Giustizia, in 11 punti il protocollo con il volontariato: diritti e impegni reciproci di Teresa Valiani Redattore Sociale, 14 giugno 2017 Protocollo d’intesa tra il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. L’accordo assegna ai volontari un ruolo più definito e di profonda sinergia con gli operatori. Gemma Tuccillo, capo Dipartimento: "Un documento importante e un incoraggiamento ulteriore per la collettività a rendersi conto che un buon percorso di reinserimento è anche un valore in termine di sicurezza sociale". È concentrato in 11 articoli il protocollo d’intesa firmato tra il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Undici punti che assegnano ai volontari un ruolo più definito e di profonda sinergia con gli operatori in un documento "di grande importanza - sottolinea il capo Dipartimento, Gemma Tuccillo -, una cornica quadro da replicare nelle realtà territoriali, in cui si regola in maniera semplificata l’accesso dei volontari negli Uepe, conferendo effettivamente un ruolo di interlocutore di riferimento al volontariato". Dalla realizzazione di una mappatura e di una banca dati delle agenzie di volontariato, alla stipula di convenzioni per lo svolgimento, da parte dei soggetti interessati, di attività non retribuite a beneficio della collettività, con particolare riguardo al sociale, al volontariato e al lavoro di pubblica utilità. Dalla promozione dell’offerta di programmi di accoglienza residenziale per persone che altrimenti non avrebbero la possibilità di accedere a misure e sanzioni di comunità, alla promozione dell’offerta di programmi di sensibilizzazione e di educazione alla legalità ed alla solidarietà rivolti alle comunità di appartenenza e realizzati da soggetti, minori e adulti, attraverso l’elaborazione e l’attuazione di percorsi e di progetti sperimentali, anche in collaborazione con i distretti scolastici, "questo accordo - prosegue Gemma Tuccillo - sancisce a livello nazionale l’importanza che si attribuisce alla collaborazione delle associazioni di volontariato nell’ambito dell’esecuzione penale esterna: come arricchimento delle opzioni di trattamento, come accompagnamento nel percorso di reinserimento nella società, anche per il coinvolgimento di tutti gli attori, in primo piano la famiglia e i contesti lavorativi". "È importante - spiega il capo Dipartimento - conferire al volontariato il ruolo di interlocutore e di collaborazione nella ricerca di sempre maggiori opportunità di reinserimento per la persona che esegue la pena all’esterno anche perché questo, in termini di sicurezza sociale, è un segnale di grande apertura: un incoraggiamento ulteriore per la collettività a rendersi conto che un buon percorso di reinserimento è anche un valore in termine di sicurezza sociale perché c’è una maggiore gradualità di reinserimento e una maggiore ricchezza di opportunità". Il documento. L’articolo 1 dell’accordo prevede gli impegni reciproci come: favorire "attraverso le attività di programmazione, informazione e formazione, la piena integrazione di chi svolge attività di volontariato", avviare una "progettazione congiunta di iniziative formative rivolte al personale dipendente e ai volontari", far sì che "le attività del volontariato siano svolte previo confronto costante con gli operatori istituzionali in riferimento ad ogni attività proposta e secondo modalità e tempi concordati", promuovere un canale di comunicazione efficace tra le due realtà e "individuare fondi di finanziamento, nazionali ed europei, per la realizzazione di eventuali sperimentazioni e per la diffusione di buone prassi". Programmazione congiunta all’art 2 e accordi regionali al 3, mentre l’articolo 4 riguarda gli aggiornamento normativi e il 5 fissa i criteri per la partecipazione a incontri periodici. Contributi al percorso trattamentale nell’articolo 6 in cui "Il Dipartimento si impegna a fornire precise indicazioni affinché, i funzionari dei Servizi Minorili e degli Uffici di esecuzione penale esterna raccolgano i contributi delle associazioni di volontariato, curando l’inserimento della documentazione utile nel fascicolo del singolo utente. Per favorire l’integrazione degli interventi nel percorso trattamentale del soggetto, di cui ciascun funzionario è titolare, i volontari impegnati sul singolo caso potranno partecipare agli incontri delle équipe trattamentali e nelle verifiche dei programmi di trattamento". L’articolo 7 riguarda i minori e definisce gli ambiti di intervento e di collaborazione: "vista la riconosciuta condizione di vulnerabilità del minore nell’impatto con il circuito penale, particolare attenzione dovrà essere dedicata alla individuazione dei volontari, alla definizione delle modalità di supporto e di accompagnamento socio-educativo a salvaguardia della specificità della condizione del minore e nel suo superiore interesse. A tale proposito si sosterranno azioni locali di aggiornamento e di formazione integrata". Rapporti con altri enti e buone prassi nell’articolo 8, in cui "le parti si impegnano a promuovere ed agevolare altre attività di inclusione sociale, di concerto con ulteriori risorse e istituzioni del territorio, anche stipulando appositi protocolli e convenzioni". L’articolo 9 riguarda il Trattamento dei dati, con l’impegno, da parte dei volontari a "mantenere assoluta riservatezza rispetto alle informazioni ed alle situazioni di cui vengono a conoscenza, a tutela dei dati personali, delle esigenze di ordine e di sicurezza e di rispetto della legalità, ai sensi della normativa vigente". Il decimo articolo regola l’inosservanza delle condizioni di autorizzazione, il comportamento pregiudizievole e l’inidoneità del volontario: "Qualora si rilevino casi di inosservanza delle condizioni di autorizzazione, dì comportamento pregiudizievole all’ordine e alla sicurezza, ovvero di inidoneità dell’assistente volontario al corretto svolgimento dei suoi compiti, i direttori dei servizi minorili e degli uffici di esecuzione penale esterna sospenderanno l’autorizzazione e ne chiederanno la revoca al Dipartimento che, previa istruttoria, con la partecipazione della Cnvg, provvederà all’emanazione del relativo decreto. Della revoca sarà messo a conoscenza il Magistrato di Sorveglianza e la stessa Conferenza nazionale". Nell’articolo conclusivo, la durata dell’accordo che "avrà efficacia per 3 anni e verrà rinnovato con il consenso delle parti". Reinserimento dei detenuti: al via la collaborazione pubblico-privato di Sara Ficocelli La Repubblica, 14 giugno 2017 Alla base l’idea di promuovere, attraverso l’applicazione di strumenti Pay by result, la sperimentazione di progetti capaci di generare benefici misurabili a vantaggio di una determinata popolazione target. Mobilitare gli investitori privati per dare il via a progetti innovativi a favore dei detenuti: questo il senso del modello di intervento proposto da Fondazione CRT, Human Foundation, Politecnico di Milano, Università di Perugia e Kpmg, che, all’interno del carcere di Torino, hanno condotto un lavoro di ricerca in collaborazione con il Ministero di Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, per cercare di capire come intervenire efficacemente per il recupero dei detenuti in Italia. Ridurre il numero dei carcerati. Stando ai risultati dell’indagine "L’applicazione di strumenti Pay by result per l’innovazione dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute", che dovrebbe trasformarsi in attività a partire da novembre, se il modello venisse applicato andrebbe a ridurre sia il numero dei carcerati che i costi al momento necessari per sostenerli (ogni detenuto ha un costo di circa 125 euro al giorno, senza considerare quelli processuali, che sono elevatissimi). "Se riuscissimo a essere più efficaci nel reinserimento si genererebbe un importante risparmio per la pubblica amministrazione, e al tempo stesso la società sarebbe più sicura", spiega Federico Mento, direttore di Human Foundation. Il coinvolgimento dei soggetti privati. L’elemento altamente innovativo di questo modello di intervento sta sia nel coinvolgimento dei soggetti privati che nel fatto di legare l’erogazione delle risorse al raggiungimento di risultati (cosiddetto sistema "Pay by Result - PbR"). I risultati dello studio di fattibilità, realizzato anche in collaborazione con l’Istituto Lorusso e Cutugno di Torino, sono stati presentati da Giovanna Melandri e Massimo Lapucci alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il gruppo di lavoro, coordinato da Human Foundation, ha articolato una riflessione sulla coerenza dell’iniziativa Pay by Result, orientata a generare benefici misurabili a vantaggio di una determinata popolazione target, ai quali possa essere associato un preciso valore finanziario, approssimato in termini di risparmi futuri rispetto agli attuali livelli di spesa per l’erogazione dei servizi: se la persona detenuta, al termine del percorso trattamentale e detentivo, non farà ritorno nel circuito carcerario, la Pubblica Amministrazione vedrà benefici in termini di risparmi rispetto a costi diretti. "Pensiamo, ad esempio, all’eventuale minor numero di pasti da erogare, così come alla riduzione delle spese legate a garantire le misure di sicurezza nell’istituto. Vi sono, poi, benefici indiretti: la comunità godrà di un abbassamento del tasso di criminalità, sino ad arrivare ad un maggiore gettito fiscale laddove il detenuto venga impiegato stabilmente", continua Mento. Opportunità di reinserimento concrete. Solo nel caso in cui questi risultati siano effettivamente raggiunti e verificati da una terza parte indipendente, allora la PA ripagherà gli investitori privati che, di fatto, hanno anticipato il finanziamento per testare l’efficacia del progetto, riducendo per lo Stato il rischio d’investimento e l’inefficace dispendio dei contributi fiscali dei cittadini. "È necessario passare da un carcere di tipo fordista - spiega ministro Andrea Orlando - che per casi diversi prevede trattamenti uguali, ad un carcere che invece individualizzi il trattamento e offra opportunità concrete di reinserimento. Solo un sistema che assicuri il reinserimento sociale può infatti garantire la sicurezza pubblica. Auspico pertanto che a questo studio faccia seguito la sperimentazione pilota, da cui partire per rinnovare l’intero sistema penitenziario del nostro Paese. Il modello virtuoso presentato oggi può inoltre contaminare positivamente altri ambiti del welfare pubblico". "A Human Foundation da tempo studiamo e proponiamo l’utilizzo di modelli finanziari che collegano l’investimento ai risultati sociali ottenuti, grazie ai quali è possibile la collaborazione tra pubblico e privato secondo criteri di trasparenza e una maggiore efficienza dell’offerta ai cittadini. Sarebbe davvero un grande fatto se si cominciasse a sperimentare questo Sib (Social impact bond) per le politiche di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti", conclude la presidente di Human Foundation Giovanna Melandri. Social impact bond: così le fondazioni garantiscono il reinserimento dei detenuti di Antonio Michele Storto Redattore Sociale, 14 giugno 2017 Parte dal carcere Lorusso e Cutugno di Torino un progetto che potrebbe rivoluzionare i rapporti tra stato e privato sociale: prevede che la pubblica amministrazione rimborsi il capitale investito dai privati su progetti di reinserimento, qualora questi ultimi abbiano successo. Una nuova forma di quella partnership tra pubblico e privato che ha permesso al welfare italiano di sopravvivere. Accade a Torino, nel carcere Lorusso e Cutugno, che a partire da oggi farà da apripista per un’iniziativa che mira a estendersi all’intero territorio nazionale; e che potrebbe finire per ridisegnare l’architettura stessa dei rapporti tra lo Stato e il terzo settore. Si chiama "Social impact bond" ed è un accordo attraverso il quale il settore pubblico raccoglie investimenti per poter pagare i soggetti che gli forniscono prestazioni di welfare: il rimborso del capitale investito viene dunque legato al raggiungimento di un certo obiettivo sociale - di qui la definizione di intervento "pay for success" - che si traduce nella riduzione di un costo per la collettività. A portare in Italia questa modalità d’intervento - già utilizzata con successo in America e Regno Unito- saranno la fondazione Sviluppo e Crescita di Crt e la Human Foundation presieduta dall’ex ministro Giovanna Melandri: l’obiettivo, in questo caso, riguarda il reinserimento dei detenuti e l’eliminazione di una recidiva che in Italia, secondo stime recenti, finirebbe per riportare in carcere fino a 7 carcerati su 10. "In sostanza - spiega il direttore di Human Foundation, Federico Mento - un certo numero di detenuti saranno inseriti in un percorso fortemente individualizzato e mirato a un effettivo reintegro nella società. A verificare i progressi e il raggiungimento degli obiettivi sarà un valutatore indipendente: qualora quest’ultimo esprima parere positivo, la pubblica amministrazione ripagherà gli investitori privati che, di fatto, avranno anticipato il finanziamento per testare l’efficacia del progetto, riducendo per lo Stato il rischio d’investimento e il dispendio dei contributi fiscali dei cittadini". Secondo Mento, per lo Stato e la collettività tutto ciò dovrebbe tradursi "in un risparmio rispetto ai costi sia diretti che indiretti". "Un detenuto che non rientri nel circuito carcerario - continua il Direttore - comporta, ad esempio, un minor numero di pasti da erogare, una riduzione delle spese necessarie a garantire le misure di sicurezza nell’istituto, oltre all’eliminazione dei costi sociali legati al tasso di criminalità. Laddove venga impiegato stabilmente, inoltre, ciò si tradurrà in un maggior gettito fiscale per il paese". Secondo Mento, Human Foundation e Crt stimano di poter attivare interventi "per un valore compreso tra uno e due milioni di euro": tra i primi investitori potrebbe esserci Unicredit, i cui vertici ieri erano presenti all’inaugurazione dell’iniziativa, alla quale ha preso parte anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. "Il progetto pilota che parte da Torino - ha dichiarato Orlando - è quanto mai significativo non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera, dal momento che apre a una sinergia pubblico-privato innovativa ed estendibile ad altri campi del welfare". Ogni percorso di reinserimento sarà fortemente individualizzato, e verrà dunque disegnato sulle esigenze di ciascun beneficiario: tra le direttrici su cui ci si muoverà, oltre alla formazione e all’inserimento lavorativo, ci saranno interventi di counseling e di mediazione familiare, l’individuazione di alloggi per poter fruire delle misure alternative alla detenzione e una serie di momenti ludico-ricreativi e di socializzazione, "fondamentali per il benessere della persona", sottolinea Mento. Di ogni progetto si farà garante Human Foundation, che negli scorsi mesi ha commissionato ai propri analisti uno studio di fattibilità, prendendo in esame una serie di buone pratiche di reinserimento relative non soltanto al territorio italiano, ma anche a progetti "pay by result" avviati nel penitenziario inglese di Petersborough e nella sezione minorile del famigerato carcere newyorkese di Rikers island. I figli dei detenuti al 41bis diventano "maggiorenni" a 12 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2017 I colloqui con i figli si svolgono senza vetro divisorio, ma oltre quell’età sono considerati "adulti". Queste restrizioni sono state introdotte con una Circolare del Dap in attuazione di una legge del 2009 che inasprì il regime speciale del carcere duro. A 12 anni, i figli dei detenuti al 41 bis diventano "maggiorenni". Parliamo di una delle restrizioni che avvengono al carcere duro. Infatti, per i colloqui visivi con i figli minori, in seguito alla legge del 2009 la circolare del Dap aveva disposto che "i colloqui del detenuto in regime di 41 bis che si svolgano esclusivamente con figli minori di anni 12 potranno avvenire senza vetro divisorio, in sale colloquio munite di impianti di videoregistrazione (con ovvia esclusione del sonoro) e che, nel caso di colloqui con più persone, il colloquio senza vetro divisorio sarà limitato ai soli figli minori di anni 12, e non eccederà 1/6 della durata complessiva del colloquio". A 12 anni, dunque, il figlio risulta "adulto" e il colloquio deve essere effettuato tramite vetro divisorio. Però prima della legge del 2009 che inasprì il regime speciale, la restrizione era diversa: c’era la possibilità di effettuare una parte del colloquio visivo con i figli minori di anni 16 senza il vetro divisorio, per tutelare l’esigenza di affettività dei bambini nei confronti del genitore detenuto e per evitare che riportassero conseguenze psicologiche negative dovute al prolungato distacco dalla figura genitoriale. Ora però, quando il bambino raggiunge il dodicesimo anno di età, il colloquio avviene come il resto degli adulti: si svolge in un locale di solito molto piccolo, una sorta d’acquario col vetro divisorio fino al soffitto, telecamera, citofono per parlare con la madre o il padre detenuto. Poi ci sono le stanze senza vetro divisorio che servono per i dieci minuti di colloquio consentiti ai figli minori di 12 anni: non hanno il vetro fino al soffitto ma un bancone che consente il contatto fisico comunque sottoposto a videoregistrazione da parte di una telecamera. Stando ai racconti tratti dal libro inchiesta sul 41 bis scritto a quattro mani dai radicali Sergio D’Elia e Maurizio Turco, in queste sale si verificano di solito le scene più penose: bambini in tenera età che - staccati dalla madre che non può accompagnarli - piangono, urlano, scappano dal padre che non hanno mai visto o non riconoscono più dopo tanti anni. Sono diffusi, infatti, i casi di figli minori di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psicoterapeutici. Carceri, Radicali ancora in sciopero della fame di Camilla Orsini La Repubblica, 14 giugno 2017 È il diciannovesimo giorno di sciopero della fame per la dirigente del Partito radicale Rita Bernardini, in Calabria per l’iniziativa della Carovana della Giustizia, quando nel pomeriggio arriva da Roma la decisione del governo di mettere la fiducia sul ddl per la riforma del processo penale. "Un vero e proprio atto di arroganza", dice la Bernardini in collegamento telefonico con Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti ieri durante la conferenza stampa dei radicali alla Camera. "Orlando, che andò a trovare Pannella negli ultimi giorni di vita, non credo abbia compreso il significato della non violenza. Vuol dire dialogo, ascolto, che nei nostri confronti è stato quasi nullo". Per i radicali "Pannella viene censurato anche da morto": quello della Bernardini è infatti il terzo sciopero della fame negli ultimi otto mesi, una lotta non violenta e inascoltata che si somma alle due marce per l’amnistia e alle circa 200 visite in carcere. La proposta dei radicali era di dare alla riforma dell’ordinamento penitenziario una corsia preferenziale, separata dal ddl sul penale. Eppure il ministro della Giustizia "aveva deciso fin dall’inizio di impacchettare tutto senza nemmeno discuterne", accusa la dirigente radicale. Intanto, la Carovana per i paesi simbolo della ‘ndrangheta rimarrà in Calabria fino al 17 giugno per la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere tra giudici e pm, per raggiungere i 3.000 iscritti al partito, per introdurre come riforme obbligatorie l’amnistia e l’indulto, e per il superamento di "trattamenti crudeli e anacronistici" come il regime del 41bis e il sistema dell’ergastolo. Il motto è nel solco della tradizione pannelliana: "con e per i detenuti, con e per le vittime della giustizia". E annuncia battaglia Sergio D’Elia, dirigente del Partito radicale, affinché "i detenuti del 41bis possano iscriversi al Partito radicale e possano partecipare, in cella, alla vita politica democratica del Paese". La Cgil: no al ritorno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari rassegna.it, 14 giugno 2017 I rappresentati del comitato StopOpg, di cui la Cgil fa parte, ieri hanno tenuto una giornata di digiuno collettivo in occasione della ripresa in Aula alla Camera della discussione sul disegno di legge che rischia di riportare in vigore le norme dei vecchi Opg, recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" (con l’articolo 1, comma 16, lettera d, dell’Atto Camera 4368). Per la Cgil nazionale parteciperà alla protesta Stefano Cecconi, responsabile Politiche della Salute. "Il comitato - si legge in una nota di StopOpg - ringrazia le Deputate e i Deputati che hanno presentato gli emendamenti per stralciare o modificare questa norma, tenuto conto dell’importante parere della Commissione Affari Sociali". Nel testo si ricorda poi che con la staffetta del digiuno, tenutasi dal 13 aprile al 30 maggio scorsi e a cui hanno partecipato 206 persone, "abbiamo ottenuto alcuni risultati importanti, ma la mobilitazione continua". "Come abbiamo più volte affermato - spiegano - se il problema che si vuol risolvere con la norma è garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti, troppo spesso impedita dalle drammatiche condizioni delle carceri, la soluzione è ben altra". Per Cecconi e per il comitato infatti "occorre qualificare e implementare nelle carceri i programmi dei Dipartimenti di salute mentale di prevenzione e di presa in carico delle persone con problemi di salute mentale, anche attraverso le sezioni di osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche nelle carceri stesse, con strutture e personale adeguato e formato". "Ma soprattutto - proseguono - incentivare le misure alternative alla detenzione. Così invece le Rems diventerebbero il contenitore unico per i "folli rei e per i rei folli", riproducendo all’infinito la logica manicomiale". Al digiuno di ieri hanno partecipato: Stefano Cecconi, Franco Corleone, Denise Amerini, Stefano Anastasia, Alberta Basaglia, Luigi Benevelli, Gian Luigi Bettoli, Valentina Calderone, Giovanna Del Giudice, Peppe Dell’Acqua, Vito D’Anza, Nerina Dirindin, Maria Grazia Giannichedda, Patrizio Gonnella, Francesca Moccia, Fabio Ragaini, Maria Stagnitta, Gabriella Stramaccioni, Gisella Trincas, Tiziano Vecchiato, don Armando Zappolini. E in ordine di adesione: Edoardo Berton, Fausto Banzi, Elisabetta Burla, Leonardo Fiorentini, Annalisa Fibbi, Massimo Fada, Antonella Carlucci, Paolo Pesel, Roberta, Giannini, Alfonsina Guarino, Virgilio Baccalini, Giovanni Rossi, Daniele Pulino, Leda Cossu, Gabriele Terranova, Immacolata Cassalia, Carlo Piazza, Giuseppe Cherubino. Rischio riapertura Opg, per la tutela della salute mentale uscire dalla logica dei manicomi di Raffaele Gaetano Crisileo appianews.it, 14 giugno 2017 Il disegno di legge "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", approvato al Senato e ora in discussione alla Camera, se confermato, rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Verrebbe in pratica ripristinata la vecchia normativa disponendo il ricovero di detenuti nelle Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) come se fossero i vecchi Opg. In altre parole le Rems rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Opg e smentiscono la riforma che ha chiuso di recente gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ci riferiamo alla legge n. 81 del 2014 che vede, nelle misure alternative alla detenzione, costruite sulla base di un progetto terapeutico riabilitavo individuale, la riposta da offrire. Concordiamo con la linea di pensiero di coloro che sostengono che gli Opg sono stati chiusi e non possono essere riaperti sotto una nuova e mentita spoglia. Molte associazioni stanno effettuano delle staffette del digiuno ora che questo Ddl è in discussione alla Camera, per fare in modo che la norma che riguarda lo specifico settore venga prima stralciata e poi eliminata. Condividiamo anche la linea dell’ex Commissario unico per il superamento degli Opg che ha avviato, da metà di aprile scorso, la staffetta del digiuno che si protrarrà fino alla conclusione del dibattito di questo Disegno di Legge attualmente in discussione alla Camera. Lo slogan "Io Digiuno" portato avanti da questo significativo e consistente movimento di pensiero sta raccogliendo adesioni da ogni parte perché nobile e chiara è la sua finalità: non devono tornare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Questo Ddl deve rispettare la ratio ispiratrice del legislatore e le Rems - pensate proprio come alternativa agli Opg e dunque alla logica manicomiale - rischiano invece (ora e purtroppo) di "diventare i nuovi Opg" come ha più volte dichiarato il Movimento "StopOpg" che ha lo scopo di evitare che ciò accada di nuovo. Gli Opg, chiusi da poco, non debbono tornare in vita sotto il nome di Rems; queste deve essere delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive sorte per superare il sistema manicomiale a favore di programmi ad personam e non sono un posto in cui rinchiudere chi non si sa dove mettere solo perché non può stare in carcere. Così facendo esse tornerebbero ad essere degli Opg dove rinchiudere i malati mentali "socialmente pericolosi". Il conseguente sovraffollamento renderebbe impossibile i trattamenti terapeutico-riabilitativi che sono la base del superamento della logica manicomiale, dunque dei diritti della persona e alla salute per cui si è tanto lottato e si sta ancora lottando. "Come più volte affermato - come si legge sul sito www.stopopg.it - se il problema che si vuol risolvere con l’emendamento è garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti, troppo spesso impedita dalle drammatiche condizioni delle carceri, la soluzione è ben altra". Concordiamo con chi sostiene che "Occorre qualificare e implementare nelle carceri i programmi dei dipartimenti di salute mentale, di prevenzione e di presa in carico delle persone con problemi di salute mentale, anche attraverso le sezioni di osservazione psichiatrica e le previste articolazioni psichiatriche nelle carceri stesse (con strutture e personale adeguato e formato). Ma soprattutto incentivare le misure alternative alla detenzione". Tutto ciò perché le Rems non devono diventare il contenitore unico per i "folli rei e per i rei folli", riproducendo all’infinito la logica manicomiale". Ecco perché secondo noi - correttamente - il Comitato mantiene aperta la mobilitazione, sia in vista della ripresa del dibattito alla Camera sul disegno di legge, sia perché la riforma per il superamento degli Opg abbia successo". Intercettazioni e criminalità. Ecco la riforma del processo penale di Francesco Grignetti La Stampa, 14 giugno 2017 Dopo oltre anni oggi si vota la fiducia sulla legge penale Contrari giudici e avvocati. Grillo: "È una porcata". È stato un iter lungo e accidentato, ma finalmente la riforma del processo penale vede la luce. Presentato il 23 dicembre 2014 da Matteo Renzi e Andrea Orlando, il ddl nel frattempo si è arricchito di vari capitoli. Oggi, con l’ultimo voto di fiducia, accanitamente contrastato sia dagli avvocati penalisti, sia dai magistrati (entrambi furibondi, ma per questioni diverse), la saga finisce. E il ministro Guardasigilli può tirare un sospiro di sollievo, perché ha temuto seriamente che tutto il suo lavoro finisse nel nulla. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ci crede seriamente nella riforma dell’ordinamento penitenziario, nella modifica al sistema delle impugnazioni, nei limiti alla pubblicazione delle intercettazioni penalmente irrilevanti. Protesta con estrema veemenza il Movimento 5 Stelle, invece, che dopo il turno elettorale negativo rispolvera i toni populisti di un tempo: "Gli scandali stanno dilaniando il nostro Paese - ruggisce Alfonso Bonafede, M5S - e loro decidono di imbavagliare le intercettazioni". Codice - Pene più dure per rapine e scambi politici mafiosi. Furti, rapine, e scambio elettorale politico-mafioso: le pene aumentano. Per il furto in abitazione e di scippo s’innalza il minimo della pena dall’attuale 1 anno a 3 anni e si eleva anche la pena pecuniaria. Per il reato di rapina, si innalzano i limiti dagli attuali 3 a 4 anni nel minimo. S’introduce soprattutto un comma sulle circostanze attenuanti (quando non sia la minore età o la collaborazione per l’individuazione dei correi) che non potranno più essere ritenute equivalenti o prevalenti con le aggravanti. Può sembrare un cavillo minore, invece, sommato all’aumento dei minimi, in molti casi impedirà una troppo facile scarcerazione all’atto della condanna. Quanto al voto di scambio, dopo che nel 2014 è stata modificata la descrizione delle condotte, il reato si sanzionerà con la pena della reclusione da 6 a 12 anni. Cassazione - Cambiano le impugnazioni. Obiettivo, meno ricorsi. Gli italiani sono un popolo testardo, che non molla mai. E gli effetti si vedono in Cassazione, soffocata da 80 mila ricorsi l’anno. "Si rischia il default", denunciava tempo fa il primo presidente Giovanni Canzio. Con la riforma, si semplifica radicalmente il regime delle impugnazioni. A scopo deflattivo aumenteranno le sanzioni pecuniarie per i ricorsi giudicati inammissibili. La Corte potrà decretare le inammissibilità in forma semplificata. I ricorsi, quando c’è una doppia decisione di proscioglimento, saranno limitati ai vizi di violazione di legge. Le sezioni semplici dovranno interpellare le Sezioni unite quando non concordino con un principio di diritto già enunciato dalle Sezioni unite stesse. Aumentano i casi in cui la Corte potrà procedere all’annullamento della decisione senza rinvio al giudice di merito. Prescrizione - Fermare l’orologio dopo le sentenze. Per colpa della prescrizione, si calcola che in 10 anni siano stati dichiarati estinti 1,5 milioni di processi penali. Effetto di una riforma, la ex Cirielli, che nel 2005, in tempi di centrodestra, ha ridotto drasticamente i tempi utili per arrivare a sentenza. Inutile dire che in molti casi, un buon avvocato tiene d’occhio il calendario per tentare di pilotare un processo su un binario morto. Con un effetto collaterale: sperando nella prescrizione, sono sempre pochi i casi di patteggiamento. Ora si cambia: i nuovi conteggi prevedono di "fermare gli orologi" per 18 mesi dopo una sentenza di primo grado e poi di sospendere i conteggi per altri 18 mesi dopo una sentenza di appello in vista della Cassazione. Nei casi in cui la sentenza di condanna sia riformata o annullata nei gradi successivi, i tempi della "sospensione" saranno riconteggiati. Intercettazioni - Diritto alla riservatezza per chi non è indagato. Come si è visto abbondantemente nel recente passato, capita spesso che un malcapitato finisca sui giornali, ritrovandosi in un’intercettazione (perché ha parlato con un indagato) oppure che un indagato veda esposta alla berlina la sua vita privata. Il problema di contemperare le esigenze dell’investigazione e della privacy è ora rimesso a una legge-delega che dà al governo la potestà di riformare le norme sulla "pubblicabilità" delle intercettazioni. La delega prevede un’udienza di selezione del materiale "nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine". In particolare, si prevede che il pubblico ministero debba assicurare la riservatezza delle registrazioni quando siano inutilizzabili oppure contengano "dati sensibili" non pertinenti all’accertamento penale. Le cosiddette intercettazioni irrilevanti. Processo penale, c’è il via libera del Governo. Orlando: "un passo avanti" di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2017 Sarà la prima delle leggi da salvare segnalate da "Repubblica" a varcare il traguardo del voto definitivo. Il ddl sul processo penale oggi sarà approvato dopo tre passaggi parlamentari. Ieri il governo - in aula a Montecitorio lo ha annunciato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro - ha posto la questione di fiducia. Tra le dure contestazioni di M5S che ha esposto cartelli con su scritto "#distruggonolagiustizia". Oggi alle 13 si vota la fiducia e alle 19 sarà votato ancora l’intero provvedimento. Scontato il risultato positivo perché anche i centristi di Alfano, in passato molto critici sulla prescrizione, hanno deciso di votarlo. L’unica sorpresa verrà dal ministro della Famiglia Enrico Costa che contro le modifiche alla prescrizione ha fatto una battaglia personale e nel voto conclusivo sul provvedimento è orientato a votare no. Ma di sicuro per la maggioranza non sarà una passeggiata soprattutto per la dura opposizione di M5S che sul blog di Grillo, con un post di Alfonso Bonafede e in aula con lo stesso Bonafede e Giulia Sarti, hanno duramente criticato le future norme definendole "una porcata", scritte con l’obiettivo di "imbavagliare le intercettazioni, peggiorare il problema della prescrizione, dare uno schiaffo ai cittadini onesti del Paese, favorire la corruzione". Per la Sarti le norme sulle intercettazioni sono volute da Napolitano che "prima ha distrutto le sue intercettazioni, ora vuol distruggere quelle degli altri". Clima decisamente ostile. Con fibrillazioni anche nella maggioranza. Questo ha portato a una fiducia particolarmente sofferta. Decisa all’ultimo momento. Con forti perplessità dei renziani che avrebbero spinto su Alfano per fargli accollare un niet alla fiducia. Ma il ministro degli Esteri e i suoi voteranno sì perché non hanno alcuna intenzione di far cadere adesso il governo. Invece proprio questo - un vero e proprio agguato d’aula che porterebbe alla crisi e al voto - sarebbe l’intento perseguito da Renzi. Che, ricordiamolo, ha ostacolato più volte il cammino del ddl, bloccandolo prima del referendum nel timore di una brutta figura in aula, e prima delle primarie per non dare un atout al suo avversario Orlando. Anche in queste ore Renzi avrebbe evitato volentieri la fiducia per il rischio di essere accusato di mettere un bavaglio alle intercettazioni per via del caso Consip che coinvolge suo padre. Ma a rendere il passo obbligato è stato l’appuntamento, in programma per giovedì alle 15 e 30, del gruppo Greco, l’anticorruzione dell’Ocse, che valuterà gli sviluppi legislativi dell’Italia. Questo giustifica l’urgenza di votare la legge che Orlando considera "un passo avanti molto importante" e assicura che le norme sulle intercettazioni "saranno approvate al più presto". La fiducia non imbarazza affatto Orlando. Tutt’altro. Il ministro la considera "un passo obbligato" per portare a casa le nuove norme. Fiducia scontata per la relatrice e presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti. Scontata anche per Walter Verini che ci tiene a sottolineare come la legge "non sia stata fatta per fare un favore a qualcuno" e adesso debba essere approvata con la fiducia perché "se tornasse al Senato finirebbe su un binario morto". Il rischio di cadere in un’imboscata parlamentare - che forse potrebbe non dispiacere a chi, come Renzi, ha comunque voglia di elezioni anche col le attuali leggi elettorali - è celata nei 70 voti segreti su un centinaio di emendamenti. Proprio per questo il pressing di Orlando sulla fiducia è stato molto insistente. La prossima settimana, al Senato, dovrebbe passare il nuovo Codice antimafia, che ha ottenuto il via libera sulla copertura finanziaria. Destinato però alla Camera. Voto definitivo invece per la tortura. In commissione Giustizia respinti tutti i gli emendamenti, il 26 maggio il ddl sarà in aula con buone chance di voto. Nuovo processo penale, oggi al varo prescrizione e stretta intercettazioni di Sara Manafra Il Messaggero, 14 giugno 2017 Dalla stretta sulla prescrizione, che manda in archivio la cosiddetta ex Cirielli, e sulle intercettazioni, all’inasprimento delle pene per furti e rapine. Una stretta sulla prescrizione, che manda in archivio la cosiddetta ex Cirielli e piace pochissimo alla destra (Ap vota la fiducia ma a denti stretti) all’inasprimento delle pene per furti, rapine e voto di scambio mafioso. La riforma del processo penale, passata prima con la fiducia al Senato ed ora protetta nuovamente dalla chiamata voluta dal ministro Andrea Orlando, da domani sarà legge, anche se molti spinosissimi argomenti, primo fra tutti quello relativo alla pubblicazione sulla stampa di atti coperti da segreto - verranno affrontati con specifiche deleghe affidate al governo da sciogliere entro tre mesi. Prescrizione - La novità più importante e più discussa nell’anno e mezzo di passaggio al Senato, è quella relativa al calcolo della prescrizione. Che si fermerà, anche se per poco. Diciotto mesi dopo la sentenza di primo grado e altri diciotto dopo la condanna in appello: così si bloccheranno le lancette dell’orologio della giustizia. Ripartiranno in caso di assoluzione o annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Oltre alle ipotesi già previste, la prescrizione sarà sospesa, per sei mesi, in caso di rogatorie. In linea con gli ordinamenti europei, per i reati più gravi contro i minori, come la violenza sessuale, la prescrizione decorrerà dal compimento del diciottesimo anno delle vittime. Per la corruzione e l’induzione, i tempi potranno allungarsi della metà. Alcuni reati perseguibili a querela, come la diffamazione o la truffa, si potranno estinguere se si pagherà il risarcimento. Sono invece inasprite le pene per il voto di scambio politico mafioso, da un minimo di sei a un massimo di dodici anni (attualmente un minimo di quattro e un massimo di dieci). Condanne più pesanti anche per furto in abitazione, scippi e rapine. Intercettazioni - Il governo dovrà varare norme per eliminare le conversazioni irrilevanti per l’indagine e riguardanti persone estranee al procedimento. Gli atti non allegati alla richiesta di misura cautelare dovranno essere custoditi in un archivio riservato, con facoltà di esame e ascolto (ma non di copia) da parte dei difensori e del giudice. Nessuna restrizione per i reati intercettabili. Sarà consentita, invece, soltanto per mafia e terrorismo la captazione delle conversazioni attraverso virus informatici (trojan), anche se l’uso dei dispositivi informatici è tra quelli che maggiormente preoccupano i penalisti. Avocazione dei fascicoli - A mettere sul piede di guerra l’Anm, che apprezza poco la riforma anche se i toni della polemica accesa sono stati abbandonati, la possibilità che sulle indagini ferme da troppo tempo agiscano i vertici delle procure. I procuratori generali potranno avocare i procedimenti se, entro tre mesi (prorogabili di altri tre, che arrivano a quindici per mafia e terrorismo) dalla chiusura delle indagini non partirà la richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Furti e rapine - Il disegno di legge prevede l’innalzamento delle pene edittali e di quelle detentive per i reati di furto in abitazione, rapina e scippo. Ma anche per lo scambio elettorale politico-mafioso. Per i topi di appartamento e gli scippatori il minimo edittale passerà da uno a tre anni. I rapinatori adesso rischieranno un minimo di quattro anni (prima era soltanto uno). Dopo gli interventi di tre anni fa sulla definizione del reato di voto di scambio, adesso si interviene sulle pene che passeranno da sei a dodici anni. Gli avvocati - I penalisti sono da mesi in sciopero contro la riforma. E ieri L’Unione Camere Penali ha criticato soprattutto l’uso della fiducia che ha limitato il dibattito parlamentare: "Esprimiamo ferma contrarietà all’uso dello strumento della fiducia parlamentare cui è ricorso il governo per l’approvazione alla Camera dei deputati del ddl "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario". Il governo mette la fiducia sul ddl penale: caos in Aula di Errico Novi Il Dubbio, 14 giugno 2017 Oggi il voto alla Camera, cartelli del M5S: "Addio giustizia". È quasi un anno che Renzi invoca massima prudenza sul ddl penale. Nulla quaestio sui contenuti ma attenti a prestare il fianco alla propaganda grillina, è stato il mantra che ha messo a dura prova gli equilibri con Orlando. Ieri d’improvviso i timori sono stati abbattuti dalla questione di fiducia, posta alla Camera dal ministro ai Rapporti col Parlamento Anna Finocchiaro, e puntuali sono piovuti gli anatemi Cinque Stelle: "Le liti Renzi-Alfano-Orlando sono finte, se si tratta di fare favori ad amici degli amici, corrotti e Verdini, tutti d’accordo". Copyright Alfonso Bonafede, copione scontato. Lo è meno forse la risolutezza con cui il governo imprime lo strappo finale, dopo tante indecisioni. Fatto sta che oggi alle 11 ci saranno dibattito e "chiama" sulla fiducia, nel pomeriggio il vo-È to sul provvedimento. Governo e Pd devono aver scelto un momento ritenuto relativamente indolore: subito dopo il primo turno di Amministrative e con margine sufficiente a far decantare la polemica su prescrizione e intercettazioni prima dei ballottaggi. Il via libera che oggi arriverà da Montecitorio cade nel pieno della quarta settimana di astensione dalle udienze osservata dalle Camere penali. E la critica del presidente Ucpi Beniamino Migliucci è tra le più aspre: "Non si decide a colpi di fiducia sulle libertà individuali, su misure che intaccano presunzione di innocenza e diritto di difesa". Ma la tenace opposizione dell’avvocatura penalistica perde la sponda politica di Alternativa popolare: nel dibattito improvvisato in Aula dopo l’annuncio di Finocchiaro prende la parola il capogruppo alfaniano in commissione Giustizia, Nino Marotta, e ironizza sulla prescrizione "che andava allungata evidentemente non solo per i reati ma anche per l’attività legislativa, visto che il ddl penale è all’esame delle Camere da tre anni e c’è chi chiede di continuare". Tanto per essere chiaro, il deputato di Ap aggiunge, rivolto ai pentastellati: "In commissione e in Aula, prima a Montecitorio e poi al Senato, ciascuno ha avuto la possibilità di dare un contributo, dopodiché la maggioranza decide: in democrazia si fa così, ma c’è chi con le regole democratiche non ha molta dimestichezza". Addio a ogni ipotesi dialettica nella maggioranza. Il Movimento Cinque Stelle si sfoga con i soliti cartelli, stavolta c’è l’hashtag "# distruggono la giustizia". Anche per Forza Italia c’è "una vergognosa arroganza dietro la fiducia", come attacca Francesco Paolo Sisto. Walter Verini parla a nome del Pd e controbatte: "Modificare il testo e re-inviarlo a Palazzo Madama significa metterlo su un binario morto". Il guardasigilli Orlando esprime "soddisfazione: la fiducia - dice - è indispensabile per approvare la legge". Porta a casa un risultato a costo di mediazioni e fatica, ma anche di forte contrarietà suscitata tra i magistrati come tra i penalisti. Al’Anm non vanno giù le norme sull’avocazione obbligatoria delle Procure generali in caso di inerzia del pm, ma il ministro ha assicurato una verifica sul punto di qui a un anno. L’Unione Camere penali contesta una prescrizione che, per la corruzione propria, viene allungata fino 18 anni. E un processo a distanza esteso dal 41 bis a tutti i detenuti. Che toccare la giustizia porti nella migliore delle ipotesi a mettere in circolo veleni, è ormai un assioma. Montecitorio, fiducia sul ddl penale. Orlando: "arriviamo all’approvazione dopo tre anni" di Monica Rubino La Repubblica, 14 giugno 2017 Dopo il fallimento sulla legge elettorale, il premier Paolo Gentiloni ha deciso di accelerare e di portare a compimento le riforme rimaste ancora in sospeso. Tra le leggi bloccate in uno dei due rami del Parlamento, che rischiavano di saltare in caso di elezioni anticipate, Repubblica ne ha individuate sei in particolare: il codice antimafia, il biotestamento, lo ius soli, il processo penale, il reato di tortura e la liberalizzazione della cannabis. Processo penale: il governo pone la fiducia, bagarre M5s. Oggi alle 15 è ripresa l’attività parlamentare, con il governo che ha posto, per voce di Anna Finocchiaro, la fiducia alla Camera sul ddl di riforma penale dopo mesi di rinvii. La chiama nell’Aula di Montecitorio avrà inizio domani, mercoledì 14 giugno, alle ore 13. A partire dalle ore 11 si svolgeranno le dichiarazioni di voto. Nel pomeriggio question time dalle 15 alle 16 poi dalle 16.15 si torna al ddl penale con l’illustrazione e le votazioni degli ordini del giorno. Dichiarazioni di voto sul provvedimento a partire dalle 17.30, voto finale attorno alle 19. Soddisfazione nelle parole del Guardasigilli Andrea Orlando: "La fiducia è la condizione per arrivare all’approvazione di un provvedimento che era partito più di tre anni fa". Quando la ministra per il rapporti con il Parlamento ha annunciato la fiducia sul ddl, si è scatenata la protesta dai banchi del M5s, i cui deputati hanno esposto cartelli con la scritta #distruggonolagiustizia. Il presidente di turno, Simone Baldelli, li ha richiamati all’ordine. I deputati M5s della commissione Giustizia hanno quindi spiegato in una nota le ragioni di una protesta "necessaria - si legge - a fronte dell’ennesima fiducia che nasconde la paura dei franchi tiratori, perché se il Pd voleva questa riforma del processo penale poteva metterci la faccia, invece ancora una volta si nasconde, insieme ad Alfano e Verdini". "Un riforma - proseguono i deputati M5s - che non fa nulla per la prescrizione, mette il bavaglio alla stampa con il divieto di pubblicazione delle intercettazioni rispettando i diktat di Napolitano, taglia i fondi alle intercettazioni stesse, così i magistrati avranno più difficoltà e il tempo contato per chiudere importanti indagini per i reati di corruzione, mafia e terrorismo. E inoltre benefici a pioggia per i detenuti in alta sicurezza, così potranno impartire ordini dalle carceri". "Una riforma pessima - conclude la nota - che non solo difende la corruzione, ma mette a rischio la sicurezza (dei cittadini) con benefici per chi è in carcere invece di affermare la certezza della pena". Contrarietà anche da Forza Italia e Fratelli d’Italia. Paolo Sisto (Fi) considera la fiducia "atto di vergognosa arroganza: il Pd continua, scientificamente, a mortificare il dibattito parlamentare e le dinamiche democratiche che dovrebbero guidare un percorso legislativo di qualità". Mentre per Ignazio La Russa (Fdi) "mettono la fiducia perché hanno paura di non avere i voti, evidentemente la ferita della legge elettorale brucia". Ribatte in Aula Nino Marotta, capogruppo di Ap in commissione Giustizia alla Camera: "C’è chi parla di mancanza di democrazia? Se tre anni di discussione non sono sufficienti... Alle opposizioni non è stato per nulla negato il proprio contributo alla legge. Questo di oggi è il sesto passaggio parlamentare, tra commissione e Aula tra Camera e Senato. Se poi questi contributi non sono stati ritenuti validi è perché alla fine ci sono le votazioni e vince la tesi che riscuote più voti. Questa si chiama democrazia, a cui ancora in molti evidentemente in quest’Aula non sono abituati". Ma il Movimento 5 stelle incalza anche dal blog di Grillo, con un post del deputato Alfonso Bonafede, intervenuto duramente anche in Aula, che ricorda come quella posta oggi sia la 93ma fiducia. "Più la legge è una porcata, più in fretta si mette la fiducia per approvarla e quindi toglierla rapidamente dalle mani del Parlamento. Questa manfrina è successa già 92 volte, e con oggi sono 93. Cosa aspetta il Presidente della Camera, quella Laura Boldrini che non si esime mai dal messaggiare e monitare la Nazione su ogni ramo dello scibile, a offrire finalmente il monito più atteso, ovvero che la Camera non può più essere calpestata in questo modo indegno?". Il segretario del Pd Matteo Renzi ha chiesto ai suoi di spingere su riforme che definiscano il profilo riformista e di centrosinistra del partito. E allora avanti tutta al Senato con lo ius soli e il testamento biologico e alla Camera anche con il ddl Richetti sui vitalizi perché, anche se indeboliti dal voto delle comunali, i grillini non vanno dati per finiti, spiegano al Nazareno. Prima dello ius soli, la cui discussione comincerà domani in aula, a Palazzo Madama oggi inizia la "partita" della manovrina. Il nodo voucher è ancora sul tavolo, ma i senatori Pd sono convinti che Mdp risolverà la cosa non partecipando al voto, "salvando così la coscienza ma anche la poltrona fino al 2018". Ddl penale, la fiducia che Renzi non voleva di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 giugno 2017 Riforma Orlando al sicuro dai franchi tiratori: niente voti segreti. Grillini scatenati: serve a corrotti e Ong. Oggi alla Camera l’ultimo sì a un provvedimento di un solo articolo e 95 commi, con dentro la delega sulle intercettazioni e le carceri. Già dimenticata invece la legge elettorale, se ne parlerà solo dopo i ballottaggi. Accantonata la legge elettorale, la camera vota oggi la fiducia sul disegno di legge di riforma del processo penale. Quella fiducia che, dopo aver riunito ministri e capigruppo nella sede del Pd a metà maggio, Renzi aveva decisamente escluso. Perché è materia che sta a cuore al suo primo oppositore interno, il guardasigilli Orlando. Ma soprattutto perché non voleva regalare ai 5 Stelle argomenti di propaganda - prescrizione troppo breve, "bavaglio" alle intercettazioni - in vista della campagna elettorale. Allora il segretario Pd sperava ancora nelle elezioni ravvicinate. Ora invece quella prospettiva non c’è più. Non che i grillini rinunceranno a fare propaganda; hanno cominciato già ieri quando la ministra Finocchiaro ha annunciato in aula la fiducia. Prima i soliti cartelli e le urla dai banchi parlamentari, poi un post sul blog in cui si definisce la legge una "istigazione a delinquere" che accontenterà (per via del "bavaglio") tanti, "dai mazzettari alle Ong", sullo stesso piano. Perché le Ong secondo la nota dottrina Di Maio si stanno adesso accordando al telefono con i trafficanti libici per organizzare i "taxi" nel canale di Sicilia. Il disegno di legge in questione contiene in realtà una delega al governo (da esercitare entro tre mesi) per intervenire sulle intercettazioni soprattutto dal versante della loro pubblicazione. Oltre che per garantire la segretezza delle conversazioni tra l’indagato e il difensore, limitare la diffusione delle intercettazioni non essenziali per le richieste dei pm attraverso un’udienza filtro), impedire l’uso dei software spia al di fuori delle indagini per mafia e terrorismo, Il difetto delle delega è semmai un’eccessiva vaghezza, che lascia lo spazio al governo per interventi non previsti - ma è un difetto di tutte le leggi delega approvate dalle camere in questa legislatura. Così com’è pessima abitudine il ricorso alla fiducia - la 93esima denunciano i grillini - che anche questa volta impedisce qualsiasi discussione alla camera. Gli emendamenti erano pochi, un centinaio, e la maggioranza per il governo a Montecitorio è ampia. Solo che, come ha detto il ministro Orlando ieri incassando (finalmente) la fiducia, "è questa la condizione per l’approvazione del provvedimento". Non per niente la legge era rimasta bloccata al senato per oltre un anno e mezzo fino a che non è stata posta la fiducia (e a palazzo Chigi non c’era più Renzi ma Gentiloni). Senza fiducia, i centristi di Alfano non voterebbero il disegno di legge, "sul prolungamento della prescrizione e sul processo a distanza il nostro giudizio resta nettamente negativo", ha confermato il deputato di Ap Cicchitto. E c’è soprattutto il problema dei voti segreti, possibili per la maggior parte degli emendamenti. Visti all’opera i franchi tiratori sulla legge elettorale, è comprensibile che il governo ne abbia paura. Non tanto dalla parte dei parlamentari di Alfano che adesso (e non solo adesso) sono gli ultimi a immaginare di far cadere il governo Gentiloni. Quanto invece di nuovo dalla parte del Pd. Se infatti per lo sgambetto sull’emendamento alla legge elettorale nel partito si guarda ai deputati di Orlando, in questo caso trattandosi di un provvedimento fondamentale per il ministro della giustizia si potrebbe temere la vendetta dei renziani. Nella legge ci sono anche la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (per favorire l’accesso alle misure alternative al carcere), la riforma delle impugnazioni (per limitarle), l’estinzione mediante riparazione di una serie di reati minori e l’aumento dell pene per furto ed estorsione. E c’è poi una norma giudicata malissimo dai magistrati: l’avocazione da parte della procura generale delle indagini chiuse da tre mesi senza che sia stata formulata richiesta di archiviazione o rinvio a giudizio. Tutto questo in un solo voto di fiducia (la legge è di uno articolo con 95 commi…). La commissione della camera ha deciso invece di non parlare della legge elettorale prima della fine del mese, quando saranno passati anche i ballottaggi nei comuni. E quando il tempo per consentire un’approvazione della riforma entro l’estate sarà definitivamente scaduto. "Riina muoia in cella", Bindi chiude. Ma il Pd si spacca di Francesco Lo Dico Il Mattino, 14 giugno 2017 Proprio nelle ore in cui la Procura di Bologna chiede al Dap le carte sulle reali condizioni di salute di Totò Riina, il Pd si spacca in commissione Antimafia sull’eventuale scarcerazione del boss ipotizzata in linea di principio della Cassazione con una sentenza che ha fatto molto discutere. A dare fuoco alle polveri, nell’ennesimo derby tra giustizialisti e garantisti che ormai da anni infervora le due diverse anime del Pd, è la relazione presentata dalla presidente Rosy Bindi dopo la visita al carcere di Parma. Il boss, è la diagnosi di Bindi, "si trova in una condizione di cura e assistenza che sono identiche se non superiori a quelle che potrebbe godere in stato di libertà o a regime di arresti domiciliari". Al capo dei capi, ha notato l’ex ministro, viene assicurato in cella "il diritto a una vita dignitosa e a morire, quando avverrà, altrettanto dignitosamente". Riina, insomma, deve restare in cella perché "pienamente capace di intendere e di volere" spiega Bindi, "a meno che non si voglia postulare un diritto a morire fuori dal carcere". E poi, ha sottolineato l’ex presidente dem, Riina non ha mostrato "nessun segnale di ravvedimento". Parole aspre, quelle risuonate in commissione Antimafia, che suscitano la dura reazione di Marco Di Lello. "Se Riina va a casa - ha ribattuto il deputato socialista del Pd, - è lo stato che è più forte della mafia. Io la penso al contrario dalla presidente Bindi, non si tratta di una sconfitta. Io non ho bisogno di arrivare a livelli sotto la civiltà per dimostrare la forza dello stato". In buona sostanza Di Lello si appella a che lo Stato non sia incivile e non teorizzi la pena come vendetta. E il match a questo punto si infiamma con la controreplica di Bindi, punta nel vivo. "Ma qui non siamo sotto la civiltà - ha tuonato il presidente della commissione - visto che al detenuto Riina viene assicurata la dignità di vita. Lo stato vince quando fa questo, quando cioè applica la legge, non quando manda a casa un detenuto pericoloso". Sulla stessa lunghezza d’onda anche il senatore dem Franco Mirabelli, che sottolinea come il criterio della pericolosità, nella scelta tra detenzione e salute, debba essere prevalente. "Riina è ancora il capo della mafia e può ancora comandare la mafia. Perciò è stato messo al 41 bis e non essendo decaduta la sua pericolosità deve restare al 41 bis", obietta. Plaude a Rosy Bindi anche il deputato Pd Davide Mattiello. "Ha tolto ogni alibi a Riina, la dignità della persona non è di per sé incompatibile con la detenzione, quando la detenzione è realizzata secondo scrupolose attenzioni di natura sanitaria e sociale". Decisamente meno misurate, ma sostanzialmente allineate a quelle di Bindi, le parole di Marcello Taglialatela. "Riina muoia in carcere ha detto il deputato Fdi membro della commissione Antimafia". E anche il demo-progressista Claudio Fava ribadisce che "Riina riceve cure e attenzioni mediche h24 - è lucido, in condizioni di salute precarie ma stabili, riceve visite dei familiari e dei suoi difensori e assiste a tutte le udienze dei processi che lo riguardano. Certamente è accudito e curato molto meglio di come avverrebbe in caso di arresti domiciliari". La lunga diatriba sulla scarcerazione del boss è destinata a tenere banco ancora per molti giorni. Gli occhi di tutti restano puntati sulla data del 7 luglio, quando il tribunale di Sorveglianza dovrà valutare se concedere a Riina il differimento della pena o la detenzione domiciliare per motivi di salute, dopo la pronuncia della Cassazione. La sentenza di Rosy Bindi: "Riina può morire in cella" di Errico Novi Il Dubbio, 14 giugno 2017 "A Riina è assicurato il diritto a una vita dignitosa e dunque a morire, quando ciò avverrà, altrettanto dignitosamente". Rosy Bindi anticipa il Tribunale di sorveglianza. Se non fosse che in Italia Parlamento e ordine giudiziario sono ancora formalmente separati, non varrebbe neppure la pena di celebrare l’udienza del prossimo 7 luglio, in cui i magistrati di Bologna dovranno riesaminare il caso. La presidente della commissione Antimafia è stata a Parma lunedì scorso e ha verificato "le condizioni in cui è attualmente detenuto Totò Riina, tuttora il capo di Cosa nostra". Una volata. Anzi, una "vista senza preavviso", come la legge consente a tutti i parlamentari. Ha visto il boss "ma abbiamo preferito non interloquire con lui". Hanno accertato tutto tranne cosa avesse da dire il mafioso. Nel suo blitz Bindi è stata accompagnata dai due vicepresidenti della Commissione, il Cinque Stelle Luigi Gaetti e Claudio Fava di Sinistra italiana. Ieri le "comunicazioni" alla stampa. Che danno tutta l’impressione di una sentenza letta in anticipo e in sostituzione dei giudici competenti. "Riina è in condizioni decisamente migliori rispetto a quelle che ha potuto apprezzare la Suprema corte, risalenti a maggio 2016". Un modo per giustificare quello che, per Bindi, è evidentemente il gravissimo errore contenuto nella sentenza con cui la Cassazione ha annullato il no al differimento pena. Inoltre Riina "è ben assistito: sì, ha avuto due neoplasie", cioè tumori ai reni, "ma ha un bello sguardo vigile, perfettamente lucido, tanto che si occupa dei suoi processi, interloquisce regolarmente con il proprio difensore e con i familiari". Il tutto dall’ospedale di Parma, "dov’è ricoverato, in un regime che potremmo definire di 41 bis ospedaliero, dal gennaio 2017". La Cassazione aveva annullato la sentenza del Tribunale di sorveglianza per difetto di motivazione su due punti: il fatto che, nel rigettare la richiesta di scarcerazione, il giudice avesse tenuto in conto solo "il passato criminale" e non "la situazione presente" del boss; e il fatto che "l’attuale pericolosità" di Riina non fosse stata sufficientemente argomentata. Bindi risolve entrambe le questioni. Rispetto allo stato di salute e alla conseguente dignità da assicurare all’esecuzione penale, il mafioso gode di "un’attenzione medica e assistenziale persino superiore a quella che gli sarebbe riservata se fosse libero". Cancro a parte "è su una sedia a rotelle in una stanza singola dell’ospedale di Parma, con un bagno attrezzato per i disabili e in perfette condizioni igieniche. È seguito da personale scrupoloso. Ci siamo fatti consegnare l’intera documentazione". Carte che, modestamente, la Procura generale di Bologna ha chiesto solo ieri al Dap. Eppure sarebbe quello l’ufficio giudiziario titolato a sostenere l’accusa davanti al Tribunale. Anche Gaetti assicura che Riina è seguito meglio di qualunque altro 87enne con cancro, sindrome parkinsoniana e "concreti rischi di eventi cardiovascolari infausti". Il ricovero è eccessivo, dice, "se non fosse un detenuto si troverebbe con l’assistenza domiciliare o una Rsa". Invece è in una struttura ospedaliera, ma solo perché, ricorda la presidente, "la cella del carcere non è abbastanza ampia da contenere un letto rialzabile e non era dotata di un bagno per disabili: l’amministrazione penitenziaria ha avviato dei lavori che saranno conclusi in pochi giorni, in modo da ampliare e adeguare gli spazi". Appena ristrutturata la cella, dunque, "Riina potrà farvi ritorno". Una cronista chiede: "Ma chi aveva deciso di portarlo in ospedale?". Bindi paradossalmente giustifica: "Le sue condizioni non erano compatibili con le strutture in cui era recluso". Un barlume di dubbio s’insinua: ma allora vuoi vedere che la Cassazione non aveva tutti i torti? La presidente dell’Antimafia cita l’articolo 27 della Costituzione (finalità rieducativa della pena) e l’articolo 3 della Convenzione per i Diritti umani (i trattamenti detentivi non siano inumani e degradanti) ma esclude che dal combinato dei due principi si possa ricavare "un diritto a morire fuori del carcere". C’è però un diritto a morire con dignità: basteranno ad assicurarlo i tre metri quadri in più e il bagno? "Serve un coordinamento che consenta al personale dell’ospedale di Parma di assistere Riina in carcere", ricorda anche Gaetti. E hai detto niente: quindi è tutto in alto mare. Dopodiché si pone un problema enorme, e qui la missione di Bindi si rivela preziosa: "Ci sono molti mafiosi al 41 bis in cattive condizioni, con decadimento fisico dovuto all’età: bisogna attrezzarsi. O negli ospedali, o con il personale ospedaliero dentro gli istituti di pena". E già: problema sottovalutato. Ma dopo l’analisi, torna la sentenza: Riina, sancisce la presidente Bindi, è in ogni caso "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia". Giudicato chiuso, l’udienza è tolta. Rosy Bindi: "Riina resta un capo di Cosa nostra. E non esiste il diritto di morire a casa" di Giovanni Bianconi La Repubblica, 14 giugno 2017 La presidente della Commissione Antimafia relaziona dopo la visita all’Ospedale Maggiore di Parma, dove il boss è ricoverato in regime di 41bis. "Viste le condizioni fisiche di Riina, sì imprevedibili ma al momento stabili, si potrebbe anche ipotizzare in futuro un rientro in carcere, dove comunque le condizioni sarebbero adeguate, identiche se non superiori a quelle di cui potrebbe godere in un regime di domiciliari. Questo gli consente lo svolgimento di una vita dignitosa, e di una morte, quando essa avverrà, altrettanto dignitosa. A meno che non si voglia affermare un diritto a morire fuori dal carcere, che non è supportato da nessuna norma". Così la presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, relazionando alla commissione bicamerale sull’esito del sopralluogo svolto ieri presso l’Ospedale Maggiore di Parma, dove Totò Riina è ricoverato in regime di 41bis. Rispondendo così alla Cassazione, la cui prima sezione ha accolto, per la prima volta, il ricorso del difensore del boss che chiede il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare per il "diritto a una morte dignitosa". Sulla base di queste indicazioni, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà decidere sulla richiesta, finora sempre respinta. Apertura, quella della Cassazione, che ha fatto insorgere le famiglie delle vittime. "Riina - prosegue Bindi - è stato e rimane il capo di Cosa nostra ma perché tale rimane per le regole mafiose. Ha continuato a partecipare alle numerose udienze che lo riguardano dimostrando di conservare lucidità fisica e in qualche modo anche fisica. Conserva immutata la sua pericolosità concreta e attuale, è perfettamente in grado di intendere e volere, non ha mai esternato segni di ravvedimento". "Mi sono recata ieri, senza avvertire le strutture interessate e ho chiesto ai vicepresidenti della Commissione Fava e Gaetti di accompagnarmi in questo sopralluogo. Si è potuto constatare che il detenuto con il quale si è preferito non interloquire era in sedia a rotelle, in buon ordine, con sguardo vigile: Riina si alimenta autonomamente è sotto osservazione medica e costantemente assistito da equipe infermieri". "In relazione ai principi di diritto evidenziati dalla Suprema Corte, ho ritenuto doveroso che la Commissione verificasse se le strutture che ospitano il Riina siano adeguate a contemperare le esigenze di tutela della salute del recluso e del suo diritto a ricevere un trattamento non contrario al senso di umanità, con quelle, più generali, di tutela della collettività che invece impongono la detenzione carceraria del capomafia corleonese e, per di più, nel regime previsto dall’art. 41bis. Del resto - ha osservato ancora Bindi, la questione assume, in realtà, una ben più ampia portata in considerazione del fatto che molti dei detenuti al 41bis condannati all’ergastolo, specie quelli a cui il regime speciale è stato applicato sin dalla sua entrata in vigore, sono invecchiati o destinati a invecchiare in ambito carcerario dove bisogna far fronte al loro naturale decadimento fisico spesso accompagnato dall’insorgenza o dall’aggravarsi di patologie mediche". La Bindi, la Costituzione e il Papa di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 giugno 2017 L’on Rosy Bindi, presidente della Commissione antimafia, si è sostituita alla prima sezione penale della Corte di Cassazione e al tribunale di sorveglianza di Bologna ed ha stabilito sulla base di parametri da lei stessa fissati e della propria valutazione medica sulle condizioni cliniche del detenuto Riina - che non esistono le condizioni di incompatibilità tra detenzione in carcere e malattia di Riina. Ha detto: sta bene, il carcere funziona bene, è ben monitorato, e non esiste alcuna legge, in Italia, che neghi la legittimità dell’ergastolo ostativo. Cioè della morte in cella. Sull’ultimo punto, probabilmente, ha ragione. Nonostante gli appelli di molte organizzazioni umanitarie, le prese di posizione persino di pubbliche autorità come il capo del Dap, le preghiere e le denunce coraggiose del papa e di gran parte del mondo cristiano, l’Italia non ha mai varato una legge che pone fine al carcere a vita, sebbene esistano molti dubbi sulla sua costituzionalità per chiunque abbia letto almeno una volta l’art. 27 della Carta. L’iniziativa della Bindi però solleva diversi problemi, e non è detto che sia del tutto compatibile con il suo ruolo istituzionale. Innanzitutto è assai discutibile il senso della sua visita a sorpresa in carcere. Il diritto dei parlamentari di effettuare visite a sorpresa nelle carceri era stato immaginato a difesa dei carcerati, non a loro danno. Non a caso è stato utilizzato so- prattutto dai radicali. I parlamentari in genere visitano i penitenziari per accertarsi che le condizioni di vita non siano troppo dure. Questa è la prima volta che un parlamentare si reca in visita per assicurarsi che le condizioni non siano troppo confortevoli. Ma soprattutto è molto discutibile l’operazione di invasione di campo nei confronti della magistratura (anche se è improbabile, stavolta, che il partito dei Pm se ne lamenterà). Le cose stanno così: il tribunale di sorveglianza di Bologna ha respinto una richiesta degli avvocati di Riina di arresti domiciliari. La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale e ha chiesto che sia riconsiderata. Perché - ha detto - il tribunale non deve accertare se le condizioni cliniche di Riina mettano a rischio la sua vita, ma deve valutare se in quelle condizioni (due cancri, il Parkinson, problemi ai reni, malattia cardiaca seria) la detenzione al 41 bis non imponga una sofferenza che supera i limiti del trattamento umano imposto dalla Costituzione e dai trattati internazionali. Per essere più chiari ed evitare ogni possibile interpretazione personale, trascriviamo qui un breve brano della sentenza della Cassazione. Dice così: "In particolare il tribunale omette di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico, pure descritte nel provvedimento. Secondo la giurisprudenza, affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto della Costituzione e della Convenzione Edu, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare la detenzione domiciliare, non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto aver riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità. (…) Al di qua dunque della trattabilità delle singole patologie, rileva nel giudizio de quo la valutazione complessiva dello stato di logoramento fisico in cui versa il soggetto, sovente aggravata anche da altre cause, non patologiche, come, nel caso di specie, la vecchiaia". La Cassazione ha detto al tribunale: sulla base di queste indicazioni, rivalutate il caso ed emettete una nuova sentenza. Naturalmente questa rivalutazione deve essere compiuta dalla magistratura con l’aiuto di periti specializzati nei vari settori della medicina. Molto difficile che possa esser compita da una parlamentare, per quanto colta e poliedrica come l’on Bindi. Non ci vuole un mago del diritto per capire che l’interferenza con la magistratura è molto grave, e che le dichiarazioni di merito della presidente della Commissione antimafia rappresentano non dico una intimidazione ma sicuramente un tentativo di condizionamento del Tribunale di Bologna e uno stop all’eccessiva modernità della prima sezione penale della Cassazione. Ora bisogna vedere se la politica troverà la forza per reagire all’interferenza della Bindi e per ristabilire le condizioni di normalità democratica. È improbabile che ciò avverrà. La politica sente molto la pressione di quella parte, assai vasta, dell’opinione pubblica, che non è molto interessata né al diritto, né all’opinione del papa, e neppure alla cultura cristiana, ma invece - come la Bindi - è attratta dal mito della punizione della vendetta, specie quando c’è di mezzo non un personaggio anonimo ma il capo della mafia, autore dei più efferati delitti degli ultimi 30 anni. Uxoricidio, responsabili anche i pm di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2017 Tribunale di Messina, causa 5384/2015, decisa il 15 marzo scorso, motivazione depositata il 30 maggio. Le regole sulla responsabilità civile dei magistrati ampliata dalla legge 18/2015, non possono essere applicate retroattivamente. Non è pertanto risarcibile il danno non patrimoniale provocato dal magistrato negligente che, con la sua inerzia, non ha evitato l’uxoricidio della madre di tre minorenni. Il tribunale di Messina (causa 5384/2015, decisa il 15 marzo scorso, motivazione depositata il 30 maggio) nel condannare la Presidenza del Consiglio dei ministri al pagamento di 259 mila euro a beneficio degli orfani, ha rigettato l’ulteriore domanda risarcitoria di 1,5 milioni di euro per danni non patrimoniali. Secondo il collegio, non esiste la possibilità di estendere retroattivamente la novella della legge 117/1988, la riforma della responsabilità civile delle toghe che nel 2015 aveva esteso la risarcibilità anche ai danni diversi dalla ingiusta detenzione. La sentenza di primo grado chiude, almeno per il momento, una vicenda storica tristissima, e anche il percorso molto tortuoso della richiesta di danni, già approdata una prima volta in Cassazione per una presunta tardività dell’istanza. Nell’ottobre 2007, al culmine di una escalation di violenze e minacce, un uomo già condannato per violenza privata in famiglia uccise la moglie con sei coltellate al petto. Nei tre mesi precedenti la vittima aveva denunciato ripetutamente ai carabinieri e alla polizia giudiziaria che il consorte, alla riconsegna periodica dei figli, la minacciava con un coltello a serramanico, e in una circostanza anche scagliandole contro una freccia partita da un rudimentale arco. Nell’istruttoria del processo per responsabilità, avviato dal nonno degli orfani, è emerso che su quegli episodi, pur gravi, non era mai stata aperta un’indagine preliminare che, secondo i giudici, avrebbe dovuto portare necessariamente al sequestro dell’arma bianca (utilizzata per l’omicidio) ed eventualmente anche all’adozione di misure cautelari. Per questi motivi tra l’inerzia della Procura di Caltagirone e il tragico evento finale c’è un nesso di causalità tale da far scattare la responsabilità dei magistrati (per inescusabili negligenze e gravi violazioni di legge) e il conseguente risarcimento per il danno patrimoniale (259 mila euro, legato alla proiezione del reddito della vittima, geometra in uno studio professionale) che dovrà essere liquidato da Palazzo Chigi. Tuttavia il Tribunale civile ha negato il riconoscimento del danno non patrimoniale - quantificato in 1,5 milioni - rigettando la "interpretazione costituzionalmente orientata" richiesta dai legali. In sostanza secondo i giudici la novella del 2015, che allarga le ipotesi di danno da denegata giustizia, non può essere applicata retroattivamente a fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore. I difensori Alfredo Galasso e Licia D’Amico hanno annunciato sul punto un nuovo ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nessun formalismo sul divieto assoluto di "bis in idem" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2017 Corte europea dei diritti dell’uomo - Sentenza Simkus n. 41788/11 depositata il 13 giugno 2017. Un procedimento amministrativo per atti vandalici deve essere qualificato come penale se, al di là della classificazione prevista dall’ordinamento interno, ha i caratteri propri delle azioni penali secondo i parametri della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le autorità nazionali, quindi, devono mettere da parte un approccio che enfatizza una rigida classificazione formale che rischia di essere troppo restrittiva per i diritti garantiti dalla Convenzione europea. Di conseguenza, il principio del ne bis in idem fissato dall’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione si applica anche se una fattispecie è depenalizzata e un procedimento penale per lo stesso fatto, successivo a quello amministrativo, si chiude con la prescrizione. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a tornare sull’applicazione del ne bis in idem e ancora una volta i giudici internazionali lo fanno ampliando il perimetro di applicazione del principio. In quest’occasione sotto i riflettori della Corte è finita la Lituania condannata con una sentenza depositata ieri (Simkus, n. 41788/11). A rivolgersi a Strasburgo un cittadino lituano accusato di aver insultato un addetto ai controlli di frontiera, minacciandolo di morte. In un primo tempo, l’azione penale si era chiusa ma a seguito dell’appello della procura il procedimento si era riaperto anche se era in corso l’azione amministrativa nei confronti dell’uomo. Quest’ultimo sosteneva che era stato violato il principio del ne bis in idem proprio perché l’azione penale era proseguita malgrado fosse stato già destinatario di una sanzione amministrativa. Una posizione condivisa dalla Corte europea. Chiarito che la qualificazione di un procedimento come penale o amministrativo va fatta sulla base dei criteri fissati nella sentenza Engel e non secondo gli ordinamenti nazionali, la Corte è passata ad esaminare l’entità della sanzione prevista per i casi di teppismo. Questa fattispecie era stata depenalizzata con la conseguenza che la punizione passava attraverso un procedimento amministrativo. Tuttavia, - osservano i giudici internazionali - la punizione dei casi di vandalismo minore serve a proteggere l’ordine pubblico e ha carattere generale, rientrando "nella sfera di protezione del diritto penale". Inoltre, le disposizioni del codice amministrativo erano rivolte a tutti i cittadini e non a un gruppo di persone e il carattere "minore" della fattispecie non fa perdere in alcun modo le caratteristiche tipiche del diritto penale. Senza dimenticare la severità della sanzione che poteva portare addirittura alla privazione della libertà personale per 30 giorni. Di qui la conclusione che il procedimento classificato come amministrativo nell’ordinamento interno aveva natura penale e quello penale era un duplicato del primo. Nessun rilievo poi alla circostanza che il procedimento si chiude con la prescrizione perché il principio del ne bis in idem implica non solo che una persona non deve essere punita due volte, ma anche che non deve subire un doppio procedimento per lo stesso fatto. Niente dipendenti "privati" nei tribunali di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2017 Tar Lazio, sentenza 6132 del 24 maggio 2017. Alla carenza di personale in pubblici uffici non si può rimediare in modo spontaneo: lo ha sperimentato un coordinatore dei giudici di pace del salernitano, sanzionato per aver consentito che persone estranee collaborassero nei servizi. In particolare, un soggetto estraneo all’amministrazione della giustizia aveva coadiuvato, venendo retribuito dagli stessi giudici di pace presenti nell’ufficio. Quando la situazione emersa, a seguito di una ricorso in materia di lavoro prodotto dal soggetto intruso, il Consiglio superiore della magistratura ha revocato l’incarico al giudice di pace coordinatore ritenendo violate di buona amministrazione e di trasparenza. Il Tar Lazio (24 maggio 2017 n. 6132) ha confermato questa sanzione al magistrato onorario coordinatore, colpevole di non aver vigilato. L’episodio fa emergere una realtà presente in molti uffici giudiziari, dove vi sono figure anomale di collaborazione, con personale che rimedia alle carenze di organico grazie rapporti di distacco. Lo schema diffuso coinvolge le Fondazioni degli ordini professionali (avvocati, ingegneri, notai) cioè organismi di diritto privato generati dagli ordini professionali: come soggetti privati, le fondazioni possono assumere personale a tempo determinato e distaccarlo presso gli uffici pubblici, per rimediare a carenze di personale pubblico dipendente. Gli ordini professionali hanno meno spazi per agire in proprio, perché rischiano di essere considerati organismi di diritto pubblico(Corte di giustizia UE 12-9-2013, C-526/11), soggetti ad appalti, concorsi e controlli della Corte dei conti. Attraverso la fondazione, che ha compiti di ricerca e promozione, si riesce ad utilizzare personale temporaneo. Detto personale e in astratto destinato a finalità della fondazione (quali l’efficienza delle procedure dei professionisti), inserendosi fisicamente, grazie ad una convenzione con il Tribunale, nei meandri del palazzo. Una volta inserito, il dipendente della fondazione assume una posizione ibrida: maneggia e riordina atti e documenti giudiziari, collabora alla redazione di statistiche, cataloga fascicoli, cura trasporti ed archivi, a stretto contatto con i dipendenti pubblici. Le convenzioni, come quella che dal 2015 opera nel Tribunale di Lucca per la gestione dei "fascicoli di parte", ha un contenuto operativo, ma il contributo dei dipendenti all’efficienza della macchina della giustizia è consistente. La situazione è resa difficile dalla riforma (Dlgs 15 gennaio 2016, n. 8) sul distacco di personale: se è preminente l’interesse di chi riceve i lavoratori (gli uffici giudiziari), il distacco è illecito e si rischia una sanzione; se invece attraverso la fondazione ed il distacco l’ordine professionale vuole soddisfare un proprio interesse, si è nei limiti del lecito. Di fatto resta incerto il confine tra pubblico e privato, con professionisti spesso utilizzati per certificazioni, attestazioni, asseverazioni, conservazione di atti, si aggiunge ora la manipolazione fisica di fascicoli e il caricamento dei dati, cioè attività un tempo affidate solo a pubblici dipendenti. Soprattutto, lo Stato pretende che il dipendente privato non sia pagato con denaro pubblico, nemmeno sotto forma di tassazione spontanea. Un errore del genere è costato, al giudice di pace salernitano (anch’egli peraltro professionista prestato alla pubblica amministrazione), la perdita del posto. Friuli Venezia Giulia: 1,5 mln l’anno per formazione detenuti, al via tirocini nelle aziende triesteprima.it, 14 giugno 2017 La Regione, attraverso il Fondo sociale europeo, sostiene 37 progetti nelle le carceri del Fvg per un totale di 9.870 ore di formazione che coinvolgono circa 400 detenuti. Ampliare i progetti di formazione destinati ai detenuti offrendo loro, nei casi stabiliti dal tribunale, la possibilità di partecipare a corsi e tirocini presso enti accreditati e aziende, rafforzando in questo modo le possibilità di un inserimento nel mercato del lavoro. Questo il concetto espresso dall’assessore al lavoro del Friuli Venezia Giulia, Loredana Panariti, a margine dell’incontro che si è tenuto oggi a Trieste con il Garante regionale dei Detenuti, Pino Roveredo, e il direttore della casa circondariale del capoluogo giuliano, Silvia Della Branca. Come ha spiegato l’assessore, la Regione già sostiene con 1 milione e 500 mila euro l’anno corsi di formazione all’interno delle carceri; tuttavia, su segnalazione del Garante, è emersa l’esigenza, per i detenuti ritenuti idonei, di partecipare ad un’esperienza formativa nelle imprese, con l’obiettivo di avere maggiori chance di ricollocazione lavorativa al termine del periodo detentivo. Proprio per cercare di conseguire questo risultato, Panariti ha spiegato che saranno fatte tutte le verifiche necessarie con l’Agenzia regionale per il Lavoro, e in particolare con la struttura che si occupa dei rapporti con le imprese, per capire quali siano i fabbisogni e le disponibilità delle aziende in relazione a questo tipo di progetto, per il quale può avere un ruolo attivo anche il mondo della cooperazione sociale. In quest’ottica, come ha evidenziato l’assessore, va considerata un elemento di vantaggio l’esperienza acquisita negli ultimi due anni dalla stessa Agenzia regionale per il Lavoro, la quale ha avviato una rete di rapporti con il settore produttivo del territorio per armonizzare i percorsi formativi a quelle che sono le esigenze occupazionali delle imprese. La Regione, attraverso il Fondo sociale europeo, sostiene 37 progetti, suddivisi fra le carceri di Trieste (nove), Udine (cinque), Pordenone (cinque), Gorizia (quattro) e Tolmezzo (14), per un totale di 9.870 ore di formazione che coinvolgono circa 400 detenuti. Come è stato sottolineato nel corso dell’incontro, questa offerta formativa è coerente con la situazione logistica e organizzativa delle diverse case circondariali e comprende: elementi base di ristorazione, tecniche di pulizia e sanificazione, tecniche per le piccole manutenzioni in edilizia e falegnameria, tecniche di orto-floricoltura, di agricoltura biologica, di trasformazione dei prodotti agricoli e di gestione dell’azienda agricola. Reggio Emilia: malato psichiatrico di 47 anni si suicida in carcere today.it, 14 giugno 2017 Era detenuto da 2 anni e mezzo e soffriva di una patologia psichiatrica, sarebbe uscito dal carcere a fine luglio per andare in una comunità dove potersi curare. Andres Tangerini, di 47 anni, si è tolto la vita il 7 giugno scorso nel reparto psichiatrico del carcere di Reggio Emilia. Da quanto si è appreso - rende noto l’associazione Ristretti Orizzonti - pare che Andres si sia impiccato durante la notte utilizzando un lenzuolo legato alla finestra della sua cella. Era detenuto da 2 anni e mezzo e soffriva di una patologia psichiatrica, sarebbe uscito dal carcere a fine luglio per andare in una comunità dove potersi curare. Con la morte di Tangerini salgono a 22 le persone detenute che si sono tolte la vita nei primi 6 mesi del 2017, e sale a 47 il totale dei decessi avvenuti quest’anno dietro le sbarre. "Abbiamo avuto notizia di questo suicidio, che è stata confermata dal direttore del carcere di Reggio Emilia, solo grazie alla mamma di Andres, la signora Maria - si legge in una nota - che ha contattato telefonicamente gli studi di Radio Carcere". Reggio Emilia: sciopero degli avvocati Caruso "convoca" i detenuti di Tiziano Soresina Gazzetta di Reggio, 14 giugno 2017 Non sufficiente oggi un portavoce, l’astensione dei penalisti dovrà essere confermata dai 22 imputati con misure restrittive. Per la quinta volta lo sciopero ad oltranza proclamato dall’Unione Camere Penali entra in rotta di collisione con il maxi processo Aemilia. Dal mese scorso ne è nato un aspro scontro fra giudici e avvocati penalisti e vedremo a cosa porteranno le decisioni chieste alla Consulta (chiamata in causa dai tre magistrati giudicanti sollevando la questione di legittimità costituzionale sullo sciopero) e alla Cassazione (a cui si sono rivolti i legali presentando il ricorso contro l’ordinanza emessa dalla Corte). Ma nell’attesa il discorso è tutt’altro che "congelato", visto che oggi al collegio giudicante - presieduto da Francesco Caruso, a latere i colleghi Cristina Beretti ed Andrea Rat - non basterà (come avvenuto sinora) che un avvocato faccia da portavoce per tutti gli imputati alle prese con misure restrittive, comunicandone la volontà di dare il consenso all’adesione allo sciopero da parte dei rispettivi difensori. Infatti i 22 imputati (18 in carcere, 4 agli arresti domiciliari) sono stati "convocati" nell’aula-bunker e se intendono dare il consenso allo sciopero dei penalisti dovranno farlo personalmente, con la loro viva voce. Da quanto "filtra" dal fronte delle Camere Penali non dovrebbero esserci sorprese, in quanto i 22 imputati sarebbero compatti nel dare il loro assenso all’astensione. Ma se "qualcuno" uscirà dal coro (e basterebbe anche un solo imputato con restrizioni) ecco che l’udienza si terrà normalmente. Vedremo. Da ieri, intanto, è partita l’ennesima settimana di sciopero decretata dai penalisti contro la riforma del processo penale di iniziativa governativa. Già saltati a Reggio non pochi processi: "Ribadiamo la profonda contrarietà, già manifestata durante l’iter parlamentare del ddl - comunica il presidente provinciale Noris Bucchi (Camere Penali) - ad interventi disorganici e contraddittori, agli inutili aumenti di pena, rilevando soprattutto l’irragionevolezza e la incostituzionalità delle riforme della prescrizione e dell’istituto del processo a distanza". Avezzano (Aq): inaugurata la casa d’accoglienza per ex detenuti e loro famiglie agensir.it, 14 giugno 2017 È stata inaugurata ad Avezzano, il 27 maggio, una casa d’accoglienza destinata all’ospitalità di detenuti, ex-detenuti e delle loro famiglie. La struttura sarà a servizio del reinserimento sociale durante e dopo il periodo della pena: segno visibile dei percorsi di misericordia solidale della diocesi marsicana. A tagliare il nastro, grazie all’impegno dell’associazione "Liberi per liberare", il vescovo di Avezzano, Mons. Pietro Santoro, il sindaco Giovanni Di Pangrazio, e il cappellano e direttore del Servizio diocesano di pastorale penitenziaria, don Francesco Tudini. All’inaugurazione ha partecipato anche il direttore della casa circondariale di Avezzano, Anna Angeletti, il personale dell’area pedagogica e due detenuti. La struttura, situata nella centrale via Garibaldi, è dotata di 12 posti letto, cucina, refettorio, sala riunioni, studio e lavanderia e intende offrire sostegno e accompagnamento per affrontare le problematiche psicologiche ed esistenziali che investono persone coinvolte in percorsi penali: un ponte fra il carcere e i servizi del territorio, un momento di transizione durante il quale la persona può ristrutturarsi e tornare alla società come cittadino. La Casa di accoglienza nasce su un bene confiscato nel 2006 per evasione fiscale ad una famiglia che aveva praticato attività di prestito di denaro a tassi usurai. Nel dicembre 2009 il bene è stato trasferito dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei Beni sequestrati e confiscati all’Ente territoriale di competenza, il Comune di Avezzano, con dichiarata finalità di uso per scopi sociali. Nel 2010 ne ha fatto richiesta l’associazione "Liberi per liberare", patrocinata dalla diocesi di Avezzano, per destinarla all’accoglienza e ai servizi per ex-detenuti, detenuti in misure alternative al carcere e alle loro famiglie. Arbus (Vs): "Is Arenas attività equestri", progetto di reinserimento lavorativo dei detenuti admaioramedia.it, 14 giugno 2017 Un percorso di volontariato all’interno delle carceri, con l’obiettivo del reinserimento lavorativo dei detenuti. Così nasce "Is Arenas attività equestri", progetto che prende vita dal protocollo di intesa tra casa di reclusione Is Arenas, hotel le Dune di Piscinas ed Asi (Associazioni sportive e sociali italiane) e che sarà inaugurato venerdì 16 giugno alle 15. Diciotto detenuti verranno formati come guide equestri, all’interno dei 2.700 ettari di territorio della casa di reclusione, affianco alle altre innumerevoli attività lavorative, "così da offrire una possibilità di lavoro - spiegano gli organizzatori del progetto - a chi sta pagando il prezzo del suo sbaglio nei confronti della comunità, così da dimostrargli che nella legalità, seppure tra mille difficoltà, ci può essere una possibilità di riscatto e di vita vera". Is Arenas è un angolo prezioso della Sardegna per il suo pregio naturalistico e paesaggistico, considerato un ‘piccolo deserto’, dove è possibile vivere un’esperienza indimenticabile con esclusive escursioni equestri (anche per bambini coi pony) all’insegna della millenaria complicità fra uomo e cavallo. Esistono diversi percorsi, appositamente studiati e validati da esperti, che consentono di ammirare flora e fauna uniche nel loro genere. Tra la vegetazione, si trovano il ginepro, il lentisco, la ginestra, l’euforbia; è presente il cervo sardo, la testuggine mediterranea e la tartaruga marina, che depone le uova sulla spiaggia; e si costeggiano i complessi minerari ottocenteschi oramai in rovina. Saranno anche i reclusi di Is Arenas ad accompagnare le escursioni nell’ambito dei programmi di recupero sociale, durate le quali si potrà vedere il lavoro che quotidianamente viene svolto nella colonia agricola e degustare formaggi, miele ed altre specialità. Salerno: confronto tra giuristi ed operatori sul tema "La vittima del processo penale" di Giorgio Spangher Il Mattino, 14 giugno 2017 "La vittima del processo penale" è il tema del convegno in programma oggi alle ore 16 nell’aula Parrilli del Tribunale di Salerno, in occasione della presentazione del libro "I danni da attività giudiziaria penale in executivis. Cause e rimedi" (Cedam 2017) alla quale ha partecipato un gruppo di ricerca dell’ateneo di Salerno. Discutono del libro Iside Russo, presidente Corte d’Appello, Pitero Indinnimeo, presidente Anm Salerno, Francesco Rizzo (Ordine avvocati), Sergio Moccia, docente diritto penale alla Federico II, Dario Del Porto, giornalista de La Repubblica, Giorgio Sprangher, docente di procedura penale, università Unitela-Sapienza. L’unità di ricerca del Dipartimento di scienze giuridiche (Cimadono, Dalia, Daraio, Iovino, Sammarco) è stata coordinata da Luigi Kalb, docente procedura penale Università di Salerno. Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori, uno stralcio della introduzione. Le numerose riflessioni svolte all’interno della comunità scientifica e di quella forense hanno più volte evidenziato quanto da sempre è percepito con immediatezza da qualsiasi consociato ‘ e da tempo ampiamente sostenuto dalla dottrina (Carnelutti, Chiovenda, Satta) - ovvero che lo svolgimento del procedimento penale, per le plurime interferenze esercitate sull’attuazione dei diritti e delle libertà dei singoli, è equiparabile a "esecuzione di una pena". A tale umana percezione si è aggiunta la consapevolezza di un pericolo, purtroppo evidenziatosi sempre più con maggiore frequenza nella cronaca giudiziaria, ovvero l’ingiustizia dell’accertamento di responsabilità, pur consacratosi nei diversi gradi di giurisdizione, con i comprensibili effetti dannosi sulla vita della persona ingiustamente condannata. Al di là di queste pur rilevanti constatazioni, è apparso opportuno focalizzare l’attenzione su un altro piano di lavoro, approfondendo lo studio dei danni derivanti dallo svolgimento di attività giudiziaria che non fossero ricollegabili a condotte rientranti ex lege nell’ambito della responsabilità dei magistrati. L’obiettivo è stato conseguito attraverso l’attivazione di un progetto di ricerca finanziato dal Miur (Prin 2012) - dal titolo "I danni da attività giudiziaria penale" - che ha coinvolto diversi gruppi di studiosi afferenti a plurime strutture universitarie. Il progetto è partito dalla constatazione che l’accertamento e la punizione dei reati per ogni Stato ha un costo molto alto, umano ed economico; per i singoli e per la collettività. Il dubbio da cui ha preso le mosse la ricerca si è incentrato sull’adeguatezza degli strumenti risarcitorio-indennitari previsti dalla legislazione attuale: la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, la riparazione per ingiusta detenzione o per errore giudiziario o per irragionevole durata, la reintegrazione del posto di lavoro, etc. Il progetto di ricerca si è posto ‘un triplice ordine di obiettivi, tutti accomunati dalla necessità di individuare le soluzioni che sotto il profilo teorico, legislativo e pratico consentono la costruzione di un sistema di ristoro delle conseguenze pregiudizievoli che l’attività dell’autorità giudiziaria può arrecare sia ai privati siano singoli cittadini ovvero persone giuridiche coinvolte secondo lo schema del d.lg. n. 231/2001 - sia allo stesso Stato. Al gruppo di ricerca afferente al Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli studi di Salerno è stato assegnato il compito di analizzare i fattori lesivi verificabili nell’ambito della fase dell’esecuzione penale e nel corso del trattamento penitenziario. La chiave di lettura che ha diretto lo svolgimento della ricerca è stata rappresentata dalla individuazione dei possibili effetti pregiudizievoli ‘ in termini di disparità di trattamento, deficit di garanzie, preclusione di opportunità concrete e di specifici diritti - conseguenti alla regolare attuazione delle attuali scelte normative. All’interno di questo solco interpretativo anche il gruppo di ricerca che si è occupato della fase esecutiva ha cercato di evidenziare eventuali criticità della vigente disciplina processuale. In sintonia con gli altri ricercatori, l’obiettivo perseguito è consistito nel tentativo di proporre soluzioni che possano determinare riforme da parte del legislatore in termini di rimedi, così come sollecitare la formulazione di questioni da sottoporre al controllo della Corte costituzionale alle eventuali criticità prodotte dall’operatività dell’attuale disciplina prevista per la fase dell’esecuzione penale, così come per quella riguardante il trattamento penitenziario. In tale contesto una particolare rilevanza ha assunto la sentenza pilota della Corte Edu, 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, al fine di appurare se l’applicazione degli attuali istituti processuali continui a determinare il rischio di deficit e pregiudizi idonei a produrre fatti lesivi ai quali mettere riparo in via legislativa. È ben noto come la Corte Edu, chiamata ad accertare la compatibilità della detenzione carceraria nei penitenziari italiani con il principio per cui ‘nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti degradantì (art. 3 Cedu), ha condannato l’Italia in merito alle vicende sottoposte al suo esame, cogliendo l’occasione per evidenziare una serie di criticità di tipo strutturale. Tra l’altro, ha costituito un riferimento obbligato per il gruppo di ricerca la sollecitazione rivolta all’Italia dalla stessa Corte Edu, in ordine all’introduzione di adeguati strumenti di tipo preventivo e di tipo compensativo volti a porre rimedio a situazioni detentive incompatibili con l’art. 3 Cedu. Con i primi, la persona destinataria del provvedimento di carcerazione, potenzialmente determinante un trattamento disumano e degradante, dovrebbe poter attivare un istituto idoneo a precludere l’effetto pregiudizievole. Con i secondi, la persona che non è stata messa nelle condizioni per poter beneficiare del rimedio preventivo, dovrebbe avere la possibilità di chiedere un congruo risarcimento. I contributi prodotti all’esito dell’approfondimento svolto dall’unità di ricerca spaziano dal danno da giudicato alle diversificate criticità relative al meccanismo sospensivo previsto per la esecuzione della pena detentiva quale efficace strumento di decarcerizzazione, da quelle inerenti all’assegnazione e al trasferimento dei detenuti e al connesso deficit di diritti, dalle problematiche riguardanti l’ergastolo ostativo, soprattutto sotto il profilo del senso di umanità e della finalità rieducativa nell’esecuzione della pena, alle criticità inerenti all’esecuzione della confisca e alla relativa tutela dei terzi. Bari: riforma carceri, domani incontro con la stampa dei Garanti nazionali dei detenuti easynewsweb.com, 14 giugno 2017 Garanti dei reclusi da tutta Italia a confronto con la stampa sulla riforma dell’ordinamento carcerario: appuntamento in Consiglio regionale, a Bari, giovedì 15 giugno, alle 10,30, nella Sala Guaccero (al secondo piano del palazzo di via Capruzzi 212). Con il pugliese Piero Rossi, interverranno Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e Franco Corleone, garante per la Toscana e portavoce del Coordinamento nazionale dei Garanti. La conferenza stampa, "nella forma di un seminario di studi", spiega Rossi, "valorizza la presenza in Puglia dei garanti di alcune tra le regioni più importanti e consentirà di fare il punto sull’iter normativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, insieme alla riforma del diritto penale sostanziale e di quello processuale". Sono i temi sui quali la Camera dei Deputati ha in calendario i lavori parlamentari martedì 13 giugno. L’incontro in Consiglio regionale seguirà il convegno del pomeriggio precedente nella Casa di Reclusione di Turi (mercoledì 14 giugno 2017, alle 16,30), sull’attualità del pensiero di Antonio Gramsci detenuto, un evento di carattere storico e culturale con evidenti riferimenti al presente, nell’ottantesimo anniversario della morte dell’intellettuale e politico comunista. Di rilievo il documento che ispira la manifestazione, organizzata dal garante pugliese e dal Consiglio regionale, con un partenariato prestigioso. Al centro dei lavori sarà la lettera "Non per mania lamentatrice", che rivela il pensiero di Antonio Gramsci, recluso nel carcere pugliese. Ne parleranno il presidente del Consiglio regionale della Puglia Mario Loizzo, il provveditore per la Puglia e Basilicata dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il garante nazionale Palma, il portavoce dei garanti Corleone, il garante Rossi, la direttrice dell’istituto penitenziario Maria Teresa Susca e il direttore della Fondazione Gramsci Francesco Giasi, che ha di recente avuto accesso a tutti gli atti sull’esperienza gramsciana, dopo la desecretazione disposta dal ministro della giustizia Orlando. Interverrà il sindaco di Turi Domenico Coppi ed è prevista la presenza del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Il magistrato Nicola Graziano, autore di pubblicazioni sull’ "Odissea Partigiana" di Gramsci, metterà in luce gli aspetti legati al pensiero antifascista gramsciano. Condurrà i lavori Giorgio Macciotta, presidente della Fondazione Amici Casa Gramsci di Ghilarza. Barcellona P.G. (Me): presentazione del libro "Un germoglio tra le sbarre" di Cristina Saja 24live.it, 14 giugno 2017 L’Associazione Culturale "Teseo" e la Cooperativa "Nuova Via", lo scorso 9 giugno presso la Casa Circondariale di Barcellona P.G. hanno organizzato la presentazione di "Un germoglio tra le sbarre" di Angelica Artemisia Pedatella e Paolo Paparella. "Dal disagio personale al disagio sociale, tra carcere e libertà" è il sottotitolo del testo e l’argomento principe dell’incontro che si è svolto alla presenza delle autorità presenti e dei professionisti che hanno preso parte all’interessante tavola rotonda. Gli autori hanno voluto dedicare il loro lavoro "a tutti coloro che combattono per la libertà", indirizzando il loro pensiero non solo ai carcerati ma anche agli uomini che pensano di essere liberi ma sono incarcerati dalla quotidianità. La presentazione del volume, nella sala conferenze del carcere (ex Opg) è stata organizzata di concerto con il Direttore della struttura, dott. Nunziante Rosania, alla presenza ovviamente degli autori oltre che di numerose autorità del sistema giudiziario e penitenziario. A portare i saluti dell’Amministrazione Comunale, l’Avv. Ilenia Torre presente in sala. Ad allietare l’incontro, l’esibizione di alcuni detenuti, che hanno interpretato brani del libro, accompagnati da musica. L’opera letteraria racconta storie vere, storie di mondi lontanissimi, come quella di una scuola d’élite con ragazzi ben educati ed il buio di una cella, dove l’acqua è fredda, che s’incontrano nel modo più antico, scrivendosi. Ad apportare significativi contributi ai contenuti trattati durante l’incontro, sono stati i numerosi relatori, quali: il Dr Attilio Andriolo, Presidente dell’Associazione Culturale "Teseo"; il Dr. Nicola Mazzauto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Messina; il Dr Emanuele Crescenti, Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Barcellona P.G.; il Prof. Mario Bolognari, antropologo, direttore Dip. Civiltà Antiche e Moderne presso l’Università di Messina; l’Avv. Antonio Centorrino, penalista e presidente ASS. Pe 93 - Camera Minorile; l’Avv. Giuseppe Calabrò, penalista, direttore della formazione Camera Penale di Barcellona P.G.. Oltre al Dr Nunziante Rosania, direttore della Casa Circondariale di Barcellona P.G., sono intervenuti, inoltre: il Prof.Gaetano Giunta, segretario Fondazione Comunità di Messina e il Prof. Roberto Russo, docente di diritto costituzionale all’Università eCapus. Ha moderato il Capo-redattore della Gazzetta del Sud, Dr Nuccio Anselmo e sono intervenuti gli autori del libro, la Dr.ssa Angelica Artemisia Pedatella e il Dr Paolo Paparella. L’Associazione Culturale "Teseo" e la Coop. "Nuova Via" si sono dette "orgogliose di far conoscere gli autori di "Un germoglio fra le sbarre" e di essersi attivate affinché la presentazione della loro fatica letteraria avvenisse all’interno di un carcere, approfittando dell’entusiasmo e dell’ospitalità del dott. Rosania, direttore del carcere di Barcellona P.G.". L’evento si è svolto sotto l’egida dell’Università e Campus. Napoli: viaggio nel carcere, per conoscere la realtà di chi è detenuto di Giuseppe Del Bello La Repubblica, 14 giugno 2017 Viaggio all’interno del carcere, perché la detenzione deve punire ma anche "rieducare". Ed è giusto che i cittadini sappiano cosa succede dietro le sbarre. Un mondo chiuso che però non lo è, stando all’iniziativa dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali italiane, che ieri ha organizzato la visita nel carcere di Poggioreale e in quello di Verona-Montorio. Una cinquantina - tra magistrati e cittadini ma anche giornalisti - i visitatori di Poggioreale. E un tour per conoscere la vita dei detenuti negli spazi non destinati alla detenzione sulla base del principio secondo cui come la scuola deve educare "il carcere deve rieducare - lo dice Samuele Ciambriello - chi viene privato della libertà ma non della dignità". Così il giro per i padiglioni e per le classi che ha avuto come guida il direttore dell’Istituto Antonio Fullone - con una media di tredici studenti per classe. Quindi il tour nei laboratori artigianali con fabbri, tipografi, falegnami. Qui, i detenuti lavorano dalle 8 alle 14 con uno stipendio di circa 450 euro al mese. "Essere occupati - spiega un giovane recluso per problemi di droga che ha ancora 18 mesi da scontare - vuol dire distrarsi. E riuscire ad andare avanti". Quindi la visita nella chiesa ristrutturata e con aria condizionata, guidata da don Franco Esposito. Poi il parlatorio per i 2.180 detenuti attualmente presenti a Poggioreale. Cifra ridotta rispetto al passato - che ne contava 3.300 - ma che per il responsabile dell’Osservatorio Carcere, l’avvocato penalista Riccardo Polidoro, è di nuovo in crescita: "Con questa iniziativa intendiamo avvicinare l’opinione pubblica alle problematiche degli istituti di pena. Un mondo dimenticato, se non del tutto ignorato". Sulla base di questo principio, è stato distribuito un questionario ai visitatori da compilare e inviare all’Unione camere penali. Tra le domande: le ragioni che l’hanno indotta a chiedere di visitare il carcere. Nuoro: i detenuti di Badu e Carros in scena con la trilogia di Harold Pinter cronachenuoresi.it, 14 giugno 2017 Torna in scena la compagnia stabile dei detenuti "Nuova Jobia" che il giorno 15 giugno alle ore 16, presso la casa circondariale di Badu e Carros, replicherà dopo 4 anni la trilogia del consenso di Harold Pinter, drammaturgo inglese premio Nobel per la letteratura nel 2005. L’opera comprende: Il bicchiere della Staffa, Il linguaggio della Montagna e Party Time. La trilogia rappresenta e descrive un universo dispoticamente governato dall’incertezza, una sorta di mondo alla rovescia su cui il drammaturgo proietta in modo crudo la sua visione del mondo contemporaneo, perplessa, dolente e violenta. Grazie all’impegno dell’assessorato ai servizi sociali e alla professionalità dell’operatore di strada Pietro Era, che cura la preparazione degli attori e la regia dello spettacolo, il Comune di Nuoro riafferma il suo impegno dentro il carcere a sostegno del percorso di recupero di chi vive lo stato di detenzione, sostenendo attività meritorie come quella della compagnia stabile dei detenuti "Nuova Jobia". Rovigo: detenuti a lezioni di scacchi, iniziativa del Centro Sportivo Italiano rovigooggi.it, 14 giugno 2017 Altra iniziativa nella Casa circondariale del Centro sportivo italiano. Dopo aver donato una sala giochi con calcio balilla e tavoli da ping pong si sviluppano le capacità di intuizione e di ragionamento. Docente del ciclo di incontri sarà Claudio Ferlini che nei vari appuntamenti introdurrà a uno dei giochi da tavolo più complessi e avvincenti: quella che nell’ex Unione sovietica era materia di studio oltre che quasi una sorta di religione. Dopo la sala giochi, il torneo di calcio a 5 e il corso per arbitri ora anche lezioni di scacchi. Il programma di attività firmate Csi all’interno del nuovo carcere di Rovigo si rinsalda e arricchisce di una nuova iniziativa: dal 13 giugno al 4 luglio, infatti, per i detenuti dell’istituto di pena rodigino arriva una nuova iniziativa in collaborazione con il comitato provinciale del Centro sportivo italiano, che ha in a Ciro Liotto il trait d’incontro ideale tra associazione e casa circondariale. Docente del ciclo di incontri sarà Claudio Ferlini che nei vari appuntamenti introdurrà a uno dei giochi da tavolo più complessi e avvincenti: quella che nell’ex Unione sovietica era materia di studio oltre che quasi una sorta di religione (e patria di campioni senza tempo come Spassky, Karpov e Kasparov), diventerà argomento di quattro lezioni che partiranno con la presentazione di pedone e alfiere, per proseguire con torre, re, regina e mosse particolari (promozione, arrocco e presa en passant) fino alla scrittura algebrica delle mosse per chiudere con simulazioni illustrative e finali di partita elementari. Il ciclo, riprenderà quindi a settembre con nuove lezioni che daranno la possibilità di entrare ancor più all’interno di una pratica non facile e dalle molteplici soluzioni tattiche, dove l’apertura storicamente sta ai bianchi, gli attaccanti, opposti ai neri che invece difendono. "Siamo soddisfatti - commenta il presidente provinciale del Csi Andrea Denti - della collaborazione che ormai si è instaurata con il carcere. Dopo aver donato una sala giochi con calcio balilla e tavoli da ping pong, si è anche riusciti a organizzare un torneo di calcio a 5 tra detenuti alcuni dei quali, nei mesi precedenti, avevamo anche persino frequentare un corso di arbitri. Lo scopo di tutto questo non è soltanto regalare qualche ora di svago ma dimostrare in concreto che, al di là degli errori che si son commessi, un futuro diverso e scelte alternative sono possibili. Sempre e per tutti". Migranti. Ius soli, domani al riforma in aula al Senato. Renzi promette: si può fare di Carlo Lania Il Manifesto, 14 giugno 2017 E i figli degli immigrati scrivono ai senatori. La Lega promette battaglia e annuncia migliaia di emendamenti al testo. "Vi scriviamo perché avete nelle vostre mani le sorti delle nostre vite". Sono le prime parole di una lettera-petizione inviata dai figli degli immigrati presenti in Italia ai senatori e alle senatrici che domani cominceranno a discutere la riforma della cittadinanza. Un milione di ragazzi nati nel nostro paese o che vi sono arrivati quando erano ancora molto piccoli e che oggi si sentono in tutto e per tutto italiani senza però esserlo veramente, appesi come sono a un permesso di soggiorno e senza diritto di voto, come alcuni di loro hanno spiegato ieri in una conferenza stampa al Senato indetta da #italianisenzacittadinanza. Alle 13 di domani scadranno i termini per la presentazione degli emendamenti al testo e la Lega ha già annunciato che saranno migliaia. Al contrario di quanto accade in commissione Affari costituzionale, dove la riforma è bloccata da un anno e sette mesi, il regolamento dell’aula consente però di aggirare eventuali ostruzionismi contingentando i tempi della discussione e permettendo così di arrivare relativamente presto al voto. "Sarà una battaglia dura ma sono fiduciosa, arriveremo al voto finale", ha spiegato la senatrice Mdp Doris Lo Moro, relatrice del provvedimento. Un segnale incoraggiante è arrivato ieri dal segretario del Pd Matteo Renzi, che ha indicato lo ius soli come una delle riforme che potrebbero vedere presto la luce. A patto, bisognerebbe aggiungere, che non si verifichino improvvise capriole che, come già successo in passato, ne rallenterebbero l’approvazione. Sulla carta i numeri per arrivare a un via libera alla legge prima della fine dell’estate ci sarebbero, anche senza M5S (Grillo ha rispolverato la vecchia proposta di un referendum) e sempre che la maggioranza si mantenga salda. "Questa è una legge di civiltà, in linea con il diritto romano", ha aggiunto la senatrice Loredana De Petris, capogruppo di Si e presidente del gruppo Misto. "Le vecchie norme non sono più adeguate e noi siamo qui per dire che ci sono le condizioni per approvare la riforma". E se l’Ap di Alfano dovesse fare marcia indietro? "Il governo potrebbe mettere la fiducia - spiega Lo Moro - ma non lo auspico, è una questione di lealtà: la legge è sostenuta anche da singoli parlamentari che nel caso sarebbero costretti a restare fuori". Migranti. Dai barconi alla schiavitù, vittime dei mercanti di uomini di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 14 giugno 2017 Vi sembrerà strano, ma sempre più anche il nostro Paese ha lo schiavismo in casa. Ed è molto difficile intercettarlo e al tempo stesso combatterlo. Si chiama "trafficking", è la tratta di esseri umani, che riguarda circa 21 milioni di persone nel mondo, tra questi 8 milioni di minori e una maggioranza di donne. Sono le stime dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro). L’Europa purtroppo non ne è immune, circa 800 mila persone sono sottoposte a forme di sfruttamento di ogni genere, da quello sessuale a quello sempre più sviluppato, lavorativo. Lo sfruttamento sessuale è un grave rischio che corrono donne e bambini che scappano dalla guerra, dalle persecuzioni, dall’Isis e dalla fame. Pensiamo alle donne nigeriane. Partono dalla Nigeria con il sogno di trovare un lavoro decente, finiscono per essere stuprate durante il viaggio, per essere sfruttate sessualmente in Libia e infine in Italia. Le donne accumulano debiti impossibili da ripagare, dopo essere state sottoposte a riti voodoo in patria. Affidate alle cosiddette maman in Italia, diventano ostaggi, controllate in ogni spostamento. E se si ammalano di Aids tornano in patria abbandonate dalle loro stesse famiglie, accolte solo dalle organizzazioni di volontariato. Una tragedia infinita, dietro l’angolo delle nostre case. Sulla strada - Quando vedete le nigeriane per la strada, magari siete portati a pensare che siano prostitute per scelta. Non è così. È prostituzione coatta, su cui si arricchiscono gli sfruttatori, lo sanno bene le associazioni che intervengono contro la tratta. Non possiamo far finta di non vedere. Ieri a Roma è stato presentato alla Camera dei deputati, in un evento organizzato dalla Fondazione Nilde Iotti, un commovente libro sulla storia di una donna nigeriana uscita dall’inferno della tratta "Il coraggio della libertà" (Paoline) che cerca di ricostruirsi il suo futuro, a sottolineare che uscire dalla tratta è difficile ma è possibile. La tratta si affianca ai processi migratori, più aumentano i flussi di persone che scappano dall’Isis, dalle violenze, guerre, carestie, più aumenta il rischio di sfruttamento sessuale e lavorativo. Se si adottano politiche molto restrittive, aumentano le probabilità di sfruttamento perché i migranti sono costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, di sfruttamento sessuale e non ce la fanno a ribellarsi. I controlli - D’altro canto abbiamo il problema della necessità di rigidi controlli per tutelarci dal terrorismo. Accoglienza verso chi è in grave difficoltà e forte controllo possono coniugarsi. Dobbiamo trovare risposte articolate nella prima accoglienza e nei processi di integrazione e possiamo farlo bene, perché siamo un popolo generoso, come ci dimostrano gli abitanti di Lampedusa ogni giorno. Dobbiamo sentirci investiti di questa missione di grande umanità, ognuno di noi. Molto possiamo fare. Molti già fanno. Tante storie terribili di tratta nel nostro Paese sono finite bene perché siamo una eccellenza nella lotta alla tratta. Abbiamo salvato e reinserito migliaia di donne in questi anni. Abbiamo un’ottima legge che protegge le vittime di tratta, e associazioni molto competenti che hanno accumulato un know how importante: associazioni variegate: femministe, laiche e religiose, come quella di suor Eugenia Bonetti, tutte in prima fila. I Paesi europei, anche grazie all’azione dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa, particolarmente del meccanismo di monitoraggio della Convenzione sulla tratta (Greta), hanno molto imparato l’uno dall’altro attraverso lo scambio di best practice. Il nostro Paese spicca per eccellenza, da sempre e siamo fieri che sia italiana anche la rapporteur dell’Onu sulla tratta, Maria Grazia Giammarinaro, magistrata siciliana. Dobbiamo continuare su questa strada e investirci di più. Se i diritti umani sono la priorità, allora il supporto alle persone trafficate deve essere immediato, incondizionato, continuo e l’azione di prevenzione ad ampio spettro. Come sempre, quando si parla di schiavitù, la priorità è liberare gli schiavi. Veramente, e senza condizioni. Migranti. Chi guadagna con i Centri di detenzione in Europa di Annalisa Camilli Internazionale, 14 giugno 2017 Si discute spesso del cosiddetto business dell’accoglienza dei migranti, ma si parla meno dei costi di gestione dei centri in cui i migranti sono detenuti per essere identificati o espulsi. Secondo l’ultimo rapporto dell’organizzazione europea Migreurop, tenere aperti questi centri è un’attività redditizia, in cui stanno avvenendo due cose: aumentano gli investimenti e la gestione dei centri viene affidata ad aziende private. Negli ultimi trent’anni i paesi europei hanno speso importanti somme di denaro per impedire ai migranti di entrare nel territorio dell’Unione europea: dopo l’abolizione delle frontiere interne stabilita dai trattati di Schengen negli anni novanta, si è investito sul rafforzamento di quelle esterne dell’Unione europea e sulla loro militarizzazione. Questa tendenza si è consolidata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, quando anche in molti stati europei è diventato più facile e frequente usare la detenzione amministrativa (una misura che prevede la privazione della libertà personale senza l’autorizzazione preventiva di un giudice) dei cittadini di origine straniera. Dal 2015, con l’arrivo di un milione di profughi, in particolare dalla rotta balcanica, i paesi europei hanno ulteriormente esteso la detenzione dei migranti irregolari e dei richiedenti asilo, introducendo i cosiddetti hotspot, centri per l’identificazione delle persone appena arrivate sul territorio europeo. Tra il 2003 e il 2013 l’Unione europea e l’Agenzia spaziale europea hanno finanziato 39 progetti di ricerca e sviluppo sulla messa in sicurezza delle frontiere per un totale di 225 milioni di euro. A beneficiare di questi finanziamenti sono state in particolare tre aziende: Thales group, Finmeccanica e Airbus. Uno studio del Transnational institute, pubblicato nel luglio del 2016, stima che entro il 2022 la militarizzazione delle frontiere potrebbe creare un giro d’affari di 29 miliardi di euro all’anno. Chi può essere recluso nei centri? - Secondo la legislazione europea, i cittadini stranieri possono essere sottoposti alla detenzione amministrativa se non hanno un permesso di soggiorno valido e se provano a entrare nel territorio dell’Unione senza avere i requisiti previsti dagli accordi di Schengen. In alcuni paesi anche i richiedenti asilo possono essere detenuti mentre aspettano che la loro domanda sia esaminata. In teoria, secondo la direttiva rimpatri del 2008, la detenzione dovrebbe essere uno strumento straordinario, limitato solo ai casi in cui non è possibile usare altre misure o quando c’è il rischio di fuga prima dell’espulsione. In diversi stati dell’Unione europea la detenzione degli irregolari è diffusa e può durare fino a 18 mesi. E il 7 marzo 2017 la Commissione europea ha raccomandato agli stati dell’Unione di applicare più severamente la direttiva rimpatri per i migranti irregolari e di estendere la detenzione anche ai minorenni. Il Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani che non è legata all’Unione europea, ha criticato l’orientamento della Commissione. "È probabile che la recente raccomandazione della Commissione europea di estendere e allungare la detenzione dei migranti conduca alla violazione dei diritti umani senza ottenere altri risultati", ha detto Nils Muiznieks, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa. Secondo le stime di The migrants files, gli stati europei hanno speso in quindici anni almeno 11,3 miliardi di euro per la detenzione e l’espulsione dei migranti irregolari. Ma secondo la Commissione europea, meno del 40 per cento dei migranti che hanno ricevuto un provvedimento di rimpatrio ha effettivamente lasciato il territorio dell’Unione europea. Inoltre in nessun paese l’estensione della durata massima della reclusione ha fatto aumentare i rimpatri, afferma Migreurop. Come funziona in Italia - In Italia la possibilità di recludere gli stranieri irregolari è prevista dall’articolo 14 del testo unico sull’immigrazione che afferma: "Il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di identificazione ed espulsione più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del ministro dell’interno". Alcuni hanno messo in dubbio la legittimità costituzionale della detenzione amministrativa, perché priva un individuo della libertà personale, anche se non ha commesso un reato e senza che ci sia stato un provvedimento di un giudice. L’autorità giudiziaria interviene solo successivamente, quando il giudice di pace convalida il provvedimento deciso dal questore (la convalida deve avvenire entro 48 ore). Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma in una recente intervista su Open migration ha espresso preoccupazione per "le troppe zone grigie nella pratica della privazione della libertà dei migranti". "I diritti dei detenuti sono sicuramente più tutelati di quelli degli stranieri privati della libertà in una sorta di detenzione amministrativa", ha detto Palma. Cosa cambia in Italia - I Centri di identificazione ed espulsione (Cie) attivi in Italia sono quattro, per una capienza totale di 359 posti: si trovano a Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino. Il Cie di Trapani, attivo fino al 31 dicembre 2015, dal 2016 è stato convertito in hotspot. Nel momento della loro istituzione, nel 1998, i Cie erano quindici, ma sono stati chiusi a causa di problemi legali, umanitari e di ordine pubblico. Poi il 12 aprile 2017, con la conversione del decreto Minniti-Orlando in legge, è stato deciso di cambiare nome ai centri che si chiameranno Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Entro luglio se ne dovrebbero aprire venti, uno in ogni regione, per un totale di 1.600 posti. Il ministro dell’interno Marco Minniti, presentando il decreto, ha assicurato che i nuovi centri saranno diversi da quelli del passato: saranno più piccoli e sarà garantito il rispetto dei diritti umani. Secondo il Corriere della Sera, i Cpr saranno aperti nelle stesse strutture in cui sorgevano i vecchi Cie. In Italia i centri dipendono dal ministero dell’interno, la loro gestione è affidata a cooperative sociali e, da qualche anno, anche ad aziende private. Gli appalti sono assegnati in base a bandi di gara il cui principale criterio di selezione è il risparmio. Secondo un’inchiesta del 2013 condotta dall’associazione Lunaria, tra il 2005 e il 2011 il sistema di detenzione degli stranieri è costato un miliardo di euro, spesi in buona parte per la gestione dei Cie. Per molti anni la Croce rossa è stata la principale organizzazione incaricata di operare nei centri di detenzione italiani, ma negli ultimi anni il governo ha deciso di coinvolgerne altre. Nella maggior parte dei casi i servizi sono stati affidati a organizzazioni senza scopo di lucro, ma alcune cose stanno cambiando anche in Italia. Grazie a un accordo con l’associazione culturale Acuarinto, l’azienda francese Gepsa (Gestion établissements pénitenciers services auxiliaires) si è progressivamente inserita nel mercato italiano della detenzione. Nel dicembre del 2012, il gruppo Gepsa-Acuarinto ha ottenuto la gestione del Cie di Roma per una cifra di 28,8 euro al giorno per persona (contro i 41 euro richiesti dalla cooperativa Auxilium). Nel 2014 lo stesso gruppo si è inserito anche nella gestione del Cie di Torino proponendo tariffe del 20-30 per cento inferiori a quelle offerte dalla Croce rossa. La Gepsa appartiene alla multinazionale dell’energia Gdf Suez e in Francia gestisce 16 carceri e dieci centri di detenzione in tutto il paese. La privatizzazione in Europa - Secondo il rapporto di Migreurop, la privatizzazione della detenzione dei richiedenti asilo e dei migranti è in aumento in tutta Europa, dalla Germania al Belgio, anche se non riguarda tutti gli stati. "All’interno dell’Unione europea, la privatizzazione della detenzione dei migranti è un fenomeno ancora poco studiato", spiega Lydie Arbogast, autrice del rapporto. "Tuttavia, anche se non riguarda tutti gli stati membri, si può dire che si è in presenza di una tendenza generale". In Germania sono diverse le aziende private coinvolte nella gestione dei centri. Le principali sono: l’European homecare, la Boss security, la Kötter e la Service Gmbh. L’European homecare è presente anche in una cinquantina di centri di accoglienza e le è stata ritirata la gestione di Siegerland Buchbach nel 2014, quando è emerso che alcuni sorveglianti dell’azienda avevano commesso abusi e torture sui richiedenti asilo. Anche in Austria numerose aziende operano nei centri di detenzione: la G4s, l’European homecare e l’Ors Gmbh. In Belgio e Francia i centri di detenzione sono gestiti dall’amministrazione pubblica, ma si ricorre ad aziende private per una parte dei servizi legati alla gestione. In Grecia nel 2012 è stata modificata la normativa per trasferire i compiti di sorveglianza dei centri ad agenzie di sicurezza private. La multinazionale G4s è presente in diversi centri. Il caso della Svezia è singolare perché mostra una tendenza opposta a quella degli altri paesi. Nel 1997, dopo diverse denunce di abusi e violazioni all’interno dei centri gestiti da privati, la Svezia ha vietato l’affidamento della detenzione dei migranti ad aziende private. "La situazione è molto diversa a seconda dei paesi, ma è possibile individuare un gruppo di multinazionali della sicurezza che stanno entrando nel mercato della detenzione dei migranti", afferma Lydie Arbogast. Una delle più conosciute è G4s. "Nata nel 2004 dalla fusione di Group 4 Falk e Securicor, l’azienda britannica G4S si presenta oggi come ‘leader mondialè nel campo dei servizi di sicurezza". Il Geo Group, un fondo immobiliare statunitense specializzato nell’acquisto, la locazione e la gestione di strutture di detenzione, rieducazione e reinserimento, e nell’erogazione di servizi nelle strutture comunitarie, gestisce numerose prigioni e centri di detenzione per migranti negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e in Sudafrica. I rischi della privatizzazione - Secondo i relatori del rapporto: "La gestione privata di questi luoghi privilegia i vantaggi economici delle aziende che li gestiscono e che lucrano sui detenuti e sul personale delle strutture". La concorrenza tra le aziende che vogliono aggiudicarsi un appalto porta generalmente a prestazioni scadenti e a un aumento degli abusi. "In generale, l’affidamento ai privati della gestione dei centri, o di altri servizi legati al loro funzionamento, è giustificato con motivi di ordine economico", spiega Lydie Arbogast, autrice del rapporto. "La privatizzazione infatti consente di ridurre i costi a carico dello stato, che, si stima, sarebbero più elevati nel caso di un intervento pubblico diretto. Inoltre, nelle gare d’appalto, che gli stati continuano a bandire, la concorrenza è in aumento. Questo processo apre le porte ad aziende e associazioni che vogliono aumentare i profitti senza alcuna considerazione per i diritti e la tutela delle persone detenute nei centri. La corsa dei governi alla riduzione dei costi e dei privati alla massimizzazione del profitto, hanno inevitabilmente delle conseguenze sulla qualità della vita e dei servizi erogati nei centri di detenzione", spiega Arbogast. "Anche se le violenze contro i migranti non avvengono solo nei centri di detenzione privati, è evidente che i criteri che guidano le attività di una società a scopo di lucro possono entrare in contraddizione con il rispetto dei diritti umani, in particolare nel quadro di un sistema che già di per sé li ostacola", conclude. Il caso del Regno Unito - Il Regno Unito è stato il primo paese europeo ad appaltare ai privati la detenzione dei migranti. Migreurop calcola che tra il 2004 e il 2022 Londra abbia speso 780 milioni di sterline (893 milioni di euro) per i centri di detenzione e per l’espulsione dei migranti irregolari. Secondo il rapporto, il Regno Unito è un caso interessante perché aiuta a capire cosa succede nei paesi in cui si affida ai privati la gestione dei centri: il numero dei centri aumenta e lo standard dei servizi erogati si abbassa. Inoltre sono frequenti le violazioni dei diritti umani. Nel Regno Unito ci sono nove centri di espulsione, tre strutture per la permanenza temporanea in cui i migranti possono essere reclusi al massimo per una settimana, una struttura in cui sono recluse le famiglie con bambini, 37 strutture non residenziali che si trovano vicino a porti e aeroporti dove i migranti possono essere trattenuti per non più di 24 ore. Le aziende che nel Regno Unito gestiscono la detenzione dei migranti sono: G4s, Geo group, Mitie, Serco e Tascor. Alcune di queste aziende sono multinazionali attive anche in altri settori, come quello dell’industria militare. La G4s è presente in 125 paesi e impiega 657mila persone con un giro d’affari, nel 2014, di 6,8 miliardi di sterline. L’azienda gestisce alcune carceri in Israele e negli Stati Uniti, la sicurezza privata a Baghdad, in Iraq o in Nigeria. Anche la Serco è presente in tutto il mondo con servizi di trasporto, di sicurezza e di controllo delle strade. Dal 2000 sono almeno 40 le persone morte in circostanze poco chiare nel centri di detenzione del Regno Unito. L’ultimo è stato un uomo di 43 anni, in un centro di detenzione a Portland, nel Dorset, ed è stata aperta un’inchiesta sulla sua morte. Nei centri di detenzione del Regno Unito i giornalisti non possono entrare. Terrorismo. Quei jihadisti improvvisati che colpiscono l’Occidente di Lorenzo Vidino La Stampa, 14 giugno 2017 Dalla nascita dell’Isis sono stati 51 gli attacchi in Usa ed Europa. Tre quarti degli attentatori erano cittadini del Paese colpito. Negli ultimi tre anni, l’Europa e il Nord America sono stati colpiti da un’ondata senza precedenti di attacchi terroristici. Quali sono gli obiettivi del terrore? Chi sono gli individui che hanno eseguito questi attentati? Come si sono radicalizzati? Sono nati e cresciuti in Occidenti o rappresentano una minaccia esterna (cioè sono rifugiati e migranti)? Hanno trascorsi criminali? Erano ben istruiti e integrati o, al contrario, vivevano ai margini della società? Hanno agito da soli? Quali erano le loro connessioni con lo Stato islamico? Per cercare di rispondere a questi e altri quesiti dai fondamentali risvolti di policy, un nuovo studio, di cui sono co-autore insieme a Francesco Marone, e pubblicato da Ispi e George Washington University, ha analizzato i 51 attacchi e i 66 attentatori che hanno colpito l’Occidente dalla nascita del Califfato nel giugno del 2014 a oggi. I dati che ne sono derivati, e che sono qui parzialmente sintetizzati, danno una panoramica dettagliata della minaccia, utile a capirne l’entità e le caratteristiche. Innanzitutto i 51 attacchi, che in totale hanno provocato 395 vittime e almeno 1549 feriti, variano enormemente in termini di sofisticatezza, letalità, bersagli e legami con lo Stato islamico. Alcuni sono attentati coordinati con un ingente numero di vittime, sul modello di quelli avvenuti a Parigi nel novembre 2015. Ma la maggior parte sono azioni eseguite da attori solitari, spesso all’arma bianca e pertanto meno letali (ma l’attentato compiuto con un camion a Nizza da un lupo solitario ha causato 86 vittime). Sono tutte azioni compiute da soggetti ispirati dall’ideologia jihadista, ma solo l’8% degli attacchi sono stati perpetrati da individui che hanno ricevuto ordini direttamente dai vertici del Califfato e 26% sono stati compiuti da individui aventi una qualche forma di connessione con lo Stato islamico, ma che hanno agito autonomamente. A conferma che lo spontaneismo, pericoloso perché imprevedibile, domini la presente ondata di jihadismo, il 66% degli attacchi sono stati compiuti da soggetti privi di qualsiasi legame operativo col Califfato. E solo il 38% degli attacchi è stato rivendicato da gruppi jihadisti (quasi sempre dallo Stato Islamico). Il Paese più colpito è la Francia (17), seguito da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3), Canada (3), Danimarca e Svezia (1). Chi sono gli attentatori? Nonostante la crescente presenza femminile nelle reti jihadiste, su un totale di 66 attentatori vi sono solo 2 donne. E nonostante vi sia una generale tendenza verso la radicalizzazione di individui sempre più giovani, l’età media degli attentatori è di 27,3 anni (con solo 5 minorenni). Il 17% sono convertiti all’Islam, con percentuali sensibilmente più elevate in Nord America. Il 57% ha trascorsi criminali. Solo il 18% vanta un’esperienza di combattimento all’estero come foreign fighter; tuttavia, tendenzialmente, tale tipologia di terroristi è coinvolta negli attacchi più letali. Viste le implicazioni dal punto di vista politico si è voluto analizzare anche lo status migratorio degli attentatori. I dati mostrano che il 73% degli attentatori è composto da cittadini del Paese in cui è stato eseguito l’attacco; il 14%, poi, era legalmente residente in tale Paese o in visita da Paesi confinanti. Solo il 5% è composto da individui che al momento dell’attacco erano rifugiati o richiedenti asilo. Il 6%, infine, risiedeva illegalmente nel Paese bersaglio al momento dell’attacco. Sebbene sia arduo prospettare sviluppi futuri, pare chiaro che la minaccia posta dal terrorismo jihadista non sia destinata a svanire nel breve termine - da presidente, Obama aveva parlato di una "sfida generazionale". Il modo in cui i decisori politici, le autorità antiterrorismo e il grande pubblico concettualizzeranno e risponderanno a questa inedita ondata terroristica avrà implicazioni significative, poiché potrà plasmare varie questioni di politica interna ed estera strettamente intrecciate. Dei freddi numeri da soli non ci fanno capire cosa motivi giovani musulmani occidentali ad adottare il credo jihadista, ad uccidere e farsi uccidere in nome di esso. È però fondamentale che qualsiasi tipo di analisi e decisione parta dai fatti e non da fuorvianti preconcetti e illazioni politiche. Droghe. Il boom della marijuana legale: "Un ordine ogni 30 secondi" di Giacomo Talignani La Repubblica, 14 giugno 2017 In un mese negozi presi d’assalto e vendite online in tilt. Gli ideatori: "Non c’è solo la parte commerciale, è un esperimento sociale verso la legalizzazione". Ecco come funziona. Più che una operazione commerciale la definiscono una "missione sociale". In meno di un mese, la marijuana legale, quella che "si fuma ma non sballa", ha fatto boom. "Appena entrati in commercio avevamo un ordine ogni 30 secondi. Siamo stati costretti a chiudere la vendita online. Ci sono state resse negli shop, con anche mille persone all’ora. In un negozio abbiamo dovuto mettere le transenne. Adesso è il momento di strutturarci". Già 20mila barattoli venduti, la cannabis "light" sta diventando un vero e proprio fenomeno di mercato. Luca Marola, fra gli ideatori di Easy Joint - l’azienda che vende l’erba Eletta Campana, varietà italiana con il THC (tetraidrocannabinolo, principio psicoattivo della marijuana) inferiore allo 0,6 per cento, il limite di legge consentito - racconta quello che è accaduto le prime ore dopo il lancio. "Da quando abbiamo presentato il prodotto alla Fiera di Bologna l’interesse è stato altissimo. Vogliamo ricordare che questa non è la marijuana per come la si intende di solito, ma è un’erba che ha bassissimo Thc e fino al 4% di cannabidiolo (CBD), ovvero il principio contenuto nella cannabis che non ha effetti psicoattivi, ma soltanto sedativi. Così, tra curiosi, appassionati, persone che volevano provare l’erba per problemi di ansia, insonnia, dolori mestruali e altro si è sparsa la voce e sono arrivati i primi ordini. Ad oggi già 85 negozi in tutta Italia la stanno vendendo e le richieste sono così elevate che abbiamo dovuto costituire una società, assumere dei dipendenti e bloccare la vendita online perché non riuscivamo a gestirla". L’erba "giusta" o "cannabis tecnica italiana" viene venduta in vasetti da 8-10 grammi a un prezzo di 17 euro e secondo Marola "ha un valore sociale. Il nostro è un esperimento che potrebbe aprire gli occhi: ecco come potrebbe essere la legalizzazione in Italia. Non ci importa tanto il commercio, ma far capire cosa si potrebbe fare in questo Paese, così come già avvenuto in America e molte altre zone del mondo. Ma la politica, invece di interessarsi, dorme sull’iter di legge per la legalizzazione fermo da tempo. Da Saviano al procuratore antimafia, da intellettuali a deputati ci sono state delle aperture: forse mostrando questa iniziativa anche tutti gli altri si renderanno conto che legalizzare è possibile". Su idea della "canna light" nata in Svizzera (che però lì viene venduta nelle tabaccherie) Easy Joint sfrutta una serie di agricoltori che coltivano canapa sativa a uso industriale in varie regioni di Italia acquistandone i fiori, materiale che prima veniva "scartato e usato come fertilizzante. In questo modo diamo vigore anche alla filiera italiana". Nelle Marche i fiori - per ora così come sono, quindi carichi di semi - vengono imbarattolati "dando vita a un indotto che coinvolge aziende di barattoli, grafica per l’etichette, trasporti e altro". Con i valori così bassi di Thc "e poche norme chiare e precise sulle infiorescenze" il prodotto può essere "legalmente venduto, per ora solo nei grow shop, negozi specializzati nel materiale legato al mondo cannabis. Presto supereremo i 100 punti vendita. Le critiche maggiori che stiamo affrontando per ora non sono di natura etica o politica ma per la presenza del seme nel prodotto: in futuro ci sarà anche una varietà sensimilla, senza semi". La "prima marijuana vendibile" o "erba tisana" come l’ha bucolicamente ribattezzata qualche cliente serve anche "per una alfabetizzazione del fenomeno cannabis, per cominciare anche in Italia a parlarne. Per conoscerne i principi, il fatto che non è un prodotto da fumo, ma ben altro" spiega il parmigiano che con i Radicali sta portando avanti anche corsi di autocoltivazione della cannabis in giro per l’Italia. "In meno di un mese - chiosa Marola - abbiamo ricevuto 25mila mail e avuto 285mila iterazioni sui social. Scambi di opinioni, critiche, persone che si informano sugli effetti (tra i quali miorilassanti, antipsicotici, tranquillanti, antiepilettici, antiossidanti ed antinfiammatori, ndr). Vogliono sapere come viene coltivato il prodotto (senza fertilizzanti) e come ottenerlo. E la cosa curiosa è che non si tratta affatto di ragazzini in cerca di sballo, anche perché non lo dà, ma di una comunità di persone che ha trovato uno spazio dove poter confrontarsi, con clienti che il più delle volte sono over 35". Droghe. Overdose in Europa. Prevenire si può di Susanna Ronconi Il Manifesto, 14 giugno 2017 Le morti per overdose in Europa sono in crescita, del 6%, tra il 2014 e il 2015, secondo il Rapporto 2017 dell’Emcdda (emcdda.europa.eu/publications/edr/trends-developments/2017). Si tratta di 8441 morti: tra il 2010 e il 2012 si era assistito a un decremento generale, considerando tutte le sostanze, poi si verificò una lenta ripresa e dal 2014 un incremento più deciso. Queste morti continuano ad essere dovute per il 79% a overdose da oppiacei, e sempre di oppiacei si parla quando si considera il dato delle morti correlate a metadone, che in paesi come Croazia, Danimarca, Francia e Irlanda avrebbero superato quelle da eroina. Con le dovute cautele - infatti i dati, dice l’istituto europeo, sono da ritenersi "stime che rappresentano un valore provvisorio minimo" a causa dei tanti limiti nelle rilevazioni e ritardi delle segnalazioni dai paesi membri - le cifre parlano di una Unione molto differenziata al proprio interno: alla base del picco ci sono Germania e Regno Unito che insieme concorrono al 46% di questo aumento, accompagnati da Spagna e Lituania. Se i valori assoluti dei singoli paesi implicano una analisi complessa, perché dipendono da molti fattori, a cominciare dalla numerosità della popolazione che consuma sostanze, un quadro più chiaro è fornito dalla stima del tasso di mortalità per overdose: in media in Europa nel 2015 è di 20,3 decessi per milione di abitanti in età tra i 15 e i 64 anni; i paesi con un valore elevato (più di 40 decessi) sono Estonia, Svezia, Norvegia e Irlanda. L’Italia vanta un dato positivo, è tra i paesi che contano meno di 10 decessi per milione di abitanti, con un valore di 7,8, e ciò che più conta con un trend in costante decremento dal 2007. Una buona notizia, che tuttavia non deve far diminuire l’attenzione: e non solo perché anche una morte è troppo, ma perché le variabili che influiscono sull’andamento delle overdose sono mobili e cangianti, dal mercato illegale agli stili di consumo, dalle politiche che incidono sui rischi, massimizzandoli o limitandoli, al sistema dei servizi di riduzione del danno. L’Emcdda si sofferma su questi ultimi, e chiama in causa i sistemi nazionali sotto tre profili: adeguate ed accessibili terapie metadoniche ("il tasso di mortalità tra chi è in trattamento con metadone era pari a meno di un terzo del tasso atteso tra i consumatori di oppiacei non in trattamento"); strutture per il consumo controllato (stanze del consumo), il cui obiettivo è "prevenire i casi di overdose e garantire un’assistenza professionale nel caso in cui si verifichino": oggi sono 78, le più recenti aperture sono avvenute in Francia, Danimarca e Norvegia; e il naloxone distribuito a consumatori e comunità, rapidamente diffusosi negli ultimi anni, oggi presente in dieci paesi europei ("ha dimostrato che la sua fornitura in combinazione con interventi informativi e formativi contribuisce a ridurre le morti per overdose"). Per mantenere e accrescere il nostro primato, abbiamo di fronte tre compiti: migliorare l’accesso e calibrare sugli obiettivi dei consumatori l’offerta di terapie sostitutive; rendere l’offerta di naloxone ai consumatori - pratica su cui l’Italia è stata avanguardia in Europa - un diritto accessibile a tutti sul territorio nazionale, oltre i limiti attuali (come analizzato nella ricerca a cura di Forum Droghe); e sbloccare il sempre più incomprensibile bando politico contro le stanze del consumo, strutture dal 1986 in tanti Paesi europei al servizio della tutela della vita di chi consuma sostanze. In Mozambico tra chi ha paura di Rosario Sardella Il Manifesto, 14 giugno 2017 Nampula. Bambini di strada allo sbando, emergenza sanitaria, i profughi di mezza Africa lasciati alla mercé dei sicari ruandesi e della fame nel campo di Marratane. A 24 anni dagli accordi di pace tra Frelimo e Renamo firmati a Roma, i segni della guerra sembrano indelebili. "Abbiamo paura non solo del ritorno della guerra, ma anche di chi oggi detiene il potere". È una risposta che ricorre spesso, sottovoce o nascosti per timore di essere spiati mentre si parla con un giornalista italiano. Chi ha paura in Mozambico? È la domanda che abbiamo rivolto a ogni persona che abbiamo incontrato. Perché qui la paura si percepisce a ogni angolo, a ogni falsa perquisizione della polizia mozambicana che ti impone l’alt solo per "rubarti" quei 100 meticais da dividere tra i poliziotti. 24 anni dopo l’accordo di pace siglato a Roma nel 1992, che ha concluso la guerra civile in Mozambico tra Frelimo e Renamo, i due principali partiti politici, sono ancora evidenti gli effetti della guerra. Interi quartieri, in questi anni, sono stati costruiti abusivamente ovunque, senza nessun disegno urbanistico. Per lungo tempo il problema di dare un tetto alla popolazione non era la priorità per il governo mozambicano; la priorità era il conflitto. Siamo a Nampula, capoluogo dell’omonimo distretto. Circa 650 mila abitanti ammassati per lo più in baracche disseminate ovunque. Basta uscire delle poche strade che formano il centro, oppure lasciarsi alle spalle l’aeroporto e percorrere un chilometro, per veder finire l’asfalto; solo sabbia e cumuli di immondizia ovunque. Sembra tramontato l’entusiasmo di alcuni anni fa, quando il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), che prese il potere nel 1975 dopo la cacciata dei colonizzatori portoghesi, godeva di un ampio consenso in quasi tutto il Paese. Dall’altra parte non si è mai arreso Afonso Dhlaklama, leader della Resistenza nazionale mozambicana (Renamo). Le elezioni politiche presidenziali le ha sempre perse. L’ultima nel 2014 contro l’attuale presidente Filipe Nyusi. Gli scontri erano ripresi nel 2013: prime incursioni della Renamo nel centro del paese, abusi sessuali e maltrattamenti da parte delle forze armate nella provincia di Tete. Molti mozambicani fuggirono verso il Malawi e il campo profughi di Kapise. "Nel 2013 - afferma Woja Apuuli John, direttore dell’ufficio Unhcr a Nampula - almeno 6 mila mozambicani sono scappati in Malawi, un paese povero colpito da siccità e carestie, che ospita già 25mila profughi provenienti dai Grandi laghi e dal Corno d’Africa". Durante la guerra civile il tessuto sociale del Mozambico è stato distrutto. Un elevato numero di bambini hanno subito traumi, sia perché´ assistevano ad azioni di guerriglia, sia perché, a seguito della morte o della cattura dei genitori si sono ritrovati senza mezzi per vivere. È nato così il fenomeno dei "bambini di strada". Bambini di strada sui marciapiedi di Nampula Artur da undici anni vive sul marciapiede di via A. Eduardo Mondlane, a due passi dal municipio, con altri 12 ragazzi. Alfonso de Lima è un giovane di 30 anni e vive in una discarica, una delle tante della città di Nampula, dove sono pessime le condizioni igieniche sanitarie e i bambini si ammalano di colera. Dopo il tramonto molti si ritrovano ai bordi delle strade, tirano fuori le coperte e i cartoni nascosti sugli alberi e dormono sui marciapiedi. Edagar Castillo è il direttore di Save The Children a Nampula. "Siamo in Mozambico dal 1983. Ci occupiamo di educazione, anche degli insegnanti, e lotta alla malnutrizione cronica. I bambini non arrivano ai 5 anni perché non hanno cibo adeguato. Poi abbiamo un programma nazionale che si chiama "anti traffico" - continua - volto a rafforzare le leggi locali per prevenire o per seguire il traffico dei bambini e dei loro organi. Abbiamo formato i "gruppi referenti" cioè persone della società civile, della polizia, del settore dell’educazione e della salute, che rafforzano il controllo sul territorio". Proprio a Nampula qualche anno fa era stato denunciato un traffico di organi che dal Mozambico raggiungeva il Sudafrica e da lì il Brasile. A far emergere l’orribile crimine era stata una suora della congregazione Serve di Maria: Doraci Julita Edinger, 53 anni, brasiliana. Una sera è stata uccisa a colpi di martello. A 30 km da Nampula si trova il campo profughi di Marratane, l’unico del Mozambico. È nato nel 2001, quando il governo centrale di Maputo ha deciso di trasferire i rifugiati dalla capitale al nord del paese. 10 mila persone, uomini, donne e bambini di varia nazionalità. Congolesi soprattutto, poi burundesi, ruandesi, ugandesi, somali, etiopi. Avrebbe la struttura di un villaggio qualsiasi se non fosse per il grande cartello all’entrata: Centro de refugiados de Maratane. Quello che una volta era un lebbrosario oggi si estende per 170 kmq ed è suddiviso in 4 zone: A, B, C, D. Nella zona A incontriamo Dominique Kahenga Nepanepa, leader della comunità congolese. Da dieci anni vive in una baracca di legno e fango. "Subiamo un trattamento disumano, non abbiamo cure sanitarie adeguate, il cibo è poco e monotono", spiega. Una volta a settimana l’Inar (ente governativo che gestisce il campo) e l’Unhcr distribuiscono il cibo fornito dal World Food Program: 2,7kg di fagioli, 7 di farina di mais, 17g di sale e un litro di olio a persona. A volte olio scaduto da tre mesi, come quello distribuito durante la nostra visita. File e file di persone aspettano di avere la loro razione. Anche Aline è scappata dal Congo con il suo bambino e ha attraversato diversi paesi prima di arrivare in Mozambico. Racconta di essere stata stuprata durante il viaggio. A Marratane si prostituisce per poter dare qualcosa da mangiare al suo bambino. Quasi tutte le donne di Marratane vendono il proprio corpo. Alamtara invece è somalo, piccolino di statura, un viso intriso di paura, ma vuole parlare. Ha una piccola baracca-negozio all’inizio del campo profughi. Musulmano convertito al cristianesimo, ha subito le persecuzioni di al-Shabaab in Somalia e ora anche qui a Marratane. Un giorno mentre dormiva gli hanno spaccato la testa. Per lui vivere è un inferno. C’è solo una scuola ma "non ci sono insegnanti preparati" - dice Pierre Karamanzisa, ex professore di matematica in Ruanda e oggi leader della comunità. C’è una chiesa e ci sono i padri scalabriniani che gestiscono un centro nutrizionale alla meno buona. Un solo ospedale fronteggia i parti delle donne, malattie, i casi di Hiv che i rifugiati contraggono durante il loro viaggio della speranza. "Oggi a Marratane ci sono circa 250 adulti con l’Hiv, e dieci bambini", informa Orlando Simeo Alvis, direttore della struttura sanitaria. Da alcuni anni Henry Nwessa Bgunba, giovane congolese di 32 anni, ha messo in piedi una radio. Si chiama Radio Marratane e trasmette ogni giorno le informazioni che passano nel campo. Il sogno di Henry era quello di diventare un grande giornalista, "ma nel mio paese era impossibile studiare per la guerra. Qui in qualche modo ho realizzato il mio sogno". Pierre Karamanzisa ci invita nella sua baracca per un tè e tira fuori dalla sua cartella dei documenti e delle foto. La storia è questa: un uomo ruandese arriva a Maputo, capitale del Mozambico, e si finge profugo per farsi trasferire a Marratane. Ha dei complici nel campo e riesce tranquillamente a entrare. Pierre con delle ricerche incrociate riesce a scoprire chi è. Recupera addirittura una foto che ritrae l’uomo in tenuta militare con un mitra in mano. Non ci sono dubbi, è una spia. Nel frattempo il ritrovamento di un cadavere scuote i profughi ruandesi. "Il governo ruandese ci vuole morti. Vedi: questa foto ritrae un nostro fratello trovato morto avvelenato. Ci sono stati almeno quattro casi del genere". I fatti risalgono al 2005. I profughi hanno raccolto tanto materiale e scritto anche al governo centrale mozambicano, inutilmente. Secondo il padre scalabriniano Rodenei Serpinski, guida spirituale del campo, "deve muoversi prima di tutto l’Uhncr, che è responsabile dei profughi", dice. L’addetta alla sicurezza di Uhcnr a Marratane è una ragazza di 26 anni, brasiliana. Proviamo a chiamarla e a chiedere informazioni, ma lei dice di apprendere la notizia da noi.