Chi ha paura di Ristretti Orizzonti? I volontari: "siamo solidali con Ornella" Il Gazzettino, 11 giugno 2017 Quando è stato pubblicato il primo articolo, titolato "Padova, detenuti declassati per lavorare nelle cooperative" (Il Gazzettino, 17 maggio 2017 - pag. 9), abbiamo provato molta amarezza, eravamo disorientati e un po’ attoniti e non abbiamo preso una posizione pubblica, non capivamo bene se qualcuno (chi?) ci stava accusando di qualcosa e di cosa. Da quel giorno sono stati pubblicati altri articoli che enfatizzano fatti mediamente ordinari nella vita in carcere. Siamo un gruppo di persone che da anni mettono a disposizione la propria professionalità, la propria energia e il proprio tempo nelle attività della redazione di Ristretti Orizzonti e non possiamo permettere che il nostro impegno e quello delle persone detenute che lavorano con noi venga inquinato. Le persone detenute che partecipano alla redazione di Ristretti Orizzonti non hanno nessun beneficio speciale. Come tutte le persone che partecipano alle attività, hanno maggiore visibilità, maggiore possibilità di partecipare ad un percorso rieducativo e di incontrare la società esterna e gli operatori. Ma il fatto che questo sia visto come un "privilegio" la dice lunga sulle condizioni della vita detentiva. Tutti dovrebbero avere il diritto di partecipare alle attività, fare un percorso, incontrare la società civile e gli operatori. Se questo non avviene, beh, tutti dovremmo farci qualche domanda. Con i nostri progetti sosteniamo da sempre i percorsi di reinserimento voluti dalla Costituzione e sono molti gli operatori istituzionali che riconoscono il nostro lavoro e lo appoggiano. Ma probabilmente qualcuno vive la nostra presenza in carcere come un’intrusione o un fastidio o una perdita di potere: ma noi siamo quella società civile di cui parla l’art. 17 dell’Ordinamento Penitenziario, per cui "la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa". L’ingresso della società civile e delle sue mille anime apre a modi diversi di operare e di intendere il dettato costituzionale, sempre comunque sotto il controllo della Direzione, che ne autorizza le attività; le associazioni entrano con le proprie specificità e la propria dignità e Ristretti Orizzonti non fa eccezione. Ci siamo sempre confrontati con onestà con persone che hanno posizioni anche molto diverse dalle nostre e continueremo a farlo. Con Ornella abbiamo sempre e solo lavorato per ripristinare quella legalità che troppo spesso nelle carceri italiane non c’è, facendoci promotori di iniziative e di battaglie combattute sempre e solo alla luce del sole. Quando alcuni agenti di Polizia Penitenziaria sono stati condannati proprio per aver commesso dei reati legati a droga e cellulari all’interno del carcere, non ci siamo sognati di fare di tutta l’erba un fascio e abbiamo difeso l’operato dei tanti che ogni giorno svolgono il proprio lavoro con correttezza e professionalità. Siamo compatti nel ribadire la nostra convinzione negli orientamenti e nelle posizioni portate avanti da Ornella e dalla nostra redazione, cui partecipano persone con storie complesse, difficili, che hanno commesso reati anche gravissimi e non abbiamo mai raccontato che i percorsi di rieducazione di queste persone siano perfetti e lineari, anzi, abbiamo raccontato ogni ricaduta e ogni difficoltà e non occorre una laurea in pedagogia per capire che quando si tratta di persone che hanno commesso reati e violazioni per anni e anni, non può bastare una possibilità e nemmeno due o tre, che non significa dare una pacca sulla spalla e dire avanti così, ma lavorare con le persone perché si inizino ad assumere le proprie responsabilità. Ma cosa pensate, che per noi sia facile? Sono percorsi lentissimi, spesso frustranti, ma abbiamo scelto di percorrere questa strada e di farlo al fianco di Ornella e della redazione e continueremo a farlo. I Volontari di Ristretti Orizzonti - Associazione Granello di senape Padova (Redazione rivista, TG 2Palazzi, Sportello giuridico, Corso di scrittura, Centro di documentazione) "Caro ministro, siamo sotto attacco" Il Mattino di Padova, 11 giugno 2017 Lettera-appello a Orlando di associazioni, cooperative, insegnanti e volontari del Due Palazzi. Una lettera al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che l’altro ieri era a Padova, da parte di associazioni, cooperative e insegnanti che operano all’interno del carcere Due Palazzi. Per dirgli che "Tutte le realtà che svolgono tante iniziative in carcere, e nell’accompagnamento all’esterno, esprimono preoccupazione per l’attacco gratuito a cui sono quotidianamente sottoposte". Continua la lettera: "La mancanza di rispetto, i aiuto, di difesa ci preoccupano molto. La nostra preoccupazione non è legata al fatto di voler continuare a svolgere quello che da tanti anni molti di noi svolgono. Se alcune cose non servono più, si devono cambiare ma nella trasparenza, nella correttezza e nel dialogo. Quello che ci preoccupa è che ad essere attaccato" e qui sta il punto cruciale "è il sistema carcere Padova nella totalità, e in modo poco chiaro. In primis il suo direttore (da alcuni mesi assegnato al Provveditorato a svolgere le funzioni di vicario) oggetto di un attacco che ha come unico effetto quello di incrementare sfiducia da parte di tutte quelle persone ed istituzioni locali, italiane ed estere che in questi decenni hanno avuto modo di vedere che cosa produce una vera assunzione di responsabilità nel solco delle normative italiane ed europee. Ma la stessa cosa vale nei confronti di tutte le realtà del privato sociale e istituzionali che operano al Due Palazzi, molte a titolo volontario. Non fa bene allo Stato ed ai suoi cittadini incrementare la sfiducia, già alta, nelle istituzioni ed in chi le rappresenta. Se servitori dello Stato (dirigenti, singoli o gruppi di cittadini che si uniscono per aiutare a risolvere problemi che riguardano tutti) vengono trattati come accade in queste settimane, anche i migliori si demoralizzano. Quando si fa, si può sbagliare, e l’errore (se non è in malafede) è la cosa più preziosa che abbiamo per crescere e migliorarci. Queste sono persone da valorizzare e non da massacrare". E ancora: "Signor ministro ci affidiamo a lei perché vigili su questa situazione complessa e delicata. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera (ogni anno migliaia di persone, scuole, aziende, istituzioni italiane e estere, enti, università) che in 30 anni ha conosciuto tutte le attività del suo carcere -attività spesso fiori all’occhiello - sta a guardare. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti". A firmare la lettera sono Ristretti/Granello di Senape; Work Crossing e Giotto, cooperative sociali; Teatro-carcere Due Palazzi; associazione Coristi per Caso; Coro Due Palazzi in collaborazione con il Cpia di Padova; i docenti della scuola superiore in carcere; Asd Polisportiva Pallalpiede; Gruppo Operatori Carcerari Volontari (Ocv); Casa di accoglienza Piccoli Passi; cooperativa sociale AltraCittà; gli insegnanti della scuola di primo livello e il Polo Universitario carcerario. Lettera al ministro Orlando: "Basta fango sugli operatori del Due Palazzi" Corriere Veneto, 11 giugno 2017 "Le realtà che svolgono iniziative all’interno del carcere esprimono oggi tutta la preoccupazione per l’attacco gratuito a cui sono quotidianamente sottoposte". Così inizia la lettera consegnata venerdì al ministro della Giustizia Andrea Orlando, arrivato a Padova, dalle associazioni e cooperative che operano all’interno del Due Palazzi. L’attacco cui fanno riferimento è quello delle polemiche per l’inchiesta del sostituto procuratore Sergio Dini e che vede l’ex direttore del Due Palazzi, Salvatore Pirruccio, accusato di falso in atto pubblico. Secondo quanto emerso dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, infatti, Pirruccio avrebbe firmato il "declassamento" di alcuni detenuti per evitare che, venuta meno la qualifica di carcere di massima sicurezza, questi dovessero lasciare il Due Palazzi. Una decisione che, sottolinea il Dap, sarebbe dovuta all’intervento di Nicola Boscoletto e Ornella Favero, della cooperativa Giotto e di Ristretti Orizzonti. "Quello che ci preoccupa è che ad essere attaccato è il sistema nella sua totalità. Ci affidiamo a Lei perché vigili attentamente su questa situazione complessa e delicata. Quello del carcere di Padova è un patrimonio pubblico". L’appello delle associazioni e delle cooperative che lavorano in carcere al ministro Orlando di Alberto Gottardo padova24ore.it, 11 giugno 2017 Riceviamo e pubblichiamo un appello al ministro della Giustizia Orlando consegnato al guardasigilli ieri a latere di una iniziativa elettorale che ha visto il politico di centrosinistra impegnato a Padova in zona Forcellini. È una lettera che dovrebbero leggere con attenzione anche tutti i candidati sindaci di Padova, nel cui programma credo non compaia mai la parola carcere, se non come struttura punitiva. E certo, tranne alcuni rari casi (mi viene in mente Silvia Giralucci candidata nella lista di Arturo Lorenzoni e l’avvocato Claudio Todesco per motivi professionali, essendo lui un valente penalista) moltissimi dei candidati questa struttura che fa parte della città, l’hanno vista solo da fuori. Ed invece il modello padovano, con una forte presenza di realtà che portano promozione sociale vera attraverso lavoro vero, esattamente com’è scritto nella nostra Costituzione all’articolo 1, 27 e altri che non mi ricordo, è una delle eccellenze più preziose e innovative degli ultimi anni. Vederla smantellare sarebbe davvero penoso. Ho pensato molto alle accuse rivolte al direttore Salvatore Pirruccio, una delle persone più degne che abbia conosciuto. E trovo insopportabile che venga attaccato e infamato per aver fatto bene e con umanità il proprio lavoro. Sarebbe bello che almeno uno dei candidati sindaco di queste elezioni fosse andato in carcere a conoscere questa realtà. Non mi risulta che ciò sia avvenuto. Eppure un buon sindaco è anche, o forse soprattutto, quello che si prende cura della parte più fragile della società. O almeno, io la penso così. La lettera "aperta" Gentile Sig. Ministro della Giustizia Andrea Orlando, poche righe in quanto Lei conosce bene quello che seriamente ci preoccupa. Conosce bene che cosa prevedono la nostra Costituzione, le leggi, l’ordinamento ed il regolamento penitenziario e non da ultimo le direttive europee che impongono l’umanizzazione della pena per quanto riguarda le persone private della libertà a causa dei reati commessi. Conosce altrettanto bene tutte le attività che da decenni sono presenti presso la Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Tutte le realtà che a vario titolo svolgono tantissime iniziative all’interno del carcere, e nell’accompagnamento all’esterno (associazioni di Volontariato, cooperative, la scuola in tutti i suoi livelli, l’Università, le realtà culturali, sportive, ricreative, formative e il lavoro) Le esprimono oggi tutta la preoccupazione per l’attacco gratuito a cui sono quotidianamente sottoposte. La mancanza di rispetto, di aiuto, di difesa ci preoccupano moltissimo. La nostra preoccupazione non è legata al fatto di voler continuare a svolgere a tutti i costi quello che da tanti anni molti di noi svolgono. Se alcune cose oggi non servono più o si devono cambiare è giusto che sia così, ma tutto questo nel massimo della trasparenza, della correttezza e nel dialogo. Quello che ci preoccupa è che ad essere attaccato è il sistema carcere Padova nella sua totalità, e per di più in maniera poco chiara, incomprensibile.  In primis il suo direttore (da alcuni mesi assegnato al provveditorato a svolgere le funzioni di vicario) oggetto di un attacco che ha come unico effetto quello di incrementare una sfiducia da parte di tutte quelle persone ed istituzioni locali, italiane ed estere che in questi decenni hanno avuto modo di visitare e vedere con i propri occhi che cosa produce una vera assunzione di responsabilità nel solco delle normative italiane ed europee. Ma la stessa cosa vale nei confronti di tutte le realtà sia del privato sociale che istituzionali che da lunghi anni operano nel carcere di Padova e molte delle quali a titolo volontario! Non fa bene allo Stato ed ai suoi cittadini incrementare una sfiducia, già alta, nelle istituzioni ed in chi le rappresenta. Se servitori dello stato (dirigenti pubblici, singoli cittadini o gruppi di cittadini che si uniscono per aiutare a risolvere problemi che riguardano tutti) vengono trattati come stiamo assistendo in queste settimane, anche i migliori, i più sani si demoralizzano. Non è un bello spettacolo da vedere. Quando si fa si può sbagliare, e l’errore (se non è in mala fede) è la cosa più preziosa che abbiamo per crescere, per migliorarci, per sperimentare, creare, introdurre cose via via sempre migliori. Queste sono persone da valorizzare e non da massacrare. Queste sono persone tuttalpiù da aiutare, da correggere e non da denigrare. Si è pagati per risolvere i problemi non per crearli. Qualsiasi azienda, privata o pubblica, che trattasse così le persone avrebbe una vita breve.  Signor Ministro ci affidiamo a Lei perché sorvegli, vigili attentamente su questa situazione tanto complessa quanto delicata. Ne va della credibilità delle istituzioni e della dignità delle persone. Una città intera (ogni anno migliaia di persone, scuole, aziende, istituzioni italiane e di ogni parte del mondo, enti di ogni ordine e grado, università italiane ed estere, etc. etc.) che in 30 anni ha conosciuto in ogni particolare tutte le attività del suo carcere -attività in molti casi fiore all’occhiello a livello nazionale ed internazionale- sta a guardare. Quello del carcere di Padova non è patrimonio di qualcuno in particolare, è patrimonio di tutti, è un patrimonio pubblico. Signor Ministro non ci lasci soli. Grazie. Sottoscrivono Associazione di volontariato Incontrarci; Associazione di Volontariato Ristretti Orizzonti-Granello di Senape Padova; Work Crossing Coop. Soc. P. A. - Pasticceria "I dolci di Giotto"; Insegnanti in carcere presso CPIA Padova; Giotto Coop. Soc.; Teatrocarcere Due Palazzi; Ass. Coristi per Caso; Coro Due Palazzi in collaborazione con CPIA Padova Parini; Docenti scuola superiore in carcere - Einaudi/Gramsci sez. carceraria; ASD Polisportiva Pallalpiede; Gruppo Operatori Carcerari Volontari (OCV); Casa di accoglienza Piccoli Passi; Cooperativa sociale AltraCittà. "Pazzi criminali liberi". Nelle Rems non c’è posto di Alessandro Belardetti La Nazione, 11 giugno 2017 L’allarme: residenze psichiatriche piene, 313 delinquenti pericolosi fuori. Il Garante dei detenuti Franco Corleone accusa: "Incapacità di intendere e volere attribuita con troppa facilità dai giudici". Allarme rosso, rapida retromarcia, eppure lo spettro di "pericolosi criminali in libertà" non viene scacciato. "Responsabili, anche di gravissimi reati di sangue, ma prosciolti per infermità mentale, vagano liberi in alcune zone del Paese perché sono già piene le Rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza nate con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ndr)", ha affermato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Catania, Carmelo Giongrandi, nel report in cui il Csm ha raccolto informazioni dai vertici degli uffici giudiziari sugli effetti della riforma. Nonostante il tiro corretto dal vice presidente del Csm, Giovanni Legnini - "l’allarme sui criminali liberi non costituisce l’oggetto del parere approvato dal Csm, ma la delibera indica piuttosto i benefici derivanti dal superamento degli Opg" - anche Area, che rappresenta le correnti di sinistra della magistratura, evidenzia perplessità: "Il superamento degli Opg è epocale, ma le criticità nell’attuazione sono tanto serie da rischiare di vanificare la riforma. A fronte dell’alta incidenza del numero dei sofferenti psichici coinvolti nel circuito giudiziario e per i quali è necessario applicare una misura di sicurezza, il numero dei posti nelle Rems è insufficiente". Secondo il Dap sono 313 le misure di sicurezza richieste e non eseguite in Italia, di cui 218 provvisorie: insomma una lunga lista d’attesa. "Per strada liberi di uccidere? Non credo, ma queste persone non si sa dove sono esattamente per via di una gestione "fai da te" - analizza Franco Corleone, ex commissario del governo per il superamento degli Opg. Nelle settimane scorse, però, abbiamo approvato un coordinamento nazionale con tre portavoce. Non si tratta di un’istituzione del governo, ma di un dispositivo "dal basso": monitoraggio trimestrale della situazione, raccolta dati, nuove ipotesi per la formazione degli operatori (come la rotazione da una Casa all’altra al posto del classico seminario). Molti nodi però rimangono, come la differenza tra le varie Rems: in Veneto e in Friuli in attesa di una ‘sistemazionè ci sono zero persone, mentre in Sicilia sono circa 80 e in Campania 34. Il problema di questa disfunzione è che i magistrati mandano nelle Rems troppa gente, non utilizzando le misure alternative: libertà vigilata, servizi psichiatrici, casa-famiglia, strutture private". "Non è da sottovalutare ciò che dice il magistrato di Catania, ma gli strumenti giuridici per non lasciare queste persone in libertà esistono - spiega Michele Miravalle, responsabile nazionale dell’Osservatorio di Antigone. I pazienti vengono parcheggiati in liste d’attesa perché i percorsi alternativi richiedono fatica e rapporti con le strutture psichiatriche, insomma ognuno dovrebbe fare il proprio ruolo. La facilità con cui i magistrati dispongono l’invio nelle Rems sta ricalcando il cattivo esempio degli Opg. Ora, però, nelle nuove strutture non c’è sovraffollamento come nelle carceri, perché i direttori sanitari che le gestiscono lo impediscono". E conclude: "Quei 313 "pericolosi criminali" in teoria dovrebbero essere in circolazione a creare il panico: ma allora perché non avvengono gravi reati? Forse queste persone non sono così irrecuperabili, ma solo delinquenti comuni che dovrebbero stare in cella? Molti psichiatri mi raccontano che nelle Rems ci sono ospiti senza patologie psichiatriche". Le residenze in Italia sono 30 - a fine settimana aprirà Caltagirone, Empoli a fine anno, per altri 40 posti complessivi - con 593 ospiti, metà dei quali con misure di sicurezza provvisorie. Le Rems sono nate per garantire alle persone con malattie mentali la detenzione e l’attivazione di percorsi terapeutico- riabilitativi. Dall’aprile 2015 si sono registrati 1006 ingressi e 460 dimissioni - "numeri efficienti, il circuito all’entrata e all’uscita è ben oliato", analizzano gli esperti -, ma diversi problemi in queste strutture restano, come dimostra il recente caso di un ultrà del Genoa fuggito dalla Rems di Genova Prà e morto in moto. E per gli ospiti fuori sede paga l’azienda sanitaria Le Rems sono state edificate con il fondo dello Stato istituito nel 2012 di 173,8 milioni. La legge 81 del 2014 ha stabilito che questi soldi non servono solo per la costruzione, ma vanno utilizzati anche per le altre spese. La retta giornaliera - farmaci, esami clinici, tutto sulle spalle delle Regioni - per ogni paziente varia tra i 290 e i 450 euro. Per gli ospiti fuori dal proprio territorio il costo spetta alla Regione di appartenenza (Asl). A oggi sono 20 i pazienti "fuori sede". La Rems più grande è a Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, con una capienza di 120 ospiti e attualmente 133 persone (18 donne, 10 senza fissa dimora, 4 fuori Regione, 46 misure di sicurezza provvisorie, 87 definitive). Le altre due Residenze che registrano un mini sovraffollamento sono a Volterra (Pisa) con 30 persone per 28 posti e a Montegrimano (Pesaro-Urbino) con 19 ospiti per 15 posti. Intervista a Franco Corleone: "basta perizie psichiatriche, così troppi gli scagionati" di Alessandro Belardetti La Nazione, 11 giugno 2017 Dottor Franco Corleone, perché gli esperti accusano la magistratura di abusare della misura di sicurezza nelle Rems rispetto alle reali necessità giudiziarie? "Perché è la via più semplice per i giudici - risponde il garante dei detenuti della Toscana ed ex Commissario unico del governo per il definitivo superamento degli Opg e il completamento delle Rems. Pensano "le Rems sono bei luoghi, gli ospiti stanno bene", ma in realtà non ci sono più posti. Da quando sono state aperte le Residenze, rispetto a quando c’erano gli Opg, si è registrato il 50% in più di richieste di misure di sicurezza non definitive. Questo crea lunghe liste d’attesa". Come mai? "Perché i magistrati prima avevano pudore a spedire le persone negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ora invece credono di fare una buona azione a mandarli nelle Residenze. Ma così la riforma rischia di naufragare. Non possono esserci così tante persone incapaci di intendere e volere che hanno commesso reati: un minimo di responsabilità deve esserci". Cosa intende? "Le perizie andrebbero eliminate, abrogando gli articoli 88 e 89 del codice penale che prevedono la non punibilità per vizio parziale o totale di mente. Questo risolverebbe alla radice il problema delle perizie psichiatriche: tutti andrebbero a processo se indiziati di reato, poi il giudice valuterebbe le attenuanti. Come si fa a fare una perizia mesi dopo aver commesso un delitto e stabilire che all’epoca l’indagato era incapace di intendere? Il diritto si para dietro queste costruzioni ardite". Una svolta estrema. "Una soluzione che aprirebbe la possibilità di utilizzare maggiormente le misure alternative, come l’affidamento terapeutico, i differimenti della pena, le comunità. Oggi tutto ciò non avviene perché per il malato di mente è previsto il proscioglimento e la misura di sicurezza per la pericolosità sociale". Un’arma efficace contro le perizie salva-detenuti? "Una volta un responsabile di una Rems mi raccontò che un paziente si comportava in modo minaccioso e lui gli intimò: se continui, ti denunciamo. La risposta fu: io sono incapace di intendere. Ci sono ancora troppe perizie taroccate, come insegna il caso Aldo Semerari (celebre per essere stato lo psichiatra di fiducia della Banda della Magliana, con le sue perizie compiacenti per scarcerare i boss, ndr)". Nelle Rems c’è una carenza di posti? "No, i posti sono tanti. Il problema è che nelle strutture dovrebbero starci solo i prosciolti in via definitiva, così si libererebbe la metà dei posti attuali. Per gestire bene la riforma, che ci pone all’avanguardia nel mondo, serve una cabina di regia del governo e un database nazionale". Da chi dovrebbe essere composta la task force? "Ora le Rems sono affidate alle Asl, occorre una responsabilità regionale e un coordinamento con il garante dei detenuti nazionale. Parliamo di misure di sicurezza e non di pronto soccorso, bisogna decidere se serve un regolamento penitenziario oppure no. Se un ospite dà un pugno a un operatore, perché nessuno può valutare l’ipotesi del trasferimento del violento?". Meno matti, più condanne di Gabriele Canè La Nazione, 11 giugno 2017 Non vorremmo che con la chiusura dei cosiddetti Opg si stesse ripetendo il film dei manicomi. E pensare che nel 1978 avevamo deciso di abolire i matti. Via questa brutta definizione, rimasta solo per identificare un giocherellone; e soprattutto via i manicomi, spesso strutture lager che hanno lasciato in eredità poche guarigioni e pochissimi rimpianti. Il rimpianto, e il dramma, sono venuti dopo, quando la società non ha saputo dare aiuto a queste persone e alle loro famiglie. Chiusi gli ospedali con la legge Basaglia, insomma, sono rimasti i malati. E a guardare le sentenze dei tribunali, pare che il loro partito abbia oramai raggiunto la maggioranza relativa nella composita assemblea dei delinquenti. Ammazzi la moglie o il marito? Sei un assassino? No, in quel momento eri incapace, o semi incapace di intendere e di volere: un passaporto per i manicomi criminali. Chiusi anche questi, si è creato un visto per la confortevole assistenza dei Rems, o per la libertà. Il che, siamo sinceri, non ci conforta. Risultato: pare siano 313 i pericolosi criminali psichiatrici a zonzo per il Paese. Mica pochi. E anche se molti di loro psichiatrici non sono affatto, sempre criminali restano. Come non bastassero quelli sani a rendere insicure le nostre vite. Allora, non gridiamo al lupo prima che ci sbrani. Ma non vorremmo che con la chiusura dei cosiddetti Opg si stesse ripetendo il film dei manicomi: un’idea condivisibile calata in una realtà impreparata ad ammortizzarne gli effetti. Fino a rendere negativi, anche quelli positivi. Quindi, meno matti e più colpevoli nei tribunali. Per lasciare spazio nelle nuove strutture a quelli veramente disturbati. Prima che disturbino uno di noi. Processo penale, lo scontro investe anche il governo di Gigi Di Fiore Il Mattino, 11 giugno 2017 Martedì il testo in Aula. Possibile il voto di fiducia, è polemica. Tre mesi dopo il sì definitivo del Senato, la riforma del processo penale si prepara ad ottenere il via libera in seconda lettura anche alla Camera. Martedì, con prosecuzione prevista fino a venerdì, è fissato l’avvio del dibattito in aula che, secondo quanto annunciato dal governo, potrebbe concludersi con un voto di fiducia. Un’eventualità che scatena le proteste e le reazioni, per una volta insieme, sia dell’Unione delle camere penali sia dell’Associazione nazionale magistrati. Avvocati e magistrati non ci stanno ad un voto del Parlamento, in materia così delicata, che non sia preceduto da un ulteriore dibattito. È l’unico punto d’intesa tra giudici e avvocati, poi c’è contrasto su tutto. I penalisti sono in astensione dalle udienze e lo saranno fino a venerdì prossimo, ultimo giorno del dibattito parlamentare. Da un mese hanno avviato una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti. Un’innovazione su cui da sempre l’Anm è contraria e lo è ancora, come conferma il presidente nazionale Eugenio Albamonte, che dice: "Da parte nostra c’è netta contrarietà a qualsiasi ipotesi di separazione delle carriere e deroga all’obbligatorietà dell’azione penale". E ancora: "Indichiamo come soluzione opportuna al miglioramento dell’efficienza della giustizia penale una seria depenalizzazione". Un faccia a faccia pubblico giudici-avvocati si è tenuto a Rimini, al terzo appuntamento annuale della manifestazione "Open day" organizzata dall’Unione delle camere penali. Il presidente dell’Anm ha invitato i penalisti "a deporre il tema della separazione delle carriere". Un tema controverso, come altri che fanno parte della legge che si avvia al voto finale alla Camera e su cui dice Paola Binetti dell’Udc: "Il disegno di legge sulla riforma del processo penale potrebbe essere motivo di frizioni nella maggioranza". I penalisti hanno alzato la voce sin dall’avvio del dibattito parlamentare, tanto da spingere il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a dichiarare nelle ultime ore: "L’atteggiamento delle Camere penali in questo momento è per me poco comprensibile. Viene quasi il sospetto che ci sia la tentazione di entrare nella partita politica. Se è così, glielo sconsiglierei vivamente". E aggiunge, il ministro: "Rispetto alle critiche che sono state inizialmente mosse al provvedimento, mi sembra ci sia una sproporzione nella mobilitazione". Due i punti principali al centro delle critiche degli avvocati: l’allungamento dei termini di prescrizione e l’estensione della possibilità di ricorrere alla video conferenza anche in processi con imputati accusati di reati meno gravi e non più solo per quelli in regime di detenzione al 41-bis. Una riforma motivata dal governo con ragioni di economia, per risparmiare in costi di scorte e trasferimenti dalle carceri ai tribunali. Anche se, in diverse sedi giudiziarie, sarà necessario attrezzare nuova aule per la videoconferenza. Ma il ministro della Giustizia spiega ancora: "Le nostre riforme sono quasi tutte all’ultimo miglio e questi mesi saranno preziosissimi. Martedì va al voto il disegno di legge penale". E il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, sposa l’urgenza: "Manca solo l’ultima lettura parlamentare per la riforma, nel pacchetto ci sono alcune norme che al Csm non piacciono, ma è doveroso approvarlo. Con fiducia o senza, lo decide il governo". Ma al ministro della Giustizia replica a distanza un altro ministro: Enrico Costa di Alternativa popolare, avvocato e titolare del dicastero per gli Affari regionali. Non condivide le bacchettate ai penalisti del suo collega di governo e dice: "Chi sparge il sospetto che le Camere penali vogliano entrare nella partita politica non conosce la storia dell’Unione, i suoi valori, i principi, le battaglie, le mobilitazioni, la passione civile". E poi, dimostrando sintonia con le critiche dei penalisti, aggiunge: "Il confronto sulla riforma è molto acceso e molti temi sollevati dalle Camere penali sono condivisibili. A partire dalle obiezioni sulla riforma della prescrizione, che porta con sé molti interrogativi. Su questo, saremo chiamati a confrontarci martedì". Il confronto in aula non si annuncia facile. Alternativa popolare ha presentato diversi emendamenti alla legge, soprattutto sulla modifica dei termini di prescrizione. Oggi, a due giorni dall’avvio della discussione alla Camera, al confronto si aggiungerà un altro tassello: il Comitato direttivo centrale dell’Anm si esprimerà ufficialmente sulla riforma del processo penale e sull’iniziativa di legge popolare sulla separazione delle carriere promossa dei penalisti. Migliucci (Ucpi): "il ministro non può zittirci, è un nostro diritto intervenire" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 11 giugno 2017 Migliucci, presidente Camere Penali: parliamo di politica giudiziaria. "Pensiamo che la separazione accresca il potere del pm e lo sottoponga alle pressioni e al controllo dell’esecutivo. Anzi, riteniamo che un giudice terzo, non condizionato dal pm, abbia più autonomia nel decidere. La nostra preoccupazione è che il giudice abbia la cultura del pm. Tutti i codici accusatori prevedono la separazioni di carriera tra magistrati requirenti e giudicanti". Torniamo al disegno di legge sulla riforma del processo penale. Perché contestate la possibilità che alla Camera il governo ponga la questione di fiducia? "Riteniamo questa ipotesi inaccettabile. La fiducia è stata già posta al Senato. Non si può chiederla, per la seconda volta, anche alla Camera. Si tratta di questioni importanti, di civiltà giuridica, su cui sono necessari approfondimenti e un dibattito". Quali questioni ritenete più delicate? "Al primo posto poniamo la modifica dei termini della prescrizione collegati all’aumento delle pene edittali. Si tratta di allungare all’infinito i processi, quando già con un sistema come l’attuale un imputato vede allungarsi i tempi del suo processo di anni, soprattutto per le lungaggini nella fase delle indagini. In Italia siamo a una media di dieci anni a processo, mentre in Europa la media è di otto anni e mezzo". Anche sulla videoconferenza da estendere a imputati di reati minori siete contrari, perché? "Pensare, violando il diritto alla difesa, che un imputato di reati minori possa assistere al suo processo via video dal luogo dove è detenuto alimenta le differenze sociali. Ci sarà chi potrà permettersi due avvocati, uno sul luogo di detenzione l’altro in aula, e chi no. Dove dovrà trovarsi l’avvocato’ Un’innovazione contraria alle regole del giusto processo". Altro tema è la possibilità concessa al pm di avviare intercettazioni con dei file trojan e chiederne l’autorizzazione al gip entro 48 ore. Anche qui siete critici? "Assolutamente. Abbiamo chiesto che almeno se ne limiti l’uso ad alcune categorie di reati più gravi. E questo tema fa il paio con quello delle intercettazioni. La riforma vuole colpire la divulgazione, in sostanza l’attività giornalistica, senza chiedersi che prima c’è qualcuno che ha reso possibile la divulgazione diffondendo i contenuti delle intercettazioni. Una fase che resta fuori dalla riforma". Cosa vi aspettate dalle vostre iniziative? "Termineremo le astensioni dalle udienze venerdì. Ci aspettiamo senso di responsabilità nel Parlamento e una discussione approfondita su una materia che è espressione del grado di civiltà di una nazione". La riforma è un passo indietro: fermatela, finché si può di Alessandro Barbano Il Mattino, 11 giugno 2017 Anche di questo il guardasigilli è parso non preoccuparsi troppo, mentre ora reclama la fiducia sulla riforma del processo penale, nonostante farvi ricorso su materie così delicate, che chiamano in causa diritti fondamentali, sia una evidente e grave forzatura. Lo ha riconosciuto ieri la stessa magistratura associata, per bocca del suo nuovo e più mite presidente, Eugenio Albamonte. Il governo pare invece intenzionato ad accontentare Orlando, con l’avallo, si sussurra, perfino dei vertici istituzionali. Dopo le fibrillazioni seguite al flop della legge elettorale, la riforma del guardasigilli sembra la prima stampella a cui appendere la fine della legislatura. D’accordo, il pragmatismo del fare, dopo tante chiacchiere, è una surroga alla debolezza delle ragioni politiche che tengono insieme la maggioranza, e anche un comprensibile tentativo di rimediare alla perdita di senso della politica nella percezione dei cittadini. Ma ci sono modi migliori per giustificare la durata di un governo, e ragioni di diritto e di civiltà per non approvare una riforma che riporta indietro l’orologio della giustizia. Tre misure di questa legge nessuna coscienza democratica e liberale può accettare. La prima è quella che allunga la prescrizione di tre anni per tutti i reati fino al giudicato, e la áncora al massimo di pena previsto per ciascun reato. Il risultato è la vergogna di indagini e processi che, anche per reati di lieve-media entità, possono superare i dieci anni, e nei casi di corruzione possono raggiungere i due decenni. Un tempo che è da solo una pena, allo stesso modo per innocenti e colpevoli. Di questa giustizia il ministro Orlando vuol farsi vanto di fronte a un’opinione pubblica ancora in buona parte forcaiola, mentre accusa gli avvocati di fare politica se protestano contro l’inciviltà che ne deriva? La seconda misura riguarda la delega del Parlamento al governo per sanare la piaga delle intercettazioni. Ma la terapia è peggiore del male. Perché si propone di limitarne la diffusione e, allo stesso tempo, di facilitarne l’acquisizione. Arrivando a consentire al pm la possibilità di intercettare a telefono spento senza autorizzazione preventiva, salvo poi chiedere la convalida al gip a cose fatte. La strada a questo abuso civile l’ha aperta la Cassazione. E siccome in questo Paese le sentenze dei magistrati sono leggi per la politica, il governo la fa sua. Qui si compie quella che abbiamo già definito la confusione tra il dito e la luna: si vuole far credere che il problema delle intercettazioni sia la loro abusiva divulgazione, cosicché basterà qualche criterio interpretativo di pertinenza per i magistrati e qualche sanzione per i giornalisti. Si finge di ignorare che la gogna della condanna mediatica, a cui si è ridotto il processo penale in Italia, è figlia di indagini e castelli accusatori costruiti sul mero assemblaggio di conversazioni captate, spesso prive di alcun riscontro probatorio. Così, in nome di una mistica della trasparenza, la casa di vetro del Paese è diventata una casa degli orrori. Da ultimo, la riforma trasforma l’interrogatorio a distanza da eccezione, giustificabile solo in casi estremi, in una prassi quasi ordinaria, per consentire risparmi alle casse dello Stato, ma con serio pregiudizio per l’esercizio del diritto di difesa e per la natura stessa del processo. Immaginate che cosa significhi per un imputato, magari innocente, far valere le sue ragioni dal carcere attraverso un monitor, mentre in aula la corte decide il suo destino arbitrando la contesa tra pubblici ministeri e avvocati. Non ce n’è abbastanza perché nel governo si muova qualche obiezione, prima che sia troppo tardi’ Siedono, al fianco di Gentiloni, ministri di cultura liberale, capaci di non cedere alla piazzà Alfano, leader dei centristi e già guardasigilli, accetta di votare una fiducia abnorme su un provvedimento abnormè Renzi è capace di uscire dal tatticismo che ha segnato il suo atteggiamento sulla giustizia, per spiegare agli italiani se, tra i deboli che la sua sinistra liberale si propone di tutelare, ci sono anche gli imputati’ Tutti, imputati ricchi e poveri, potenti e marginali, allo stesso modo deboli di fronte a un sistema che somministra un’inaccettabile quota di ingiustizia e di dolore. Né valga l’obiezione con cui in questi mesi il ministro Orlando ha risposto alle critiche di merito sulla riforma: e cioè, se salta la legge, salta anche la delega sull’ordinamento penitenziario, quella sì diretta a lenire le ferite dei deboli, i detenuti. Si stralci questa parte della legge, la si approvi, ma senza usarla come uno scudo per far passare ciò che in un Paese civile non può passare. Non c’è ragion di Stato che giustifichi una piega simile a quella che il Parlamento si appresta a prendere. Dentro la riforma del processo penale i diritti cedono alle ragioni del potere. C’è ancora qualche ora per pensarci, la si usi per riflettere bene, prima di far compiere alla giustizia italiana un altro brusco passo indietro, e a una parte della magistratura un altro deciso passo avanti nel mettere sotto tutela i diritti e la democrazia. Il fallimento delle "class action" di Roberta Polese Corriere del Veneto, 11 giugno 2017 Anni di cause contro treni, banche, vaccini e slot ma in Veneto nessun risultato. La resa delle associazioni dei consumatori: "Tutto inutile". Dalle cause per "tentata strage" contro i ritardi dei treni, ai vaccini, alle slot alle banche e all’inquinamento. Sette anni di cause collettive in Veneto, e nessuna vittoria. Il fine è sempre nobile. È il popolo che si ribella alla dittatura delle aziende (private o pubbliche) e usa lo strumento giuridico per far rispettare la libera concorrenza, o per veder riconosciuto il risarcimento per un sopruso collettivo. La class action è il termine spesso inappropriato che racchiude un concetto molto semplice: tanti contro uno. Articolo di riferimento è il 140 bis del codice del consumo, introdotto nel 2009. E dal 2010 in Veneto le cause collettive non si contano più: ci sono quelle contro le banche, contro i vaccini, contro le infermiere che non somministrano i vaccini, contro l’inquinamento dei Pfas, contro l’amianto, contro il ritardo dei treni, contro le case automobilistiche che taroccano i dati delle emissioni, contro il gioco d’azzardo. Ma tracciando una linea temporale ad oggi, 12 giugno, c’è da rilevare un fatto: nelle cause collettive, il collettivo non vince mai. È vero che non perde nemmeno, nel senso che talvolta le cause restano incagliate nei meandri dei tribunali ed è difficile dimostrare di aver ragione. Le associazioni dei consumatori: "Non servono a nulla" - Il percorso, insomma, è in salita, e ora anche le associazioni dei consumatori, prime promotrici della cause collettive, sostengono che non servono a nulla. La prima a dirlo, in controtendenza rispetto ad altre che ancora ci credono, è l’Aduc, associazione dei consumatori che nel 2008 a Venezia, tanto per fare un esempio, aveva presentato un esposto contro le società che proponevano shopping card per risparmiare sugli acquisti di un centro commerciale inesistente. Ebbene ora l’Aduc dice che le class action sono inutili e non raggiungono (quasi) mai l’obiettivo che si propongono. "Si grida spesso alla class action solo perché è una moda, ma noi non le facciamo più - dice Emmanuela Bertucci, legale di Firenze e responsabile della associazione attiva anche in Veneto - mettere in piedi una causa collettiva e portare avanti le istanze è costoso: basti pensare che in caso di vittoria contro la pubblica amministrazione o contro un’azienda privata, l’associazione deve pubblicare una pagina di avviso di vittoria su tutti i giornali nazionali, in modo che tutti i consumatori possano riconoscersi tra i danneggiati, presentarsi all’associazione e veder riconosciuti i propri diritti davanti al giudice. Gli associati pagano una quota di iscrizione all’associazione dei consumatori, ma non basta a coprire le spese e non esiste nessuno che si immoli per il bene della comunità". Dopo l’exploit del 2010, anno in cui l’articolo 140 b è entrato pienamente in funzione e in cui molti avvocati veneti si erano specializzati in questo tipo di procedimenti, si assiste a una battuta d’arresto. Dalle cause dei pendolari alle slot machine - Certo non tutte le class action sono uguali, anzi ci sono cause che comunemente vengono definite impropriamente collettive, ma che sono costituzione in parte civile nei processi veri e propri di una parte "ristretta" di consumatori che hanno subito un danno. Le "vere" class action (disciplinate dall’articolo 140 bis) sono quelle promosse dai consumatori contro un disservizio o una violazione palese. Ergo può chiamarsi class action quella contro i ritardi dei treni promossa anni fa dall’avvocato Franco Conte di Venezia, che ipotizzava il reato di "tentata strage" per attirare l’attenzione sul danno psicologico provocato dai continui ritardi dei pendolari (ferma in un tribunale). Lo è quella promossa sempre da Conte, contro le slot machine che riducono in povertà centinaia di famiglie (ferma in tribunale), o quelle contro la Volkswagen, che taroccando i dati sulle emissioni ha reso milioni di persone complici del surriscaldamento del clima (anche questa ferma in tribunale). Non sono class action, ma costituzione in parte civile, le cause che raccolgono gli ex azionisti della Banca popolare di Vicenza o di Veneto Banca, gli ex dipendenti esposti all’amianto della Lanerossi di Schio e Piovene Rocchette o della Marzotto di Valdagno. Sono costituzione in parte civile quelle contro l’infermiera infedele che non ha somministrato il vaccino ai bambini di Treviso o Codroipo, o quelle e contro i Pfas, o l’inquinamento provocato dalla discarica di Torretta (Verona), e in genere tutte le cause ambientali. Insomma E. Bertucci (Aduc) Un legale non può sostenere la spesa di una azione collettiva da solo, queste cause sono molto costose e non c’è più nessuno che si immola per i diritti dell’umanità. Ecco perché falliscono, noi non le facciamo più la class action porta avanti le istanze il consumatore in generale, la costituzione in parte civile invece rappresenta gli interessi comuni di una categoria, come, appunto, gli azionisti, i lavoratori, i bambini non vaccinati, i residenti di un territorio inquinato. Due percorsi diversi e una legislazione "ostile" - Se nelle class action, come dice l’Aduc "non esiste più nessuno che si immola per il bene comune", anche nella costituzione a processo, come spiega l’avvocato trevigiano Sergio Calvetti, "antesignano" delle cause collettive, (Veneto Banca e vaccini, per fare un esempio) ci sono molte difficoltà: "La legislazione sulla class action può avviarla solo il consumatore, quanto agli azionisti delle banche non sono qualificati come consumatori ed in più hanno casi solo teoricamente omogenei, ma non del tutto, quindi un soggetto non può rappresentare una pluralità di diritti lesi" dice. Ecco che quasi sempre il consumatore rimane a secco. Eppure gli avvocati ci provano lo stesso e, al contrario di quello che si crede, non è nemmeno un business redditizio: l’avvocato Calvetti raccoglie le adesioni di centinaia di persone presentando una singola denuncia all’autorità giudiziaria, pratica che fanno in molti. "Questo permette la divisione dei costi per il numero di aderenti, la spesa per ciascuno è minima" dice Calvetti. Ci sono altri legali che invece non si fanno dare nulla e prendono soldi solo in caso di vittoria, ma fino ad ora nessuno ha mai vinto qualcosa. "I risultati arrivano se ci sono soggetti solvibili, in questo caso la giustizia ha consentito di ottenere risarcimenti" continua l’avvocato trevigiano. Danni alla salute, tutti si indignano e nessuno paga - E per quanto riguarda l’ambiente? Giustizia è stata (quasi) fatta per alcuni lavoratori delle Officine Stanga (Padova) esposti all’amianto, che due anni fa hanno ottenuto un risarcimento: erano pochi, il giudice ha analizzato tutte le loro posizioni, salvo poi constatare che il proprietario era quasi nullatenente. Altre cause sull’amianto promosse dall’avvocato Eugenio Bortolotto di Vicenza, sono ferme al palo. Come pure quelle sui Pfas promosse dall’avvocato Giorgio Destro di Padova che commenta laconico: "L’opinione comune condanna l’inquinamento, poi è difficile che qualcuno firmi le deleghe - spiega - eppure le cause ambientali hanno un costo, bisogna far analizzare i terreni, l’acqua, e gli avvocati comuni da soli non se le possono permettere". Insomma nemmeno la carta della salute funziona. Troppo presto per fare un bilancio sulle banche venete, anche se un precedente simile lascia intendere che non sarà facile spuntarla: il caso Parmalat, per esempio. A fronte di un’azione di risarcimento collettiva ha vinto chi ha fatto per sé: un risparmiatore napoletano è stato risarcito nel 2015 con 510mila euro. Si era affidato a Confconsumatori, ma da solo. Per il giudice è stato più semplice stabilire l’entità del danno e attribuirgli un risarcimento adeguato. Molti altri stanno ancora attendendo giustizia. Catania: domani convegno "Diritto alla salute del detenuto, nuova realtà per le Asp siciliane" cataniaoggi.it, 11 giugno 2017 "Diritto alla salute del detenuto: nuova realtà per le Asp siciliane" è il tema del Convegno in programma a Catania, il 12 giugno, a partire dalle ore 9.00, presso l’Aula Coro di Notte del Monastero dei Benedettini. L’appuntamento è patrocinato dalla Regione Sicilia, dalla Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle Aziende sanitarie (Sifo), e dall’Asp di Catania. Responsabile scientifico dell’evento è la dr.ssa Maria Anna D’Agata, presidente della sezione siciliana Sifo e direttore UOC Vigilanza farmaceutica ed Ispezione dell’Asp di Catania. "Con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile 2008, le competenze sanitarie della popolazione detenuta sono state trasferite dal Ministero della Giustizia ai Servizio Sanitario Nazionale e ai Servizi Sanitari Regionali, con questo convegno vogliamo - spiega la dr.ssa D’Agata - favorire il confronto fra le diverse istituzioni coinvolte e tracciare, nella peculiarità del contesto e della popolazione carceraria, linee d’indirizzo per la governance anche attraverso l’uniformità nelle procedure delle diverse aziende sanitarie". Due le sessioni di lavoro previste. Nella I sessione (dalle ore 9.30 alle ore 14.00) saranno approfonditi, con specialisti ed esperti, gli aspetti clinici del "diritto alla salute del detenuto". Nella II sessione (dalle ore 15.00 alle ore 18.00), si discuterà il ruolo delle istituzioni nella tutela del diritto alla salute del detenuto. Prevista la partecipazione ai lavori della II sessione (secondo il programma) del prof. Francesco Basile, magnifico rettore dell’Università di Catania; dell’on. Baldassarre Gucciardi, assessore regionale alla Salute; del dott. Carmelo Zuccaro, procuratore della Repubblica di Catania; del dr. Giuseppe Giammanco, direttore generale dell’Asp di Catania; della dott.ssa Elisabetta Zito, direttore della Casa circondariale di Catania (Piazza Lanza); del dott. Gianfranco De Gesu, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria; del dott. Carmelo Giongrandi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania. Concluderà i lavori il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. Livorno: il vino che porta la luce nel buio del carcere, ecco il nuovo Gorgona di Lara Loreti Il Tirreno, 11 giugno 2017 Frescobaldi presenta la quinta annata del bianco e il rosso I detenuti: "Stare in vigna aiuta a capire gli errori passati". Ridono e scherzano come se fosse il giorno più bello della vita. Una vita che sta per dare loro una seconda possibilità. I detenuti della Gorgona hanno una sola cosa in mente: chiudere un capitolo e aprirne un altro. E quella bottiglia di Vermentino e Ansonica, che stringono in gruppo tra le dita energiche, sembra suggellare un brindisi. Di quelli che ubriacano il cuore. Dal bianco al rosso - Un mare di un azzurro più intenso che mai e un cielo senza nuvole giovedì hanno tenuto a battesimo la nuova annata del vino dei detenuti firmato Frescobaldi: il Gorgona. Il bianco dell’isola, con le sue 2400 bottiglie da minimo 70 euro l’una, spopola ormai da cinque anni sui mercati mondiali più esclusivi. Mentre c’è grande attesa per il debutto, che avverrà fra pochi giorni, del Gorgona rosso, come anticipato dal Tirreno, novità di casa Frescobaldi, a base di Sangiovese e Vermentino rosso piantati ex novo in un suggestivo terrazzamento vista mare, in 3000 metri quadri: 600 bottiglie solo per i clienti più affezionati. "È un vino delicato e struggente - lo definisce il marchese Lamberto Frescobaldi - con un bel frutto rosso, un finale lungo con sentori marini, da invecchiamento". Un progetto miracoloso, quello del vino realizzato sull’isola, seguito dall’agronomo Federico Falossi e dall’enologo Nicolò D’Afflitto, in grado di far maturare chi ci lavora con la stessa efficacia delle uve al sole, che batte costante nell’anfiteatro naturale. Lì le viti crescono in un totale di 2 ettari e mezzo. Meritare la fiducia - Il lavoro in vigna sembra aver fatto questo effetto a Chargui, 47 anni, tunisino adottato da Napoli: "Sono deluso dalla mia vita precedente, ho fatto errori grandi per i quali sto pagando - dice con tono fermo - E se qualcuno mi dà fiducia, io devo essere all’altezza: non posso fallire. Qui sull’isola ti dimentichi di tutto, ti rendi conto che hai sbagliato. Ma non è finita: ora ho imparato un mestiere e lo voglio fare bene. Sto lavorando sodo. E aspetto la fine della pena per ricominciare. In Italia non è facile intercettare un binario vivo, il più delle volte i progetti naufragano. In Gorgona, invece, mi sono confrontato con qualcosa di bello. Quando uscirò di qui potrò portare il mio curriculum in giro e dire: "Io ho lavorato con Frescobaldi". Mica male...". Un lavoro di cui andare fieri anche in famiglia: "I miei figli sono orgogliosi di me e di poter dire: "Mio padre fa un vino stupendo! " - aggiunge il 47enne - Stare in carcere non è facile. Se porti un paziente in ospedale per guarire, non lo puoi dimettere malato. La stessa cosa vale per noi. Io voglio stare bene e aiutare la mia famiglia". La fiducia è contagiosa e in vigna sembra regnare l’armonia, oltre che la speranza di riuscire a scollinare e trovare una nuova strada da percorrere. Francesco di anni ne ha 30, è di Napoli e sta in Gorgona dal 2013. A settembre farà la sua seconda vendemmia, anche se è quest’anno che si è cimentato più a lungo nella vigna, dove ha già trascorso 4 mesi: "Lavorare qui mi ha aiutato a essere più responsabile perché bisogna esserlo per prendersi cura delle piante". Gli fa eco Salvo, detenuto da 11 anni: "Il carcere mi ha segnato, ma mi ha anche reso più forte. Ora riesco ad affrontare le difficoltà con maggiore consapevolezza. Lavorare in vigna mi dà grande soddisfazione perché riesco a seguire tutto il ciclo produttivo: dal ramo crescono le foglie, poi arriva il frutto. E infine nel calice posso assaggiare il prodotto finito. Questo è già il secondo anno che lavoro qui e ho imparato cose nuove, ad esempio a curare le piante dalle malattie. Vengo da una famiglia contadina, in Basilicata, e quando tra due anni uscirò, spero di continuare questa attività". Del resto, come ricorda Lamberto Frescobaldi, "questo non è un progetto romantico, ma qualcosa di profondo per cui si lavora sodo". Una fatica che gli stessi detenuti evidenziano anche parlando con gli agenti e con la direttrice del carcere, Santina Savoca: "A volte a fine giornata ci dicono: "Siamo stanchi". Ma basta far loro i complimenti per annullare la fatica". Avellino: "Rischio suicidi nelle carceri", corso di formazione per gli operatori sanitari cinquerighe.it, 11 giugno 2017 Ha preso il via ieri il primo modulo del Corso di Formazione per Operatori Sanitari degli Istituti Penitenziari ambito Asl Avellino, presso la sede dell’aula Magna della Casa Circondariale "Antimo Graziano" di Avellino. Il corso, frutto di una costante sinergia tra l’ASL di Avellino, diretta da Maria Morgante e la Casa Circondariale di Avellino, diretta da Paolo Pastena, è indirizzato a tutte le figure sanitarie impegnate in ambito penitenziario: medici, medici specialisti, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori, tecnici sanitari, personale OSA e OSS, personale di Polizia Penitenziaria e ai medici di continuità assistenziale che intendono avviarsi a questa esperienza lavorativa che permetterà di contattare un pezzo "invisibile" del nostro territorio dove si garantiscono obiettivi di salute e Livelli Essenziali di Assistenza a persone in stato di privazione della libertà. In questo contesto, pressoché sconosciuto, l’operatore sanitario deve saper coniugare l’etica professionale con una realtà complessa e preservare sempre, di fronte alla sofferenza, la dignità della persona considerando la malattia non solo evento clinico ma esistenziale dell’individuo. Ha relazionato, dopo i saluti di rito e la presentazione del corso da parte di Emilia Anna Vozzella - Direttore Sanitario e Anna Pugliese - Uosd Tutela della Salute in Carcere, e Antonio Acerra - Direttore DSM ASL Avellino su: "Nevrosi e Psicosi in ambiente penitenziario; Il rischio suicidario". Avezzano (Aq): "Carcere e scuola, ne vale la pena?", presentati lavori realizzati dagli studenti terremarsicane.it, 11 giugno 2017 Si è concluso nella sala Arssa il progetto "Carcere e scuola: ne vale la pena?". Al progetto hanno partecipato le scuole superiori di Avezzano e prevedeva la consegna di lavori svolti dagli alunni. Ogni istituto ha presentato i propri lavori: Liceo scientifico Vitruvio Pollione: "La percezione della sicurezza nel territorio di Avezzano", ITG e ITG Galilei: "Reato e pena", ITIS: "Le figure che operano nel carcere", IPAA Serpieri: "Le strutture penitenziare- recupero e riabilitazione", Liceo SS Croce: "Ospiti eccellenti. La prima volta". Il convegno è stato introdotto dalla Dirigente del CPIA L’Aquila che ha ringraziato i ragazzi e i docenti per l’impegno profuso. Il progetto si è realizzato grazie alla collaborazione della Casa Circondariale diretta dalla Dott.SSA Anna Angeletti e dal Comandante della Polizia Penitenziaria Cristiano Laurenti. Gli studenti del Liceo Artistico hanno realizzato una bellissima opera d’arte sulla libertà, una scultura che rappresenta un pugno che sorregge le sbarre di ferro che poi la Dirigente Claudia Scipioni ha donato alla Casa Circondariale di Avezzano. Tutti i ragazzi partecipanti al progetto hanno ricevuto un attesto di partecipazione che la Dirigente Scipioni ha consegnato personalmente. Gli alunni hanno riferito di aver vissuto una bellissima esperienza e di essere entrati a far parte di "un mondo che non conoscevano". È intervenuto anche uno studente della casa Circondariale che ha letto una emozionante lettera e ringraziato i docenti. Ha concluso i lavori la prof Piccirillo Fabiola, docente del CPIA L’Aquila, dicendo: "È stato un lavoro faticoso ma il traguardo è stato raggiunto: ne è valsa la pena!". Nel CPIA L’Aquila - punto di erogazione di Avezzano le persone adulte, invece, dopo aver frequento i corsi di inglese, hanno sostenuto l’esame (A2- B1_B2 per la Certifi cazione Linguistica TRINITY e molte persone straniere hanno sostenuto l’esame CILS- Certificazione della Lingua Italiana di livello A1- B1_-B2. Aversa (Ce): detenuti e figli, il Soroptimist ha un progetto Corriere del Mezzogiorno, 11 giugno 2017 Nei giorni scorsi ad Aversa si è svolta una serata di beneficenza organizzata dal Soroptimist International Club della città normanna preseduto da Maria Pina Velardi - a cui hanno partecipato in tantissimi per sostenere il progetto del Club "Lo spazio tutto per sé al fine di consentire i colloqui dei genitori detenuti con i figli minori in ambiente riservato"; ciò nell’ambito del più ampio progetto nazionale "I diritti umani - i diritti dei bambini". Una serata presso il Prestige Club intensa e partecipata da tantissime persone tra cui l’attivissima segretaria del sodalizio Rita Castaldo; il vice presidente dell’Ordine dei Giornalisti Campania, Gennaro Guida; il presidente del Club di Caserta Rita Muto; il senatore Lucio Romano; una folta rappresentanza di rotariani di Terra Normanna; Paolo Santulli, presidente del Panathlon: Petrillo presidente Lions; Assunta Serao e Migliaccio rispettivamente vice presidente e tesoriere del Club. Il duo Franco e Gino ha allietato con le sue performance la serata. Milano: avvocati-chef ai fornelli con le detenute di San Vittore Corriere della Sera, 11 giugno 2017 Finora nelle occasioni importanti erano state loro, le detenute di San Vittore, a cucinare per gli ospiti. Avevano fatto il risotto lo scorso dicembre per quanti avevano assistito alla prima della Scala in carcere. Avevano preparato una marea di cotolette per il pranzo con il Papa, che alla fine aveva diviso la sua col musulmano seduto di fronte a lui. Ma questa volta saranno altri a cucinare per loro. E con loro. Sono un gruppo di avvocati. Avvocati chef. In concreto si tratterà di due cene nel giardino della sezione femminile della casa circondariale di piazza Filangieri. La prima il 15 giugno, giovedì prossimo; la seconda il 21 settembre, sempre a partire dalle 8 e mezza. L’idea è venuta all’avvocato Manuel Sarno, fondatore di un gruppo Facebook di colleghi appassionati di cucina. Non è un esordio di principianti. Il gruppo aveva già organizzato iniziative di gastronomia sociale con un bel seguito di partecipazione, come la raccolta fondi per i terremotati promossa lo scorso autunno quando le toghe servirono una amatriciana "di ottimo livello" a più di trecento persone. Perché non farlo in carcere?, si son detti. Così Sarno ne ha parlato alla direttrice di San Vittore, Gloria Manzelli, e quest’ultima ha aderito con entusiasmo. Hanno fatto un sopralluogo, due riunioni, hanno definito linee operative, logistica, menù, hanno chiesto e ottenuto l’autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per l’ingresso di una troupe televisiva, e adesso manca solo che arrivi il gran giorno. L’intenzione, se la cosa funzionerà, è che in futuro la cena degli avvocati per e con le detenute e magari un giorno con i detenuti possa diventare un appuntamento periodico e fisso. Il format prevede che alcuni avvocati del gruppo, semplicemente, si mettano ai fornelli insieme alle detenute mentre qualche ragazzo della sezione maschile dei cosiddetti "giovani adulti" (che tecnicamente sono proprio questo: ragazzi che la vita ha fatto ritrovare adulti troppo presto e soprattutto nel posto sbagliato) si occuperà degli aperitivi: alle materie prime, ai rifornimenti, a tovaglie-piatti-bicchieri-posate di carta o plastica provvederanno gli avvocati stessi recuperando i fondi tramite la vendita dei biglietti e qualche sovvenzione. Che sia destinato a essere un momento anche emotivamente molto intenso è dimostrato dal fatto che i circa settanta posti disponibili (quanti ne contiene il giardino) hanno cominciato a essere richiesti non appena la notizia dell’evento ha preso a circolare. Ci saranno naturalmente gli avvocati con i loro familiari, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, la presidente del tribunale di sorveglianza. L’evento ha il patrocinio dell’Ordine avvocati, del Consiglio nazionale forense e della Camera penale. Ferrara: calcio in carcere, esempio concreto di integrazione e solidarietà estense.com, 11 giugno 2017 Sfida tra detenuti e la squadra amatoriale di Corlo. Merli: "La casa circondariale ferrarese è qualitativamente elevata". Nella mattinata di sabato 10 giugno, presso il campo sportivo della casa circondariale "C. Satta" in via Arginone a Ferrara, si è svolta una partita di calcio d’eccezione tra una squadra di detenuti "Arginone" e la squadra amatoriale "FC La Compagnia" di Corlo, presieduta da Davide Frattini. Si tratta della terza partita tra le due squadre all’interno del carcere, l’ultima delle quali si è svolta lo scorso novembre. La sfida, conclusasi per 6 a 0 a favore della squadra "di casa", ha visto la presenza dell’assessore allo Sport Simone Merli, e dei padroni di casa, il direttore della casa circondariale Paolo Malato e del comandante di Reparto Annalisa Gadaleta, oltre che di alcuni volontari impegnati da tempo nella struttura. La squadra di Corlo, per l’occasione, ha donato ai detenuti una dozzina di palloni da calcio, alcune divise da gioco, e diversi pacchi di biscotti, oltre a un gagliardetto in ricordo della giornata. In cambio, una delegazione di detenuti ha donato ai giocatori e ai dirigenti della squadra ospite una piccola imbarcazione in legno realizzata dai detenuti del laboratori da alcuni "fratelli ristretti" durante il corso di bricolage. "Questa partita - ha dichiarato l’assessore Merli - rappresenta una delle tante operazioni positive che con regolarità la casa circondariale organizza per migliorare la qualità di tutti, detenuti, personale, e anche per la vita delle persone che dall’esterno vengono qui come volontari o per determinati eventi. Posso, quindi, dire che quello di Ferrara è un carcere qualitativamente elevato". Secondo la comandante Annalisa Gadaleta "la partita rappresenta tanto un esempio concreto di integrazione e di solidarietà fra i detenuti di diverse etnie, quanto un segnale di forte accoglienza ed interazione tra i soggetti ristretti ed i componenti della squadra ospite che inizialmente, si sono approcciati con piccoli passi, anni fa, ed ora vivono questo momento in un clima di estrema solarità e cordialità con i giocatori qui detenuti". Arriva poi il tempo dei "ringraziamenti a Davide Fratini per la consueta attenzione al mondo del carcere e per aver proposto l’organizzazione di questa partita e tutta la squadra anche per la donazione di maglie, palloni e gazebo per i ristretti e all’assessore Simone Merli, quale esponente del Comune, per essere stato presente qui oggi e per il suo attento impegno per tutte le attività sportive all’interno della nostra casa circondariale; come, ad esempio, oggi ci ha promesso sostegno per la donazione di attrezzi e reti da pallavolo per la creazione di alcuni campi da pallavolo". Gli ultimi ringraziamenti vengono dal direttore Paolo Malato che ha dichiarato: "grazie all’amministrazione comunale, a Davide Fratini e ai giocatori della FC La Compagnia di Corlo per la loro sensibilità sui temi dell’integrazione sociale, e per spendersi in attività come questa utili al reinserimento sociale dei detenuti della nostra casa circondariale". "Ma quale paradiso?", di Francesca Borri. Rabbia e miseria, così l’Isis recluta alle Maldive di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 11 giugno 2017 Francesca Borri infastidisce molti. In un mondo di frasi fatte e giudizi pronti, lei mette in dubbio. Si pone domande chiave, non pretende di sapere prima le risposte. In un mondo dove le notizie sugli avvenimenti cruciali arrivano spesso troppo filtrate, lei va a vedere. È una dei pochissimi sopravvissuti di una grande razza: i giornalisti di guerra, quelli che vanno di persona ad ascoltare la gente, là dove ci sono i conflitti, accettando rischi reali in nome di un bene sempre più prezioso: la semplice verità. Verità che è comunque parziale, molteplice, complessa, incompleta, ideologica anche, eppure esiste, ed è la sola sorgente della nostra possibilità di capire. Quando ci commuovevamo per il Kosovo, Francesca Borri era in Kosovo (Non aprire mai). Mentre si consumava la tragedia di Aleppo e tutti i media del mondo ci raccontavano la Siria con reporter prudentemente rintanati in Turchia, era nell’Aleppo dei ribelli, sotto le bombe, per raccontarci la versione di chi era lì, così diversa da quella dei nostri telegiornali; e su Aleppo ci ha lasciato un libro straziante (La guerra dentro). Oggi ci offre uno squarcio di luce sul mondo reale con un libro inquietante pubblicato dalle edizioni Einaudi. Un libro dedicato al luogo a prima vista più implausibile per una giornalista di guerra: le Maldive. Perché le Maldive? Il motivo più semplice traspare dal sottotitolo, Tra i jihadisti delle Maldive, ed è dichiarato nella prima pagina: "A Parigi, a Bruxelles, a Tunisi, parli con i musulmani dei jihadisti dell’Isis e tutti hanno quest’aria mortificata, quasi a volersi scusare, quasi si sentissero responsabili, ti dicono: Sono fuori di testa. Ti dicono: Non sono musulmani. Alle Maldive ti dicono: Sono degli eroi". E subito per noi, orripilati dai crimini rivendicati dall’Isis, è un pugno nello stomaco. Vi avevo avvertito che Francesca Borri infastidisce. Ma la scelta è semplice: crogiolarsi nella visione del mondo rosa confetto, con le povere vittime innocenti da una parte e i pochi pazzi che grondano sangue, fanatismo religioso e odio brutale dall’altra; i buoni buonissimi e i cattivi cattivissimi, e noi ovviamente siamo i buoni. Oppure provare a capire cosa sta succedendo, che motivi hanno in testa gli uni e gli altri. Perché sono andati a combattere per l’Isis così tanti giovani? Non vorrei fare avvicinamenti impropri che possano fare inorridire qualcuno né soprattutto equivocare sugli obiettivi politici che sono ovviamente lontani, ma è un fatto che questi giovani sono quasi altrettanti, vengono da altrettanti Paesi e forse hanno altrettanta sconsiderata generosità e passione, di quanti andarono a combattere Franco durante la guerra civile spagnola. Quelli hanno perso la guerra civile, questi la stanno perdendo. A quelli oggi la storia rende omaggio. Dio solo sa come sarà raccontata la storia di oggi in futuro, o forse dèi diversi sanno cose diverse, chissà. Le Maldive sono il Paese dal quale in proporzione è più alto il numero di ragazzi partiti a combattere in Siria. Lì anche un taxista dice tranquillamente "sono eroi". Perché? L’intero libro lo racconta. Lo racconta al modo di Francesca Borri: con un miscuglio di distanza giornalistica e passionalità. Il libro è fatto quasi interamente di semplici dialoghi. Dialoghi diretti, fra lei e i personaggi più disparati. È come essere lì, parlare con ogni tipo di gente, come fa chi si sforza di capire. Ma Francesca non si nasconde: c’è lei, la sua passione, la sua empatia, il suo strazio per i mali del mondo. "Se tu non senti la pena degli altri, von meriti di essere chiamato uomo", recita il verso luminoso del grande poeta persiano Saadi di Shiraz. Francesca la sente sulla sua pelle la pena degli altri, e ce la mostra. Questa è la forza della sua scrittura. E non c’è ombra di dubbio, proprio per questo infastidisce molti. È più comodo restare nella nostra confortevole bolla chiusa. Il titolo del libro Ma quale paradiso? fa riferimento all’inferno che è la vita della maggioranza degli abitanti delle Maldive, in miseria accanto ai resort di lusso. Ma lungo le pagine ci si chiede se non faccia riferimento alla terra intera. C’è una forte intensità morale nel libro, ma non c’è nulla di semplice nella realtà che illumina. Non ci sono spiegazioni univoche. E per questo non provo neppure a riassumerle qui. Capire significa aprire gli occhi sulla complessità. La diversità dei punti di vista. Lo sguardo di Francesca spazia: la durissima situazione politica e sociale delle Maldive, segnata dal contatto e dalla separazione fra il mondo ricco e il mondo povero, che si articola poi negli scontri di potere locali. Soprattutto c’è la vasta complessità dell’Islam. Di cui dimentichiamo spesso che si sfaccetta almeno quanto il Cristianesimo: San Francesco, quanto la Santa Inquisizione che bruciava streghe a migliaia in Europa; l’Opus Dei quanto i preti operai. Ampio diventa alla fine lo sguardo di Francesca quando per esempio confronta il nuovissimo tradizionalismo dilagante dell’Islam moderno che vuole tornare ai costumi "di un tempo", con le memorie delle nonne e bisnonne, dove nessuno portava il velo, e le moschee erano magari templi di altre religioni. Le Maldive diventano segno di una storia in atto assai più vasta, e questo è il secondo motivo per parlarci delle beate isole delle vacanze. Il mondo che esce dalle pagine di Francesca Borri è un mondo complesso, selvaggio, dove siamo i primi a non essere innocenti, ma un mondo pieno di tracce che ci permettono di capire. Forse, se siamo ottimisti, e vorrei tanto esserlo, ci permette anche di intravedere indicazioni per non continuare a sbagliare, fare ferocemente pagare gli altri, pagare noi. Se non volete restare chiusi nella trappola psicologica che Ronald Laing chiamava il "Loro" contro "Noi", nel tribalismo miope che sta lacerando il mondo, causando dolore, se volete provare a capire qualcosa di vero sul mondo in cui viviamo oggi, leggete Francesca Borri. Io scrivo di fisica alzando gli occhi al cielo, lei scrive guardando il dolore sulla terra: i suoi libri sono più importanti dei miei. Leggeteli. L’Islam moderato non fiorirà mai in un Medio Oriente senza Storia di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 11 giugno 2017 I negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono la schiavitù per sei secoli in più rispetto a europei e americani. Dietro il terrorismo islamista è facile scorgere un vasto retroterra di opinione pubblica mussulmana - presente anche in Europa - che certamente condanna le imprese dei terroristi ma che oscuramente ne subisce una certa fascinazione perché, magari inconsapevolmente, ne condivide alla fine un sentimento di fondo: cioè una radicata avversione antioccidentale. La quale si alimenta a propria volta di un sentimento diffusissimo in tutto il mondo islamico: il vittimismo. L’idea che mentre quel mondo sarebbe stato oggetto da sempre di gravi soprusi da parte dell’Occidente, il suo passato, invece, sarebbe totalmente privo di macchie. L’atmosfera culturale dominante in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi decenni, intrisa di un desiderio di espiazione per i nostri, veri o presunti, peccati storici, ha indubbiamente favorito la diffusione di tale sentimento pronto a volgersi in risentimento. Ma tutto questo ha ben poco a che fare con la storia, con la storia reale che si sforza di accertare e di raccontare i fatti per quello che sono effettivamente stati. Quella storia che però, disgraziatamente, sembra essere ancora oggi la grande assente nell’opinione pubblica islamica. Con il risultato che la non conoscenza del passato favorisce ogni mitizzazione, accredita una visione del mondo in bianco e nero, e contribuisce non poco a distorcere gravemente il significato di quanto accade attualmente, producendo per l’appunto vittimismo e pericolosi desideri di rivalsa. Afare giustizia di molte leggende storiche su due aspetti centrali del passato islamico sono utilissimi due libri (oltre agli smartphone per fortuna esistono ancora i libri). Il primo, recentissimo, è di Georges Bensoussan, "Les juifs du monde arabe" (Odile Jacob, 2017) dedicato, come dice il titolo, alla vita delle comunità ebraiche nell’islam arabo. Il mito di cui qui si tratta è quello - prediletto in special modo da tutta l’opinione progressista occidentale ma costruito paradossalmente dal sionismo tedesco dell’Ottocento - della presunta felice convivenza che avrebbe caratterizzato in generale l’esistenza degli ebrei in tutto il mondo arabo. Fintanto che - così vuole il mito - a spezzare l’incantesimo e a rendere invivibili per gli ebrei i Paesi islamici sarebbe intervenuta la nascita abusiva dello Stato di Israele. Senza la cui presenza, perciò, l’eden avrebbe potuto tranquillamente continuare a esistere. Si dà invece il caso che la realtà, tranne in casi rarissimi, sia stata sempre ben diversa. Le pagine del libro forniscono a questo proposito una vasta documentazione circa il miserabile stato di inferiorità, di forzata ignoranza, in cui per secoli nel mondo islamico gli ebrei furono costretti, in virtù di un pregiudizio religioso antigiudaico ben più vasto e pervasivo di quello diffuso nel mondo cristiano. Per essere tollerati gli ebrei erano costretti, oltre che a pagare una tassa speciale, ad accettare una condizione di paria, ad esempio subendo quotidianamente da parte di chiunque (anche di un bambino islamico incontrato per strada) una serie di angherie, di violenze e di oltraggi mortificanti senza potersi permettere, pena la vita, il minimo gesto di reazione. Si è trattato per secoli dell’applicazione di una vera e propria tecnica di degradazione sociale tendente, suggerisce l’autore, a una sorta di animalizzazione deumanizzante della figura dell’ebreo. Le cose mutarono solo con le conquiste coloniali europee e con la presenza mandataria anglo-francese nell’ex impero ottomano dopo il 1918. Gli ebrei allora - grazie anche ai loro legami con i correligionari in Europa - furono pronti a cogliere l’occasione e a iniziare un percorso di emancipazione culturale ed economica nei vari Paesi arabi, che gli attirò tuttavia una ancor più aggressiva ostilità da parte delle élite e delle popolazioni islamiche. Sicché dalla fine dell’Ottocento al 1945 in tutto il Maghreb e il Medio Oriente aggressioni, disordini, autentici pogrom, non si contarono, a stento contenute dalle potenze coloniali, e con l’ovvia appendice di derive filofasciste e filonaziste. Assai spesso, alla sua origine il moderno nazionalismo arabo-islamico si è nutrito profondamente proprio di questo antisemitismo militante mischiato con l’antioccidentalismo. Quando lo Stato d’Israele, si noti bene, era ancora al di là da venire. Sempre circa l’immagine idilliaca della civiltà islamica che dalle nostre parti ancora piace a molti costruirsi - con conseguente autoflagellazione della civiltà occidentale - bisognerebbe poi che i nostri manuali scolastici si decidessero per esempio a dire qualcosa a proposito della tratta degli schiavi che i negrieri islamici, arabi e berberi, praticarono dall’ottavo al sedicesimo secolo (dunque per almeno cinque, sei secoli in più rispetto ai negrieri europei e americani - di questi ultimi non pochi armatori ebrei di Charleston e di Newport - delle cui imprese, invece, quei manuali parlano a ragione molto diffusamente). Nell’attesa si può ricorrere alle trecento e passa pagine di uno storico della Sorbona, Jacques Heers ("Les négriers en terre d’islam"). Coadiuvati anch’essi - come più tardi i trafficanti euro-americani - dall’indispensabile collaborazione dei capi neri degli Stati dell’Africa sub sahariana - sovente veri e propri Stati predatori dei propri stessi abitanti, i negrieri islamici della penisola arabica e della riva sud del Mediterraneo si diedero per un lunghissimo tempo al commercio quando non all’organizzazione in prima persona di razzie sistematiche, ogni volta di migliaia e migliaia di schiavi, dal Sudan al Senegal, al Mali, al Niger: non mancando d’invocare in molte occasioni il pretesto della conversione e della guerra santa. Fin dall’inizio dell’islam Gedda, Medina, la Mecca, e in seguito Algeri e Tunisi, furono grandi mercati di esseri umani catturati non solo in Africa ma anche per esempio tra i Bulgari e in tutti i Balcani. Alla metà del ‘500 i "bagni" di Algeri erano affollati pressoché esclusivamente di schiavi cristiani, bambini compresi, cui era spesso riservato il triste destino della castrazione. Mercanti islamici arrivarono a trafficare schiavi neri fino in Cina e in India. Come si vede, è abbastanza evidente che se oggi volessimo davvero impegnarci in una battaglia culturale per favorire la nascita di un Islam "moderato", è da qui, da una ricognizione del passato, e quindi da libri di storia come quelli che ho citato, che si dovrebbe cominciare. Dal momento che è solo grazie alla conoscenza dei fatti che si può evitare di credere alle menzogne e di farne lo strumento autoconsolatorio di una propria immaginaria innocenza a confronto della malvagità altrui. Il terrore cambia forme ma è ovunque di Francesco Strazzari Il Manifesto, 11 giugno 2017 Sovranità e terrore. Per combattere il terrore jihadista la democrazia ha bisogno di rafforzare e mobilitare la sua radice radicale: l’indebolimento di ogni istanza legata ad una dialettica di liberazione ed emancipazione, riflessa nella lunga crisi delle sinistre, non è piccola parte della soluzione, ma grande parte del problema. Da Londra a Kabul, da Manila a Teheran - fino al remoto confine fra Mali e Niger - il Ramadan jihadista ripropone lo schema del terrore stragista, mentre il sedicente Califfato combatte all’interno delle sue ultime roccaforti, a Mosul come a Raqqa. In Europa la violenza jihadista assume sempre più la forma della psicosi che si propaga durante eventi pubblici. Se si osserva la sequenza degli attacchi condotti fuori dagli scenari di guerra, il declino del profilo militare del sedicente Stato Islamico appare chiaro. La fine del Califfato, tuttavia, difficilmente verrà accompagnata da una riduzione del numero di attacchi. Il terrorismo jihadista ha da tempo imboccato la direzione che porta verso forme più diffuse, opportunistiche e molecolari di violenza, secondo modalità che non presuppongono addestramento militare: valga come illustrazione l’attacco al London Bridge, condotto fra la folla con un furgone, con false cinture esplosive e coltelli. L’arresto in Germania di un sospetto "giornalista" dell’agenzia Amaq, autrice delle rivendicazioni, getta luce su come Daesh cerchi il massimo effetto con il minimo sforzo. È un fatto che, vedendo avvicinare la fine, al Adnani, già autore del proclama di nascita del Califfato, abbandonò la retorica trionfalistica celebrativa della sua vigorosa espansione, affermando che la conquista delle città non avrebbe significato certo la vittoria di "crociati e apostati" - americani, europei e i loro complici - e moltiplicando gli inviti ad ucciderli per vie disperse, ovunque e comunque. Eppure, ancora una volta leggiamo di possibili incomprensioni nei passaggi di segnalazioni fra agenzie di sicurezza nazionali, e ancora una volta campeggiano sugli schermi i cliché della messa in onda del terrore. Innervata da media fobocentrici, la politica ripete lo slogan ‘non cambieremo i nostri stili di vità mentre fatica a sottrarsi alla reiterazione degli schemi che già li stanno cambiando: i leader occidentali si sfidano evocando la "necessità di un cambiamento radicale", salvo poi non uscire mai dalla coazione a ripetere. Come ha osservato Myriam Benraad, "la comprensione della minaccia e la strategia antiterrorista restano dominate dalla credenza arcaica di una guerra geografica, santuarizzata": insomma scoviamo i loro covi e neutralizziamoli. I jihadisti si professano cittadini del jihad, mentre gli stati scontano il limite di pensare e muoversi come stati. Da questo punto di vista, gli annunci di Theresa May sul finale insanguinato di campagna elettorale hanno rappresentato un momento significativo. Avvertendo il calo di consensi, e sentendosi presentare il conto del suo passato come ministro degli interni, la premier si è dichiarata pronta a fare sul serio (enough is enough: evidentemente finora scherzavamo), liberandosi della zavorra delle clausole in materia di diritti umani - peraltro già sistematicamente espunte da ogni discorso di Donald Trump. Di più, ha evidenziato l’esistenza di una ideologia in comune fra i diversi attacchi terroristici: una visione del mondo che va combattuta anche sul piano delle idee, là dove le idee si generano, si incontrano e si propagano: questo impegno, ha chiarito, partirà da una ulteriore stretta contro le manifestazioni di estremismo politico sulle piattaforme social e dunque su internet. È bene essere chiari su questo: esiste una ideologia jihadista, retaggio complesso di diverse trasmutazioni dell’islamismo politico e del salafismo in diversi contesti politici e sociali. Il portato omofobo, misogino, antisemita, razzista e settario dell’ideologia salafita e wahabita non è condonabile dietro l’alibi del quietismo, ovvero l’idea che non sussista problema "a patto che lo professino a casa loro" - intendendo per "casa" ogni posto dominato de jure o de facto dall’interpretazione puritana della legge islamica (inclusi i quartieri europei di più o meno ghettizzati, di più o meno recente migrazione). L’idea di reprimere le idee radicali, servendosi magari di leggi d’eccezione appoggiate al solo imperio del potere esecutivo, non solo è pericolosa per ogni democrazia fondata sul diritto ma è anche controproducente rispetto ai fini che dichiara di voler perseguire. L’idea di combattere l’estremismo dando supporto a non meglio specificate forme di moderatismo, quando non di conservatorismo, espone a clamorose contraddizioni. Fra queste, sul piano della politica estera, l’andare a combattere Daesh inseguendo una Presidenza Trump che si lega mani e piedi al regime saudita, inondando di armi il regime di Riad, da sessant’anni matrice dell’islamismo politicamente più retrivo, principale fornitore di foreign fighters sui fronti afghano e dello Stato Islamico, perno di instabilità regionali che vanno esacerbandosi - come mostra la recente crisi innescata dalla campagna di ostracismo verso il Qatar, sempre più spalleggiato da Erdogan. Per combattere il terrore jihadista la democrazia ha bisogno di rafforzare e mobilitare la sua radice radicale: l’indebolimento di ogni istanza legata ad una dialettica di liberazione ed emancipazione, riflessa nella lunga crisi delle sinistre, non è piccola parte della soluzione, ma grande parte del problema, in Europa come in Medio Oriente. Del ritorno a quella radice parlano le battute d’arresto delle agende della destra sovranista nelle elezioni europee, e dunque anche il fallimento della campagna di Theresa May e - sia pure non senza qualche ambivalenza - il ritorno sulla scena del Labour guidato decisamente da sinistra da Jeremy Corbyn. I risultati di sedici anni di "guerra al terrore" sono che il terrore cambia forme ma è ormai ovunque, da Manchester a Melbourne: nonostante il perdurare dell’enfasi mediatica sui codici della paura e di proposte elettorali dominate da un’incontrollabile compulsione al controllo, i risultati elettorali in Europa iniziano a segnalare come sia sempre più avvertito il dovere di una disamina radicale delle ricette perseguite in questa triste stagione. Migranti. La Libia allontana le navi Ong di Sara Menafra Il Messaggero, 11 giugno 2017 Sale la tensione tra la Marina militare libica e le Ong. Ieri, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem, senza fare nomi, ha denunciato il comportamento di "alcune" organizzazioni, che sarebbero state intercettate, venerdì, mentre si accordavano tra loro per aspettare i barconi di migranti in arrivo, forse perché informate dai trafficanti dell’arrivo di imbarcazioni alla deriva. Proprio per questo, dice il comunicato libico, "è stato chiesto loro di allontanarsi dalle acque nazionali". Sempre a detta dei libici, due giorni fa sarebbero state salvate 570 persone ma anche recuperata una barca con otto cadaveri. La presa di posizione libica contro le ong, dalle parti del Viminale viene intesa soprattutto come un modo per far valere peso e ruolo dei militari fedeli ad al Serraj nel contrasto al traffico dei migranti e dunque negli accordi con l’Italia. Tanto più che gli strumenti per intercettare le conversazioni radio sono parte della fornitura di strumentazione tecnica che l’Italia ha avviato ad aprile. E che dovranno concludersi entro luglio. Il comunicato diffuso dal portavoce della Marina libica, Ayob Amr Ghasem, parla di "chiamate wireless - ovvero via radio - rilevate, una mezz’ora prima dell’individuazione dei barconi, tra organizzazioni internazionali non governative", prima che i libici intervenissero per riportare a riva 570 migranti. Secondo il portavoce della Guardia costiera, "il comportamento di queste Ong accresce il numero di barconi di migranti illegali e l’audacia dei trafficanti di esseri umani". In quel tratto di mare, venerdì, erano presenti quattro ong, Msf, Openarms, Jugendrettet e la Seawatch che nel complesso hanno salvato 1129 persone. Solo Msf ha esplicitamente respinto le accuse: "Non abbiamo avuto contatto con i libici, la Prudence sta ora rientrando verso l’Italia con 726 persone a bordo, tra cui 53 bambini e un corpo senza vita". Nei mesi scorsi, a sollevare sospetti sul comportamento delle ong erano stati soprattutto l’agenzia europea Frontex e il procuratore di Catania, Pasquale Zuccaro, che aveva parlato addirittura di accordi economici tra i trafficanti e le Ong. È stata una giornata complicata quella di venerdì, nella discussa gestione di soccorsi e rimpatri da parte della Guardia costiera libica: un migrante sarebbe stato ucciso e altri due feriti, sotto i colpi di armi che avrebbero aperto il fuoco dalla costa libica. Ghasem ha raccontato che ci sarebbero stati "tiri da parte di un gruppo armato di trafficanti appostato sulla costa e da due imbarcazioni in fibra di vetro ferma ad un miglio dal porto". Nelle stesse ore ci sarebbe stato anche un brutto naufragio con solo otto corpi recuperati: "I passeggeri a bordo del gommone erano 120 o 130", dicono i libici. Secondo i naufraghi ora diretti in Italia i dispersi di quel naufragio sarebbero cinquantadue. Al momento, la Guardia costiera libica sembra intenzionata a mostrare i risultati positivi dell’accordo fatto con l’Italia in materia di controllo delle acque del Mediterraneo. Un’intesa che presto dovrebbe vedere completato il primo step, con la consegna di altre sei motovedette (oltre alle quattro partite ad aprile) e la formazione di altri sessanta membri degli equipaggi libici. Tutto da organizzare, invece, il pattugliamento del confine sud del paese, tema che il ministro degli Interni Marco Minniti ha detto di considerare fondamentale. Gli sbarchi in Italia, in ogni caso, non si fermano. Migranti. Perché lo ius soli va approvato ora di Roberto Saviano L’Espresso, 11 giugno 2017 È la legge più urgente. Finché c’è qualcuno che pensa di cacciare chi è nato in questo paese da genitori stranieri "Saviano, non mi risulta che in Tunisia ci sia la guerra" è il commento di un utente su Facebook, è una delle tante risposte a un post in cui raccontavo di aver intervistato il rapper Ghali. Questo commento dice tantissimo su un Paese passato dalle battute di Berlusconi sulle persone "scure di pelle" a chi considera le persone scure di pelle immigrati e quindi usurpatori di qualcosa, possibili attentatori, minacce latenti. Serve molta calma per leggere i commenti su Facebook ed evitare di rispondere in maniera rude, e razionalità per convincersi che centinaia di commenti razzisti sono in numero minore rispetto alle decine di migliaia di like di chi non vomita livore. E si badi che non è il mio lavoro, una mia riflessione, una mia intervista che intendo difendere, ma la consapevolezza che commentare un’intervista a Ghali scrivendo che siccome ha origini tunisine debba tornare in Tunisia perché lì non c’è guerra, è un sillogismo abominevole che nemmeno nel peggiore degli incubi avrei pensato di poter leggere. Peraltro ciò che consola me (ma non molti altri, pare) è il pensiero che oggi gli adolescenti italiani possano avvicinarsi all’Islam attraverso il racconto e le testimonianze di coetanei musulmani che di fatto sono italiani. Trovo questa un’esperienza assai più tranquillizzante che venire a sapere che esiste non l’islam, ma il fondamentalismo religioso, attraverso un attentato. Avevo ventidue anni nel 2001 e mai prima di allora si era affrontato con tanta attenzione il fondamentalismo islamico, anche se allora era evidente che non si trattava di scontro tra religioni, né tantomeno tra culture, quanto dell’ovvia conseguenza di politiche internazionali scellerate. Oggi, invece, tutto è azzerato, e non solo perché il terrore blocca il ragionamento, ma anche per la progressiva depoliticizzazione della società. Depoliticizzazione proprio ora che tutto sembra politica, anche un commento sui social? Proprio così, perché dove tutto è politica nulla più lo è. Dove tutto appare dibattito sull’attualità, non c’è più vero dibattito sull’attualità. Dove ciascuno può dire di un ragazzo di 24 anni, nato e cresciuto a Milano, che farebbe meglio a tornarsene in Tunisia perché ha genitori tunisini, si è perso ogni contatto con la realtà, con la storia recente e con le politiche economiche che hanno portato alla situazione attuale. E non posso fare a meno di notare come, a settimane di distanza dalla polemica strumentale montata sulle organizzazioni non governative, che a mio parere serviva solo a blindare il secondo accordo Italia-Libia e a screditare testimoni scomodi, arrivano considerazioni del ministro dell’Interno di altro tenore rispetto ai discorsi di quei giorni. Ecco cosa dice Minniti in un’intervista di Milena Gabanelli: "Io vorrei che una nave, una soltanto, si dirigesse in un altro porto europeo, certo non risolve i nostri problemi ma sarebbe il segnale di un impegno solidale dell’Europa". Tutto vero, tutto verissimo e allora perché negare nell’immediato l’importanza di mostrarsi e di essere solidali? Perché non dire sin da subito e in maniera forte che l’Italia sta facendo tutto quanto deve fare e che semmai il lavoro dovrà essere di progressivo coinvolgimento dell’Europa? Questo significa fare politica, non fomentare sentimenti di bassa lega e di razzismo ignorante. Lo scorso febbraio il Parlamento danese, mostrando preoccupazione per il numero crescente di stranieri e di figli di stranieri presenti in alcune zone del paese, teorizzò qualcosa di inaccettabile, ovvero che chi era nato in Danimarca da genitori stranieri non potesse essere considerato "davvero" danese. Così un’agenzia pubblicitaria di Copenaghen, la Gorilla Media, fece un esperimento: intervistò alcuni bambini nati in Danimarca da genitori stranieri (c’è una bimba che reagisce piangendo ed è la figlia del regista, lo dico per evitare polemiche) e disse loro che non erano davvero danesi. La loro reazione attonita è la risposta migliore al più becero razzismo. La morale di quella campagna di sensibilizzazione è questa: cari politici, quando dite parole in libertà per racimolare consenso, ricordatevi non tanto di cosa state parlando, ma di chi state parlando. Concludo: da giorni il Parlamento italiano viene sollecitato a lavorare ad alcune leggi prima delle prossime elezioni, tra queste c’è l’introduzione dello ius soli, ovvero del diritto di chi nasce in Italia a essere italiano indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Visto il tenore dei sentimenti degli italiani in questa fase, credo che tra tutte sia la legge più urgente. Turchia. Resta in carcere il direttore di Amnesty International globalist.it, 11 giugno 2017 L’avvocato Taner Kilic è accusato di far parte della rete golpista di Gulen. È ancora in carcere l’avvocato Taner Kilic, presidente di Amnesty International in Turchia arrestato martedì scorso dalle autorità perché sospettato di avere legami con il movimento guidato da Fethullah Gülen, ritenuto dal governo turco responsabile del fallito golpe dello scorso 15 luglio. Rimangono in custodia anche otto dei 22 avvocati arrestati insieme a lui nella provincia di Izmir. Gli altri sono in attesa di giudizio. Le autorità turche hanno accusato Kilic di aver ricevuto nell’agosto del 2014 messaggi criptati tramite l’app Bylock, un’applicazione che secondo Ankara è stata creata da gulenisti per le comunicazioni segrete. Accuse negate fermamente dalla Ong. Kilic è stato accusato di "appartenenza a un’organizzazione terroristica", un’accusa che è "una presa in giro della giustizia ed evidenzia l’impatto devastante della repressione effettuata da autorità turche" ha affermato Amnesty. "Taner Kilic è né un sostenitore, né un seguace del movimento di Fethullah Gülen ed era critico del suo ruolo in Turchia", ha detto dal canto suo il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty. Libia. "Liberato il figlio di Gheddafi", le milizie annunciano il rilascio di Saif al islam La Repubblica, 11 giugno 2017 Il prediletto dal leader libico, detenuto dalla fine del 2011, avrebbe approfittato dell’amnistia approvata dal Parlamento di Tobruk. Ma in teoria su di lui pende ancora un mandato d’arresto internazionale per crimini contro l’umanità. Saif al Islam, figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, ucciso il 20 ottobre 2011, sarebbe stato liberato dalla regione di Zintan e sarebbe arrivato nella città orientale di Beida in Cirenaica. Lo riferisce la rete al-Arabiya. A liberare Seif al Islam, 44 anni, secondogenito e il preferito tra i figli di Gheddafi, è stata la brigata Abu Bakr al-Sadiq, una milizia che controlla la città di Zintan, in Tripolitania, la Libia occidentale. Seif, detenuto dalla fine del 2011, è stato liberato in base all’amnistia approvata dal Parlamento di Tobruk in Cirenaica. Il figlio di Gheddafi in teoria sarebbe ancora soggetto a un mandato di arresto internazionale per crimini contro l’umanità per i reati di cui si è macchiato negli otto mesi della rivolta contro il padre. Ma il governo libico (sia quello di Tripoli che quello di Beida che fa riferimento a Tobruk) hanno conteso alla Corte Penale Internazionale dell’Aja il diritto di processarlo. A Tripoli nel 2015 Saif al Islam venne anche condannato a morte ma la pena non venne mai eseguita perché era nelle mani della brigata di Zintan e ora si trova in Cirenaica, fuori dalla sfera di influenza del governo riconosciuto dall’Onu, del premier Fayez al Serraj, che controlla solo parte della Tripolitania.