L’incontro, concludono i due sindacati, ha avuto esito positivo: "il sottosegretario Ferri ha assicurato il suo impegno a risolvere le criticità da noi sottoposte ed ha accettato il nostro invito a salire in Valle d’Aosta a breve per visitare la Casa Circondariale". Bologna: "venite a giocare al Pratello", lo sport collante tra i detenuti e il mondo fuori emiliaromagnamamma.it, 15 giugno 2017 "Venite al giocare al Pratello". Dal passaparola dei primi tempi, l’invito è diventato sempre più istituzionale e a largo raggio. Perché avere un impegno programmato stimola i giovani detenuti del carcere minorile di Bologna ad allenarsi e a fare sempre meglio, perché lo sport aggrega, perché chi varca le porte di un mondo sconosciuto come quello della galera supera poco a poco i pregiudizi. Cristina Angioni coordina dal 2015, per la Uisp, le attività all’interno dell’Istituto penale per minorenni di via De Marchi, teatro del documentario di Roberto Cannavò "La prima volta": "Ogni anno - racconta - rinnoviamo l’appello a venire a giocare partite di calcio, basket e pallavolo con i nostri ragazzi. Appello che ha sempre funzionato, e al quale rispondo anche diverse scuole e squadre femminili, ma che rispolveriamo sempre per non rischiare di rimanere senza interessati. La Uisp da sempre opera da ponte tra il dentro e il fuori, riscontrando come molti dei giovani che vengono a giocare poi tornano, anche perché capiscono che i detenuti non sono solo persone che hanno commessi reati ma ragazzi come loro, che non hanno scritto in fronte quello che hanno commesso e che meritano comunque un’altra possibilità". Consentire che il campo di calcio e la palestra del Pratello - così come il biliardino e il ping-pong - vengano "frequentati" anche da chi vive fuori è secondo Angioni un meraviglioso collante: "Anche educatori e agenti si fanno prendere, così come chi non gioca si fa coinvolgere dal tifo. Avere in calendario una partita serve ai nostri ragazzi a impegnarsi, a comportarsi bene in vista di quell’appuntamento". Al Pratello, che può ospitare fino a 25 detenuti, l’età media è 16/17 anni: "In generale lo sport, per loro, ha un valore altissimo. Quando, magari nei giorni festivi, le attività che svolgiamo - dal teatro alla giocoleria, dalla cucina all’arte-terapia - diminuiscono, noi comunque ci siamo. E le attività sportive aiutano". Livorno: a Gorgona il vino dei detenuti (firmato Frescobaldi) azzarda anche un rosso di Emanuele Scarci Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2017 L’emozione di Lamberto Frescobaldi nel presentare la degustazione verticale, cinque annate, del vino Gorgona, un blend di Vermentino e Ansonica, che nasce nell’isola "dei" detenuti e "per" i detenuti. Meglio, per favorire, con il lavoro, il reinserimento dei carcerati nella società. L’imprenditore-enologo fiorentino racconta la mail ricevuta nell’estate del 2012 con cui, dalla direzione del polo penitenziario, chiedevano "una mano per fare un vino migliore". Una mail inviata a un centinaio di destinatari, potenzialmente interessati, ma raccolta solo da Frescobaldi. Un’offerta rischiosa, comunque con molte incognite e, per giunta, in un’isola, ma che Frescobaldi, chissà perché, ritiene interessante. Sorprende il fatto che già due giorni dopo la prima telefonata con la direzione della casa penale l’imprenditore-enologo abbia fatto la sua prima traversata (35 miglia marine) per Gorgona. "Ovvio - dice Frescobaldi - con la vendemmia imminente non si poteva andare oltre. Ma ignoravo il dettaglio della maturazione lenta delle uve di Gorgona". E nell’agosto del 2012 nasce il progetto Frescobaldi per il sociale, il cui obiettivo è permettere ai detenuti dell’isola di fare un’esperienza concreta e attiva nel campo della viticoltura, cercando un’opportunità per reinserirsi nella realtà lavorativa e nella comunità sociale. I detenuti, con la collaborazione e la supervisione degli agronomi e degli enologi della cantina fiorentina, coltivano un ettaro di vigneto dell’isola. Gorgona oggi è l’unica isola-penitenziario dove i detenuti trascorrono l’ultimo periodo del loro periodo detentivo, quasi un carcere senza sbarre, lavorando e vivendo a contatto con la natura. Il progetto, nato tra le splendide vigne dell’isola, termina in cantina, dove viene prodotto un vino in edizione limitata, Frescobaldi per Gorgona, un bianco a base di Vermentino e Ansonica in 2.700 bottiglie l’anno. I detenuti che lavorano in vigna a Gorgona sono regolarmente assunti e stipendiati da Frescobaldi che, annualmente, investe nel progetto 100mila euro, di cui 14mila pagati al ministero per l’affitto del vigneto. L’operazione non sembra solo un’operazione di marketing per la cantina toscana, considerati i rischi, la presenza diretta e prolungata di Lamberto Frescobaldi e "anche il festeggiamento dei 25 anni di matrimonio alla Gorgona" ricorda l’imprenditore Buona la prima - A maggio 2013 la prima vendemmia di Gorgona è stata presentata al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma e a settembre anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto la magnum numero "0" in omaggio. A giugno 2014 Frescobaldi firma un contratto decennale di collaborazione con il carcere e riesce ad assumere due detenuti che lavorano in vigna a Gorgona e che sono stipendiati direttamente dall’azienda. A febbraio 2015 i detenuti, coordinati dagli enologi di Frescobaldi, hanno impiantato un altro ettaro di vermentino sull’isola: obiettivo, coinvolgere nel lavoro in vigna più detenuti e ottenere (dopo 4 anni) un vino di qualità migliore. Nel giugno 2017 esce la quinta vendemmia di Gorgona, "Gorgona 2016", vino da uve Vermentino ed Ansonica prodotto in collaborazione con i detenuti assunti da Frescobaldi. La produzione è di 4mila bottiglie e l’etichetta è dedicata alla grande varietà botanica dell’isola e all’armonia del lavoro dell’uomo in questo contesto. Degustazione con sorpresa - In occasione della presentazione dell’annata 2016 viene proposta la degustazione di cinque annate: dal 2012 al 2016. Per la prima volta dalla sua nascita, una degustazione verticale ripercorre la storia e le peculiarità del Gorgona. Ogni anno un’etichetta diversa, come una pagina di giornale, racconta di questo vino, realizzato con l’impegno dei detenuti del penitenziario dell’isola, che con i mezzi e le conoscenze trasferite dai tecnici Frescobaldi, gestiscono il vigneto in coltura biologica. Le vendemmie s’intrecciano ai rapporti personali stabiliti da Lamberto Frescobaldi con diversi detenuti: dal cantiniere arabo (poi, in libertà, assunto da una cantina trentina) al contadino albanese che con il primo stipendio ha comprato le scarpe ai figli che ora dicono di avere un padre vignaiolo. Per l’effetto temperante del mare, l’inverno non è stato troppo rigido e il clima è sempre stato mite per le medie stagionali, anche se è stata registrata una piovosità molto elevata. Frescobaldi sottolinea che nel 2016 "il precoce germogliamento è da attribuire alle calde temperature di fine marzo-inizio aprile, tanto che i campionamenti effettuati nel mese di maggio hanno rivelato un’incredibile fertilità dei germogli. La fioritura scalare del Vermentino e Ansonica si è conclusa il 10 giugno, l’estate è stata meno afosa della media tanto che l’invaiatura dei grappoli è stata posticipata di due settimane." Dopo la raccolta manuale in cassette, il Gorgona Bianco fermenta e prosegue la sua evoluzione affinando in barrique e acciaio per circa sette mesi. Il risultato è un nettare dal colore giallo paglierino con riflessi dorati, un naso minerale e delicato con sentori di rosmarino, timo e camomilla, pesca bianca e ananas. Il palato è morbido ma ben bilanciato da sapidità e freschezza, complesso e avvolgente. In generale però la vendemmia 2016 è ancora giovane e darà il meglio più avanti. Rimane la vendemmia 2015, forse l’apice dell’esperienza Frescobaldi alla Gorgona: dai profumi delicati e dalla sapidità e freschezza pronunciata che compensa una gradazione alcolica generosa, 13 gradi. La vendemmia 2014, con piogge intense, è invece contraddistinta da una forte impronta di the verde, il sapore dell’uva verde. A sorpresa, Frescobaldi annuncia che nello scrigno di Gorgona ci sono alcuni filari di Sangiovese e Vermentino nero che hanno prodotto 660 bottiglie. Un’edizione limitatissima, nelle passate vendemmie offerta ai custodi del carcere. Prima della degustazione prevale lo scetticismo: il Sangiovese nelle zone costiere non ha mai prodotto risultati rilevanti. Eppoi il ricorso alla terracotta non è particolarmente rassicurante. Invece la degustazione condotta da Frescobaldi ha offerto un rosso, che ha poco più di un anno, dal naso non particolarmente coinvolgente ma dal grande palato. Ne riparleremo più avanti. Padova: sfida all’ultimo gol al Due Palazzi tra Pallalpiede, Fisioelan e Football Press Corriere del Veneto, 15 giugno 2017 Il progetto Pallalpiede continua e dà vita a una nuova iniziativa benefica. Questo pomeriggio, al Due Palazzi, andrà in scena un triangolare amichevole di calcio a sostegno dell’iniziativa che da tre anni permette ai detenuti di disputare il campionato Terza Categoria. L’evento, promosso da Birra Antoniana e dall’agenzia assicurativa Schiavon & Bonamin, vedrà sfidarsi la rappresentativa Pallalpiede (composta da ospiti del Due Palazzi), la squadra del poliambulatorio Fisioelan e la Padova Football Press, la squadra dei giornalisti padovani. Tre mini gare da mezz’ora che verranno disputate in carcere. Fischio d’inizio alle 14,30. Il triangolare fa parte del progetto "Rimettiamoci in gioco", nato nel 2014 da un’idea dell’Associazione Nairi Onlus e con il supporto della direzione del Due Palazzi e della Figc del Veneto. Radio Carcere. Parla la madre di Andres, il detenuto suicida del carcere di Reggio Emilia radioradicale.it, 15 giugno 2017 Puntata di Radio Carcere di martedì 13 giugno 2017, condotta da Riccardo Arena che in questa puntata ha ospitato Rita Bernardini (coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale Nonviolento). Parla la madre di Andres, il detenuto suicida nel reparto psichiatrico del carcere di Reggio Emilia. La scelta del Governo di porre anche alla Camera la fiducia sul ddl penale e la lotta nonviolenta di Rita Bernardini". Link: https://www.radioradicale.it/scheda/511788/radio-carcere-parla-la-madre-di-andres-il-detenuto-suicida-nel-reparto-psichiatrico "Shalom!", il documentario sul Coro Papageno del carcere di Bologna di Ambra Notari Redattore Sociale, 15 giugno 2017 Il film di Enza Negroni, è un viaggio nel coro misto composto dai detenuti della Dozza, nato nel 2011 da un’idea di Claudio Abbado. "Shalom!" sarà presentato il 16 giugno in occasione del Biografilm Festival. Il 17 giugno il Coro in concerto nella casa circondariale. "È un film di canto e di parola: sentiamo le voci dei membri del coro, il punto di vista è il loro". La regista Enza Negroni sintetizza così "Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel coro Papageno", un documentario sul coro misto nato nel carcere bolognese della Dozza da un’idea di Claudio Abbado che unisce più di 30 elementi di 20 diverse nazionalità, assieme ad alcuni coristi volontari esterni, diretti dal Maestro Michele Napolitano. "Abbiamo dato voce ai detenuti che partecipano a questo progetto unico in Italia - continua Negroni - raccontando i rapporti tra maestro, coristi e volontari: nel corso degli anni (il Coro è nato nel 2011, ndr) sono nate relazioni e amicizie molto belle. I coristi raccontano a viva voce le loro esperienze intime, le loro emozioni e le prospettive future, tra cui la musica e il Coro stesso, in cui vorrebbero rimanere anche una volta usciti". Tutto è cominciato nel 2015, da un’idea della produttrice Valeria Consolo, vincitrice del bando di Film Commission Regione Emilia-Romagna: "Lavoriamo insieme da 20 anni - spiega Negroni - Visto che la mia ultima avventura è stata ‘La prima metà, il film sulla squadra di rugby della Dozza, mi ha proposto questo nuovo progetto, d’accordo con l’associazione Mozart14". Mozart14, presieduta oggi da Alessandra Abbado, dal 2014 sostiene le iniziative musicali avviate in ambito sociale dal maestro Abbado: il Coro Papageno; il progetto Tamino, che porta la musica in ospedale per i bimbi ricoverati; il Leporello, laboratorio di songwriter con i ragazzi del carcere minorile del Pratello; il Cherubino, laboratorio di canto corale che unisce bimbi e adolescenti, anche con disabilità. Così, due anni fa la regista si avvicina al Coro, seguendone le prove, e nel 2016 comincia a girare: "Le prove sono ogni lunedì: prima con il reparto maschile, poi con quello femminile. Mi sono innamorata di questa storia. L’anno scorso, poi, è stato particolarmente speciale per il Papageno, che si è esibito sia in Senato, sia in Vaticano. Senza dimenticare la popstar Mika, che per la sua trasmissione televisiva ha scelto di esibirsi con il Papageno, entrando in carcere". Il documentario racconta sia le prove all’interno della Casa circondariale sia le esibizioni fuori, alle quali, però, non tutti possono partecipare: "Chi ha pene molto lunghe non può uscire: ‘Shalom!’ racconta anche questo, di chi grazie al canto può lasciare, almeno per qualche ora, il carcere, e di chi, invece, non può, e guarda gli amici partire". In "Shalom!" si parla anche dei rapporti nati tra coristi maschi e coriste femmine, che partecipano a prove distinte e che si riuniscono solo in occasione dei concerti. Attraverso il racconto dei componenti del Coro Papageno lo spettatore entra nella casa circondariale per capire come la partecipazione a un coro possa cambiare una vita dopo una lunga permanenza in carcere. Per alcuni detenuti, poi, i brani eseguiti rappresentano il collegamento con il loro Paese di origine, grazie soprattutto alla scelta del maestro Napolitano, che ha volutamente selezionato brani di tradizione macedone, italiana, nord europea, araba, brasiliana, rom e di musica classica. "Shalom!" sarà presentato fuori concorso in anteprima assoluta nella sezione Biografilm Music, per il 13° Biografilm Festival (in calendario a Bologna fino al 19 giungo). I film è in programma per venerdì 16 giugno alle ore 11.30 presso il Cinema Lumière e domenica 18 giugno alle ore 20.30 al Biografilm Hera Theatre Cinema Arlecchino. Sabato 17 giugno, invece, alle ore 15 il Coro Papageno terrà l’annuale concerto aperto al pubblico presso la casa circondariale Dozza, unica occasione per ascoltarlo dal vivo. "Benvenuti nell’epoca del fascismo sociale" di Giuliano Battiston L’Espresso, 15 giugno 2017 Il neoliberismo ha sdoganato la legge del più forte. E così siamo tornati alla giungla. La critica del grande sociologo Boaventura de Sousa Santos. Boaventura de Sousa Santos non usa mezzi termini. La fase storica che stiamo attraversando è segnata dalla coesistenza tra regimi politicamente democratici e socialmente fascisti. Per il sociologo portoghese, direttore del Center for Social Studies dell’università di Coimbra, tra i padri-fondatori del Forum sociale mondiale, intellettuale di riferimento del movimento altermondialista, la democrazia è in crisi, e la socialdemocrazia europea a rischio, perché sta venendo meno il contratto sociale, sostituito dal "ritorno dello stato di natura". Per salvare l’uno e l’altra, sostiene nel suo ultimo libro, "La Difícil democracia", "la sinistra deve imparare dal Sud del mondo". seguire due strategie: "Polarizzare le contraddizioni tra oppressi e oppressori" e "depolarizzare quelle ra gli oppressi". Lo abbiamo incontrato nel suo studio all’università di Coimbra. Nel suo ultimo libro lei sostiene che la democrazia abbia perso quella tensione produttiva con il capitalismo che, almeno in Europa, ha dato vita una forma particolare di contratto sociale, la socialdemocrazia. Perché è in crisi? "Perché viviamo una tensione di fondo tra il costituzionalismo nazionale, ove sono state iscritte le regole democratiche, e il costituzionalismo globale, intrinsecamente anti-democratico, fatto di capitale finanziario, multinazionali, accordi di libero commercio, e mosso soltanto da avidità, accumulazione e profitto, un profitto cercato sempre più non nell’economia produttiva, ma nella finanza. In Europa la tensione tra democrazia e capitalismo sta scomparendo perché in sostanza scompare la democrazia, svuotata ei suoi contenuti. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo provato a costruire una democrazia liberale corretta in nome della sovranità popolare, con la redistribuzione della ricchezza, l’inclusione sociale, i diritti economici e sociali, non solo civili politici. La socialdemocrazia era na via democratica al socialismo, alternativa alla via rivoluzionaria. ggi è minacciata perché nessuno - neanche le forze progressiste - ha preso sul serio i Trattati dell’Unione europea, espressione del neoliberismo che punta a distruggere la socialdemocrazia dall’alto al basso, evitando di passare per i contesti nazionali, caratterizzati da partiti socialisti e progressisti organizzati, Costituzioni forti, movimenti sindacali". Lei ha parlato della "fine del contratto sociale", a causa di due tendenze opposte ma complementari, il pre il post-contrattualismo, che si traducono nel "predominio strutturale dei fenomeni di esclusione": il fascismo sociale. Di cosa si tratta? "È la coesistenza tra regimi politici formalmente democratici e relazioni sociali sostanzialmente fasciste. n Europa, con la fine della guerra, abbiamo pensato che il fascismo fosse un particolare regime politico, che fossimo ormai pienamente democratici. Ma dietro al fascismo ci sono delle specifiche relazioni sociali, quelle che le popolazioni coloniali hanno vissuto quando erano alla mercé dei padroni, degli amministratori coloniali, della filantropia delle chiese. Vivevano ciò che definisco come un’esclusione abissale, che li rendeva non del tutto umani, privi di diritti, alla mercé degli altri. Oggi assistiamo a una doppia dinamica simile: da una parte fasce i popolazione sempre più ampie sono escluse sin dall’inizio dal contratto sociale, non hanno speranza di potervi entrare a far parte - è il pre-contrattualismo, la contrazione della società civile - dall’altra si allarga a "società civile incivile", composta da tutte quelle persone che vengono sbattute fuori dalla società civile, ella giungla sociale (il post-contrattualismo), nello stato di natura, in condizioni simili a quelle vissute dalle popolazioni coloniali". Qui c’è traccia di una sua convinzione profonda: l’idea che il capitalismo si accompagni sempre a due altre forme di sfruttamento e dominio, il colonialismo e il patriarcato... "È così. È un’illusione ritenere che il colonialismo sia finito. Oggi non passa più per l’occupazione militare, ma per xenofobia, razzismo, discriminazione, esclusione sociale, saccheggio delle risorse naturali. Ci siamo illusi - anche a causa di Marx - che con l’evoluzione delle società moderne il contratto sociale avrebbe eliminato lo stato di natura originario, progressivamente abbandonato. Ci siamo scordati, invece, che una volta creato il contratto sociale abbiamo creato anche lo stato di natura. Non era visibile, perché vigeva nelle colonie, ma non è mai sparito. E oggi torna nelle nostre società, dove la tensione tra i due principi della regolamentazione e dell’emancipazione sociale viene sostituita con quella tra violenza e appropriazione, che pensavamo riservata alle colonie". A dispetto delle critiche che rivolge alla "democrazia di bassa intensità", compatibile con il fascismo sociale, lei sostiene che la democrazia debba restare un orizzonte utopico, "un’utopia concreta e realistica". Ma può ancora essere uno strumento di emancipazione? "Il Ventesimo secolo è cominciato con la rivoluzione e il riformismo, due modelli di trasformazione sociale diversi ma entrambi legittimi, che hanno diviso la sinistra. Con la caduta del muro di Berlino sono collassati sia il comunismo sia la socialdemocrazia, e il neoliberismo ne ha approfittato per sostenere che non ci sono alternative. Non è così. Non abbiamo bisogno di alternative, ma di un modo alternativo di pensare alle alternative. Per farlo possiamo seguire due criteri: da una parte ripensare profondamente le nostre categorie occidentali, archiviando per esempio il binomio riforma-rivoluzione e l’idea che la democrazia sia alternativa alla rivoluzione, perché oggi se vogliamo salvare la democrazia e il contratto sociale dalle forze antidemocratiche oligarchiche dobbiamo essere rivoluzionari; e dall’altra compiere un atto di umiltà, andando al Sud globale per imparare dal Sud. In particolare, l’Europa dovrebbe andare a scuola al resto del mondo, da studente". L’Europa cosa imparerebbe, se sviluppasse una "epistemologia del Sud"? "Che non esistono soltanto due forme di democrazia, quella rappresentativa e, al meglio, quella partecipativa, ma una demo-diversità: modi diversi di deliberare, decidere, discutere. E che l’economia capitalistica va ripensata. Non per eliminarla, ma perché le società sono plurali a livello economico: esistono economie contadine, socialiste, indigene, popolari, cooperative... Con la mia epistemologia del Sud suggerisco due altre coordinate, per l’Europa e la sinistra: polarizzare le contraddizioni tra oppressi e oppressori, per evitare che gli oppressi votino e si identifichino con gli oppressori, come nel caso di Trump, e depolarizzare le differenze tra gli oppressi, tra donne, rifugiati, contadini, lavoratori, immigrati. A causa della tradizione di dogmatismo e settarismo della sinistra è un’operazione difficile. Ma è possibile, come dimostra l’attuale governo progressista del Portogallo". La premier polacca paragona l’ondata dei migranti alla minaccia nazista di Andrea Tarquini La Repubblica, 15 giugno 2017 È polemica su una frase di Beata Szydlo del partito nazional-conservatore nel giorno della ricorrenza del primo trasporto di prigionieri verso i campi di sterminio. Martedì la Commissione Europea aveva messo sotto accusa il governo di Varsavia per il mancato accoglimento dei profughi. La premier polacca Beata Szydlo, nazional-conservatrice, ha pronunciato mercoledì un discorso che, a torto o a ragione, sulla rete e agli occhi delle comunità ebraiche e degli osservatori di tutto il mondo è suonato come un indiretto, blasfemo paragone tra la minaccia posta dalle ondate migratorie in Europa e la minaccia reale e tragica che la Polonia come altri paesi europei subirono nella seconda guerra mondiale con l’invasione e l’occupazione da parte della Germania nazista. E subito si levano critiche e proteste in tutto il mondo. Proprio all’indomani della decisione dell’Unione europea di aprire procedure d’infrazione contro Polonia, Cechia e Ungheria per il loro rifiuto di accogliere quote di ripartizione delle masse di migranti attualmente ammassate in Italia e in Grecia, la premier ha infatti detto, citata da tutte le agenzie di stampa internazionali: "Auschwitz è una lezione la quale ci mostra che dobbiamo fare qualsiasi cosa per proteggere i nostri cittadini". Frase in parte nebulosa, ma per molti osservatori suona come un accostamento implicito ma chiaro tra i possibili pericoli che le ondate migratorie possono portare nella Ue e il pericolo tragico, sanguinoso, reale che fu l’occupazione nazista di quasi tutta l’Europa. La premier ha pronunciato queste parole nel luogo in una cerimonia che commemorava il 77esimo anniversario del primo trasporto di ebrei deportati dal terzo Reich nei campi di sterminio adiacenti di Auschwitz-uno e di Birkenau, costruiti dai tedeschi nella Polonia occupata, e dove i tedeschi uccisero oltre un milione di persone, in grande maggioranza ebrei, poi anche rom, gay, resistenti polacchi, prigionieri di guerra sovietici. Proprio nel momento in cui polemica e tensione sono al calor bianco tra Varsavia, Praga e Budapest da un lato e il resto della Ue (a cominciare dalla Commissione e dai governi nazionali di Berlino, Parigi e Roma) dall’altro, le parole sono apparse a molti totalmente inappropriate, e molti le hanno giudicate insultanti della Memoria della Shoah, come notano agenzie di stampa internazionali dall’Ansa italiana alla Reuters britannica. Le parole della premier, scrive la Reuters citando commenti di opposizione, intellettuali e fonti critiche in Polonia e delle comunità ebraiche mondiali, sono apparse il modo più sbagliato di difendere la linea di no assoluto all’accoglienza di migranti o di quote di migranti ora presenti altrove nella Ue, linea seguita dal partito nazional-conservatore ed euroscettico al potere in Polonia dalle libere elezioni dell’ottobre 2015. Cioè il PiS (Prawo i Sprawiedlywosc, Diritto e Giustizia), vicinissimo nella tolleranza zero verso i migranti come nell’euroscetticismo al popolare premier nazional-conservatore ungherese, Viktor Orbán. Il quale ha appena fatto varare dal Parlamento una legge che inasprisce i controlli sulle Ong accusando implicitamente quelle finanziate dall’estero, e soprattutto dal miliardario filantropo americano di origini ebree ungheresi George Soros, di "lavorare per interessi stranieri contro la Nazione magiara". Sia il PiS sia Orbán sono ammirati e citati come esempio dai populisti dell’Europa occidentale. La commissione europea, appena martedí, ha aperto procedure d’infrazione contro Polonia Ungheria e Cechia per il loro rifiuto di aiutare gli altri Stati membri della Ue a dividersi il fardello dell’accoglienza dei migranti. Secondo Dopnald tusk, ex premier liberal riformatore polacco padre del miracolo economico di Varsavia e ora presidente dell’esecutivo europeo, "simili parole pronunciate in quel luogo non dovrebbero mai uscire dalla bocca di un capo di governo polacco". L’ex ministro della Difesa Tomasz Siemioniak ha parlato di "discredito". Il portavoce del governo, Rafal Bochenek, ha invitato a leggere per intero il discorso in cui la premier ha auspicato che "terribili eventi come quelli di Auschwitz e in altri luoghi del martirio non si ripetano". Ma c’è chi osserva anche che rispetto per esempio a come il papa polacco Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) che definí nazismo e Olocausto "il Male assoluto", cioè persino peggio del bolscevismo e del Gulag, queste stesse precisazioni suonano minimizzanti ed erratiche. Come prevedere i flussi migratori di Danilo Taino Corriere della Sera, 15 giugno 2017 Il Pew Research Center ha condotto uno studio sulle ricerche online effettuate su Google nel 2015 e 2016, con risultati interessanti che fanno capire come si orientano le masse di popolazioni. I flussi migratori possono essere previsti con una buona approssimazione, usando il Big Data, cioè la raccolta e l’analisi di grandi quantità d’informazioni. Operazione utile per adeguare la risposta da dare ai movimenti di masse di popolazioni come quelli visti in questi anni verso l’Europa. Il Pew Research Center ha condotto uno studio sulle ricerche online effettuate su Google nel 2015 e 2016, con risultati interessanti. Nel periodo, centinaia di migliaia di persone affrontarono il viaggio dalla Siria e dall’Iraq passando per la Turchia diretti in Grecia via mare. Dall’analisi si nota che le ricerche della parola "Grecia" in arabo effettuate in Turchia (Paese in cui si parla il turco) raggiunsero un picco nell’agosto 2015, a 86 di interesse nella scala di Google Trends. Due mesi dopo - probabilmente il tempo di organizzarsi e di partire - gli arrivi in Grecia toccarono un picco, a 212 mila nel mese di ottobre. Anche il numero di richieste di asilo da parte di siriani e iracheni in Europa toccò un picco di 91 mila al mese nello stesso periodo. Interessante notare che le ricerche online della parola "Grecia" in arabo effettuate in Turchia raggiungevano massimi orari tra l’una e le tre di notte, periodo nel quale solitamente le barche con i rifugiati prendevano il mare. L’impronta digitale lasciata dai rifugiati non è limitata al loro primo passo verso l’Europa. Una volta sul Vecchio Continente, il 57% dei siriani e degli iracheni ha chiesto asilo in Germania. Le ricerche in arabo della parola "tedesco" effettuate in Germania (usata sul traduttore automatico) raggiunsero un massimo di 78 nella scala Google Trends verso la fine del 2015 e a esse seguì un picco di 48 mila richieste di asilo in Germania nel febbraio 2016. Gli sbarchi in Grecia poi crollarono dopo l’accordo del marzo 2016 tra la Ue e Ankara per trattenere i rifugiati in Turchia. In Germania, però, la ricerca della parola "tedesco" in arabo è continuata per parecchi mesi, segno delle operazioni di richiesta di asilo e poi dell’ingresso nei corsi di integrazione - spiega Pew. Non è detto che analisi di questo genere possano essere condotte, in anticipo invece che a posteriori, in tutti i casi: siriani e iracheni in genere avevano a disposizione smartphone; non tutti i migranti, per esempio sulla rotta libica, li hanno. Ciò nonostante, seguire le impronte digitali può essere utile a individuare tendenze e ad affrontare le crisi. Amnesty International. Rom, donne incinte e bambini senza alloggio in Italia La Repubblica, 15 giugno 2017 La denuncia di Circa 18.000 rom vivono in 149 campi di 88 località diverse, altri 10.000 in campi informali dove subiscono spesso ripetuti sgomberi forzati: 250 solo nel 2016. "L’Italia viola la Direttiva anti-discriminazione ogni giorno attraverso sgomberi forzati in assenza di un’alternativa alloggiativa. Al termine di una ricerca condotta in Italia, Amnesty International ha denunciato che una serie di sgomberi illegali di insediamenti rom ha lasciato senza un alloggio decine di persone estremamente vulnerabili, tra cui donne incinte, bambini e neonati. Queste violazioni dei diritti umani sono state documentate pochi giorni, prima che la Commissione Europea rinunciasse ancora una volta a sanzionare il governo italiano per la discriminazione nei confronti dei rom. Nel corso della sua recente ricerca in Italia, Amnesty International ha visitato insediamenti rom e incontrato famiglie che, negli ultimi mesi, avevano visto i loro alloggi distrutti ed erano state sottoposte a sgombero forzato. Inermi contro i bulldozer che demoliscono. Amnesty International ha incontrato una donna al settimo mese di gravidanza rimasta senza tetto dopo che, due settimane fa, il suo alloggio nel campo informale di Germagnano (Torino) era stato demolito. La demolizione di un altro alloggio è iniziata mentre un bambino di nove anni stava ancora dormendo all’interno: si è salvato solo perché le grida della madre sono riuscite a fermare il bulldozer. Assieme al Centro europeo per i diritti dei rom, Amnesty International continua a chiedere alla Commissione Europea di iniziare finalmente una procedura legale contro l’Italia, in modo da impedire ulteriori sgomberi forzati e il perpetuarsi della segregazione dei rom. Non escono dagli alloggi per paura che vengano abbattuti. "Molti abitanti dell’insediamento di Germagnano hanno il terrore di lasciare i loro alloggi, persino per recarsi dal medico, perché al ritorno potrebbero trovarli distrutti. La paura di perdere quella che è la loro abitazione è sempre presente, dato che vengono spostati da un luogo a un altro in un circolo senza fine di sgomberi forzati. Lo stesso accade in decine di altri insediamenti nel resto dell’Italia. È davvero giunto il momento che l’Unione europea chiami l’Italia a rispondere del suo operato e fornisca giustizia ai rom che subiscono segregazione e discriminazione", ha dichiarato Fotis Filippou, vice direttore di Amnesty International per l’Europa. Ancora nessuna procedura d’infrazione. Il 14 giugno il Collegio dei commissari dell’Unione europea ha svolto la sua riunione mensile per discutere se lanciare procedure d’infrazione nei confronti degli stati che violano le norme comunitarie. Ancora una volta, è stato deciso di non intraprendere alcuna azione contro l’Italia, nonostante fossero state messe a disposizione prove schiaccianti di violazioni dei diritti umani ai danni dei rom. Ad aprile, il Financial Times aveva rivelato che la procedura era stata sino ad allora ripetutamente bloccata "per evitare una dannosa polemica pubblica". Nel settembre 2012 la Commissione europea aveva lanciato una fase di pre-infrazione, o procedura "pilota" contro l’Italia per il trattamento dei rom ai sensi della Direttiva anti-discriminazione, in riferimento agli sgomberi forzati, ai campi mono-etnici e alla discriminazione nell’accesso alle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari. Già all’epoca le prove a disposizione erano numerosissime. Nonostante ne siano continuate a emergere ancora altre, a quasi cinque anni di distanza la procedura d’infrazione non è stata ancora avviata. Gli sgomberi forzati a Germagnano. Negli ultimi mesi molti dei residenti dell’insediamento informale di Germagnano sono stati vittime di sgombero forzato e più volte sono rimasti privi di alloggio. Le autorità locali sostengono che, a seguito del decreto giudiziario che aveva ordinato il sequestro di terreni occupati, sono stati demoliti solo gli alloggi abbandonati. Amnesty International ha tuttavia documentato una situazione assai differente, come nel caso di un ragazzo di 17 anni svegliato e obbligato a raccattare le sue cose prima che l’alloggio venisse demolito. Senza preavviso adeguato, consultazione genuina e messa a disposizione di un alloggio alternativo come previsto dal diritto internazionale, le persone sottoposte a sgombero forzato sono attualmente senza tetto, costrette a sostare in strutture sovraffollate con amici e parenti o in altri rifugi improvvisati come le tende. Tra le persone rimaste senza alloggio, Amnesty International ha documentato casi di persone con disabilità, bambini e famiglie con neonati. Una lunga "tradizione" di segregazioni. L’Italia ha una lunga storia di sgomberi forzati e di segregazione dei rom nei campi. A Germagnano pare sia andata come nel quartiere napoletano di Gianturco, dove il 7 aprile numerose famiglie rom hanno subito uno sgombero forzato: 130 rom, tra adulti e minori, sono stati collocati nel campo segregato di via del Riposo mentre ad altre centinaia di persone non è stata offerta alcuna alternativa. Il 7 aprile 2017 l’Associazione 21 luglio ha reso pubblici i drammatici dati del suo Rapporto annuale: vi si legge che 28.000 rom hanno subito sgomberi forzati, sono stati posti in campi segregati o costretti a vivere in altre strutture alloggiative d’emergenza. Sono 28.000 le persone nei campi "formali" e "informali". Questi numeri illustrano chiaramente le tante violazioni del diritto all’alloggio inflitte ai rom. Circa 18.000 rom vivono in 149 campi di 88 località diverse, altri 10.000 in campi informali dove subiscono spesso ripetuti sgomberi forzati: 250 solo nel 2016. "L’Italia viola la Direttiva anti-discriminazione ogni giorno attraverso sgomberi forzati in assenza di un’alternativa alloggiativa adeguata e costringendo i rom a vivere in ambienti minacciosi, ostili e degradanti. La procedura d’infrazione contro l’Italia è necessaria da tempo. Cos’altro occorre alla Commissione Europea per passare all’azione?" ha dichiarato Jovanovic, presidente del Centro europeo per i diritti dei rom. Egitto. Giro di vite di Al- Sisi sulle Ong e i giornalisti sgraditi di Valerio Sofia Il Dubbio, 15 giugno 2017 Decine di arresti nella sede del sindacato della stampa. Due piccole isole del Mar Rosso provocano nuove ondate di proteste e di repressione in Egitto. Tiran e Sanafir, questo il nome delle isole, verranno restituite (o cedute, a seconda dei punti di vista) dal Cairo all’Arabia Saudita, come ha confermato ieri il Parlamento. Una scelta legata all’alleanza strategica tra i due Paesi, e alla possibilità di sviluppare una sempre più stretta cooperazione economica e strategica, considerando anche che il regime di al- Sisi ha eccellenti rapporti con i sauditi, anche in chiave anti-Fratelli Musulmani. Ma anche per questo la cosa non piace molto a parecchi egiziani, e su questo tema l’altro giorno si è arrivati alla rissa in Parlamento. Le proteste investono tutto il Paese, e hanno raggiunto anche il sindacato dei giornalisti, dove è stato realizzato un sit in lungo le scale della sede. Le forza di sicurezza hanno prontamente circondato l’edificio nel centro del Cairo dove i giornalisti sono rimasti bloccati per ore, salvo poi uscire "scortati" dalla polizia. "Ci hanno fatto uscire come se fossimo prigionieri di guerra", ha scritto su Facebook un giornalista del quotidiano statale Al Ahram. Otto manifestanti sono stati fermati per qualche ora e due di loro trattenuti. Diversi giornalisti egiziani sono rimasti feriti negli scontri con le forze di sicurezza dentro e fuori dall’edificio. Nei giorni scorsi la repressione governativa aveva raggiunto anche i media online e le ong. Nell’ambito di un giro di vite contro siti considerati eversivi, nelle settimane scorse, in un crescendo di segnalazioni, era emerso che quasi 50 siti di media sono stati oscurati senza motivazione ufficiale, inclusi i noti Mada Masr, Daily News Egypt e Al Borsa. Ora l’Egitto ha bloccato l’accesso anche a "Tor" e ad alcuni altri Vpn, i software che consentono di accedere a siti oscurati. L’elenco comprende anche siti stranieri del Qatar (Al Jazeera), con cui il Cairo ha rotto i rapporti diplomatici, ma anche di Turchia e Iran, potenze regionali rivali dell’Egitto, e questo si inserisce nella crisi del Golfo più che in quella delle isole, ammesso che si possano considerare del tutto scollegate. L’Egitto infatti è con l’Arabia il perno dell’alleanza araba che ha isolato il Qatar, anche per il suo appoggio ai Fratelli Musulmani. Tra le accuse rivolte ai media bloccati c’era proprio quella di sostenere il terrorismo ed essere sostenuti dal Qatar. Nel mirino anche le ong. Il 29 maggio il presidente ha firmato una legge con cui viene istituita un’Autorità Nazionale che dovrà regolamentare l’attività delle ong straniere in Egitto. Nell’Authority figurano rappresentanti delle principali agenzie di sicurezza dell’Egitto, come l’Intelligence, il ministero dell’Interno, quello della Difesa e l’Autorità per il controllo amministrativo. Di fatto un’assunzione di controllo piena sull’attività delle ong, messe sotto la lente di osservazione delle forze di sicurezza. L’articolo 2 della legge prevede che tutte le Ong debbano regolarizzare la loro posizione alla luce delle nuove regole, comunicare tutti le fonti di finanziamento e le attività portate avanti nell’ultimo anno. Le Ong che non dovessero adeguarsi verrebbero sciolte da un ordine della magistratura, i loro fondi verrebbero fatti confluire in un Fondo governativo per lo sviluppo e tutti i progetti di sviluppo o di altro genere, portate avanti al di fuori di queste misure, verrebbero sospesi. Messico. Tra le scrivanie vuote dei reporter ammazzati dai narcos di Emiliano Guanella La Stampa, 15 giugno 2017 Nella sede de "La Jornada", all’ingresso, c’è un altarino con i ritratti dei due giornalisti del quotidiano uccisi negli ultimi mesi. Miroslava Breach è stata assassinata a Ciudad Juarez, Chihuahua, feudo dei narcos al confine con il Texas. Javier Valdez è stato ammazzato esattamente un mese fa a Culiacan, capitale dello stato di Sinaloa, territorio del Cartello guidato dal Chapo Guzman, estradato negli Stati Uniti, ma ancora potentissimo. A "La Jornada" non amano parlare dei colleghi scomparsi, ma questa volta fanno un eccezione perché, come spiega il caporedattore Rolando Medrano, si sente il bisogno di denunciare a livello internazionale quello che sta succedendo in Messico. "Miroslava e Javier non erano due giovani colleghi inesperti, sapevano benissimo i rischi che correvano. Avevano deciso di non fermarsi perché ritenevano la loro più che una professione, una missione. Da anni seguivano i movimenti della criminalità organizzata, le faide interne, le relazioni con il potere politico, le complicità del mondo imprenditoriale. Erano convinti che fosse necessario raccontare quello che stava succedendo". Rolando si commuove a ricordarli, in tutta la redazione c’è ancora tantissimo dolore ma nessuno, qui, vuole parlare di eroismo, di martiri. Dall’inizio dell’anno sono sei i cronisti messicani uccisi, più di cento negli ultimi 15 anni. "Oggi possiamo solo seguire il loro esempio, non possiamo smettere di pubblicare inchieste, reportage, di seguire i fatti; allo stesso tempo, però, dobbiamo pensare come proteggere i nostri cronisti e inviati. Sarebbe terribile piangere altre morti". A Città del Messico si rifugiano oggi i giornalisti che scappano dalle zone più pericolose, scompaiono per un po’ per salvare se stessi e le loro famiglie. Uno di loro è Martin Duran, che lavorava sulle stesse storie di Valdez. A Culiacan ha fondato il giornale online "La Pared", che pubblicava inchieste sul mondo dei narcos. Nel 2016 il debutto in edicola. "Una scelta controcorrente, che caratterizzava il nostro stile. Volevamo arrivare ad un pubblico più amplio possibile, in prima pagina mettevamo le storie più forti". Raccontano la frattura all’interno del Cartello dopo l’estradizione del Chapo Guzman. I narcos iniziano a farsi sentire, prima con avvertimenti, poi con minacce concrete. Nel febbraio scorso Damaso Lopez Nunez, erede e rivale del Chapo contatta Valdez e lo stesso Duran che lo intervistano ognuno per la propria rivista. La cosa non piace ai figli di Guzman, che ritirano tutti gli esemplari de "La Pared" dalle edicole. Due mesi dopo Valdez viene assassinato in pieno giorno nel centro della città. Martin capisce che è meglio andarsene. "Pensavo che Javier fosse intoccabile perché era un giornalista molto conosciuto e rispettato. Per la nostra generazione era un esempio, un onore poter lavorare a fianco suo. La sua morte ci ha fatto capire che non c’era più spazio per noi". Martin vorrebbe continuare a fare giornalismo, ma sa benissimo che non può più occuparsi dei narcos di Sinaloa. Per ora riceve, come altri, l’aiuto di Rsf (Reporters sans frontiere); dodici cronisti messicani sono attualmente rifugiati negli Stati Uniti, due sono in Spagna. Molti altri sono a Città del Messico o nascosti in altri Stati. "Il governo federale offre un programma di protezione con scorta e appoggio dell’esercito, ma di tratta - spiega la rappresentante di Rsf Balbina Flores - di un meccanismo ancora molto debole. Non ci sono le risorse sufficienti per appoggiare tutti quelli che chiedono aiuto". L’unico punto positivo in tutto questa storia è la solidarietà dei colleghi. Dalla morte di Valdez non c’è giorno che passi in Messico senza una manifestazione di ripudio alla violenza e in difesa alla libertà di stampa, con un’ampia eco internazionale. Alla Ong "Red de Periodistas" offrono corsi di aggiornamento professionale per reporter in situazione di rischio, spiegando loro come trattare temi caldi proteggendo se stessi e il proprio lavoro. "Una chiave - spiega la coordinatrice Daniela Pastrana - è condividere le informazioni con colleghi di cui ci si fidi. Avvisare dei propri spostamenti, annotare le anomalie, da una persona che ti segue per strada, alle telefonate anonime, ai testimoni che all’ultimo momento decidono di non parlare. Sono dettagli che ti possono salvare la vita". Ne sa qualcosa Luis Cardona, giornalista di Ciudad Juarez che nel 2012 è stato catturato da una banda armata, mentre stava realizzando un’inchiesta su una serie di 15 sequestri di giovani avvenuta in pochi giorni nella sua città. Lo hanno picchiato e torturato per diverse ore facendogli credere che lo avrebbero ucciso. All’ultimo momento lo hanno graziato. Ha raccontato la sua storia in un cartone animato di dieci minuti intitolato "Il sequestro numero 16", che ha vinto diversi premi internazionali. Dopo tre anni di esilio è tornato a Juarez, usufruendo del programma speciale di protezione del governo. Ha un piccolo telecomando che porta sempre con sé; schiacciando Sos l’esercito arriva sul posto nel giro di 15 minuti. "Molta gente - spiega - mi chiede perché sono tornato, perché continuo mettere a rischio la mia vita. Non lo faccio per sentirmi un eroe, odio questa definizione. Per me si tratta dell’unica scelta possibile. Mi sono separato, vedo i miei figli solo in circostanze speciali, la mia vita è già stata svuotata. Il giornalismo è l’unica cosa che mi rimane: se mi togliessero anche questo sarei morto per davvero". Tunisia. Arrestati per non aver osservato il digiuno del Ramadan di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 giugno 2017 Cinque persone sono state condannate a un mese di carcere per oltraggio al pubblico pudore in Tunisia per aver fumato una sigaretta e mangiato in pubblico prima del tramonto nonostante il divieto previsto durante il mese del Ramadan. L’ultimo incidente è avvenuto a Biserta dove un uomo è stato arrestato lunedì 12 giugno perché fumava fuori dal tribunale. I primi quattro arresti hanno causato un’ondata di indignazione tra la popolazione. "Cosa ti disturba se tu digiuni e io mangio?" è lo slogan sui cartelli dei manifestanti che hanno sfilato a Tunisi domenica scorsa invocando la libertà di non rispettare il digiuno durante il mese sacro di Ramadan. Per Amnesty International gli arresti sono una chiara violazione della libertà individuale. "Imprigionare qualcuno per aver mangiato o fumato una sigaretta in pubblico è una violazione assurda delle libertà individuali e personali. Non conformarsi alle tradizioni religiose e sociali non è un crimine. Le autorità tunisine dovrebbero non dovrebbero consentire sentenze del genere. Ognuno dovrebbe essere libero di seguire le proprie convinzioni " ha detto Heba Morayef, direttore la ricerca nel Nord Africa di Amnesty International. In Tunisia non esiste una legge che obblighi al digiuno durante il Ramadan. I giudici hanno usato l’articolo del codice penale che considera alcuni comportamenti "un’offesa contro la morale" ma tali sentenze sembrano andare contro i progressi sui diritti umani civili fatti dal Paese negli ultimi anni. Australia. Migranti: risarcimento record a detenuti in isola del Pacifico Ansa, 15 giugno 2017 Un’azione collettiva di risarcimento danni per oltre 1.900 profughi e richiedenti asilo detenuti nell’isola di Manus in Papua Nuova Guinea nel Pacifico, si è conclusa con un accordo extragiudiziale per oltre 70 milioni di dollari australiani (49 milioni di euro), più costi legali per 20 milioni di dollari, il risarcimento più oneroso in materia di diritti umani nella storia australiana. I loro legali sostengono che l’Australia ha violato gli obblighi di assistenza (duty of care), tenendo i detenuti in condizioni che hanno causato danni fisici e psicologici. L’azione collettiva era stata avviata per conto di persone detenute nel centro fra il 2012 e il 2014. Il governo conservatore di Canberra ha concordato il risarcimento piuttosto che procedere con un processo di almeno sei mesi davanti alla Corte Suprema di Melbourne, che avrebbe richiesto deposizioni di 200 testimoni riguardo ad abusi sessuali e fisici sistematici, fra cui un omicidio per mano di guardie del centro durante disordini, oltre a trattamenti medici inadeguati che hanno portato a lesioni e decessi. Il centro di detenzione stabilito a Manus dall’Australia, che si affianca a quello nel piccolo stato-isola di Nauru, un anno fa era stato definito incostituzionale della Corte Suprema di Papua Nuova Guinea, che ha dichiarato illegale la detenzione. La sua chiusura è programmata per il prossimo ottobre e rimane operativo ospitando quasi 900 uomini, il cui futuro rimane del tutto incerto, dato che l’Australia ha finora escluso di accoglierli. Il ministro dell’Immigrazione Peter Dutton ha affermato che l’accordo non costituisce ammissione di responsabilità e che il governo "respinge decisamente le rivendicazioni avanzate in questi procedimenti", spiegando che il governo è tenuto a "evitare, prevenire e limitare la portata di costosi procedimenti legali". Le organizzazioni per i diritti umani accusano invece Canberra di aver accettato l’accordo come prezzo del silenzio per evitare che emergessero in udienze pubbliche evidenze di violazioni nei centri che sono coperti da totale segretezza. Il direttore del Centro legale per i diritti umani, Daniel Webb, ha detto che il caso è "una concessione importante e attesa a lungo che notoriamente ha causato danni profondi a persone innocenti verso cui l’Australia aveva obblighi di assistenza". E ha aggiunto che i profughi detenuti a Manus e a Nauru dovrebbero essere accolti al più presto in Australia.