Salviamo la ricchezza di esperienze della Casa di reclusione di Padova Il Mattino di Padova, 12 giugno 2017 Oggi "Lettere dal carcere" non ospita come di consueto interventi, storie, esperienze del mondo complesso e difficile del carcere. Oggi in particolare a Padova, ma non solo a Padova, è in primo piano un accorato appello del vivace mosaico di tutte le realtà che da decenni investono energie e speranze sul cambiamento delle persone che abitano questo mondo, e lo fanno tenendo come faro l’articolo 27 della Costituzione Italiana, che recita: "L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Rieducare attraverso la scuola e la cultura, attraverso il lavoro e la formazione, attraverso l’ascolto, attraverso la riflessione critica sul proprio reato, attraverso il confronto serrato e vivace con il mondo esterno. Pubblichiamo due lettere, una a Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, e una al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Questi i sottoscrittori di entrambe le lettere: Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV), Teatrocarcere Due Palazzi, Associazione di Volontariato Ristretti Orizzonti/Granello di Senape (rassegna stampa e rivista, Tg 2 Palazzi, sportello giuridico, progetto Carcere-Scuola, scuola di scrittura), Work Crossing Coop. Soc. P. A. - Pasticceria "I dolci di Giotto", Giotto Cooperativa Sociale, AltraCittà Cooperativa Sociale, ASD Polisportiva Pallalpiede, Associazione di volontariato Incontrarci, Casa di accoglienza Piccoli Passi, Biblioteca ‘Tommaso Campanellà della Casa di reclusione di Padova, Ass. Coristi per Caso, Coro Due Palazzi in collaborazione con CPIA Padova, Polo Universitario Casa di reclusione di Padova, Insegnanti in carcere presso CPIA Padova (adesioni a titolo personale), Docenti scuola superiore in carcere - Einaudi/Gramsci sez. carceraria (adesioni a titolo personale). Al Garante Nazionale dei detenuti: le ispezioni in corso e il direttore Pirruccio Gentile Garante, siamo le associazioni di Volontariato, le cooperative, la scuola, l’Università, le realtà culturali, sportive, formative che hanno dato vita, in questi anni, a quell’autentico laboratorio di sperimentazione di un carcere rispettoso fino in fondo della Costituzione che era la Casa di reclusione di Padova, "era" perché oggi vediamo messo fortemente a rischio il nostro lavoro di anni, svolto sempre attraverso un confronto aperto e serrato con le Istituzioni. A nessuno di noi piace immaginare un qualche complotto, ed è proprio per una esigenza di chiarezza che le chiediamo di intervenire a Padova e di incontrarci, per ragionare insieme e confrontarci in particolare su queste questioni: * a seguito delle indagini che hanno portato alla luce all’interno della Casa di reclusione dei traffici di droga e cellulari, in cui erano implicati agenti di Polizia penitenziaria (alcuni hanno già patteggiato pene consistenti) e detenuti, il DAP ha predisposto delle ispezioni, che in un secondo momento hanno riguardato anche la chiusura, poi in parte rientrata, delle sezioni di Alta Sicurezza e le declassificazioni di alcuni detenuti da quelle sezioni alle sezioni di media sicurezza. Di quelle ispezioni nessuno di noi conosce gli esiti e le relazioni fatte, ma la stampa locale ne parla ampiamente, non sappiamo in base a quali reali informazioni sulla materia. A questo punto, ci sembrerebbe corretto esserne messi a conoscenza, visto che alcune nostre significative realtà sono state coinvolte in maniera strumentale in vicende, al centro delle ispezioni stesse; * a seguito di queste vicende, ci è stato comunicato che il direttore della Casa di reclusione, Salvatore Pirruccio, era stato "promosso" al Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, salvo poi scoprire che è anche indagato, in base, pare, agli esiti di quelle ispezioni; * nessuno, al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha pensato almeno a fare un comunicato stampa dove si ristabilisse un po’ di verità sulle declassificazioni, e prima di tutto il fatto che NESSUN DIRETTORE PUO’ DECLASSIFICARE NESSUNO, perché le declassificazioni da un circuito a un altro sono di esclusiva competenza del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nell’invitarla a venire al più presto a Padova, le ricordiamo che Padova ha una ricchezza di esperienze nell’ambito della rieducazione e del recupero delle persone detenute davvero straordinaria. La nostra preoccupazione è dettata anche dal fatto che queste esperienze sono nate realmente dal basso, dal nostro impegno e dalla risposta positiva data dall’Amministrazione, ora temiamo che non vengano sufficientemente tutelate e che vengano fatte morire, perché costituiscono, in un certo senso, un monito: servono a ricordare a tutti che, con un unico Ordinamento penitenziario, si può gestire un carcere progettando davvero il cambiamento o invece arroccandosi nella difesa di un passato, che, come ricorda sempre l’attuale ministro della Giustizia, ha fruttato il 70% di recidiva. Nella speranza che possa accogliere al più presto al nostra richiesta, le porgiamo i nostri saluti. Al Ministro della Giustizia. "Siamo sotto attacco, non ci lasci soli" Gentile Sig. Ministro della Giustizia Andrea Orlando, Le scriviamo poche righe in quanto Lei conosce bene quello che seriamente ci preoccupa. Conosce bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’ordinamento ed il regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l’umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Conosce altrettanto bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Tutte le realtà che a vario titolo svolgono tantissime iniziative all’interno del carcere, e nell’accompagnamento all’esterno (associazioni di Volontariato, cooperative, la scuola in tutti i suoi livelli, l’Università, le realtà culturali, sportive, ricreative, formative e il lavoro) Le esprimono oggi tutta la preoccupazione per l’attacco gratuito a cui sono quotidianamente sottoposte. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupa moltissimo. La nostra preoccupazione non è legata al fatto di voler continuare a svolgere a tutti i costi quello che da tanti anni molti di noi svolgono. Se alcune cose oggi non servono più o si devono cambiare è giusto che sia così, ma tutto questo nel massimo della trasparenza, della correttezza e nel dialogo. Quello che ci preoccupa è che ad essere attaccato è il sistema carcere Padova nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara, incomprensibile.  In primis il suo ex direttore (da alcuni mesi assegnato al Provveditorato a svolgere le funzioni di vicario) oggetto di un attacco che ha come unico effetto quello di incrementare una sfiducia da parte di tutte quelle persone ed istituzioni locali, italiane ed estere, che in questi decenni hanno avuto modo di visitare e vedere con i propri occhi che cosa produce una vera assunzione di responsabilità nel solco delle normative italiane ed europee. Ma la stessa cosa vale nei confronti di tutte le realtà sia del privato sociale che istituzionali che da lunghi anni operano nel carcere di Padova e molte delle quali a titolo volontario! Non fa bene allo Stato ed ai suoi cittadini incrementare una sfiducia, già alta, nelle istituzioni ed in chi le rappresenta. Se servitori dello stato (dirigenti pubblici, singoli cittadini o gruppi di cittadini che si uniscono per aiutare a risolvere problemi che riguardano tutti) vengono trattati come stiamo assistendo in queste settimane, anche i migliori, i più sani si demoralizzano. Non è un bello spettacolo da vedere. Quando si fa si può sbagliare, e l’errore (se non è in mala fede) è la cosa più preziosa che abbiamo per crescere, per migliorarci, per sperimentare, creare, introdurre cose via via sempre migliori. In carcere ci sono persone da valorizzare e non da massacrare. Queste sono persone tuttalpiù da aiutare a cambiare, e non da denigrare. Si è pagati per risolvere i problemi non per crearli. Qualsiasi azienda, privata o pubblica, che trattasse così le persone avrebbe una vita breve.  Signor Ministro ci affidiamo a Lei perché vigili attentamente su questa situazione tanto complessa quanto delicata. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera (ogni anno migliaia di persone, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere entrano in carcere) che in 30 anni ha conosciuto in ogni particolare tutte le attività del suo carcere - attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale - sta a guardare. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico. Signor Ministro non ci lasci soli. "Torna il sovraffollamento in cella". Appello al ministro Orlando dai volontari del carcere di Luca Liverani Avvenire, 12 giugno 2017 Firmato il protocollo tra la Cnvg e il Dipartimento giustizia minorile. Dopo tanti sforzi, lo spettro del sovraffollamento nelle carceri torna a riaffacciarsi. La capienza regolamentare di 50.069 posti è stata abbondantemente superata coi 56.863 detenuti presenti al 31 maggio 2017. Quasi tremila in più di un anno fa. Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia (Cnvg) lancia l’allarme alla X Assemblea nazionale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando invia una nota per sottolineare "il riconoscimento politico del valore e dell’esperienza del volontariato". Un patto ribadito con la firma di un nuovo protocollo d’intesa tra la Cnvg e il Dipartimento di Giustizia minorile e comunità. Nel teatro del carcere di Rebibbia la presidente della Cnvg - più di 150 organizzazioni con 10 mila volontari in 150 carceri - avverte che "il numero dei detenuti sta pericolosamente risalendo. Alcune misure per decongestionare le celle hanno esaurito l’effetto, come la detenzione domiciliare speciale per i residui di pena o la liberazione anticipata speciale". Ma Favero registra anche "un cambiamento nell’opinione pubblica, dopo l’attenzione degli Stati generali, che avevano prodotto un confronto di grande qualità. Il processo di apertura si sta inceppando e la società torna a puntare il dito contro volontari e magistrati di sorveglianza". Al fondo c’è "la fiducia sconfinata nel carcere", assolutamente malriposta "se il 70% di chi sconta tutta la pena in cella torna a delinquere. Più carcere non crea più sicurezza, ma è vero il contrario. Chi esce a fine pena - dice Ornella Favero - è come il sub che riemerge di colpo senza fare la decompressione. E scoppia". L’alto tasso di recidiva dunque "è un fallimento della pena che, dice la Costituzione, deve tendere alla rieducazione. Non solo è umano e doveroso, dunque, ma anche conveniente "l’accompagnamento a fine pena attraverso le misure alternative". Perché per il volontariato "nessuna persona è irrecuperabile". Al Guardasigilli, che all’ultimo momento non ha potuto partecipare all’assemblea, la Cnvg chiede di "rimuovere gli ostacoli che impediscono a migliaia di detenuti di accedere alle misure alternative", di cancellare dalla detenzione "ogni caratteristica di infantilizzazione" che costringe a "convivere con conflitti e punizioni", ad "ampliare i momenti dedicati agli affetti, per le famiglie una boccata di ossigeno". L’assemblea è anche l’occasione per premiare le studentesse che coi loro temi hanno vinto il concorso "A scuola di libertà". A premiarle, lo scrittore Edoardo Albinati, insegnante a Rebibbia da più di vent’anni. La svolta dell’Anm: chi entra in politica dica addio alla toga di Francesco Grignetti La Stampa, 12 giugno 2017 Impedire a un magistrato di entrare in politica, non si può. Sarebbe incostituzionale negargli il diritto di candidarsi. Ma nemmeno si può sottovalutare l’impressione di tanti cittadini che ci sia commistione tra i due poteri. Urge alzare una barriera. E a dirlo è l’associazione nazionale magistrati, sotto la presidenza di Eugenio Albamonte, che richiede al Parlamento una soluzione draconiana, ovvero impedire il ritorno alla toga del magistrati prestato alla politica, lunga o corta che sia stata l’esperienza alle Camere o al governo. Lo si mandi a una funzione di dirigente, come già accade con i magistrati distaccati al ministero della Giustizia. C’è in discussione un ddl che irrigidisce i paletti di entrata e uscita dalla politica. Ma all’Anni non sembra sufficiente. "Le previsioni relative ai magistrati che abbiano svolto il mandato elettorale e quelli che abbiano svolto incarichi di governo nazionale o locale scrivono - non appaiono soddisfacenti". Il punto è che la porta girevole tra aula di giustizia e aula parlamentare (ma anche di consiglio regionale o comunale) non dispiace affatto ai partiti, che possono fregiarsi di candidati di prestigio, ma sono vissuti sempre peggio dai magistrati in servizio. Di qui la richiesta di sbarrarla, quella porta girevole. "L’imparzialità e la terzietà della Magistratura - scrive dunque l’Anm - possono essere garantite solo attraverso il collocamento definitivo del magistrato fuori dall’esercizio della giurisdizione, con funzioni amministrative non dirigenziali". Su questa impostazione dura e pura, l’Anm ha incassato una quasi unanimità del suo vertice. D’accordo l’ex presidente, Piercamillo Davigo: "La questione è oggetto di continue aggressione alla magistratura, proprio dalla politica che li ha candidati. L’Anm farebbe bene intanto a esortare i magistrati che si astenessero dalla partecipazione". E così l’ex segretario Francesco Minisci: "Dobbiamo evitare qualsiasi dubbio, anche in astratto. E ci crediamo cosi tanto da ritenere di poter rendere irreversibile la scelta". L’Anm si è ritrovata unita anche nel criticare aspramente l’iniziativa dell’Unione camere penali per la separazione delle carriere. "Segregare istituzionalmente la magistratura inquirente rispetto a quella giudicante vuole dire, portarla, in modo inevitabile, alle dipendenze dalla politica, come era nel periodo fascista". In chat privata o social network non c’è istigazione a delinquere di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 15 maggio 2017 n. 24103. Ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’articolo 414 del Cp non rileva la tipologia dei reati in relazione ai quali si esplica l’attività comunicativa, ma le modalità con cui la comunicazione viene esternata, che devono possedere connotazioni di potenzialità diffusiva, conseguenti al fatto di essere destinate a un numero indeterminato di soggetti e comunque non riconducibili a un ambito strettamente interpersonale. Lo ha chiarito la Cassazione penale con la sentenza n. 24103 del 15 maggio 2017. Ne consegue che non è integrato il reato nel caso in cui la diffusione sia circoscritta in ambito esclusivamente privato e interpersonale, come nel caso di conversazioni o chat private di un social network. Per converso, il reato è configurabile nel caso della diffusione di un messaggio o documento apologetico attraverso il suo inserimento su un sito internet privo di vincoli di accesso, in quanto tale modalità ha una potenzialità diffusiva indefinita (fattispecie in cui il reato è stato escluso relativamente a comunicazioni telematiche meramente private, mentre lo si è ritenuto come di possibile integrazione relativamente a videoregistrazioni di contenuto apologetico dell’Isis e del terrorismo di matrice islamica diffuse tramite Facebook). Sulla questione, va anzi considerato, con valutazione assorbente, che la recente legge 17 aprile 2015 n. 43, di conversione del decreto legge 18 febbraio 2015 n. 7, diretto a rafforzare gli strumenti di lotta contro i fenomeni di terrorismo internazionale, ha innovato il disposto dell’articolo 414, commi 3 e 4, del Cp, prevedendosi un aggravamento di pena allorquando i fatti risultino commessi attraverso strumenti telematici e informatici, in ragione della particolare diffusività (e conseguente insidiosità) di tali mezzi. In linea con quanto qui sostenuto dalla Cassazione sulla diffusività del messaggio apologetico, si è già affermato anche di recente che è ravvisabile la natura pubblica dell’apologia nel caso di documenti diffusi su siti internet liberamente accessibili. Infatti, l’articolo 266, comma 4, del Cp definisce il reato avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso "col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda" ed è evidente che un sito internet a libero accesso ha una potenzialità diffusiva indefinita, tanto da poter essere equiparato alla stampa (sezione I, 6 ottobre 2015, Halili). Quanto poi alle caratteristiche della condotta punibile, va ricordato che, in linea con quanto affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 65 del 1970), per la punibilità dell’apologia occorre che questa, per le modalità con cui viene realizzata, integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero. Per l’effetto, per l’integrazione del reato di apologia, ma anche del reato di istigazione per delinquere, non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della consumazione di altri reati e, specificamente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato. In ogni caso, l’accertamento del pericolo concreto di commissione di delitti in conseguenza dell’apologia o dell’istigazione è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato (ancora sezione I, 6 ottobre 2015, Halili: nella specie, nell’ambito di una vicenda cautelare, il reato di apologia di cui all’articolo 414, comma 4, del Cp, aggravato dalla finalità di terrorismo ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625, convertito dalla legge 6 febbraio 1980 n. 15, era stato contestato a un indagato cui si addebitava di avere fatto apologia dello Stato islamico, associazione con finalità di terrorismo internazionale, pubblicamente e, in particolare, mediante la diffusione sulla rete internet di documenti in parte provenienti dalla stessa organizzazione terroristica e in parte redatti dallo stesso indagato, che, secondo la contestazione, avevano il fine di convincere il lettore che l’adesione allo Stato islamico doveva ritenersi la sola scelta corretta, anche sotto il profilo religioso; la Corte ha ritenuto corretta e congruamente motivata la decisione del giudice cautelare che aveva ravvisata la sussistenza del reato, escludendo si fosse trattato di documenti diffusi solo per sollecitare un’adesione solo "ideologica" dei potenziali lettori allo Stato islamico, ma anzi valorizzando, in fatto, che i documenti rappresentavano l’adesione all’esecuzione di atti di terrorismo e l’esaltazione della diffusione ed espansione dell’organizzazione, anche con l’uso delle armi). Rubare merce di una farmacia esposta in vetrina non fa scattare il reato più grave di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 5 maggio 2017 n. 21865. Al fine d’individuare il discrimine tra la più grave fattispecie incriminatrice prevista dall’articolo 624-bis del Cpe quella di cui all’articolo 624 del Cpoccorre accertare se il luogo in cui è stato perpetrato il furto avesse, per sua struttura o per l’uso che se ne faccia in concreto, una destinazione legata e riservata all’esplicazione di attività proprie della vita privata della persona offesa, ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari (la nozione di privata dimora è più ampia e comprensiva di quella di abitazione), ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale, politica. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 21865 del 5 maggio scorso. Deve cioè trattarsi di luoghi deputati allo svolgimento di attività che richiedano una qualche apprezzabile permanenza, ancorché transitoria e contingente, della persona offesa, per talune di dette finalità, con esclusione quindi dei luoghi di pubblico accesso. Ne deriva che, nel caso di furto realizzato all’interno di una farmacia, il reato previsto dall’articolo 624-bis del Cpè ravvisabile soltanto quando l’introduzione clandestina avvenga nelle aree assolutamente interdette al pubblico (dove sono stivate le scorte di medicinali) o nei locali (spogliatoi, armadietti, servizi igienici) riservati al titolare e ai dipendenti in cui questi, durante i turni di lavoro, ma anche quando non sono in servizio, ripongono e custodiscono effetti personali. La norma incriminatrice, invece, non è applicabile nel caso di furto di merce (nella specie, di prodotti cosmetici) esposta nel locale della farmacia destinata alla vendita. In termini, si sono pronunciate le sezioni Unite (sentenza 23 marzo 2017, D’Amico), che, affrontando la questione se rientra nella nozione di privata dimora, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 624-bis del Cp, il luogo dove si esercita un’attività commerciale o imprenditoriale (nella specie, si trattava di un ristorante), hanno fornito risposta negativa, salvo che il fatto non sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Al riguardo, precisandosi che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare. Con riguardo poi, specificamente all’ipotesi di furto all’interno di una farmacia, in linea con la pronuncia qui pubblicata, si è conformemente affermato che integra il reato di furto in privata dimora la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di una farmacia soltanto quando l’introduzione clandestina avvenga nelle parti dell’immobile destinati, per l’uso che in concreto ne è fatto, a privata dimora, vale a dire quale luogo non pubblico in cui le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti di vita privata ancorché non necessariamente coincidenti con quelle propriamente domestiche o familiari ma identificabili anche con attività produttiva, professionale, culturale o politica (sezione IV, 13 novembre 2014, Iorio e altro). Peculato d’uso, l’utilizzo privato di internet o di telefono concessi per ragioni di servizio Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2017 Reato - Reati contro la Pubblica Amministrazione - Utilizzo indebito del cellulare o della connessione Internet - Peculato d’uso - Condizione di un danno economico alla P.A. - Necessità - Tipo di connessione/ tariffa con gestore - Rilevanza. In tema di peculato d’uso, con riferimento alla questione dell’utilizzo da parte del dipendente pubblico di Internet per finalità non istituzionali mediante il computer dell’ufficio o mediante il telefono cellulare concesso in uso per ragioni di servizio, è necessario verificare il tipo di convenzione che lega l’ente al gestore del servizio di Internet e, segnatamente, se l’ente paghi una somma forfettaria al mese (c.d. tariffa flat), per cui sia economicamente indifferente il numero e la durata delle connessioni ad Internet eseguite dall’ufficio (e non vi sia danno economico anche a fronte di connessioni illegittime), o, se, di contro, l’ente paghi il corrispettivo in funzione della durata delle singole connessioni (c.d. tariffa bundle, cioè a consumo). In quest’ultimo caso la condotta illegittima del dipendente provoca un immediato danno patrimoniale all’ente ed è dunque penalmente rilevante. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 25 maggio 2017 n. 26297. Reato - Reati contro la Pubblica Amministrazione - Utilizzo indebito del cellulare dell’ufficio - Peculato d’uso - Condizione di un danno patrimoniale o funzionale alla P.A. - Necessità. In tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi di urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni integra gli estremi del reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio dell’amministrazione o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio. La condotta è invece penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente o funzionalmente significative. [Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il peculato d’uso in capo al vicesindaco che utilizzava il cellulare del comune con numerose connessioni via internet, wap, chiamate dall’estero e altri servizi estranei alle funzioni, per un costo complessivo pari a circa 11.00 euro nell’arco di un biennio]. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 4 dicembre 2014 n. 50944. Reato - Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitto di peculato d’uso - Possesso per ragioni di ufficio di cellulare - Uso per fini personali - Riconducibilità - Offensività del fatto - Necessità. È sussumibile nel delitto di peculato d’uso di cui all’articolo 314 c.p. comma 2, la condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio. Con tale condotta, infatti, il soggetto distoglie il bene fisico (il telefono), di cui è in possesso per ragioni d’ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo del relativo uso, per restituirlo, alla cessazione di questo, alla destinazione originaria. Mentre rimane irrilevante la circostanza che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della p.a. Tuttavia il raggiungimento della soglia della rilevanza penale presuppone comunque l’offensività del fatto, che, nel caso del peculato d’uso, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell’ufficio. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 2 maggio 2013 n. 19054. Reato - Reati contro la Pubblica Amministrazione - Accesso ad Internet dal computer dell’ufficio a scopi privati - Rilevanza penale - Abbonamento a costo fisso - Esclusione. Non integra né il delitto di peculato, né quello di abuso di atti di ufficio la condotta del pubblico funzionario che utilizzi per ragioni personali l’accesso ad Internet dal computer di ufficio, qualora, per il suo esercizio, la Pubblica Amministrazione abbia contratto un abbonamento a costo fisso. • Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 19 ottobre 2010 n. 41709. Reggio Calabria: "Carovana per la giustizia", raccolte 420 firme Corriere della Calabria, 12 giugno 2017 Iniziativa promossa dal Partito Radicale e dall’Unione delle Camere penali italiane nell’ambito della campagna per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Sono in tutto 420 le firme raccolte a Reggio Calabria e in provincia dalla "Carovana per la giustizia" promossa dal Partito Radicale e dall’Unione delle Camere penali italiane nell’ambito della campagna per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. "Dopo l’appuntamento di ieri nella Casa circondariale Giuseppe Panzera dove sono state raccolte 217 firme di detenuti sui 220 reclusi nella struttura - è scritto in un comunicato - altre 53 sottoscrizioni sono state ottenute in Consiglio regionale in occasione di un convegno sul tema "Comuni sciolti per mafia: uno strumento di contrasto alla criminalità organizzata? Revisione e nuove misure volte a ricreare fiducia nello Stato di diritto" a cui ha partecipato anche Rita Bernardini e nel corso del quale sono state raccolte anche cinque iscrizioni al Partito Radicale: Mimmo Cangemi, Pierpaolo e Saverio Zavettieri, Saverio Micheletta e Bernardo Femia. La carovana ha fatto poi tappa a Melito Porto Salvo dove anche il sindaco Giuseppe Salvatore Meduri ha sottoscritto la proposta portando il risultato finale a 150 firme". Novara: detenuti e disoccupati rimettono a nuovo il parco di via Tazzoli novaratoday.it, 12 giugno 2017 L’intervento è stato svolto nell’ambito delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale. I detenuti del carcere di via Sforzesca di nuovo al lavoro per ripulire e sistemare le aree verdi cittadine. L’ultimo intervento in ordine di tempo è stato svolto, in collaborazione con i disoccupati impiegati da Assa come "cantieristi", martedì 6 giugno a San Rocco. I lavori hanno interessato il verde e gli arredi del parco pubblico di via Tazzoli. L’intervento rientra nell’ambito delle Giornate di recupero del patrimonio ambientale e ha visto operativi nove detenuti e sei "cantieristi" coordinati dal personale Assa. L’intervento è iniziato con l’eliminazione delle staccionate pericolose, cementando e ripristinando quelle recuperabili. È stata quindi effettuata la spalcatura, particolarmente lato strada, togliendo l’ingente quantità di rami secchi e sistemando la vegetazione troppo cresciuta e da tempo non controllata. Si è provveduto poi alla rimozione del fogliame sedimentato e marcescente, soprattutto nei pressi della fermata del pullman, nei vialetti e lungo i marciapiedi ed è iniziato il lavoro di eliminazione di rami e piante morte presenti in tutta l’area. È stata inoltre ripristinata la cartellonistica verticale del parco e sono state rimosse le assi danneggiate e scheggiate delle panchine. Lungo i vialetti sono stati sistemati alcuni pozzetti dell’acqua e dell’illuminazione: le caditoie perimetrali e tutta la regimazione delle acque erano già state oggetto di interventi specifici condotti nelle settimane precedenti dai "cantieristi", che durante l’intervento di martedì hanno invece provveduto con l’idro-pulitrice alla rimozione dei graffiti più recenti dalle pensiline Sun. Napoli: al premio "Una città che scrive", tra i vincitori un detenuto ottopagine.it, 12 giugno 2017 Al premio letterario "Una città che scrive" vince Giovanni Gallo, detenuto nella casa circondariale di Secondigliano. Una poesia straordinaria che è valsa il terzo posto nella sezione poesie inedite. Un premio in denaro e la pubblicazione nell’antologia "Una città che scrive, una città che rinasce". Il premio è stato ritirato, nella serata del 27 maggio, da Samuele Ciambriello, giornalista e docente, promotore dell’iniziativa "Lettura libera" nei carceri napoletani con l’associazione "La Mansarda". Ecco la poesia premiata: "Il mio sogno" Questa notte ti ho sognata, eri più bella che mai. Eri lì seduta, in riva al mare i tuoi capelli ondeggiavano nell’aria. Io ero lì, accanto a te. Le mie mani sfioravano il tuo bel viso. Ad un tratto i nostri sguardi si sono rivolti al cielo, con tante piccole stelle. Fra queste la più bella sei sempre tu Ti amo, orizzonte di Libertà. Giovanni Gallo Una vera e propria dichiarazione d’amore alla libertà. Abbiamo raggiunto Giovanni Nappi, fondatore del Premio Letterario "Una città che scrive" e attuale Presidente del Consiglio Comunale di Casalnuovo di Napoli, per chiedergli il perché della scelta: "La mission del nostro concorso è stata, sin dalla sua nascita, quella di mettere in evidenza la forza della scrittura. La scrittura come riscatto sociale, personale o collettivo. Vince il detenuto, così come ha vinto Michelangelo, un ragazzo dislessico, e così come hanno vinto i nostri amici di Visso, abitanti nelle zone colpite dall’ultimo terremoto". A Nappi chiediamo pure quando partirà il nuovo bando: "Credo a settembre, con alcune novità e con la solita voglia di girare l’Italia e non solo, per far crescere sempre più questa comunità che scrive". Foggia: "Lib(e)ri dentro",Burhan Sönmez ha raccontato "Istanbul, Istanbul" ai detenuti Ristretti Orizzonti, 12 giugno 2017 Il Presidente del Csv Foggia, Aldo Bruno: "Prosegue il nostro impegno nella promozione del volontariato in ambito penitenziario". Quattro persone, una cella, la condivisione del dolore e delle storie, "perché il racconto - come quello che le mamme fanno ai propri bambini - ha il potere di far trascorrere bene il tempo e preparare al futuro". Lo scorso 9 giugno, lo scrittore turco Burhan Sönmez ha raccontato così il suo "Istanbul, Istanbul" ai detenuti della Casa Circondariale di Foggia. L’evento, organizzato nell’ambito della rassegna "Lib(e)ri dentro", nata da una costola del progetto "Innocenti Evasioni" dell’Ass. Centro Studi Diomede di Castelluccio dei Sauri, è stata realizzato dall’Ass. Leggo QuIndi Sono e dalla libreria Ubik, con la collaborazione del Csv Foggia e il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. Esiliato dalla Turchia, suo paese, torturato, in pericolo di vita, Burhan Sönmez è stato curato in Inghilterra, con il sostegno della Fondazione Freedom from Torture, dove ha trovato lo slancio giusto per intraprendere la sua carriera di scrittore impegnato. "Istanbul, Istanbul", pubblicato da Nottetempo e tradotto in oltre venti lingue, raccoglie l’eco delle sue esperienze di vita ma anche la forza della sua scrittura. "I protagonisti del libro - ha raccontato Sönmez conversando con Salvatore D’Alessio, tradotto dell’interprete volontario Niels Arialdo Weese - trascorrono il tempo della loro segregazione raccontandosi storie ed è così che, in una narrazione corale, svelano il filo che li lega e il motivo per cui si trovano imprigionati: nella Istanbul sopra la cella, quella che vive e brulica tra bellezza e orrore, qualcosa sta per accadere, un cambiamento, una rivoluzione". Numerose le domande dei detenuti del carcere di Foggia, soprattutto sull’esperienza personale dello scrittore, che ha portato loro, definiti "prigionieri del destino", i saluti di un suo amico, scarcerato da poche ore, dopo una detenzione per motivi politici. "Sono stato in prigione due volte - ha raccontato -, una terza volta hanno cercato di assassinarmi. Si fanno molte torture nelle prigioni turche, quella più diffusa prevede una crocifissione come Gesù: si riesce a restare coscienti per non più di 15 minuti". Alla domanda sul motivo per cui Erdogan abbia ancora molto potere, Sönmez ha risposto in maniera chiara e sintetica. "Lui controlla il 90% dei giornali turchi, mentre io - insieme ai miei colleghi - resistiamo nell’altro 10%. È ancora efficace perché usa il linguaggio musulmano, ha messo suoi uomini in tutte le posizioni di potere strategiche ed è supportato dai leader delle altre nazioni. Io però in Turchia ci sono tornato, perché ho la speranza che tutto possa tornare alla normalità". Lunghi applausi dalla platea, interessata a leggere il libro, distribuito in più copie all’interno dell’istituto. "Prosegue il nostro impegno nella promozione del volontariato in ambito penitenziario. Le associazioni - sottolinea il Presidente del Csv Foggia, Aldo Bruno - mostrano un nuovo interesse e sono pronte a misurarsi in questo settore, ancora nuovo per il nostro territorio. Nei giorni scorsi abbiamo accompagnato in carcere l’Ass. Superamento Handicap San Severo, che sta realizzando un progetto di pittura e di lotta al pregiudizio in una delle Sezioni dell’Istituto e altre associazioni sono già pronte a dare il proprio contributo. Continueremo su questa strada, consapevoli dell’importanza del contributo dell’associazionismo in questo campo". Ascoli Piceno: palco e cinema uniti per cercare la libertà di Alessandro Zaccuri Avvenire, 12 giugno 2017 Altro non sono gli altri: siamo noi, è ciascuno di noi. Padre Ignazio De Francesco se n’è reso conto durante il colloquio con una detenuta della Dozza, il carcere bolognese nel quale il monaco della Famiglia dell’Annunziata opera dal 2009. Leila - così si chiama la donna - non voleva più parlare con lui, perché si sentiva ingannata: padre Ignazio si esprime in un arabo perfetto, indossa un abito che può sembrare di foggia orientale, eppure non è un "fratello", non è un musulmano. È l’Altro, come decide di riferirsi a se stesso in Leila della Tempesta, il libro edito da Zikkaron (zikkaron.com) che racconta questa e altre esperienze di dialogo con i detenuti e che ora è all’origine dell’omonimo spettacolo presentato in anteprima ad Ascoli Piceno nell’ambito della quinta edizione dei Teatri del Sacro. "Il carcere - spiega con la consueta dolcezza il monaco nel corso del dibattito moderato da Arianna Prevedello - è oggi uno dei punti di maggior trasformazione sociale. Vedete, in Italia solo l’8% della popolazione è composta da stranieri, mentre in prigione questa percentuale supera il 30%. Se si vuol capire come sarà l’Italia di domani, è da qui che occorre partire: da questo luogo che è insieme il più nascosto e il più cosmopolita". Al suo fianco, sul palco del Nuovo Cinemateatro Piceno, Abd Al-Samad Bannaq annuisce con convinzione. Il giovane marocchino è il protagonista di Dustur, il documentario sul prodigioso esperimento della Dozza realizzato da Marco Santarelli. "Dustur in arabo significa "costituzione" - spiega ancora padre Ignazio, che per dodici anni ha vissuto in Medio Oriente per approfondire i suoi studi sull’islam. In prigione ci sono persone che vengono dalla Tunisia o dal Marocco e che non hanno mai visto la carta fondamentale del proprio Paese. Durante i nostri incontri studiamo insieme quei testi, li confrontiamo con la Costituzione italiana, proviamo a stendere una nuova, che metta in comune i desideri e le aspettative di tutti. Non sempre è sempre facile, ma alla fine ciascuno impara qualcosa dagli altri". Dustur è uno dei film in cartellone nella micro-rassegna cinematografica che in questi giorni si intreccia al programma degli spettacoli teatrali. L’iniziativa rientra nelle proposte di "Sdc Days", le giornate nazionali delle sale della comunità che da quest’anno integrano le manifestazioni dei Teatri del Sacro, in un’alternanza di linguaggi molto apprezzata dai partecipanti alla manifestazione. Si tratta, in fondo, dello stesso rapporto che lega Durfur a Leila della Tempesta, in una combinazione felicissima così sintetizzata dallo stesso padre Ignazio: "Il film mostra quello che accade in classe alla Dozza, lo spettacolo indaga sull’aspetto più intimo, quello dell’incontro personale". Nell’adattamento firmato da Alessandro Berti si fronteggiano due attori: Berti stesso, che interpreta l’Altro, e Sara Cianfriglia, che dà voce alla ribellione e alla tenerezza di Leila, sbarcata a Lampedusa dalla Tunisia, accolta per qualche tempo in una famiglia siciliana, caduta infine nella rete dei moderni saalik, i predoni. Non è uno scambio immediato, e non soltanto perché Leila è una donna di molte contraddizioni, quasi femminista nella volontà di affermare se stessa e intanto inflessibile nel rispetto delle tradizioni. Quando un giovane volontario italiano la vuole sposare, lei rifiuta, perché non vuole unirsi a un non musulmano. Il suo nome, Leila, vuol dire "notte" e conserva il segreto della sua nascita, rimandando al legame inevitabile e terribile con la madre. È un susseguirsi continuo di sfumature, confessioni e pentimenti, restituito da Sara Cianfriglia con un’immedesimazione sempre vigile e commovente, alla quale fa da controcanto il sofferto autocontrollo di Alessandro Berti nel ruolo dell’Altro, in un perfetto equilibrio di forte resa poetica. "Il teatro - osserva il teologo Piero Stefani - è una buona metafora per accostarsi alle tematiche del dialogo interreligioso, perché in molti casi si ha la sensazione che i rappresentanti delle varie confessioni recitino una parte assegnata. Ribadire i princìpi basilari ha una sua utilità, non si discute, ma quello di cui abbiamo bisogno sono personaggi autentici, che ci aiutino a comprendere qual è la vera natura del problema. Prendiamo il nodo della libertà religiosa. Dal punto di vista giuridico è il valore primario, sancito dalle Costituzioni occidentali. Ma come regolarsi con i credenti per i quali, al contrario, la propria religione ha più importanza della libertà assegnata agli altri?". Sono gli stessi interrogativi che si ripetono in Dustur, dove il racconto del lavoro svolto con i detenuti va di pari passo con quello della quotidianità di Abd Al-Samad Bannaq, che alla Dozza era entrato nel 2010 e che ora, tornato in libertà, è a un passo dalla laurea in giurisprudenza. Nella Costituzione che vorrebbe scrivere lui, i diritti irrinunciabili sono quelli al lavoro e all’istruzione. "E pensare che il primo libro che ho avuto tra le mani l’ho distrutto per farmi le sigarette", ricorda evocando l’incontro con Pier Cesare Bori, il grande studioso delle religioni morto nel 2012. Fu lui ad avviare il percorso di educazione in carcere ora proseguito da padre Ignazio con l’aiuto di molti amici, dall’arabista Paolo Branca al costituzionalista Valerio Onida. "Quello che non riuscivo a capire quando Bori insisteva per coinvolgermi nelle sue lezioni - ammette Samad - era che qualcuno potesse fare qualcosa per me senza chiedermi qualcosa in cambio. Venivo dal mondo della criminalità, dove nessuno fa niente per niente. In carcere ho scoperto un’umanità che non conoscevo". A volte, bisogna farsi guidare dall’Altro per diventare se stessi. Vibo Valentia: teatro oltre le barriere, gli studenti portano la commedia in carcere zoom24.it, 12 giugno 2017 In scena nel penitenziario di Vibo Valentia la Lisistrata di Aristofane grazie ad un esperimento innovativo voluto dal dirigente scolastico e dai suoi collaboratori. La scuola fuori delle aule, l’apprendimento e la cultura al servizio della società, in nome di quel "service learning" che altrimenti rimarrebbe uno slogan vuoto. In cattedra salgono gli studenti che da veri e propri attori in erba si cimentano nella rappresentazione della Lisistrata di Aristofane. E lo fanno in nome di una tradizione consolidata al liceo classico M. Morelli, a cui viene apportata, per la prima volta, un’innovazione profonda, grazie ad un’idea messa in campo dalla prof.ssa Maria Giuseppina Marino e attuata dalla prof. Federica Geraci, sulle note della band del liceo artistico guidata da Franco Pontoriero. Una novità sostanziale - sia chiaro - e non formale perché quando si alza il sipario dinanzi a loro, gli studenti del laboratorio teatrale - con la regia di Alessandra D’Ambrosio - non trovano il consueto pubblico ad applaudire. Gli spettatori sono circa 200 detenuti delle carceri di località Castelluccio. Le protagoniste. Prontamente, sulla scena irrompe nei panni della protagonista, Lisistrata, un’imponente Lorenza Sgrò. Al suo fianco altre figure, interpretate dalle studentesse Fatima Malara, Sara Stuppia, Giorgia Russo, Elsa Scuticchio, Ludovica Di Fede, Maria Josè Rottura che non esitano a fronteggiare gli uomini - decisi a proseguire la Guerra del Peloponneso - dichiarando lo sciopero del sesso. E i mariti, con gli allievi Davide Forte, Michele Scarcella e Domenico Columbro a fare la parte del leone su tutti gli altri, provano inutilmente a dissuaderle, fino a cedere al desiderio femminile di pace. I detenuti osservano l’incedere dei giovani attori, colpiti dall’anelito verso la liberazione da una condizione miserevole che richiama da vicino quelle privazioni avvertite in carcere più che altrove. E per un’ora abbondante "la cultura e la lettura - come sottolinea il direttore Mario Galati - divengono strumento di libertà". La rappresentazione in anteprima di una Commedia ambientata in Grecia oltre 2400 anni, sebbene attualissima, diviene la sintesi di un percorso attraverso il quale la scuola annulla le distanze e facilita la rieducazione a 360 gradi. Non a caso gli sguardi dei detenuti si incrociano con quelli degli allievi in un feedback che emozionerebbe anche i duri di cuore. Il dirigente. "Questo - ha evidenzia il dirigente scolastico Raffaele Suppa - è un momento di festa e di condivisione utile a creare un interscambio culturale e sociale tra le comunità e le istituzioni. Perché è con la cultura che si combatte la violenza". Una festa coronata dalla consegna da parte del preside e della responsabile della biblioteca Titti Preta, di ben 168 volumi della biblioteca del liceo M. Morelli al direttore del penitenziario. Due giorni più tardi, la commedia è stata nuovamente rappresentata nell’auditorium del liceo classico M. Morelli. E si è trattato, con un pubblico diverso, della riproposizione di un’esperienza intensa, vissuta in quel penitenziario dove i corridoi sembrano non finire mai e la luce rimane fioca in fondo al tunnel. Contrasto all’indigenza. Chi definiamo povero? di Dario Di Vico Corriere della Sera, 12 giugno 2017 Manca un criterio per misurare l’indigenza. Tra distanza dal reddito medio e beni essenziali ecco perché va trovato uno standard chiaro. Con l’approvazione della prima misura anti-povertà mai presa in Italia - il reddito di inclusione (Reis) - finalmente anche da noi le politiche di contrasto all’indigenza sono passate dal dibattito scientifico-sociologico direttamente nell’agenda di un governo. Nei prossimi mesi l’attenzione non sembra destinata a scemare, anzi la campagna elettorale dovrebbe ruotare, almeno in parte, proprio sui temi della disuguaglianza. Ma come la misuriamo? Come possiamo evitare che comizi e talk show divengano altrettante occasioni per creare confusione piuttosto che per chiarire le idee ai cittadini/elettori? La soluzione non è facile e il primo passo sta nel mappare gli strumenti di cui disponiamo per fotografare la povertà. Qualche tempo fa il blog LaVoce.info aveva parlato di "tre povertà", proprio per sottolineare come ci fossero più metodologie di monitoraggio del fenomeno e nessuna da sola recasse le stigmate della perfezione. Cominciamo dalla "povertà relativa", una misura adottata come standard di riferimento dall’Unione europea, che definisce povere tutte le famiglie il cui reddito è inferiore al 60% del reddito mediano. È stato detto in proposito che quest’indice misura più la disuguaglianza - relativa per definizione - che la povertà ma è lo standard dell’Eurostat e quindi non è derogabile anche perché consente i raffronti tra i singoli Paesi. Per tradizione l’Istat usa anche un altro parametro: la povertà assoluta. Che prende come riferimento i consumi, identificati in un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali, e misura gli scostamenti. Il vantaggio di quest’indagine, che viene pubblicata ogni anno in luglio, è anche la sua velocità. La confezione dell’indicatore di povertà relativa ha invece un iter più lungo perché i dati vanno incrociati con i riscontri dell’Agenzia delle Entrate. Purtroppo povertà relativa e povertà assoluta non vengono comunicate simultaneamente e qualche problema quest’asincronia lo crea. Non è tutto. Esiste poi l’indice di "grave deprivazione materiale", frutto di un’indagine europea che in Italia si materializza su un campione di 70 mila individui. È stato proprio quest’indice a generare polemiche nelle settimane scorse ed ad aprire la riflessione sulle "troppe povertà". I parametri in base ai quali si attesta la grave deprivazione, secondo quanto scritto dal professor Marco Fortis sul Foglio, sono quantomeno opinabili. Le domande a cui gli intervistati devono rispondere svariano da "può permettersi una lavatrice?" a "è in arretrato con il pagamento delle bollette?", passando per "può permettersi una vacanza di una settimana all’anno lontano da casa" e "può permettersi un’automobile?". Si tratta indubbiamente di una rilevazione che fornisce agli addetti ai lavori ulteriori dati di conoscenza ma sicuramente non aiuta a identificare la platea di chi ha veramente bisogno e si presta ad alimentare critiche e strumentalizzazioni. Se ai poveri relativi e a quelli assoluti aggiungiamo i quasi-poveri cresce solo la confusione. La Turchia sotto accusa: "giudice Onu in cella nonostante l’immunità" di Marco Ansaldo La Repubblica, 12 giugno 2017 C’è anche un giudice dell’Onu in cella, fra le 40mila persone arrestate nella repressione seguita al fallito colpo di Stato in Turchia. Il suo nome è Aydin Sefa Akay, nato 66 anni fa ad Ankara. È stato fermato il 28 settembre 2016, e da 9 mesi è in galera. L’accusa contro di lui? Avere scaricato (legalmente, da Google play store) l’applicazione di chat Bylock, considerato il sistema di raccordo usato dai militari golpisti, e di possedere nella sua biblioteca due libri (anche questi pubblicati tempo fa e in molti negozi): uno dell’imam Fethullah Gulen imputato di essere la mente del putsch, e l’altro scritto dall’ex direttore di Zaman, quotidiano "gulenista" oggi commissariato e riconvertito in filo governativo. Fra tre giorni, mercoledì, la corte si riunirà per la terza volta ad Ankara ed emetterà il verdetto definitivo. Akay rischia, con l’accusa di "sostegno al terrorismo", dai 6 ai 15 anni di prigione. A nulla vale l’immunità diplomatica di cui gode come giudice speciale Onu per i Tribunali penali su Ruanda ed ex Jugoslavia. Pericoloso precedente. E a niente sono serviti i ripetuti appelli di organi internazionali. La Turchia è stata così deferita al Consiglio di sicurezza Onu. E ora una richiesta di incriminazione internazionale è pronta presso il Meccanismo dei Tribunali penali Onu contro il Presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, "per avere interferito con l’amministrazione della giustizia": la Turchia non ha mai risposto sul caso e non ha voluto rilasciare l’alto magistrato. Adesso si richiede di procedere. In Italia vive la figlia del giudice, Meric, che studia pittura a Milano all’Accademia di Brera ed è sposata con un biologo italiano, Guido Trivellini. "Mio padre è un laico - spiega a Repubblica - è stato educato così, al confronto aperto. Ma ora nel mio Paese la stampa vicina al governo gli lancia critiche antisemite e infamanti. Da un lato scrivono di ‘questo ebreo che fa parte delle Nazioni Unitè, e dall’altro lo considerano di aver fatto parte del gruppo islamista accusato del golpe. Il 19 maggio sono finalmente riuscita a vederlo: fisicamente sta bene, anche se è dimagrito. Ma è lo spirito il più toccato. Sono in 6 persone in una cella per 4, libri vietati, giornali proibiti, mentalmente per lui è molto difficile". Akay è docente universitario di Diritti umani ed è stato ambasciatore turco in Burkina Faso. Ha trascorso molti anni ad Arusha, lavorando per il tribunale Onu, è stato poi riconfermato dall’allora segretario generale Onu, Ban Ki Moon, acquisendo piena immunità diplomatica. Ma la repressione seguita al golpe non è andata per il sottile ed è finito in guardina. Per lui si sta battendo la comunità internazionale. Theodor Meron, presidente del Meccanismo per i tribunali penali Onu, ne ha denunciato all’Assemblea generale l’arresto e la detenzione illegale. Ma le sue richieste di poterlo vedere, così come quelle dei rappresentanti Onu, sono sempre state respinte. A gennaio la Turchia è stata formalmente convocata all’Aia : nessuna delegazione ha mai risposto all’invito. A marzo Ankara è stata infine deferita al Consiglio di sicurezza. L’altro giorno all’Onu si è tornati a discutere del caso e molti Paesi, tra cui Francia, Gran Bretagna e Svezia, hanno preso una posizione ferma sul riconoscimento dell’immunità al giudice e sul suo rilascio. Presso la Corte Europea per i diritti dell’Uomo di Strasburgo è attivo un ricorso. A Roma si sta muovendo l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio superiore della magistratura. È un nuovo caso internazionale scottante, che tocca adesso anche l’Italia, e non mancherà di portare nuova attenzione verso la Turchia. Venezuela. Come l’Argentina di Videla, torture e violenze nelle carceri segrete di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 12 giugno 2017 L’allarme per le continue violazioni dei diritti umani nelle celle della polizia segreta del Sebin, il Sevricio Bolivariano di Inteligencia, arriva da molte Ong come il Foro penal venezuelano e da Tamara Suju, avvocato e direttore dell’Istituto Casla, organizzazione per gli studi sull’America Latina con sede a Praga, dove Tamara è rifugiata politica. La denuncia alla Corte penale Internazionale. Le violazioni dei diritti umani che si ripetono dietro le quinte in Venezuela hanno raggiunto proporzioni inquietanti per il numero di arresti arbitrari, violenze, civili detenuti in basse alla legge marziale, torture. Il pensiero va subito alla dittatura argentina. Arresti e uso della forza. In base al report mensile del Foro Penale venezuelano, nel corso delle manifestazioni di aprile la polizia di Maduro ha arrestato 1668 persone, di cui solo 517 scarcerati poco dopo. Degli altri, più di 400 detenuti sono stati trattenuti in carcere nonostante gli ordini di scarcerazione, mentre sono almeno 68 i casi accertati di detenzione per motivi politici. Non solo. "Preoccupa la presenza nelle strade di gruppi paramilitari affiliati al governo che usano le armi da fuoco contro i manifestanti", spiega il dossier: ad aprile il Fnv ha contato più di 500 feriti gravi colpiti da bombe lacrimogene sparate ad altezza d’uomo. Tortura "blanca". Quello che succede in prigione, dietro le quinte, è anche peggio. La Tumba è il carcere del Sebin, il Servicio Bolivariano di Inteligencia; in sostanza, la polizia segreta. Ricavata dal caveau di una banca, a cinque piani sottoterra, si trova nel centro di Caracas. Qui si pratica anche la tortura bianca, la peggior forma di tortura psicologica: i detenuti sono rinchiusi in totale isolamento in celle di 1 metro per 2 dipinte di bianco, senza bagno, senza alcun suono né contatto con l’esterno, con la luce sempre accesa e con l’aria condizionata a una temperatura costante di 8 gradi. La Tumba e l’Helicoide. Lorent Saleh, Gabriel Valles, Gerardo Carrero, il colonnello Josè Antonio Arocha, rinchiusi nella Tumba per motivi politici dal 2014 a dicembre 2016. Sono questi i casi più famosi. Oggi Carrero è ai domiciliari, Arocha ha chiesto asilo politico agli Usa, Saleh e Valles sono detenuti nella seconda prigione del Sebin, l’Helicoide, l’edificio costruito negli anni Cinquanta famoso per la sua forma elicoidale; doveva diventare un centro commerciale, oggi è il carcere simbolo della repressione politica in Venezuela. Qui è detenuta, tra gli altri, l’italiana Betty Grossi e anche da qui provengono denunce di violenze e torture. "Bolas del plastico e scariche elettriche". "Ci sono molti casi di tortura nella prigione di Helicoide con scariche elettriche, violenze sessuali o la pratica della busta plastica con cui si simula la morte per asfissia. O si appende il detenuto a testa in giù. Come nella Tumba, dove a molti manifestanti veniva coperta la testa con buste piene di gas per farli svenire in poco tempo", spiega Tamara Suju, avvocato per i diritti umani e direttore dell’Istituto Casla, organizzazione per gli studi sull’America Latina con sede a Praga, dove Tamara risiede dal 2014 con lo status di rifugiata politica. La tumba ancora attiva. Le denunce che arrivano dalla Tumba e dall’Helicoide sono molte: anche se al momento nella Tumba non ci sono prigionieri fissi, ancora oggi è usata per commettere violenze e torture. A dirlo è Tamara Suju. "Ora la Tumba è usata come forma di detenzione preventiva e per torturare le persone nelle prime ore di fermo. Negli ultimi sessanta giorni è aumentato il numero delle torture": a gennaio Tamara ha presentato denuncia formale alla Corte Penale Internazionale. Freddy Gonzalez, 11 anni. L’ultima terribile denuncia arriva dalla città di Maracaibo, ripresa da Twitter e dal quotidiano El Nacional: alcuni abitanti hanno sorpreso un gruppo di agenti della polizia mentre scaricavano dalla macchina un bimbo con le mani legate e subito dopo si allontanavano in fretta: il bambino, di nome Freddy Gonzalez, aveva ustioni di terzo grado su schiena e braccia. Tutto ripreso e pubblicato su Twitter. Il fatto è successo il 16 maggio, poco dopo una manifestazione contro il governo. Portato in clinica, Freddy ha spiegato cosa è successo. "Stavo cercando di allontanarmi - riporta il giornale El Nacional - ma i poliziotti mi hanno preso, mi hanno colpito e legato e mi hanno fatto esplodere una bomba lacrimogena sulla schiena". L’accusa. Intanto in Venezuela la situazione peggiora di giorno in giorno. L’allarme arriva da Stefania Parra, responsabile relazioni internazionali di Voluntad Popular, principale movimento di opposizione nel paese. "Ci sono bambini che muoiono per malnutrizione o perche mancano medicine a causa della corruzione del governo. Al momento i manifestanti uccisi negli ultimi due mesi sono più di 60, ma anche negli anni scorsi ci sono state molte vittime: questi sono crimini contro l’umanità e il responsabile è Nicolas Maduro. Bisogna bloccare subito la repressione del governo e tornare a votare". Venezuela. "I dannati" di San Juan de Los Morros di Anna Maria De Luca La Repubblica, 12 giugno 2017 Il libro edito da "Infinito" di Christiana Ruggeri. Un reportage nel carcere venezuelano gestito da bande di criminali e dove le guardie non entrano. È un reportage dall’interno di uno dei peggiori luoghi di reclusione del mondo: il PGV, Penitenciaría General de Venezuela. L’autrice è Christiana Ruggeri, giornalista del Tg2, con alle spalle diverse missioni umanitarie in Africa e nell’America Centrale e Latina La Penitenciaría General de Venezuela. È il carcere di San Juan de Los Morros, gestito dai narcotrafficanti. Si trova nell’Estado Guárico, 149 chilometri a sud ovest di Caracas. Costruito nel 1947 per ospitare 700 prigionieri, ma è arrivato a contenerne anche quattromila. Oltre le sbarre le guardie non entrano, restano fuori della recinzione percorsa dall’alta tensione. All’interno accade di tutto: tra i detenuti comuni c’è chi muore di fame, spesso banalmente per la crudeltà dei pranes, i capi gang che in carcere hanno invece tutto ciò che desiderano, dai cellulari, alle cene ordinate al ristorante. I pranes gestiscono il traffico di droga locale e internazionale, cosi come hanno la possibilità di ordinare omicidi, sia dentro che fuori del penitenziario, divenuto ormai una roccaforte impenetrabile e incontrollabile, in mano a bande di feroci criminali. La storia di Rico. È un ragazzo italiano condannato a 22 anni di carcere per spaccio. Solo al mondo, incrocia vite disperate come la sua. Uno di loro gli suggerisce di scrivere quello che accade, come stimolo per sopravvivere agli abusi e alla detenzione. Rico, ormai malato, accetta la sfida per il senso di colpa nei confronti della madre morta e cosi chiede l’autorizzazione per scrivere poesie in memoria di lei. Ed è a lui che la scrittrice ha fatto assumere il ruolo di "io narrante" per raccontare le efferatezze che si consumano in quel luogo, tutte le storie vere che accadono dentro quelle mura. Francisco e El Trompeta. Per dare un senso ai suoi giorni, Rico raccoglie di nascosto storie di persone incontrare in carcere, come quella di Francisco Guerrero Larez, ammazzato, smembrato e sepolto sotto al PGV. La sua famiglia chiede giustizia dal 2009, appoggiata da Amnesty International e OVP (Observatorio Venezolano del Prisiones) che hanno denunciato il caso a livello internazionale. Altro personaggio, co-protagonista del libro della Ruggeri è un pran chiamato "El Trompeta": assassino e spacciatore, considerato però il Robin Hood Venezuelano, per gli aiuti che garantisce alle famiglie meno abbienti, sia dentro che fuori dal carcere. Fondatore di una Onlus a sostegno dei bambini, è stato ucciso dalla polizia, vittima di una vera e propria esecuzione, dopo aver scontato la sua pena. La suora. Tra quei cunicoli infernali, si muove una donna, Neyda Rojas, suora rispettata anche dai peggiori criminali, che da 18 anni entra ed esce incolume dal carcere: porta speranza, fede, coraggio, ma anche medicine e alfabetizzazione. E racconta al mondo l’incredibile realtà di quella struttura. Malato e stanco, prima di morire, Rico affida il suo reportage alla "goccia bianca", la suora-maestra del PGV. Ne scaturisce un documento di denuncia di un Paese e di un sistema, un grido d’aiuto per i suoi compagni di prigionia, ma anche una ricerca disperata di giustizia. Pagine di paura, morte e coraggio, per riscattare la vita perduta di un giovane italiano e per denunciare le ingiustizie e le torture subite dai detenuti e dalle loro famiglie, ridotte sul lastrico per tentare di aiutarli. Sud Sudan. Il rumore dei passi nella savana, tra i bambini in fuga di Michele Farina Corriere della Sera, 12 giugno 2017 Bidi Bidi è il campo profughi più affollato del mondo: 300 mila persone di cui il 60% minori. Un anno fa erano solo diecimila. Secondo l’Onu "è la crisi umanitaria che cresce più veloce". Cinque bambine a piedi nudi sotto una tenda. Cinque sorelle. La più piccola, Esther, ha 8 anni. La più grande, Nuela, 13 compiuti. Sono arrivate da un paio di giorni. Da Maridi. Dal Sud Sudan, come tutti. Alla frontiera le ha portate una donna, una vicina che non poteva più sfamarle. Le sorelle Asante sono sedute per terra, nel campo di Imvepi. Hanno lo sguardo di chi non cerca nulla. Parlando attraverso un interprete, fanno capire che non sono sole. La capofamiglia sta a qualche metro di distanza. Si chiama Grace. È la sesta sorella e non ha che 17 anni. La storia che racconta ha bisogno di poche parole. La fame, la mamma morta di malattia, il papà a combattere al Nord, chissà dove. E loro qui, in salvo, in attesa di essere registrate dall’Onu, visitate da Medici Senza Frontiere. E smistate in qualche pezzo di savana ancora libero. Gli insediamenti nel Nordovest dell’Uganda si riempiono in fretta come i nostri camping d’estate. Non c’è più un posto-capanna a Bidi Bidi, il campo profughi più affollato del mondo. Un anno fa c’erano 10 mila persone. Adesso quasi 300 mila, il 60% minorenni. Una città come Firenze che in pochi mesi si riempie di bambini in fuga come le sorelline Asante. Il nome Bidi Bidi indica il suono che fanno le persone in marcia, racconta Cosmas Malish, 29 anni, perito informatico, che ha la casacca rossa di Save The Children. Anche lui scappato dal Sud Sudan, da quella che l’Onu definisce "la crisi umanitaria che cresce più veloce". E feroce. Un conflitto tra il presidente Salva Kiir e il suo vice Rieck Machar ha assunto tinte e proporzioni da guerra etnica: 50 mila morti dal 2013. Dinka contro Nuer e loro alleati. Kiir e il suo ridicolo cappello da cowboy regalo di George W. Bush chiuso nella capitale Juba, Machar nel suo comodo esilio sudafricano. Presi nel mezzo, tra violenze e carestia, 12 milioni di abitanti. Oltre 2 milioni sfollati (la metà bambini). Un milione scappati oltre il confine ugandese. La maggioranza arriva qui soltanto con gli abiti che ha addosso. I più agiati, con un materasso sporco sulla testa. O una tanica gialla per l’acqua da raccogliere al fiume. Un’emorragia silenziosa - circa duemila persone al giorno - lontana dai checkpoint e dai check-up dell’attualità mondiale: Liliane Woro, 40 anni, ci ha messo più di un mese per arrivare qui a piedi con i figli, dopo il rapimento del marito. Racconta di come sulla strada bande armate abbiano assaltato il gruppo. La sorella più anziana non ha fatto in tempo a scappare ed è stata dilaniata dai miliziani. In posti così passa la voglia di fare domande. Robert Elisha, 10 anni, sguardo a terra, indossa fuseaux da bambina, troppo lunghi, coi cuoricini rosa. È Cosmas, di Save The Children, a spiegare che Robert è arrivato a Bidi Bidi con la sorella sedicenne. Loro due soli, come centinaia di altri minori non accompagnati. Il progetto a cui lavora Cosmas è finanziato dall’Unione Europea, che per l’emergenza profughi nel Nord ha stanziato 44,7 milioni di euro per il 2017. L’Uganda è un partner che da anni adotta nei confronti dei profughi una delle politiche più aperte del mondo. Nessuno viene cacciato indietro. L’ambasciatore Ue Kristian Schmidt nel suo ufficio di Kampala paragona l’Uganda alla Germania di un anno fa. Ma l’ultima emergenza in Sud Sudan rischia di sfibrare questa linea di accoglienza. Il presidente Yoweri Museveni, da 31 anni al potere, ospite di un ricevimento in onore dell’Unione Europea nella residenza dell’ambasciatore, ha detto che "lo sviluppo economico conta più dei diritti dei bambini, delle donne e degli omosessuali". Come se si dovesse/potesse scegliere. Nella terra dove è sorta dal nulla Bidi Bidi, da Arua (città natale dell’ex dittatore Idi Amin Dada) a Gulu, fino a pochi anni fa c’era la piaga dei "bambini invisibili", quelli che cercavano di sfuggire ai razziatori di Joseph Kony e del suo Lord’s Resistance Army. L’Uganda ha dichiarato chiusa la caccia a Kony: lo schiavista di bambini soldato, non più considerato una minaccia, si aggirerebbe con un centinaio di fedelissimi (e una personale vasca da bagno) nelle foreste della vicina Repubblica Centrafricana. I nuovi "bambini invisibili" sono Robert dai pantaloni a cuoricini e quel milione di piccoli sud-sudanesi che non affrontano (per il momento) il lungo tragitto verso il mar Mediterraneo, arenati come sono nel più affollato (e nascosto) campo profughi del mondo. Hanno bisogno di cibo e di scuole. Secondo il Programma Alimentare Mondiale servono 1,2 miliardi di dollari per sfamare i fuggiaschi del Sud Sudan (solo il 14% di tale somma è arrivata dai Paesi donatori). Scendendo da Bidi Bidi verso Kampala la strada attraversa il meraviglioso Nilo, in un punto non lontano dal luogo dove lo scrittore Ernest Hemingway quasi si schiantò con un aeroplanino, passando la notte tra le fiere. Intorno al fiume, ci sono gli elefanti. Gli studiosi hanno dimostrato che l’età delle femmine che guidano i branchi si abbassa sempre più, a causa della scomparsa degli esemplari adulti per mano dei bracconieri. Le famiglie dei rifugiati non portano avorio, ma anche loro sono guidate sempre più spesso da femmine giovani, da ragazzine come Grace che ha cinque sorelle a cui badare. Con il nostro aiuto. Ceceno sopravvissuto alla tortura rischia di essere rimandato dai suoi aguzzini di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 giugno 2017 Ieri, alla Festa di Radio Popolare, insieme alla giornalista Irena Brezna e all’attivista per i diritti umani Zaynap Gashaeva, si è tornati a parlare di Cecenia: delle due sanguinosissime guerre degli anni Novanta, della ricostruzione di un paese, affidato dal presidente russo Putin a Ramzan Kadirov, basata sulla demolizione della memoria e sull’impunità, dei tanti "foreign fighters" ceceni in Siria fino alla recente persecuzione degli omosessuali. Che la Cecenia sia un luogo molto pericoloso lo conferma l’ultima vicenda, in ordine di tempo, di violazione dei diritti umani. Murad Amriev, un cittadino ceceno sopravvissuto alla tortura, è stato arrestato dalle autorità della Bielorussia e riconsegnato a quelle russe la mattina del 9 giugno. Non è noto se sia ancora agli arresti o se sia stato già rimandato in Cecenia, dove la sua vita sarebbe in pericolo. Campione amatoriale di arti marziali, Amriev aveva lasciato la Cecenia nel 2013 per evitare rappresaglie dopo che aveva denunciato alcuni agenti di polizia della capitale Grozny per averlo torturato. Dopo aver vissuto in Ucraina per quasi quattro anni, all’inizio di giugno del 2017 era rientrato in Russia per fare richiesta di un visto Schengen. Arrestato nella città di Bryansk per una data sbagliata di nascita riportata sul passaporto (rilasciatogli a Grozny), era stato rilasciato il 6 giugno. Uscito dal palazzo della procura locale, Amriev si era accordo che l’edificio era stato circondato da agenti della polizia cecena pronti ad arrestarlo. Bryansk si trova a circa 1800 chilometri dalla Cecenia. Era riuscito a salire di corsa a bordo dell’automobile di un parente, che si era diretta a tutta velocità verso il confine con la Bielorussia. Varcata la frontiera nella notte tra il 7 e l’8 giugno, Amriev è stato arrestato dalla polizia bielorussa di Dobrush e tenuto ammanettato per ore a un termosifone. Durante il fermo, ha chiesto invano di accedere alla procedura d’asilo e di parlare con un avvocato. Poi, la mattina del 9, la consegna alle autorità russe. Stati Uniti. In carcere ingiustamente per 17 anni, il colpevole era un sosia di Giovanni D’Agata Corriere Nazionale, 12 giugno 2017 I testimoni non hanno saputo distinguerlo quando hanno visto entrambi. Dopo 17 anni trascorsi dietro le sbarre, un detenuto accusato di una rapina che sosteneva di non aver mai commesso, è stato scarcerato grazie alla scoperta di un sosia che viveva vicino a lui. "Non credo nella fortuna, credo di essere stato benedetto", ha commentato Richard Jones. Era stato condannato solo sulla base di testimoni, che tuttavia non hanno saputo distinguere il colpevole quando hanno visto anche il suo sosia. Nel processo di revisione il giudice ha quindi stabilito che non ci sono prove contro di lui e lo ha liberato. È il caso che, dimostra come l’infallibilità dei giudici non è che un mito poiché gli uomini sono condannati all’errore, e i giudici, sono uomini. L’errore giudiziario diventa sempre meno un episodio isolato per diventare un fenomeno collettivo, che può minacciare qualsiasi individuo del corpo sociale. La fretta nelle indagini, l’eccessiva fiducia accordata ai testimoni non sempre attendibili, la troppa importanza data alle presunzioni di colpevolezza e agli indizi sono tra i fattori che predispongono all’errore, ai quali va ad aggiungersi la pressione esercitata dall’opinione pubblica che desidera ad ogni costo trovare un colpevole, anche in mancanza di certezze irrefutabili. Come in questo caso, dove pur tardivamente, Richard Jones1ha avuto la fortuna di imbattersi in un giudice capace di affermare la verità dopo anni di carcere, certificando così un errore che si poteva e che si doveva evitare prima. Marocco. In migliaia alla marcia contro abusi di potere sda-ats.it, 12 giugno 2017 In migliaia a Rabat per la marcia di solidarietà al movimento del Rif. Il corteo partito da Bar El Had, nel centro della capitale marocchina, si è riversato nelle principali vie della città, puntando al Parlamento. Riuniti sotto lo slogan che è diventato il grido di battaglia del movimento ‘Hirak’, "Dignità, libertà e giustizia sociale", tra gli oltre 10 mila stimati in marcia, si sono ritrovate numerose sigle politiche, soprattutto di sinistra, e della società civile. Tra i manifestanti anche le famiglie dei detenuti, prima fra tutte quelle del leader del movimento Nasser Zefzafi. In tutto, per le rivendicazioni di questi giorni a El Hoceima sono finiti in carcere 80 militanti. Al loro fianco si è schierato un collegio di 600 avvocati, arrivati con una gara di solidarietà anche dall’Europa, secondo quanto riferisce Al Massae, quotidiano arabofono particolarmente attento alla rivolta del Rif. Alla marcia di solidarietà che fino a questo momento si è svolta senza incidenti e in modo pacifico, partecipa anche il movimento islamista non autorizzato ma tollerato Al Adl Wal Ihssane, lo stesso che nel 2011 aveva sostenuto le cosiddette primavere arabe.