Pena senza speranza? L’inutile fatica di vivere di Ornella Favero (Presidente CNVG) linkabile.it, 10 giugno 2017 Lettera aperta al ministro Orlando. "Il numero dei detenuti sta pericolosamente risalendo, è necessario unire le forze per un vero cambiamento". Questo è l’appello che abbiamo lanciato con forza, chiedendo un incontro urgente, al ministro della Giustizia Andrea Orlando, che non ha potuto partecipare alla nostra X Assemblea Nazionale. Condividiamo con voi la lettera con le nostre istanze che abbiamo inviato al ministro, ci farebbe piacere sapere cosa ne pensate. "Gentile Ministro Orlando, abbiamo ricevuto e letto con attenzione la lettera di saluto che ci ha indirizzato questa mattina, annunciando, con nostro sentito rammarico, la Sua impossibilità a partecipare alla nostra X Assemblea Nazionale in corso di svolgimento nel carcere romano di Rebibbia. Le rispondiamo anche noi con una lettera, nell’attesa, ci auguriamo breve, di poterla incontrare per discutere con Lei delle urgenti istanze di seguito riportate. Vogliamo proporle qualche riflessione a partire dal titolo che ci siamo dati per questa X Assemblea: "Un volontariato in direzione ostinata e contraria". Il Volontariato che si occupa di carcere e reinserimento sul territorio è da una vita che va nella direzione ostinata e contraria: ostinata perché ci vuole ostinazione per reggere la fatica di un volontariato in un mondo così complesso; contraria perché la società su questi temi, su queste questioni, va costantemente nella direzione dell’esclusione e noi ostinatamente ci battiamo per non "buttare via nessuno". Quando ha iniziato il Suo mandato abbiamo avuto subito l’impressione che Lei fosse un Ministro che non aveva paura di andare in direzione contraria a buona parte dell’opinione pubblica e lo ha fatto promuovendo, tra l’altro, quegli Stati Generali che hanno costituito uno dei momenti più alti di confronto sull’esecuzione penale. Ma qualcosa non sta funzionando. È vero che il sovraffollamento è stato sensibilmente ridotto, e ne siamo stati felici. Oggi però i numeri stanno pericolosamente risalendo. È vero che si è cominciato a pensare a un carcere più aperto, oggi però abbiamo la sensazione che questo processo di apertura e cambiamento si stia in qualche modo inceppando. Invece noi siamo ostinatamente convinti che il carcere debba essere sempre più un laboratorio di confronto e crescita culturale e che le persone, dal carcere, debbano uscire non quando sono ormai ‘scoppiate di galerà, ma nei tempi e nei modi giusti accompagnate, come sempre accompagna il volontariato, in un percorso di progressivo rientro nella società. Questa è l’unica garanzia di sicurezza. Caro Ministro, le chiediamo allora di combattere con noi: perché la vita detentiva perda ogni caratteristica di infantilizzazione e diventi vita dignitosa di persone adulte, che hanno bisogno non di convivere continuamente con conflitti e punizioni, ma di maturare la voglia di cambiare, per sé, per le proprie famiglie, per riparare al male fatto; perché siano rimossi i tanti ostacoli che impediscono a migliaia di persone detenute di accedere a quelle misure alternative che costituiscono un autentico investimento su un futuro non più segnato dai reati; perché si facciano subito quei cambiamenti che non richiedono di mettere mano alle leggi, ma che sono di grande importanza, a partire da un ampliamento dei momenti dedicati agli affetti, che sarebbero per le famiglie una boccata di ossigeno. Caro Ministro, per finire, non crede che sarebbe il momento giusto per incontrare il Volontariato, che con ostinazione sta cercando un dialogo con Lei e che si sta spendendo nella società, per esempio con il progetto "A scuola di libertà", per cambiare l’idea dominante di carcere, pene, reinserimento e per spiegare ai cittadini che una giustizia mite, con un volto umano, ci rende tutti infinitamente più sicuri? Il numero dei detenuti sta pericolosamente risalendo, è necessario unire le forze per un vero cambiamento". CNVG: detenuti in crescita, Orlando ci incontri per garantire sicurezza Redattore Sociale, 10 giugno 2017 Riunita in assemblea, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia lancia un appello al Guardasigilli: "Il numero dei detenuti sta pericolosamente risalendo, necessario unire le forze per un vero cambiamento". La X Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia lancia un appello di 3 punti al Guardasigilli Eliminare dalla vita detentiva "ogni caratteristica di infantilizzazione" per farne "vita dignitosa di persone adulte" capaci di "maturare la voglia di cambiare", rimuovere gli "ostacoli che impediscono a migliaia di persone detenute" di accedere alle "misure alternative" e fare "subito quei cambiamenti che non richiedono di mettere mano alle leggi, ma che sono di grande importanza, a partire da un ampliamento dei momenti dedicati agli affetti" nelle carceri italiane. Questo, in sintesi, l’appello rivolto al ministro della Giustizia Andrea Orlando dalla CNVG Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, riunita oggi nel carcere romano di Rebibbia insieme ad esponenti delle istituzioni, del mondo accademico e del volontariato penitenziario per la sua X Assemblea Nazionale dal titolo "Un volontariato in direzione ostinata e contraria". Il ministro, impossibilitato a partecipare, ha fatto giungere una sua lettera di saluto. La CNVG risponde chiedendo al ministro un incontro urgente. "Il numero dei detenuti sta pericolosamente risalendo, è necessario unire le forze per un vero cambiamento", si sottolinea nella lettera aperta indirizzata al Guardasigilli. Un appello che, si legge, rappresenta la voce di un "Volontariato che con ostinazione sta cercando un dialogo con Lei e che si sta spendendo nella società, per esempio con il progetto "A scuola di libertà", per cambiare l’idea dominante di carcere, pene, reinserimento e per spiegare ai cittadini che una giustizia mite, con un volto umano, ci rende tutti infinitamente più sicuri". Sebbene "quando ha iniziato il suo mandato abbiamo avuto subito l’impressione che lei fosse un Ministro che non aveva paura di andare in direzione contraria a buona parte dell’opinione pubblica", per esempio "promuovendo quegli Stati Generali che hanno costituito uno dei momenti più alti di confronto sull’esecuzione penale", spiega la CNVG, "qualcosa non sta funzionando". "È vero che il sovraffollamento è stato sensibilmente ridotto, e ne siamo stati felici. Oggi però i numeri stanno pericolosamente risalendo. È vero che si è cominciato a pensare a un carcere più aperto, oggi però abbiamo la sensazione che questo processo di apertura e cambiamento si stia in qualche modo inceppando", spiega la CNVG, che rivendica una presa di posizione ben precisa: "Noi siamo ostinatamente convinti che il carcere debba essere sempre più un laboratorio di confronto e crescita culturale e che le persone, dal carcere, debbano uscire non quando sono ormai "scoppiate di galera", ma nei tempi e nei modi giusti accompagnate, come sempre accompagna il volontariato, in un percorso di progressivo rientro nella società". "Questa", conclude, "è l’unica garanzia di sicurezza". Detenuti nelle carceri italiane - Al 31 maggio 2017, risultano 56.863 detenuti presenti nei 190 istituti penitenziari italiani, la cui capienza regolamentare sarebbe stimata a 50.069 posti. Di questi, 848 beneficiano di un regime di semilibertà, mentre 19.356 sono stranieri. Al 30 giugno 2016 il totale delle persone detenute era di 54.072. La CNVG Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia rappresenta oltre 150 associazioni, per un totale di oltre 10 mila volontari operanti in più di 150 carceri. Con il progetto "A scuola di libertà", la CNVG ha raggiunto oltre 13 mila studenti. Servizi minorili: accordo tra ministero della Giustizia e volontariato Redattore Sociale, 10 giugno 2017 Protocollo d’intesa firmato dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e la Conferenza nazionale volontariato giustizia. Orlando: "Accordo importante per promuovere un più intenso percorso di collaborazione, documento ambizioso anche nell’ottica della riforma penale". È stato firmato oggi l’annunciato protocollo d’intesa tra il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità e la Conferenza nazionale volontariato giustizia: un documento che segna una svolta nei rapporti tra i due organismi e contribuisce a definire ulteriormente il ruolo del volontariato all’interno del meccanismo penitenziario minorile e degli uffici per l’esecuzione penale esterna. La firma, da parte del capo Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, e della presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia (Cngv), Ornella Favero, è avvenuta in occasione della X Assemblea della Cnvg in programma a Rebibbia Nuovo complesso. "Un accordo importante - ha commentato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - che risponde all’esigenza di promuovere un ulteriore e più intenso percorso di collaborazione con le organizzazioni di volontariato che aderiscono alla Conferenza Nazionale". "I due firmatari del protocollo d’intesa - spiega una nota del Ministero - realizzeranno una mappatura e una banca dati delle agenzie di volontariato impegnate nel settore dell’inclusione e del reinserimento di persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, favoriranno la stipula di convenzioni per lo svolgimento di attività a beneficio della collettività, promuoveranno l’offerta di programmi di accoglienza residenziale per chi non può accedere a misure di comunità, svolgeranno un lavoro di sensibilizzazione della collettività in materia di misure e sanzioni di comunità. Il Dipartimento riconosce la Cngv quale interlocutore di riferimento per le scelte programmatiche che riguardano gli ambiti di intervento del volontariato nel settore della giustizia minorile e si impegna ad agevolare l’accesso e lo svolgimento delle attività dei volontari, in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna per i servizi minorili". "Il Protocollo d’intesa - sottolinea il Guardasigilli - delinea un percorso ambizioso e importante e avviene in un momento in cui speriamo di giungere presto all’approvazione della riforma del processo penale, che contiene la delega al Governo a risistemare l’ordinamento penitenziario, facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, valorizzando il lavoro e riconoscendo il diritto all’affettività". Il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità e la Conferenza nazionale volontariato giustizia, inoltre, promuoveranno attività riabilitative e riparative, collaboreranno all’offerta di attività culturali, sportive e ricreative, promuoveranno l’accompagnamento nelle misure di comunità e nei rapporti con la famiglia. L’accordo di collaborazione ha efficacia per tre anni e verrà rinnovato con il consenso delle parti. Ministero della Giustizia. Ok all’intesa col no profit per i minori di Eden Uboldi Italia Oggi, 10 giugno 2017 Al via l’intesa sui servizi minorili fra il ministero di giustizia e la Conferenza nazionale volontariato giustizia. Ieri è stato firmato l’accordo per una maggiore integrazione delle attività di volontariato con i servizi minorili e gli uffici di esecuzione penale esterna. L’ente che raccoglie le associazioni di volontariato impegnate nell’ambito della giustizia, in sinergia con il ministero, mapperà tutte le realtà del terzo settore attive in progetti di inclusione e reinserimento di persone sottoposte a provvedimenti giudiziari, aggiungendole in una banca dati di nuova costituzione. In seguito, verranno favorite convenzioni per lo svolgimento di attività a beneficio della collettività, e promossi programmi di accoglienza residenziale per chi non può accedere a misure di comunità. Secondo il guardasigilli, è un passo importante "in un momento in cui speriamo di giungere presto all’approvazione della riforma del processo penale, che contiene la delega al governo a risistemare l’ordinamento penitenziario, facilitando tra l’altro il ricorso alle misure alternative". Il 41bis è tortura, anche per Totò Riina di Franco Piperno Il Dubbio, 10 giugno 2017 Nel nostro Paese, a differenza di quel che accade altrove, non esiste il "reato di tortura"; ma la tortura, inflitta tramite la legge, quella certo non manca. Nelle carceri speciali italiane, quelle dove vige il regime 41bis - si noti il termine, burocraticamente anodino, volto a banalizzare il male - la si pratica normalmente, fa parte integrante della quotidianità del recluso. A far data ormai da un ventennio e forse più. Questa grave asserzione non è una calunnia antagonistica, è una descrizione di quel che accade nelle nostre carceri. Infatti, oltre sedici sentenze della Corte Europea hanno condannato lo stato italiano; ritenendo che il dispositivo afflittivo del 41bis sia del tutto equivalente alla pratica disumana della tortura di Stato. Totò Riina - quella faccia da contadino pescatore mediterraneo, lo diresti un apostolo - è un ergastolano che abita, per così dire, il 41bis da oltre venti anni. È stato un autorevole capomafia, con un suo arcaico e riprovevole codice d’onore, niente affatto mercantile. Ha rifiutato di usare la delazione o anche il pubblico pentimento per ottenere un alleggerimento della condanna. È stato ritenuto colpevole di decine e decine di omicidi - pochi i suoi, molti dei complici, alcuni di estrema crudeltà, come si conviene a un padrino. Si tratta di un ergastolano speciale, nel senso che sconta la sua pena in un carcere speciale: classificato come pericoloso, quasi sempre ristretto in isolamento, perché ritenuto in grado di influenzare le moltitudini mafiose. Toto Riina veleggia verso i novanta anni a mal contare; soffre di patologie invalidanti, non riesce a muoversi, ha difficoltà di parola, non ha contezza di s, quasi fosse entrato in una lunga agonia. Una recentissima sentenza della Cassazione, per una volta destata dal suo torpore secolare, ha stabilito che le condizioni di salute del vecchio boss sono tali da richiedere una argomentazione adeguata della sua pericolosità sociale e quindi della detenzione indegna in regime 41bis. La sentenza ha innescato un dibattito sui media, dibattito nel quale si è distinto un procuratore simbolo della attività giudiziaria contro la criminalità organizzata; questo magistrato ha dichiarato che Riina, fosse perfino muto, esercita comunque un ruolo di comando sulle moltitudini mafiose perché, caso unico tra gli umani, riesce "a parlare con gli occhi". Qui la retorica forcaiola tocca l’acme, acme che coincide senza residui col ridicolo. Così, a partire dalla legge Pica degli anni Sessanta dell’Ottocento, un secolo e mezzo di legislazione speciale non è stato sufficiente per distruggere la mafia; piuttosto ha provocato una sorta di mutazione genetica che permette ai mafiosi di conversare con gli occhi. Il noto procuratore svolge anche, a tempo parziale, il lodevole compito di illustrare e promuovere la legalità nelle scuole e nelle università meridionali. Non è il solo, vi sono anche altri promotori, perfino intere associazioni. Non abbiamo alcun motivo di dubitare delle buone intenzioni di questi variegati volenterosi. E tuttavia non possiamo non rimarcare una omissione trasversale, per quanto marginale essa possa ritenersi. Infatti, per promuovere la legalità tra i giovani meridionali, forse bisognerebbe in primo luogo descrivere la legalità cioè distinguere tra legalità formale e materiale. Per la prima bastano le parole, mentre per la seconda occorre l’esperienza. Detto altrimenti, la legalità che vige nel nostro paese appare nella sua autentica luce se lo sguardo va dal materiale al formale, dal carcere speciale ai luoghi dove si produce la legge e si amministra la giustizia. Considerazione questa di antico buon senso; già Agostino, il santo, suggeriva che il modo più sicuro per vedere quel che nella legge non appare è visitare le carceri. Suggeriamo a don Ciotti, nonché al noto procuratore, nel quadro della promozione della legalità, di organizzare degli incontri tra i detenuti in regime di 41bis e gli studenti meridionali - potrebbe capitare a questi ultimi di ritrovare tra i primi dei parenti sopravvissuti ma per sempre smarriti. 730 detenuti al 41bis, 100 in attesa di giudizio e quasi 300 condannati all’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2017 La maggioranza è reclusa per associazione mafiosa. Attualmente ci sono 730 detenuti al regime del 41 bis, tra i quali 100 in attesa di giudizio e 300 sono ergastolani, la maggior parte ostativi. Questi sono i dati attuali che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fornito a Il Dubbio. Ciò significa che oltre la metà, non avendo commesso nessun omicidio, hanno un fine pena e quindi, in media, dopo 10 anni ritornano liberi. La maggioranza dei reclusi al 41 bis sono stati condannati per associazione di tipo mafioso, (articolo 416 bis), il restante è in regime duro per reati legati al terrorismo. Il dottor Roberto Calogero Piscitello, dirigente della direzione generale detenuti e trattamento, che è stato sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia (Dda), ha spiegato a Il Dubbio che sono 13 gli istituti penitenziari nei quali sono ospitati detenuti al regime del 41 bis. La misura prevede l’isolamento del condannato in cella, ma anche dei momenti di socialità con gli altri detenuti (due ore al giorno tra aria e socialità e mai in gruppi superiori a 4 soggetti). Piscitello ha aggiunto che, inoltre, questi altri detenuti "non devono assolutamente appartenere allo stesso gruppo criminale". Per via di una legge del 2009, si tende ora a istituire penitenziari dedicati completamente al 41 bis e collocati preferibilmente in aree insulari. Proprio per questo, nel 2015, la casa circondariale di Sassari "Giovanni Bachiddu" ha aperto le porte ai detenuti del 41 bis e, secondo i dati più recenti, vi sono reclusi 90 boss mafiosi, mentre 23 sono in regime di alta sicurezza per terrorismo islamico. Parliamo di un carcere inaugurato nel 2013, ma progettato nel 2005. Il ritardo è dovuto alla realizzazione delle strutture destinate proprio ad accogliere detenuti in regime di 41 bis che non erano state previste nel progetto originario. Il terzo blocco dedicato al regime duro ha una disposizione di celle definita "ad alveare" per evitare qualsiasi contatto all’esterno e con i detenuti delle altre celle. Tutto è pensato per isolare, estraniare, dividere dal mondo come prevede il 41 bis: le celle sono divise in blocchi, nei quali vengono ospitati solo 4 detenuti, gli stessi con i quali si condivide l’ora d’aria e la ‘ socialità’. Tutto è pensato in chiave moderna. Attigua alla cella è stata progettata una sala per le video conferenze, nella quale i boss possono seguire le sedute dei processi che li riguardano. Proprio per via dell’esigenza del 41 bis il dottor Piscitello ha spiegato che eventuali traduzioni all’esterno per via dei permessi di necessità - vengono concessi solo per motivi familiari gravi, tipo lutto o grave malattia da parte dei parenti più prossimi - hanno un costo che può raggiungere i 20.000 euro. Ma ciò è inevitabile, perché "il regime del 41 bis - spiega sempre il dirigente della direzione generale detenuti e trattamento - non consente il rispetto della territorialità della pena previsto dall’ordinamento penitenziario, proprio per evitare eventuali rapporti con il clan del territorio di appartenenza". Proprio partendo - ma non solo - da quest’ultimo aspetto, i giuristi e il mondo politico si dividono in due scuole di pensiero: da una parte c’è chi reclama la costituzionalità e l’esigenza di tutte le forme cautelative che prevede il regime speciale, d’altra c’è chi mette in discussione la sospensione dei diritti per i reclusi al 41 bis, negando loro il principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Oltre all’esclusione da tutti i benefici (lavoro all’esterno, permessi, semilibertà, arresti domiciliari ecc.). Vedremo in concreto, nella prossima puntata, che cosa prevede il regime 41 bis e se ci saranno delle modifiche volte a umanizzare il regime duro senza precludere lo scopo per il quale è nato. Il 41bis, da legge emergenziale a legge ordinaria Come nasce il 41 bis? Tutto ha inizio nell’estate del 1992 quando nel giro di due mesi, dal 23 maggio al 19 luglio, in due attentati furono uccisi i due più popolari e capaci giudici antimafia, Giovanni Falcone insieme alla moglie e a tre uomini della scorta e Paolo Borsellino insieme a cinque poliziotti. La risposta delle istituzioni non si fece attendere. L’ 8 giugno 1992, con un decreto legge, venne introdotto nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41bis, il circuito di detenzione più duro del sistema penitenziario italiano. Si era previsto che tale regime avrebbe cessato di avere effetto dopo tre anni ma, nel 1995, una legge ne prorogò l’efficacia fino al 31 dicembre 1999 e una successiva proroga di altre tre anni, fino a che, nel dicembre 2002 (governo Berlusconi II, ministro della Giustizia Roberto Castelli, ministro degli Interni Giuseppe Pisanu), l’art. 41 bis è stato definitivamente inserito nell’ordinamento penitenziario. Da legge "emergenziale" è passato a legge "ordinaria". Lo scopo principale del 41 bis è quello di far evitare qualsiasi tipo di contatto esterno con l’organizzazione criminale di appartenenza. Ergastolo ostativo. Il fine pena mai se non si collabora In Italia abbiamo due diversi tipi di ergastolo: quello "ordinario" e quello "ostativo". Con il primo c’è la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale; mentre il secondo è una pena senza fine che, in base all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario nega ogni misura alternativa e ogni beneficio a chi sia stato condannato per reati associativi, a meno che non sia un collaboratore di giustizia. La categoria dei reati ostativi si è nel tempo allargata ed è andata a costituire il fondamento di quello che si usa normalmente definire come un trattamento esecutivo differenziato. È previsto un sistema trattamentale a doppio binario: uno ordinario e uno speciale. Con la possibilità di beneficiare degli strumenti alternativi alla detenzione, ai quali i condannati e gli imputati per i reati ostativi possono accedere solo se collaborano con la giustizia. Gruppo Operativo Mobile. Settecento agenti del reparto speciale Il Gruppo Operativo Mobile, il reparto speciali di polizia penitenziaria per i detenuti al 41 bis, è un reparto della Polizia penitenziaria creato nel 1997 con un provvedimento dell’allora Direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Michele Coiro. Il Gom opera alle dirette dipendenze del Capo del Dipartimento alle dirette dipendenze del Direttore Generale dell’Amministrazione penitenziaria. Al personale, circa 700 unità, appartengono ufficiali e vari ruoli dell’ex corpo degli agenti di custodia. Il personale che lavora nei reparti operativi periferici ruota ogni quattro mesi, per motivi di sicurezza legati all’indice di pericolosità dei detenuti. Al Gom spetta il compito di garantire la sicurezza nei processi alla criminalità organizzata, in particolare per quanto concerne il servizio di videocomunicazione, nei procedimenti penali a distanza. Il detenuto Riina e la Cedu di Francesco Buffa* questionegiustizia.it, 10 giugno 2017 Mi sembra opportuno, nel contesto delle accese polemiche di questi giorni sulla questione dei diritti umani del detenuto Riina, ricordare - in modo assolutamente neutro e senza voler prender posizione con riferimento al provvedimento giurisdizionale recentemente emesso dal giudice di legittimità italiano - che la Corte europea dei diritti dell’uomo poco tempo fa si è pronunciata con due sentenze su ricorso proposto da Salvatore Riina contro l’Italia. Il ricorrente, ergastolano sottoposto al regime dell’art. 41 bis co. 2 Op, lamentava la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu, sostenendo che il suo mantenimento in stato detentivo sotto il regime 41 bis costituisse un trattamento inumano e degradante, con ripercussioni sul suo stato di salute; lamentava inoltre l’illuminazione notturna della sua cella, il controllo continuo della corrispondenza, la videosorveglianza costante nella sua cella, compreso nel bagno, le restrizioni temporali e modali applicate alle visite di familiari. Con sentenza del 19 marzo 2013, la Corte Edu ha precisato i criteri che presiedono all’applicazione dell’articolo 3 della Convenzione in materia dell’esecuzione della pena nei confronti di detenuti affetti da patologie, statuendo che: - perché una pena e il trattamento ad essa associato possano essere definiti "inumani" o "degradanti", la sofferenza o l’umiliazione devono comunque eccedere quelle che comporta inevitabilmente una data forma di trattamento o di pena legittimi (Jalloh c. Germania [GC], n. 54810/00, § 68, Cedu 2006-IX); - che, tenuto conto delle esigenze pratiche della carcerazione, la salute e il benessere del detenuto devono essere garantiti in modo adeguato, in particolare attraverso la somministrazione delle cure mediche necessarie (Kudla c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 94, Cedu 2000-XI, e Rivière c. Francia, n. 33834/03, § 62, 11 luglio 2006), sicché la mancanza di cure mediche appropriate e, più in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni inadeguate possono in linea di principio costituire un trattamento contrario all’articolo 3 (Ilhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 87, Cedu 2000-VII, Papon c. Francia (n. 1) (dec.), n. 64666/01, Cedu 2001-VI, Sawoniuk c. Regno Unito (dec.), n. 63716/00, Cedu 2001-VI, e Priebke c. Italia (dec.), n. 48799/99, 5 aprile 2001); - che la Corte, nell’esaminare la compatibilità del mantenimento in stato detentivo di un ricorrente con uno stato di salute preoccupante, deve tenere conto di questi tre elementi in particolare: a) le condizioni del detenuto; b) la qualità delle cure dispensate; c) l’opportunità di mantenere lo stato detentivo alla luce delle condizioni di salute del ricorrente (Farbtuhs c. Lettonia, n. 4672/02, § 53, 2 dicembre 2004, e Sakkopoulos sopra citata, § 39). La Corte ha quindi applicato tali principi al caso di specie, ove, benché il ricorrente soffrisse di diverse patologie, i giudici di sorveglianza avevano rigettato le istanze di sospensione dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare, ritenendo che le cure dispensate fossero adeguate allo stato di salute del ricorrente. È bene precisare che il ricorso di Riina era stato presentato nel 2009, che in esso si deduceva una situazione di salute del detenuto relativa agli anni 2003 e seguenti. La Corte ha sul punto ritenuto il motivo di ricorso manifestamente infondato, ritenendo che le autorità nazionali avessero adempiuto all’obbligo di tutelare l’integrità fisica del ricorrente, seguendo attentamente l’evoluzione del suo stato di salute e dispensando cure adeguate nell’ambito del servizio medico interno del carcere o all’occorrenza in ambiente ospedaliero. Ne derivava secondo la Corte che il trattamento riservato al ricorrente non eccedeva l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che non era stata raggiunta la soglia minima di gravità per l’applicazione dell’articolo 3 della Convenzione. Con la medesima sentenza su richiamata, sono stati rigettati anche gli altri profili di ricorso, ritenendosi l’illuminazione notturna della sua cella, il controllo continuo della corrispondenza, le restrizioni temporali e modali applicate alle visite di familiari, ed in generale trattamento detentivo di cui all’art. 41 bis giustificate in relazione alla pericolosità del condannato e compatibili con la Convenzione. Il motivo relativo alla sottoposizione a videosorveglianza costante della sua cella, compreso del bagno, comunicato al Governo italiano, conformemente all’articolo 54 § 2 b) del regolamento della Corte, è stato invece poi respinto con successiva sentenza Cedu del 14 marzo 2014 in ragione di irricevibilità per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. *Consigliere della Cassazione attualmente in distacco alla Cedu Una democrazia in salute non può ricorrere al 41bis di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 10 giugno 2017 In un Paese democratico le carceri non dovrebbero essere luoghi in cui si sceglie di morire, ma luoghi in cui si sceglie di rinascere con valori più positivi. Uno Stato che chiede il rispetto della legalità utilizzando la violenza e calpestando la dignità dell’essere umano, non è credibile. Esso non potrà mai ricevere ciò che non dà. Il livello di democraticità di un Paese è direttamente proporzionale alla qualità del funzionamento del suo sistema penitenziario, che mira alla rieducazione e al reinserimento sociale del detenuto. I gulag staliniani, quelli turchi, quelli cinesi, sono esempi estremi di carceri tipiche di sistemi politici antidemocratici, dove la detenzione non ha una finalità rieducativa, bensì solo punitiva. Ma esistono anche carceri inumane in Paesi democratici. Un esempio è rappresentato dal carcere statunitense di Guantánamo. Eppure non ci serve andare così lontano, perché un sistema simile sopravvive proprio in casa nostra. Si tratta del regime penitenziario previsto dall’articolo 41-bis e chiamato "carcere duro", che comporta la sospensione delle normali regole di trattamento dei detenuti (anche quelli in attesa di giudizio) per reati di criminalità organizzata. Già nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (Cpt) ha preso atto che i detenuti sottoposti al trattamento di rigore subiscono un isolamento che ha effetti dannosi ed irreversibili sulle loro facoltà sociali e mentali, producendo disturbi d’ansia e di personalità, e ha avanzato il sospetto che tale regime sia stato introdotto per provocare la dissociazione o la collaborazione dei detenuti mediante una pressione psicologica illegittima. Nel 2000 il Cpt ha sollevato il dubbio sulla legittimità di un sistema in origine concepito come temporaneo, ma che ha finito con il diventare permanente. Inoltre, il Comitato, ha rilevato un continuo inasprimento del regime speciale, che rende impossibile l’attuazione di un programma rieducativo. Se nelle carceri italiane, salvo qualche eccezione, le condizioni di vita dei detenuti sono rese difficili da diverse problematiche, tra cui il sovraffollamento, quanto è dura la vita di coloro che si trovano in un regime che annulla i diritti del detenuto? Questa domanda non se la pone nessuno. Perché di 41-bis non si parla. Anzi, ci siamo persino dimenticati che esso esiste. Noi di Libero vogliamo raccontarvelo per la prima volta e dall’interno, ossia dal punto di vista di chi il carcere duro l’ha vissuto. Fulvio Rizzo, 50 anni, è stato sottoposto al regime speciale dal 1992 fino al 2014 (condannato per concorso morale in omicidio). Oggi è un uomo libero, che ha saldato il suo debito con la società, pagando onerosi interessi. Cos’è il 41 bis? "Il carcere duro è isolamento nell’isolamento, qualcosa che ti rende meno di niente e che ti uccide ogni giorno, deteriorandoti e spogliandoti della tua dignità". Oltre all’isolamento perenne, avvengono violenze? "Dal 1992 al 1997, che ricordo come gli anni più terribili, ci sono state violenze fisiche che nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontare. Le grida di aiuto e di dolore non riescono a "superare" le mura del carcere. Vengono soffocate". Lei ha mai subito torture? "Io come tutti gli altri. Lì si è tutti uguali. Siamo tutti numeri zero, senza volto, senza nome, senza vita. Di notte e di giorno poteva accadere all’improvviso di essere percossi da guardie incappucciate, spesso ubriache. Entravano in cella ed iniziavano a pestarti: calci, pugni, offese, sputi, persino sulle foto delle nostre donne. Si viveva nel terrore perenne. Certi giorni facevano la cosiddetta "saponata" nel corridoio e ti ordinavano di uscire dalla cella, scivolare era inevitabile e a quel punto iniziavano le percosse, anche sugli anziani o sui malati". Per quale motivo vi picchiavano? "Non c’era mai un motivo. È difficile da spiegare a chi questa realtà non l’ha vissuta: la violenza è parte integrante di quel sistema, un’abitudine. Ma non per questo fa meno male". Cosa fa tanto male? "Più delle botte brucia quel senso di umiliazione che queste provocano, l’essere alla merce di un altro essere umano che in quel momento si sente forte, superiore, migliore di te". Forse fa male anche l’essere presi a botte e non sapere neanche il perché... "La violenza è sempre priva di senso. In questo caso, lo è di più, perché manca anche un significato logico-consequenziale". Di certo non si può sostenere che questa violenza risponda ad un fine rieducativo… "Assolutamente. Un cazzotto nell’occhio non ha mai reso migliore nessuno. Una carezza sì". Chi muore in carcere muore di carcere? "Sì. I tentativi di suicidio sono quasi quotidiani, al pari delle morti sospette. Ma soprattutto nel carcere duro ci si ammala tanto, spesso di tumore. Anche io ho avuto il cancro. Forse è la qualità della vita che porta persino il proprio organismo ad autodistruggersi. In fondo, morire è l’unico modo per evadere da quell’inferno. Il detenuto trascorre tutto il giorno nella sua minuscola cella, da solo, l’ora d’aria viene consumata in un cortiletto dove continui a girare intorno a te stesso per muoverti, stando sempre fermo. Spesso persino lì il cielo è coperto". Sembra quasi un modo per fare impazzire il detenuto... "E quale altro scopo potrebbe esserci?". Cosa non potrà dimenticare mai? "Le grida dei miei compagni che venivano picchiati; il caldo soffocante d’estate e il gelo e l’umidità che mi penetravano le ossa in inverno. La tortura delle ispezioni continue, almeno due volte al giorno". In carcere lavorano anche persone perbene. Tu ne hai conosciute? "Per fortuna sì. Esistono due tipi di guardie penitenziarie o di direttori. Ci sono quelli portati al trattamento e quelli portati al trattenimento. I primi credono che il carcere debba rieducare il soggetto riconsegnandolo alla società; i secondi, credono sia un luogo di espiazione, una sorta di girone dell’inferno in cui sfogare il proprio sadismo". Come è sopravvissuto lei a tutto questo? "Io ce l’ho fatta perché la mia famiglia mi ha sempre sostenuto. Mia figlia è stata il mio faro, mi ha insegnato a scegliermi, a non lasciarmi andare". Come è stato il ritorno nel mondo esterno? "Ti devi innanzitutto riabituare ai colori. In carcere è tutto grigio. Rivedere l’azzurro del cielo è un’emozione forte, resti quasi accecato dalla luce. Uscire è come vedere il mondo per la prima volta. Quando ebbi il primo permesso di 4 ore, mi portarono in gelateria e restai stupito davanti a tutti quei gusti colorati. Durante la detenzione ho studiato, perché l’emancipazione culturale equivale ad un’emancipazione dal sistema deviante, quindi ci rende liberi. Il pregiudizio da parte della gente lo subisco ancora. Ma tante persone mi hanno dato fiducia. Ho lavorato prima come volontario, prendendomi cura di 22 anziani. Oggi gestisco un albergo e un ristorante a Lecce, scrivo opere teatrali e mi sto dedicando alla stesura di un libro con Willy Pasini". Quindi è possibile tornare a vivere dopo il 41-bis? "Sì, grazie a coloro che mi hanno guardato dall’alto in basso non per disprezzarmi, bensì per tendermi una mano e mettermi alla pari con loro. Se dai fiducia al detenuto, questo non la tradisce. Se gliela neghi, è facile che egli diventi un criminale incallito. Se non avessi ricevuto fiducia, non sarei potuto andare avanti. Lo Stato me l’ha negata, convinto che per dimostrare la sua forza debba imprigionare e non redimere. Ma così dimostra solo debolezza". Cosa hai imparato in carcere? "Ho riflettuto sul fatto che la parola carcere è l’anagramma di "cercare". Nella mia cella ho cercato me stesso. Ed è una ricerca che tuttora mi impegna. Per essere un uomo sempre migliore". Caso Riina, la "morte dignitosa" non vale solo per lui di Adriana Tocco* La Repubblica, 10 giugno 2017 Riina ha diritto a una morte non priva di dignità. So bene che la reazione più ovvia e più diffusa è l’osservazione che di nessuna dignità hanno usufruito le vittime di cui egli ha disseminato l’Italia. So, per esperienza personale, quanta forza d’animo occorra per superare questa reazione emotiva e ritenere anche il più efferato criminale titolare di diritti costituzionalmente garantiti. L’osservazione che io faccio è piuttosto di altra natura. I nostri istituti penitenziari sono pieni di persone affette da patologie gravi, tumori, malattie renali, cardiache o da patologie che diventano gravi per la mancanza di cure tempestive e appropriate. Nelle commissioni in cui mi sono trovata ad operare ho insistito perché si suggerisse al legislatore di ampliare la casistica del differimento obbligatorio pena, oggi riferito a tre casi, Aids conclamato, gravidanza, parto avvenuto da meno di 6 mesi, allargandolo a chi è affetto da tumore e deve essere sottoposto a chemioterapia, a chi è soggetto a dialisi e a casi di malattie rare, difficilmente affrontabili in carcere. Questo non per privare il magistrato di sorveglianza del suo margine di discrezionalità, ma per liberarlo da una responsabilità grave e che, a ben vedere, non rientra nelle sue competenze, lo stabilire cioè il grado di gravità di una malattia. Non posso dimenticare un’ordinanza di rigetto in cui, di fronte a una persona colpita da ictus mentre si trovava in carcere, costretta su una sedia a rotelle, completamente incontinente, impossibilitata a mangiare da solo e a esprimersi, si elencavano diligentemente tutte le patologie, ma si concludeva, che tuttavia tale situazione non superava i limiti della umana tollerabilità, (come se la tollerabilità umana fosse misurabile in astratto e non fosse legata anche ai contesti, ai luoghi, ai tempi) e per di più, essendo originata da mali ormai irreversibili, era inutile sospendere la pena. Si trattava di un detenuto per reati comuni. Rispetto alla salute, l’inosservanza degli articoli 27 e 32 della Costituzione è totale. L’individuo autore di reato è affidato allo Stato, che deve tutelarne la salute, come "diritto fondamentale". Ma è proprio lo Stato a porsi fuori legge contravvenendo a tale principio. Sarebbe lungo elencare i casi di patologie aggravatesi o assunte in carcere. E che dire delle interminabili custodie cautelari, con continui rinvii dell’inizio del processo, causa di stati di ansia e depressione, da cui vengono colpiti soprattutto gli extracomunitari, dimenticati nelle nostre carceri? Si tratta di storie di ingiustizia quotidiana che toccano soprattutto ai più poveri, ai più soli, ai più disperati. Questo per concludere che il diritto alla salute e a una morte dignitosa è inderogabile, ma deve valere per tutti, non può l’efferatezza e la notorietà dei reati essere un titolo preferenziale per usufruirne *Garante per i detenuti in Campania Governo, sì alla fiducia sulla riforma penale. L’ira di Alfano in Cdm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2017 Alla fine le perplessità sono state lasciate alle spalle e dal Consiglio dei ministri di ieri è uscito un orientamento chiaro a favore del voto di fiducia sulla riforma del processo penale. Il testo è all’ordine del giorno della Camera a partire da martedì. Determinante la presa di posizione del premier Paolo Gentiloni che ha sottolineato come il testo è passato anche al Senato con la fiducia. Di certo, in caso contrario, le decine di voti su un testo assai complesso e su una materia tradizionalmente delicata avrebbe fatto correre all’intervento il forte rischio di un ritorno a Palazzo Madama, con la certezza pressoché assoluta di un inabissamento. Fortissima la contrarietà espressa dal ministro degli Esteri Angelino Alfano, tanto che Ap potrebbe votare sì alla fiducia e no al provvedimento. Soddisfatto invece il ministro della Giustizia Andrea Orlando che molto ha puntato su queste misure per qualificare lo scorcio finale della legislatura. Disegno di legge, in realtà, assai composito, con norme che entreranno subito in vigore ed altre per le quali sarà necessaria la redazione dei decreti delegati. Tra le prime, quella di maggiore impatto è senza dubbio la revisione della disciplina della prescrizione, modulata non tanto attraverso un aumento dei termini, quanto attraverso un blocco del loro decorso in caso di condanna nel grado precedente di giudizio. Troppo per alcuni, anche all’interno della maggioranza (Ap), troppo poco per altri (M5S). Tra le seconde, la revisione della disciplina delle intercettazioni, con una commissione del ministero già in rampa di lancio per definire, tra l’altro, i limiti alla divulgazione di quelle non necessarie al procedimento penale, recependo anche le circolari di autoregolamentazione di alcune Procure. Tra magistrati e avvocati restano forti le perplessità. Le Camere penali hanno proclamato, a partire da lunedì, una nuova settimana di astensione dalle udienze, contestando l’impostazione autoritaria e anti-garantista di molte norme, è il caso del processo a distanza, e l’utilizzo di uno strumento come la fiducia che taglia il dibattito su temi cruciali per i diritti dei cittadini. L’Associazione nazionale magistrati, invece, sollecitando la necessità di interventi più incisivi, anche sul versante della prescrizione, ha già espresso contrarietà soprattutto per la norma che impone l’esercizio dell’azione penale oppure la richiesta di archiviazione entro 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari, con avocazione da parte della procura generale in caso di mancato rispetto del termini. Gentiloni vuole ripartire da manovra e ddl penale di Alberto Gentili Il Messaggero, 10 giugno 2017 "Si va avanti, concentriamoci sul nostro lavoro". Cauto, garbato e felpato come al solito, Paolo Gentiloni davanti ai ministri ha dedicato solo queste parole all’eclissi delle elezioni d’autunno. Nessun accenno al naufragio della riforma elettorale. Né, tantomeno, alla (quasi) certezza che il lavoro del governo proseguirà fino alla primavera del 2018. Eppure, nonostante lo scampato pericolo, il nervosismo è ancora palpabile soprattutto tra i dem. Durante il Consiglio dei ministri è esploso un battibecco tra Marco Minniti (Interni) e Andrea Orlando (Giustizia) su centri di accoglienza e sovraffollamento delle carceri. E Graziano Delrio (Infrastrutture) non ha risparmiato critiche al decreto (poi approvato) presentato da Claudio De Vincenti (Mezzogiorno) per lo sviluppo del Sud. Tant’è, che qualcuno avrebbe sentito Dario Franceschini sospirare: "Come faremo ad andare avanti fino al 2018?". Una fibrillazione che non sembra contagiare Gentiloni. A palazzo Chigi si respira aria nuova. Anzi, si torna a respirare. Di colpo, evaporato il patto a quattro (Renzi-Grillo-Berlusconi-Salvini) su legge elettorale ed elezioni anticipate, l’orizzonte del premier torna di medio termine. "È ormai molto probabile che si andrà avanti per altri 10-11 mesi", dice uno stretto collaboratore di Gentiloni, "perché è estremamente difficile che riparta la trattativa sulla legge elettorale e il Quirinale è stato chiaro: non si farà alcun decreto, se non a ridosso della scadenza naturale della legislatura. Perché sempre Mattarella non vuole mettere a rischio la sessione di bilancio. E, soprattutto, perché abbiamo tante cose da fare". L’agenda è fitta. Il governo ieri ha varato il decreto per il reddito di inclusione con cui contrastare la povertà e quello, appunto, con "disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno". E alla Camera, da qui alla pausa estiva, saranno votati il nuovo processo penale (con la delega sulle intercettazioni), il sistema-parchi, l’istituzione della commissione d’inchiesta sulle banche, la riforma dei vitalizi dei parlamentari, la legge sulla concorrenza. E, forse, la norma per legalizzare la cannabis. Fitto anche in calendario del Senato: la manovrina economica, il nuovo codice antimafia (si cercano le coperture), lo jus soli (il diritto alla cittadinanza per i figli di immigrati nati in Italia), il bio-testamento. Destinate a slittare, invece, la legge sulla legittima difesa e quella sul reato di tortura. Spiegazione di una fonte accreditata: "Sotto attacco dei terroristi nessuno vuole legare le mani alle Forze dell’ordine". Sulla vita e il percorso di ogni provvedimento peseranno però scorie e veleni dello scontro sulla legge elettorale con sbarramento al 5%. Da una parte Matteo Renzi, dall’altra Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani. Il leader centrista ieri ha promesso di garantire la stabilità: "Mattarella e Gentiloni sappiano di poter contare su di noi, siamo affidabili e seri". Più o meno le stesse frasi e promesse di Articolo 1-Mdp. "Hanno una paura folle delle elezioni e cercano in tutti i modi di evitare qualsiasi incidente", dicono al Nazareno, "ma d’ora in poi ad Alfano e a Bersani faremo digerire l’indigeribile. È evidente che se il governo non va avanti, torna la prospettiva del voto in autunno...". "L’unico che vuole ancora le elezioni anticipate è Renzi, ma non può chiedere a Gentiloni di farsi da parte", aggiunge un alto esponente centrista, "così Alfano e Mdp faranno di tutto per evitare qualsiasi incidente che possa portare alla crisi". Il copione del tira e molla andrà in scena dalla prossima settimana. Proprio Renzi a maggio aveva chiesto a Gentiloni di non porre la fiducia sul processo penale, per non andare alla guerra con Alfano. Ma ora che la guerra è esplosa, martedì il governo porrà la fiducia. Conclusione: Ap dovrà ingoiare il rospo. Più o meno ciò che accadrà sulla manovrina economica in Senato. Bersani ha chiesto di ritirare le norme che nasconderebbero a suo giudizio il ritorno dei voucher. Ma il Pd e il governo tirano dritto (mercoledì si voterà la fiducia) e il capogruppo Luigi Zanda garantisce: "Il provvedimento passa, abbiamo i voti". Tanta sicurezza si basa su due fattori. Il primo: i senatori di Articolo 1-Mdp non voteranno contro, ma usciranno dall’aula al momento della fiducia. Il secondo: "Fallita la riforma elettorale e sparito lo sbarramento al 5%, il clima è più sereno" spiegano a palazzo Chigi. Circolare Gabrielli. Il Csm difende il segreto investigativo: "la polizia riferisca ai pm" di Sara Menafra Il Messaggero, 10 giugno 2017 Il Consiglio superiore della magistratura non sembra intenzionato a tornare indietro. Anzi, mercoledì prossimo, il plenum potrebbe votare ad ampia maggioranza la delibera che chiede al Parlamento di cancellare la norma accusata di aver messo in pericolo il segreto investigativo. La risoluzione, che invita formalmente il ministro della Giustizia Andrea Orlando a farsi portavoce di una proposta di legge, ha toni molto duri e non è sfuggita all’attenzione del capo della Polizia Franco Gabrielli. Ieri, in un’intervista a Repubblica, il prefetto ha detto di essersi sentito "offeso" da quel testo. Ha poi spiegato che la norma che ora palazzo dei Marescialli vuole cancellare ha messo in chiaro una regola che Carabinieri e Finanza hanno già previsto con un regolamento interno: "La differenza è che ora, grazie alla legge, questo flusso informativo di notizie riservate è trasparente, regolamentato". L’argomento è molto tecnico, anche se da mesi negli uffici delle Procure distrettuali se ne parla con sempre maggiore insistenza e c’è chi dice che la nuova norma abbia facilitato la fuga di notizie che ha danneggiato irrimediabilmente l’inchiesta Consip delle procure di Roma e Napoli. Ad agosto, nell’accorpare Guardia forestale e Carabinieri, il Parlamento ha deciso di intervenire sui passaggi del codice che regolano la riservatezza delle indagini e vincolano al segreto gli ufficiali di Polizia giudiziaria. L’articolo 18 della legge 125 dice infatti che, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, "i vertici delle forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria". Finora, il codice di procedura penale, facendo riferimento a un’esplicita norma costituzionale, prevedeva che la polizia giudiziaria (ovvero i membri delle varie forze di polizia che hanno compito di Pg, un ruolo che non riguarda mai i vertici) dovesse riferire soltanto ai Pm i risultati delle indagini. Anni fa, i Carabinieri e la Guardia di finanza hanno scritto delle circolari interne per chiedere ai sottoposti di essere informati delle attività in corso. Il tema è stato affrontato nei mesi scorsi durante un’accesa riunione dei capi degli uffici giudiziari italiani. Al plenum i procuratori hanno spiegato che, dal loro punto di vista, la legge attuale va oltre quelle circolari, perché dice esplicitamente che il codice di procedura può essere superato e che gli ufficiali devono riferire anche sulle attività sottoposte al vincolo del segreto investigativo. Di qui, la richiesta ai consiglieri perché prendessero esplicitamente posizione. La linea più dura è quella del procuratore capo di Torino, Armando Spataro. A febbraio ha firmato una circolare, poi recepita in tutto il distretto, in cui invita i magistrati a segnalargli i casi che necessitino di essere sottratti alle nuove regole. Se gli organi di polizia giudiziaria, si legge, "dovessero ritenere di non poter aderire alla richiesta di preservare il segreto investigativo dovranno comunicarlo formalmente allo scrivente". A quel punto, prosegue Spataro, sarà valutata "ogni possibile iniziativa, non escluso il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato", davanti alla Consulta. La sesta commissione del Csm ha quindi scritto una proposta di risoluzione ora al voto del Plenum, nella quale si chiede al parlamento di modificare quel testo e al ministro della giustizia Andrea Orlando di farsi portavoce del nuovo testo. Difficile a questo punto che tornino indietro anche perché, nel corso degli ultimi mesi, i consiglieri avevano posto il problema sia al Guardasigilli, sia al ministro degli Interni, Marco Minniti. E entrambi avevano detto di comprendere i problemi sollevati dalle procure ed essere disposti ad intervenire. Il punto sarà chiarire che questo "obbligo di riferire le attività" ai superiori non è applicabile alle sezioni di polizia giudiziaria. Il rischio è alto, scrivono i consiglieri: "L’espressione "indipendente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale" è stata intesa come introduttiva, nei confronti dei soli responsabili dei presidi di polizia tenuti alla menzionata comunicazione, di una deroga all’obbligo del segreto investigativo". Giustizia: un problema di civiltà di Paolo Pillitteri L’Opinione, 10 giugno 2017 "Nella maggior parte degli uomini l’amore della giustizia non è altro che timore di patire l’ingiustizia". Questo pensiero di François de La Rochefoucauld dovrebbe sempre farci compagnia quando parliamo di giustizia, anche e soprattutto in Italia. A scriverne, basterebbe qualche buona lettura. Raramente nella letteratura un tema come quello della giustizia è stato è e sarà così frequente, persino assillante, comunque immanente. Come puntualmente ricordava Antoine de Saint-Exupéry: la giustizia è l’insieme delle norme che perpetuano un tipo umano in una civiltà. Come dire: la giustizia coincide con la civiltà. Discuterne è utile risolverne i problemi è necessario, riformarla è un obbligo della politica. Ma non è facile, soprattutto non si vedono da anni approcci seri da parte di chi dovrebbe. Per non dire, poi, del settore mediatico dove il lascito del manipulitismo, ovvero del circuito mediatico-giudiziario, ha lasciato molte, troppe rovine. E troppo poche riforme. Riformare i processi, giustizia lenta, abusi intercettativi, strapotere dell’accusa, detenzioni a go go, ecc.. Il silenzio dei media, se non assordante, è senza dubbio inquietante. Un passare oltre se non addirittura un buttare nel cestino o, se va bene, concedere un minuscolo riquadro. Si sa, quando da noi c’è di mezzo lei, la Giustizia (la G maiuscola, beninteso) il silenzio (mediatico) è d’oro. Il modello che si segue è il predicare bene e razzolare male, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore è la liquidazione giustizialista che fa da pendant all’invito alla gogna. Prendiamo infatti la "Carovana della Giustizia" promossa dai Radicali italiani nel nome di Marco Pannella; una carovana partita da Rebibbia destinazione Calabria. Un’iniziativa di estrema importanza, politica e culturale, un invito pressante a guardare al settore più in crisi (più dell’economia) del Paese, un vero e proprio colpo di gong. Ebbene, si noterà la sostanziale indifferenza dei mass media e la sordità del mondo politico che, pure, avrebbe qualcosa da imparare e poi da mettere in pratica, da questa Carovana. E siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, sappiano i tanti, troppi sordi, che nulla e nessuno è stato, è e sarà escluso dalle mire, anzi, dalla mira, di quel Moloch. Ne sa qualcosa di certo il generale Mario Mori che è stato assolto nella terribile storia della famigerata trattativa Stato-Mafia. Pare che il processo sia iniziato nel 1995, che a Mori siano arrivate due assoluzioni ma seguite illico et immediate dai ricorsi dei Pm, sicché solo in questo giorni la Cassazione l’ha definitivamente prosciolto. Citiamo l’esempio, ma ce ne sarebbero e ce ne sono a centinaia se non a migliaia. Perché? Perché come dice anche questo giornale da decenni e come spiega il cosiddetto logos della benemerita carovana, i problemi della nostra giustizia, lungi dall’essere risolti, si sono incancreniti: processi lenti, separazione delle carriere, abuso della custodia cautelare spesso a uso mediatico, amnistia e indulto, il concetto di riabilitazione. L’elenco è lungo e lo conosciamo tutti. E le riforme latitano. Ricordava Henry de Montherlant: "Nulla, neppure un giudizio giusto, è più intelligente di una sospensione di giudizio". Ma senza ricorrere a questa splendida figura letteraria, a chi fa il mestiere di giudice sarebbe di grande utilità ciò che Filippo Turati, un politico di grande spessore ma colpevolmente dimenticato proprio perché riformista doc, scriveva e ammoniva: "Giudicare un po’ meglio, o giudicare un po’ meno (che è forse la suprema saggezza)". Detto nel 1907. Il Cnf fa l’apripista per realizzare un diritto "interculturale" di Mario Ricca* Il Dubbio, 10 giugno 2017 Iniziamo dai mantra mediatici. "Chi si reca in un Paese straniero deve rispettarne le leggi", anzi "le regole". Si tratta di una massima condivisibile, anche perché a non rispettare quelle regole, di solito, ci si imbatte in conseguenze poco piacevoli. Cosa significa, però, rispettare le leggi? È sufficiente leggere i testi di quelle leggi? Certamente no. Ed è così semplicemente perché le leggi pretendono molto più di quel che dicono. Due esempi banali potranno servire a fare chiarezza sulla confusione che può affliggere una persona straniera che giunge in un Paese ospite. Chi di noi sospetterebbe che il furto (articolo 624 del codice penale) non sia universalmente comprensibile e universalmente compreso? Quasi nessuno. Eppure, c’è da essere certi che gli stessi nessuno non sarebbero capaci di spiegare come e quando si sottrae qualcosa a qualcun altro. La sottrazione presuppone la detenzione. Così sancisce il codice penale italiano. Del resto, se nessuno detiene una cosa, come sarebbe possibile accusare qualcun altro di avergliela sottratta? Ecco, però, il problema: quand’è che qualcuno detiene una cosa mobile? Quando è a sua portata di mano? E quale deve essere la distanza perché quella cosa sia considerata a portata di mano? Chi saprebbe spiegare il perché di queste differenze a uno straniero? Ancora, durante le trattative per la conclusione di un contratto bisogna comportarsi secondo buona fede (art. 1337 del codice civile italiano). Cosa significa comportarsi secondo buona fede? Cosa si può dire e cosa non si può dire durante le trattative? Cosa si può tacere? Cosa si deve dire per non indurre l’altro contraente in errore? E quando questo errore può essere invocato per sottrarsi agli obblighi derivanti dal contratto? Come accertare tutto questo se il contraente è uno straniero? E quand’è che il suo tacere o il suo dire, se non calibrati culturalmente, possono far credere che egli tenti di ingannare, di raggirare l’altro contraente? Quindi di commettere una truffa? Si tratta di esempi banali ma se ne potrebbero fare senza fine. Il problema è la differenza culturale. Le leggi chiedono di sapere anche quel che non esplicitano. Nel furto presumono che tutti conoscano la grammatica dello spazio che ritma i rapporti tra cose e persone. Nelle trattative contrattuali chiedono che ciascuno abbia una teoria della mente dell’altro in grado di fargli capire cosa dovergli dire per informarlo correttamente su quel che sta decidendo di fare, sugli impegni che sta assumendo. Queste, però, sono cose che non si possono non sapere potrebbe affermare qualcuno. Quindi lo sbaglio, l’errore, non è possibile non commetterlo apposta. Tutto quel sapere è appunto cultura e le leggi si limitano a presupporla. Essa è costituita dall’insieme degli schemi che gli esseri umani utilizzano per muoversi nel mondo e per costruire insieme agli altri l’ambiente dove convivere (più o meno pacificamente). La storia, la geografia, le tradizioni, l’esperienza vissuta, fanno sì che quegli schemi siano differenti tra le comunità umane. Se è così, come è possibile, allora, pretendere che altri abbiano i nostri stessi schemi di comprensione del mondo? Come si può acquisirli se non vivendo più o meno a lungo in un determinato contesto sociale? Come possono essere appresi se non traducendoli? Cose e azioni non parlano da se stesse, né di se stesse. Ogni parola, ogni gesto, può avere significati differenti secondo le rappresentazioni mentali delle persone che li pongono in essere. E non è detto che significati diversi da quelli della cultura autoctona siano necessariamente non meritevoli di tutela in base agli stessi valori inclusi nell’etica e nelle leggi del paese dove chi è altro sopraggiunge o si trova a vivere. Accanto al contratto sociale sui valori, esiste in ogni cultura, in ogni comunità, un contratto sociale sui significati di cose, gesti, eventi. È un contratto sociale tacito, che si rinnova e non può non rinnovarsi costantemente. Ed è ancora da rinnovare, necessariamente, quando entrano a far parte di una comunità persone che leggono il mondo servendosi di schemi di giudizio differenti. Molti contrasti etichettati come conflitti tra valori sono o nascondono invece discrepanze cognitive, di significato. Prima di scontrarsi, insomma, bisognerebbe tradurre. Prima di giudicare ci sarebbe da chiedersi se c’è qualcos’altro da capire, qualcosa che sta oltre quel che sembra evidente. Anche perché senza tradurre non è possibile comprendere come applicare le leggi e persino quali leggi scegliere. Gli avvocati sanno bene che il mondo non ha etichette. Nessun cliente si reca da loro con una storia che parli da sé e da sé dica quali sono le leggi da applicare per regolare la condotta dei suoi attori. Ordinariamente gli avvocati traducono il linguaggio (anche il linguaggio giuridico folk) dei clienti in termini tecnici. Così, attraverso un gioco di domande e risposte, individuano la cura giusta per il loro assistito o se non altro la più appropriata a difenderne ragioni e interessi per mezzo delle leggi. Senonché fare tutto questo con gli stranieri è difficile e persino impossibile se non si possiede un vocabolario bilingue. Capire cosa lo straniero ha fatto o vuole fare può essere molto difficile, talora impossibile, senza l’aiuto di qualcuno che getti luce sull’universo di significati che quella persona articola del tutto inconsapevolmente. Il problema è che l’avvocato sarà culturalmente indotto a pensare che lui pensi come un italiano e il cliente straniero penserà che l’avvocato italiano non può non capire quel che lui intende. Così, nel fuoco di queste presunzioni incrociate ed errate, la morsa della legge e delle sue qualificazioni rischierà di chiudersi sul malcapitato straniero innescata da un incolpevole reato di ignoranza reciproca. Una situazione, questa, che paradossalmente può essere ulteriormente aggravata dalla circostanza che lo straniero parli (anche bene) l’italiano. La comunanza di lingua può nascondere il fatto che egli potrà anche parlare italiano, ma non penserà italiano. Il suo apparato di concetti, le conseguenze che attribuirà alle sue parole o ai suoi gesti, saranno comunque diverse da quelle che vi collegherà l’italiano medio, compreso l’avvocato. Ed ecco i risultati (che ben conosce chiunque abbia esperienza di rapporti legali con gli stranieri). Si provi a chiedere a un gruppo di stranieri immigrati in Italia o in qualsiasi altro paese se, per rispettare la legge nel loro Paese, essi hanno bisogno di conoscerla, di leggerla, di farsela dire. La risposta sarà un sonoro "no". E la legge italiana? La risposta sarà di segno diametralmente opposto. Anche se - come già detto - la conoscenza dei testi normativi, da sola, non basterebbe affatto ad assicurare la comprensione di quanto essi prescrivono e pretendono di far osservare. Così, chiedendo agli stessi stranieri se per risolvere le proprie controversie interne andrebbero da un giudice, si otterrebbe un’altra risposta in larghissima parte negativa, più o meno di questo tenore: "Noi non andiamo perché tanto il giudice non ci capisce". Quando si parla di cultura o di diritti culturali si pensa sempre a veli, turbanti, pratiche religiose più o meno esotiche, poligamia, e così via. La differenza culturale riguarda anche questo, indubbiamente. Il problema delle relazioni interculturali, di cui dovrebbe occuparsi un diritto interculturale pensato e amministrato per tutti, ha a che fare, però, con l’oceano delle pratiche sociali. Si tratta di rapporti di lavoro, acquisti, locazioni, attività commerciali, eredità, pratiche educative, gestione della proprietà. L’uso interculturale del diritto si differenzia dalle pratiche multiculturaliste rivolte a tutelare e a mantenere intatta l’identità culturale, così come dall’assimilazionismo che postula un’impossibile trasfigurazione dell’altro nel cliché dell’autoctono medio. Da un punto di vista giuridico, il problema principale è che davanti alla legge gli stranieri restano spesso ammutoliti. Essi non riescono a entrare dentro la legge, a iscrivere quel che pensano e desiderano dentro la rete dei significati normativi. Ed è così appunto perché non sono assistiti da traduttori interculturali efficaci. Tuttavia, quando milioni di persone, incluse in una popolazione, pensano che "tanto i giudici non li capiscono", allora c’è un’urgenza sociale, un enorme problema di riposizionamento nel nuovo contesto di vita, un’esperienza di traduzione che è stata solo spaziale (l’ingresso nel territorio) ma ha lasciato indietro, altrove, il senso, la mente dell’immigrato. L’avvocatura può e dovrebbe avere una funzione sociale cruciale nella soluzione di questi problemi di convivenza mediante il diritto. Gli avvocati, se formati alla traduzione interculturale o coadiuvati da antropologi, potrebbero aiutare gli altri - e per altri intendo tanto i rifugiati bisognosi di tutto, quanto gli imprenditori stranieri che avessero intenzione di investire in Italia a iscrivere i loro significati nel tessuto normativo. In questo modo, garantirebbero effettività, l’effettività che solo il diritto può assicurare, alla realizzazione degli interessi di queste persone. Molto e in modo meritorio fanno già tutti i professionisti impegnati con il diritto delle migrazioni. L’ingresso nel territorio è però solo il primo passo, il primo capitolo di una vicenda assai più complessa e variegata. Subito dopo si schiude il palcoscenico dei problemi di convivenza. Da questo punto di vista, la capacità di riconoscimento e di inclusione interculturale dei diritti statali è assai maggiore di quanto si sospetti. Quel che manca, ancora, sono quadri professionali formati a un uso interculturale del diritto statale. Il Consiglio Nazionale Forense ha intercettato questa urgente necessità. Il Convegno che si terrà a Bologna il 20 giugno 2017, inserito tra gli eventi G7 sotto la Presidenza italiana, organizzato dal Miur e coordinato dal CNF (consiglionazionaleforense.it), dal titolo "Diritto e convivenza interculturale", è da salutare come l’atto introduttivo di una pratica innovativa quanto indispensabile. Ed è nello stesso segno che si sviluppa l’impegno dell’avvocatura nazionale e locale per la formazione giuridica nelle scuole, nel quadro della c.d. Asl (Alternanza Scuola Lavoro), a sua volta comprensiva di un’attenzione specifica all’educazione giuridica interculturale. Se coadiuvata dal supporto istituzionale nello sviluppo di corsi d’insegnamento e corsi di laurea universitari, così come da corsi di formazione per i professionisti, l’attività da apripista del Cnf potrebbe progressivamente trasformare gli studi legali in avamposti cosmopolitici, cioè in attori di un cosmopolitismo alimentato dal basso e focalizzato sui bisogni avvertiti dalle persone nel condurre la più difficile delle imprese: la gestione del quotidiano. Le barriere culturali che ostacolano le relazioni intersoggettive potrebbero essere considerevolmente ridotte da un diffuso uso interculturale del diritto. Un diritto che agirebbe come strumento di potenziamento delle possibilità individuali anziché come un puro mezzo di costrizione e imposizione di regole poste da altri. Se ciò accadesse, probabilmente anche le barriere geografiche potrebbero cessare di innalzarsi, trasformandosi in muraglie erette a sancire l’impossibilità di superare i conflitti. Ed è così perché in un mondo segnato irreversibilmente dalla mobilità globale di informazioni, merci e persone, tra frontiere interpersonali e frontiere territoriali esiste un rapporto di proporzionalità diretta. Un’enorme quantità di clienti, potenziali e in atto, necessita di un’assistenza legale interculturale da parte da parte degli avvocati. Un’assistenza che andrebbe declinata potenziando la consulenza preventiva, ripensando dunque la funzione sociale degli studi legali come crocevia di formazione/ informazione giuridica. Dislocati sul territorio nazionale, la loro azione capillare darebbe bita a un dispositivo sociale in grado di evitare di trasformare l’errore, la non conoscenza di quel che le leggi non dicono, in conflitti, illeciti e (in alcuni casi) vicende giudiziarie. D’altro canto, per quanto attenti alle ragioni dell’alterità culturale, i giudici sono destinati a intervenire sempre troppo tardi, e cioè quando le persone hanno già agito, e il fatto non può essere rimosso. Al contrario, la strada dell’assistenza preventiva, se adeguatamente diffusa anche per mezzo della disseminazione informativa consentita dalla rete, potrebbe indurre negoziazioni interculturali. Se usato con competenza e sensibilità culturale, l’ordinamento è in grado di modellarsi sulle esigenze delle persone. Come si accennava, il mondo non ha etichette e non esistono soluzioni giuridiche preconfezionate rispetto al caso singolo. Al tempo stesso, la possibilità di ottenere risposte flessibili dall’ordinamento, la prospettiva di vedere tutelate le proprie esigenze, tenderebbero a indurre rimodellamenti culturali negli stessi stranieri. L’effetto finale, in molti casi, sarebbe che tanti possibili conflitti, piuttosto che risolversi, finirebbero per dissolversi. Anche se non tutte le divergenze culturali potranno essere composte, del resto come quelle interpersonali, tuttavia moltissimi problemi potrebbero essere superati o evitati. Attraverso l’assistenza legale, insomma, chi è altro potrebbe trovare il canale per entrare dentro la legge. Una legge che riconosce e traduce. Una legge di tutti e per tutti. *Professore di Diritto interculturale all’Università di Parma Il primo dei processi "Eternit Bis" salta per lo sciopero degli avvocati di Silvana Mossano La Stampa, 10 giugno 2017 Era fissato per il 14 giugno a Torino, ma c’è lo sciopero degli avvocati. E i legali dell’imprenditore svizzero hanno fatto sapere che aderiranno all’astensione. L’udienza iniziale del primo processo del cosiddetto "Eternit Bis", contro l’imputato Stephan Schmidheiny, salta. È stata fissata al 14 giugno, a Torino, ma per tutta la prossima settimana gli avvocati tornano in sciopero nazionale. E i legali dell’imprenditore svizzero - Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva - hanno fatto sapere che aderiranno all’astensione. D’altronde, non hanno nessuna fretta - anzi - di cominciare questa nuova tornata giudiziaria. Il quadro dell’Eternit Bis è complesso. Il pubblico ministero Gianfranco Colace (che già aveva fatto parte del pool torinese, con Raffaele Guariniello e Sara Panelli, del maxiprocesso Uno, con condanne in primo e secondo grado, e che la Cassazione prescrisse) aveva chiesto un nuovo rinvio a giudizio per Stephan Schmidheiny, con la accusa di omicidio volontario per il decesso di 258 persone (ex lavoratori, ma, ancor più, cittadini) uccise dall’amianto. Il gup Federica Bompieri, a fine 2016, aveva però riqualificato il reato da omicidio volontario a omicidio colposo. La derubricazione, di conseguenza, aveva comportato un frazionamento del voluminoso fascicolo in quattro parti, destinate a competenze territoriali diverse. In particolare, con questa nuova formulazione, le procure di Vercelli (per le vittime di Casale, che sono il maggior numero), di Napoli (per 8 morti di Bagnoli) e di Reggio Emilia (per 2 decessi di Rubiera) dovrebbero ricominciare da capo, istruendo autonome inchieste. Al termine, i magistrati inquirenti potrebbero decidere archiviazione o rinvio a giudizio, per omicidio doloso o colposo. Insomma, si rifà Invece, per due vittime torinesi, incluse nel numero iniziale delle 258, il gup aveva già disposto il rinvio a giudizio, a Torino, appunto. Data di inizio del processo: mercoledì 14 giugno. È il primo procedimento penale per omicidio colposo (determinato da colpa cosciente) all’imputato Schmidheiny. Ma il test iniziale di avvio non ci sarà, appunto a causa dello sciopero nazionale degli avvocati. Quindi, il fascicolo sarà aperto soltanto per decidere la data del rinvio. Ma c’è altro: in Cassazione non è ancora stata fissata la discussione sul ricorso del pm torinese Gianfranco Colace e, autonomo, ma contestuale, su quello, analogo, del procuratore generale Francesco Saluzzo e del sostituto procuratore generale Carlo Pellicano, contro la decisione del gup Bompieri di riqualificare il reato da omicidio volontario in colposo. La Suprema Corte potrebbe condividere l’impostazione del gup oppure accogliere le argomentazioni dei pm: la procura, dall’analisi minuziosa e prolungata dell’immane mole di documenti e dall’ascolto di innumerevoli testimonianze, persiste nella convinzione che fu il dolo a muovere le scelte, le decisioni e le azioni di Schmidheiny, da cui derivarono 258 morti. Elencate e documentate (ma non è ancora finita). Il caso di Andrea Soldi e la rabbia del padre: "Ora promuovono i vigili" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 giugno 2017 il 45enne morì nel corso di un intervento di tre agenti della polizia municipale del capoluogo piemontese nell’agosto 2015 per un trattamento sanitario obbligatorio (Tso). "Io dico: non volevate sospenderli dal servizio? Va bene, d’accordo. Ma questo no... questo è fuori dal mondo". Sono notti che Renato Soldi resta sveglio a pensarci: i tre agenti della polizia municipale di Torino che il 5 agosto del 2015 furono gli ultimi a vedere ancora vivo suo figlio Andrea, hanno chiesto e ottenuto il trasferimento dal noiosissimo ufficio "gestione" al più interessante nucleo di polizia giudiziaria. "Una specie di promozione" commenta lui con la voce incerta dei suoi 81 anni. Più ci ragiona più si arrabbia: "Se capisco bene non erano contenti del posto in cui erano stati piazzati dopo la morte di Andrea e hanno cercato un miglioramento. E l’amministrazione che ha fatto? Gliel’ha concesso. Io mi chiedo: perché mai? Hanno forse già pagato il conto alla Giustizia?". Imputati di omicidio colposo - La risposta è no, non l’hanno pagato. Ammesso che alla fine la Giustizia presenti davvero un conto da pagare. Perché per adesso la loro posizione è quella di imputati del reato di omicidio colposo: loro tre più lo psichiatra che aveva in cura Andrea da anni e che quella mattina volle per lui il trattamento sanitario obbligatorio. Gli agenti municipali lo eseguirono e - stando all’accusa - lo bloccarono con una tale irruenza da causare l’"asfissia meccanica" che lo uccise. Sono stati tutti rinviati a giudizio (al 27 settembre) ma subito dopo i fatti i tre vigili furono trasferiti dall’ufficio in cui lavoravano al reparto che si occupa, per esempio, degli acquisti di materiale di servizio. Nelle retroguardie, in sostanza. Incarichi non operativi - Hanno passato lì alcuni mesi, poi hanno chiesto il passaggio al settore della polizia giudiziaria, dove si fanno indagini su incidenti stradali, stalker, bulli, piccoli spacci davanti alle scuole... (ufficio che però non ha mai indagato sul caso di Andrea). E i vertici del Comando, probabilmente in accordo con l’amministrazione comunale, hanno acconsentito. Dice una delle persone che ha preso quella decisione e che vuole rimanere anonima: "I nuovi incarichi non sono operativi né sul territorio, né sul piano delle indagini. Loro seguono soltanto questioni burocratiche tipo prendere le impronte degli arrestati". Il padre: "Per me è uno schiaffo" - "Non importa quello che fanno" obietta Renato Soldi. "È una questione di opportunità e delicatezza. Mio figlio è morto, premiare i loro desideri per me è uno schiaffo. È come se mi dicessero: siamo più forti di te. Io voglio solo giustizia e se saranno riconosciuti innocenti saranno riabilitati davanti al mondo, da me per primo. Ma non posso ignorare che per Andrea non c’è nessuna seconda chance". Erano stati i suoi avvocati - Luca Lauri e Giovanni Maria Soldi - a dirgli settimana scorsa che girava voce su quel cambio di settore. Ma lunedì Renato ha ricevuto una lettera anonima: "Sono una persona rimasta molto colpita dalla morte del povero Andrea. Ci tengo a informarvi che...". Le verifiche hanno confermato: tutto vero. "Non c’è stata nessuna promozione, quel ruolo è burocratico" li difende il loro avvocato, Stefano Castrale. Ma più che alle parole Renato guarda al senso delle cose. E quel che vede, dice, "non mi piace". Trento: dopo 8 anni di dibattito istituita la figura del Garante dei detenuti Il Trentino, 10 giugno 2017 Il Consiglio provinciale approva il ddl di Civico, che dedica la norma a padre Forti. Il Pd: "Passo avanti per i diritti umani". Dopo quasi 8 anni di dibattito è stato approvato con 28 sì e 4 no il disegno di legge (primo firmatario Mattia Civico, Pd) con il quale viene istituita la figura del garante dei detenuti e di quello per i minori. Una giornata felice, ha commentato prima del voto il presidente Dorigatti. In sede di discussione, all’articolo uno sono stati accolti gli emendamenti di Borga della Civica Trentina (no alla competenza del garante dei detenuti sui trattamenti sanitari obbligatori; la valutazione dell’incompatibilità dei garanti affidata all’Ufficio di presidenza); sì anche a quello di Zanon (Pt) che assegna al garante dei minori il compito di coordinamento e tutela da pare del garante dei tutori volontari; approvato l’emendamento Fugatti della Lega col quale si stabilisce che i garanti vengano nominati, con votazione segreta, con i due terzi dei consiglieri provinciali. Sull’articolo due, sì dell’Aula all’emendamento Borga sul trattamento economico dei garanti, fissato in un terzo dell’indennità lorda dei consiglieri. In dichiarazione di voto Rodolfo Borga ha annunciato il voto positivo della Civica Trentina, soprattutto perché si introduce il garante locale dei detenuti, evitando così l’intervento di quello nazionale. Borga ha ricordato gli ordini del giorno a favore delle guardie carcerarie, anche se rimane il problema della situazione di Spini causata dal mancato rispetto da parte dello Stato nei dell’accordo con la Pat. Marino Simoni (PT), confermando il sì di Progetto Trentino, al ddl Civico che dà poteri al Consiglio sulle nomine, offre garanzie a minori e detenuti ma anche a chi in carcere lavora. Simoni ha inoltre sottolineato l’odg sul Provveditorato della carceri di Padova che va riportato all’interno dell’autonomia regionale. Maurizio Fugatti (Lega) ha annunciato il voto negativo. Quanto a interesse - ha detto - il ddl è paragonabile al quello sull’omofobia e alle quote rosa e, in più, viene approvato mentre c’è una situazione pesantissima a Spini, al punto da rappresentare un affronto alle guardie carcerarie. Walter Kaswalder (Misto) ha detto di essere stato convinto da Civico e ha annunciato il suo sì. Donata Borgonovo Re ha ricordato che nel 2007, come ufficio della difesa civica si decise, d’accordo con il direttore della casa circondariale, di aprirvi un recapito del difensore civico. Ma questa esperienza mise in luce la limitatezza di questo ruolo da parte del difensore civico e quindi la necessità di un garante. Claudio Cia (Misto), dichiarando il suo voto negativo, ha auspicato un aumento del personale del difensore civico perché possa essere presente su tutto il territorio. Sì convinto alla legge Civico da parte di Manuela Bottamedi (Misto) perché va nel verso di salvaguardare la dignità anche di chi ha commesso errori anche gravi. Giampiero Passamani ha ricordato che l’Upt ha sostenuto questo ddl anche in commissione e ha riconosciuto la capacità di dialogo da parte di Civico. Quest’ultimo ha ringraziato i consiglieri, ma soprattutto detenuti e detenenti ricordando che la norma è per loro e ha dedicato il ddl a padre Fabrizio Forti. "Questo risultato - ha commentato il Pd - segna un avanzamento del Trentino nella promozione e nella tutela dei diritti umani". Trento: Cutugno (Comandante di Polizia penitenziaria) "il Garante sarà una risorsa" di Marika Damaggio Corriere del Trentino, 10 giugno 2017 Una congiunzione, oggi assente, tra dentro e fuori. Un ponte, ancora, tra le istanze di chi cerca di risolvere i fardelli della quotidianità e chi, almeno in potenza, può avere gli strumenti per intervenire con più incisività. Daniele Cutugno, comandante della polizia penitenziaria del carcere di Spini di Gardolo, accoglie con un sospiro di sollievo l’approvazione della norma che istituisce, anche in Trentino, la figura del garante dei detenuti. "Finalmente - dice - avremo una voce e potremo uscire da una dimensione chiusa e totalizzante". Una visibilità, quella che il garante potrà offrire, utile a risolvere le principali criticità: assenza di personale e mediazione interculturale in testa. La discussione, proseguita per quasi otto anni, ha trovato in Aula una sintesi positiva. "E io sono davvero felice - riflette Cutugno - Il garante che sarà nominato prenderà consapevolezza delle problematiche, sarà una risorsa a cui attingere nel momento del bisogno, facendo da tramite con le esigenze che nascono in questa sede. Avremo la visibilità che oggi non abbiamo". Tra le problematiche che da tempo affliggono la struttura penitenziaria di Spini, c’è il nodo delle risorse umane: "La carenza di personale influisce inevitabilmente sull’esercizio delle libertà fondamentali degli utenti - spiega - Senza personale, per esempio, è difficile tradurli in udienza per consentire loro di avere diritto alla difesa". C’è poi la dimensione multiculturale delle strutture ("Il 75% degli utenti è straniero") e la richiesta, avanzata da tempo, di un supporto maggiore nella mediazione. "Questo è il mese del Ramadan - ricorda - Una parte della popolazione fa richieste specifiche per esercitare il proprio diritto al culto. Simili circostanze le abbiamo sempre affrontate egregiamente, ma con una maggiore interazione con l’esterno, quindi grazie al garante, si potrà fare molto di più nella comprensione delle abitudini culturali dei nostri ospiti". I luoghi di preghiera, nello specifico, sono già presenti. Ma sono usi e costumi, in particolare, che meritano una conoscenza più approfondita. "La figura del mediatore culturale - prosegue - dev’essere potenziata". Quanto al profilo del garante, Cutugno si augura sia una persona con un livello di conoscenza (ed esperienza) sufficiente: "Ritengo che debba essere competente - rimarca - Deve sapere, da subito, qual è l’ambiente in cui si cala, quali le difficoltà dell’amministrazione e quali i diritti delle persone". L’istituzione del garante, a detta di Cutugno, restituirà al personale impiegato in carcere l’immagine che spesso non corrisponde al loro operato quotidiano: "Speriamo che tale figura riesca a offrire alla collettività trentina un’immagine coerente con gli sforzi che affrontiamo, senza dubbi sul nostro operato". Pistoia: azioni di sostegno per i detenuti, un bando della Società della Salute reportpistoia.com, 10 giugno 2017 Azioni di sostegno, promozione e sensibilizzazione a favore dei detenuti del carcere di Pistoia grazie alla collaborazione di organizzazioni di volontariato.È questo l’obiettivo del bando pubblico indetto dalla Società della Salute Pistoiese, con scadenza venerdì 16 giugno, alle ore 13. I soggetti che vogliono partecipare devono presentare una manifestazione d’interesse nella quale siano certificati tutti i requisiti necessari: lo possono fare a mano, tramite servizio postale o mediante agenzia di recapito, all’Ufficio amministrativo in viale Matteotti, 35 a Pistoia, oppure tramite Pec (posta elettronica certificata) all’indirizzo sdspistoiese@postacert.toscana.it. Le finalità del progetto - Le finalità del contratto consistono nel promuovere e garantire la qualità della vita, l’autonomia individuale, le pari opportunità, la non discriminazione, la coesione sociale, l’eliminazione e la riduzione delle condizioni di disagio e di esclusione. L’iniziativa si colloca in un quadro complessivo di attività di carattere sociale, civile e culturale che hanno come obiettivo l’attuazione del principio sancito dalla Costituzione della Repubblica: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. La convenzione - La convenzione che regolerà il rapporto fra Società della Salute Pistoiese e associazioni del volontariato individuate dal bando, avrà durata di un anno e sarà eventualmente rinnovabile per ulteriori due annualità. La spesa complessiva è di 10.000 euro per la prima annualità: nel bilancio pluriennale 2017-2019 sono previste le risorse per l’eventuale rinnovo. Responsabile del procedimento è il dottor Daniele Mannelli, presidente della SdS Pistoiese. Per visionare il bando si può consultare il sito http://www.sdspistoiese.it. Napoli: a Secondigliano una scuola di pasticceria in carcere di Irene Roberti Vittory La Repubblica, 10 giugno 2017 Nel penitenziario i detenuti imparano a fare i dolci. "L’anno prossimo si replica, è un’esperienza di coesione molto forte". Non pensavano che a scuola ci si potesse divertire. Tantomeno tra i banchi di un carcere. E invece si sono ricreduti, arrivando persino, in qualche caso, a rinunciare all’ora d’aria: ventuno studenti detenuti del penitenziario di Secondigliano - la classe prima H del reparto Mediterraneo dell’istituto "Enrico Caruso", che qui ha una sezione distaccata - hanno partecipato, da dicembre a giugno, a un laboratorio di pasticceria chiamato, non senza ironia, "Dolci Tentazioni". Uomini dai venti ai cinquant’anni guidati da un maestro che di dolci se ne intende: uno dei detenuti stessi, che prima di finire in carcere faceva il pasticciere. Il corso l’hanno concluso il 6 giugno, suggellando la fine del corso con una festa e un ricettario regalato alle famiglie. Un ricettario originale, tradotto in inglese e in francese e contenente curiosità sul mondo della cucina (da "cos’è un forno statico" all’apporto calorico dei cibi). A coordinare il progetto sono stati in tanti: il prof. Vittorio Delle Donne, preside dell’I.T.E. "Enrico Caruso", la professoressa Antonella Capasso, responsabile della scuola carceraria, Liberato Guerriero, direttore del carcere di Secondigliano, e le educatrici del reparto Gabriella Di Stefano e Anna Carcarino. L’idea però è venuta alla professoressa Giovanna Cimmino: "In questo reparto del carcere la scuola non esisteva, questo è stato il primo anno - racconta - e i ragazzi sono stati felicissimi, soprattutto di questo laboratorio: è stata l’attività trainante della scuola, un’esperienza di condivisione e coesione sociale molto forte". Talmente tanto importante, e di successo, che si pensa già a replicarla: "L’anno prossimo questi saranno insegnamenti curriculari perché il nostro diventerà ufficialmente un istituto alberghiero", spiega la docente, ringraziando i colleghi che l’hanno aiutata in questo cammino, occupandosi, ad esempio, delle traduzioni e delle curiosità del ricettario. L’elenco è lungo: Ida Musella, Matilde Merendi, Carmela Giannattasio, Marisa Salvatores, Giuseppina De Biase, Alessandro Bita. Tutti "masterprof". Porto Azzurro (Li): teatro in carcere, per la rieducazione ed il reinserimento di Davide Patti elbareport.it, 10 giugno 2017 Lo scorso 30 maggio è andato in scena lo spettacolo teatrale "Il mercante di Venezia" nel carcere di Porto Azzurro. Presenti diverse cariche istituzionali del territorio e numerosi spettatori. I ragazzi della Casa di Reclusione si sono impegnati al massimo per riprodurre questa importante opera shakespeariana, insieme a diverse ballerine del "Le Perle dell’Arcipelago" e a agli ospiti della Cooperativa "Altamarea". In un primo momento, è intervenuta Licia Baldi, storica volontaria operante nel carcere, che ha evidenziato l’importanza della rieducazione per tutti i soggetti inseriti nella realtà carceraria. Tale reinserimento è, infatti, possibile grazie anche all’esperienza teatrale che ha visto coinvolti tanti detenuti, tutti entusiasti per il lavoro realizzato. Si è apprezzato il sacrificio di questi attori che si sono immedesimati così bene nelle parti da sembrare i veri personaggi dell’opera shakespeariana. È doveroso ringraziare il Direttore Francesco D’Anselmo, il Comandante della polizia penitenziaria, l’Area educativa, il Garante dei detenuti Nunzio Marotti, le associazioni Dialogo, la coop. Altamarea e Le Perle dell’Arcipelago. Si ringraziano, inoltre, tutti i presenti allo spettacolo: cariche istituzionali del territorio elbano, insegnanti e studenti, ospiti della Casa di reclusione. E infine, ma non per importanza, un grazie alla dott.ssa Venezia, dirigente del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana, che si è congratulata e ha rivelato di essersi commossa in questo carcere che, citando le sue parole, è ancora un "carcere possibile". Un carcere che crede nella rieducazione del reinserimento del condannato nella società. Santa Maria Capua Vetere (Ce): "Maggio dei libri", successo dell’iniziativa con i detenuti Corriere del Mezzogiorno, 10 giugno 2017 Si è chiusa con un bilancio positivo l’iniziativa Maggio dei Libri nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, diretta da Carlotta Giaquinto. La direzione del penitenziario ha dedicato all’iniziativa ben due giornate. La prima, con la proiezione del film "Orgoglio e Pregiudizio" e la celebrazione dei 200 anni dalla morte di Jane Austen da parte dei componenti dell’Associazione A-Mano A-Mano di Caserta, che hanno tracciato un profilo della scrittrice e discusso con i detenuti del reparto di media sicurezza Volturno. Un secondo incontro è stato organizzato in collaborazione con dall’Associazione Archora di Casalnuovo con lo scrittore Pino Imperatore, che ha presentato il suo ultimo romanzo "Allah, san Gennaro e i tre kamikaze" affrontando i temi della legalità e della tutela del paesaggio con i detenuti del reparto di alta sicurezza Tamigi. Alla due giorni sono stati invitati i magistrati dell’Ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, il garante dei diritti dei detenuti, Adriana Tocco, ed il direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Caserta. Torino: gli chef per i detenuti: più stelle, meno sbarre di Valentina Dirindin Gazzetta dello Sport, 10 giugno 2017 Le stelle sono quelle del firmamento della ristorazione, quelle che incoronano anno dopo anno gli chef più meritevoli di tutto il mondo. Le sbarre, invece, sono quelle delle carceri, che spesso costringono i detenuti a una pena che molte volte continua anche fuori dalle prigioni, quando hanno scontato il loro debito con la comunità ma faticano a lasciarsi alle spalle il passato per essere reinseriti nella società. Per questo è importante il lavoro di associazioni che si occupano di agevolare il ritorno dei detenuti a una vita "normale", in modo da scongiurare il rischio che ricomincino a delinquere. È di questo (fra le altre cose) che si occupa Sapori Reclusi, associazione culturale nata nel 2010 da un’idea del fotografo Davide Dutto, che promuove progetti legati al food per riunire uomini e donne che vivono ai margini della società. Così quindi nasce "Più Stelle meno Sbarre", iniziativa che vede coinvolti appunto i grandi chef, che lavoreranno per una cena di beneficenza fianco a fianco con i detenuti lavoratori del ristorante del carcere di Torino, gestito dalla cooperativa Liberamensa. Una grande serata di ristorazione e di sensibilizzazione, che si terrà per la sua terza edizione il 19 giugno all’AC Hotel Torino by Marriot (costo della cena € 145, info e prenotazioni 347 4715190) e che vedrà protagonisti alcuni grandi chef del firmamento nazionale. Ecco chi sono, e perché hanno voluto partecipare alla serata: Fratelli Costardi - I "Costardi Bros", Christian e Manuel, re dei risotti. www.christianemanuel.it "Il motivo per cui abbiamo deciso di partecipare a Sapori Reclusi può essere riassunto in una parola sola, "donare". Donare il proprio tempo, la propria passione e soprattutto la nostra conoscenza a persone che ne hanno bisogno, dando loro la possibilità di conoscere una realtà differente e magari trarne ispirazione per cambiare il loro futuro". Pino Cuttaia - Pino Cuttaia, due stelle al sapore del Sud Italia. ristorantelamadia.it. "L’ingrediente segreto della mia cucina è la memoria. Ricordare è anche riflettere, capire, trovare nuovi punti di vista. Occasioni come la cena di Sapori Reclusi sono utili a noi cuochi e a tutti quelli che vi partecipano per ricordare che la vita non è solo quello che ruota intorno a noi. Riflettere sul carcere, capire, trovare nuovi punti di vista da più sapore anche a un evento leggero come una cena". Maria Grazia Soncini - Maria Grazia Soncini, cuore, anima e forza de La Capanna di Eraclio. "È un piacere poter partecipare a questa cena, è bello che anche in carcere possa nascere la passione per la cucina e dare un futuro dove non c’era, cercando così di dare la possibilità ai detenuti di fare nuove esperienze… perché domani è un altro giorno". Stefano Sforza, giovane promessa torinese - www.turinpalacehotel.com. "Il lavoro in carcere è un lusso per pochi, qualcuno lo definisce un privilegio. Il lavoro in cucina è sicuramente faticoso, ma è anche un occupazione che unisce le persone, in questo caso diventa speranza per un futuro differente. Per me è un piacere poter condividere la mia quotidianità, anche solo per una sera, e trasformare la mia passione in uno strumento sociale di recupero, di speranza e di "sana" prospettiva lavorativa superando tutti i pregiudizi, perché dietro ai fornelli si lavora tutti per lo stesso obiettivo". Andrea Larossa, la creatività ad Alba - www.ristorantelarossa.it. "Un’esperienza unica, un onore poterci essere, un occasione per poter dare e ricevere tanto. Lo scopo per il quale tutto ciò viene fatto nobiliterà tutti e farà si che degli esseri umani possano respirare tutta la nostra passione e a loro volta arricchirsi". Alessandro Negrini, chef del Luogo di Aimo e Nadia. www.aimoenadia.com. "L’anno scorso ho avuto la possibilità di vivere in prima persona l’esperienza di Più stelle meno sbarre e sono stato testimone di come la cucina possa unire realtà tanto diverse, di come il lavoro possa rappresentare un riscatto per il futuro". A cucinare insieme a loro, durante la serata, anche Giuseppe Iannotti, del Kresios (www.kresios.it) in provincia di Benevento, Marco Avidano della pasticceria Avidano (www.avidano.it) e Alessandro Levo, resident chef dell’Ac Hotel torinese. Radio Radicale: Riina e i detenuti morti in carcere per mancanza di cure di Angela Gennaro stefanocucchi.it, 10 giugno 2017 Riina, la detenzione e lo stato del diritto. Mentre in carcere si continua a morire. In questa puntata di "Lo Stato del Diritto", trasmissione su Radio Radicale ideata e condotta da Irene Testa, della Presidenza del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, e con ospiti in studio Angela Gennaro e in collegamento telefonico Martina La Penna - sorella di Simone La Penna, deceduto nel carcere Regina Coeli di Roma - e Katia Bondavalli, sorella di un detenuto gravemente malato. Partendo dalla sentenza della Cassazione dei giorni scorsi su Totò Riina e le sue condizioni di salute in carcere, il dibattito si è incentrato sulla questione delle cure negli istituti penitenziari. Katia ha lanciato un appello al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma in merito alle condizioni di suo fratello, Marco Bondavalli, detenuto presso il carcere di Bologna e gravemente malato. Il caso è seguito dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus. "E non dobbiamo mai smettere di ricordare e di "raccontare" tutti coloro che non hanno voce in una situazione di disinteresse generale che fa rabbrividire", dice oggi su Facebook Ilaria Cucchi, presidente della Onlus, in contatto con Katia da qualche giorno. Katia ha scritto all’associazione qualche settimana fa per segnalare il caso di suo fratello Marco. Lo Stato Del Diritto è una trasmissione in onda ogni giovedì dalle 19 alle 19.30 su Radio Radicale. La registrazione audio di questa puntata ha una durata di 29 minuti e la trovate anche sul sito dell’emittente. Ecco il podcast di Radio Radicale: http://www.radioradicale.it/scheda/511308/lo-stato-del-diritto-trasmissione-a-cura-di-irene-testa "Con le Ong più migranti in viaggio? Ecco perché non è vero" di Alessandra Ziniti La Repubblica, 10 giugno 2017 Uno studio dalla Goldsmiths University di Londra boccia la tesi di Frontex secondo cui la presenza e il ruolo dei volontari finisce per aumentare i viaggi nel Mediterraneo e la loro pericolosità: "I dati sono in linea con le previsioni, dipendono dall’acuirsi delle crisi politiche ed economiche in Africa e non sono legati alle zone in cui operano le organizzazioni non governative". Gli sforzi delle organizzazioni non governative nel salvataggio dei migranti che attraversano il Mediterraneo non rendono questi viaggi più numerosi né più pericolosi. Al contrario le Ong hanno svolto un ruolo fondamentale dopo che l’Europa si è sostanzialmente disimpegnata con la conclusione dell’operazione Mare nostrum. È questo il risultato della ricerca effettuata dalla Goldsmiths University di Londra che ha analizzato i rilievi mossi da Frontex, dalla Guardia costiera e da alcune parti politiche secondo cui le attività di ricerca e salvataggio delle navi umanitarie costituirebbero un fattore di attrazione e che le Ong incoraggerebbero i trafficanti a utilizzare modalità di viaggio più pericolose, provocando un più alto numero di vittime. Lo studio ritiene provato che non sia così. Infatti, come ha rilevato anche Frontex, l’aumento degli arrivi nel 2016 è stato in linea con le previsioni fatte l’anno precedente quando le Ong non svolgevano questa attività e in linea, ad esempio, con l’aumento del 46 per cento dei viaggi tra il 2015 e il 2016 dal Marocco in un’area in cui le navi umanitarie non svolgono attività di ricerca. Dice Lorenzo Pezzani, autore del report presentato questa mattina nella sede della Stampa estera a Roma alla presenza di esponenti di diverse Ong: "Semplicemente l’evidenza non supporta l’idea che i soccorsi delle Ong aumentino il numero dei viaggi. Gli argomenti contro le Ong ignorano deliberatamente l’acuirsi della crisi economica e politica in molte regioni dell’Africa che è alla base dell’aumento dei viaggi nel 2016. Le violenze contro i migranti in Libia sono così pesanti che i migranti tentano la fuga in mare con o senza la presenza di navi umanitarie pronte a salvarli". L’analisi esclude poi che i soccorsi delle Ong così ravvicinati alle coste libiche siano la causa delle pessime condizioni delle barche che vengono utilizzate per i viaggi. Le modalità dei viaggi sono sempre peggiorate da quando in Libia è esplosa la guerra civile. Nel frattempo l’operazione Eunavformed ha avuto un impatto importante sulle tattiche dei trafficanti perché ha intercettato e distrutto moltissimi barconi di legno obbligando i trafficanti ad utilizzare piccoli gommoni fatiscenti. Anche l’uso della violenza da parte della Guardia costiera libica quando intercetta i natanti costituisce un alto fattore di rischio. Spiega il ricercatore della Goldsmiths Charles Heller: "La nostra analisi dimostra che il tasso di mortalità dei migranti è costantemente diminuito nei periodi in cui operano le navi delle Ong ed è invece aumentato in loro assenza". I ricercatori concludono affermando che quelli che accusano le Ong hanno scelto di ignorare il ruolo che gli altri che operano nel Mediterraneo, a cominciare da Frontex, hanno avuto nel rendere più pericolosi i viaggi dei migranti. Dice Heller: "Se questa campagna di discredito contro le Ong riuscisse a diminuire o a bloccare le loro attività, ci sarebbe un rischio reale che moltissimi migranti che attraversano il Mediterraneo possano perdere la vita, esattamente come accadde nel 2014 alla fine dell’operazione Mare nostrum". Giornata mondiale del rifugiato: sport, mostre e food festival La Repubblica, 10 giugno 2017 Presentato ieri mattina al Maxxi di Roma il programma di eventi organizzati per questa occasione, alla presenza di Giovanna Melandri, presidente della Fondazione e di Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa. Repubblica è media partner. Il 20 giugno prossimo si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Rifugiato - per la quale Repubblica è media partner - appuntamento annuale voluto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha come obiettivo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo costretti a fuggire da guerre e violenze e a lasciare i propri affetti, la propria casa e tutto ciò che un tempo era parte della loro vita. Soprattutto c’è l’invito a non dimenticare mai che dietro ognuno di loro c’è una storia che merita di essere ascoltata. Storie di sofferenze, di umiliazioni ma anche di chi è riuscito a ricostruire il proprio futuro, portando il proprio contributo alla società che lo ha accolto. Le iniziative previste per quella giornata sono state presentate e illustrate stamattina a Roma, nella sede del Maxxi, da Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa e da Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi. Rendere visibili la solidarietà e l’empatia. Per perseguire questo obiettivo l’Agenzia ONU per i Rifugiati (Unhcr) prosegue la campagna #WithRefugees, che vuole rendere visibile la solidarietà e l’empatia verso i rifugiati, amplificando la voce di chi accoglie e rafforzando l’incontro tra comunità locali e rifugiati e richiedenti asilo per promuovere la conoscenza reciproca. #WithRefugees è anche una petizione, con la quale l’UNHCR chiede ai governi di garantire che ogni bambino rifugiato abbia un’istruzione, che ogni famiglia rifugiata abbia un posto sicuro in cui vivere, che ogni rifugiato possa lavorare o acquisire nuove competenze per dare il suo contributo alla comunità. La petizione, le storie dei rifugiati e delle rifugiate, le testimonianze di solidarietà di esponenti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo, e l’elenco e le informazioni sulle principali iniziative in programma su tutto il territorio nazionale sono disponibili sul sito della campagna. Fra gli eventi di celebrazione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che culmineranno nella giornata di martedì 20 giugno, ma proseguiranno fino alla fine del mese: WebNotte #WithRefugees. Il programma di grande musica dal vivo di Repubblica.it condotto da Ernesto Assante e Gino Castaldo abbraccia la campagna #WithRefugees e dedica ai rifugiati 6 puntate (dal 2 maggio al 6 giugno) e una puntata speciale il 23 giugno per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato: negli studi di WebNotte giovani ragazzi e ragazze rifugiate incontrano il pubblico e gli artisti ospiti del programma a cui raccontano la loro storia. Ad illustrare il programma nel dettaglio, stamattina c’era Alessandra Vitali, vicecaporedattore di Repubblica e tra le animatrici di Webnotte. Champions #WithRefugees. L’UNHCR assieme all’Associazione Italiana Calciatori - rappresentato stamane dal suo presidente, Damiano Tommasi - e Liberi Nantes - la squadra di calcio formata da rifugiati di diverse nazionalità, rappresentata stamattina da Robel Tesfit, il portiere della squasra e con il sostegno di AS Roma - organizza una partita amichevole tra una squadra di stelle del calcio e dello spettacolo e la Liberi Nantes, squadra di richiedenti asilo e rifugiati, in un incontro che vuole essere simbolo dell’integrazione possibile attraverso lo sport. Con un intermezzo musicale a cura della Piccola Orchestra di Torpignattara. Il 18/06 ore 17, presso lo Stadio Tre Fontane a Roma. Ingresso libero. Chefs #WithRefugees. Dopo la prima edizione svoltasi in Francia lo scorso anno, il Refugee Food Festival, arriva in quattro città italiane: Milano (16/06 e 20/06 - Eataly Smeraldo), Firenze (dal 26/06 al 30/06, organizzato in collaborazione con le volontarie dell’Ass. Festina Lente, serata conclusiva presso il centro di Accoglienza Villaggio La Brocchi), Roma (20/06 - Eataly Ostiense) e Bari (18/06 - Eataly). L’UNHCR, insieme a Food Sweet Food, in collaborazione con Eataly e le volontarie dell’associazione Festina Lente, organizzano una serie di eventi culinari per aprire le cucine dei ristoranti a rifugiati chef. Arte #WithRefugees. Un’installazione presso il Museo Maxxi, Roma (20-25/06) e una mostra fotografica presso la Galleria Alberto Sordi, Roma (11-25/06). Al Maxxi: S.O.S. - Save Our Souls di Achilleas Souras, un progetto per recuperare i giubbotti di salvataggio usati da rifugiati e migranti durante le traversate del Mediterraneo e trasformarli in igloo-rifugio; Mostra fotografica "#WithRefugees" negli spazi della Galleria Alberto Sordi con 8 maxi-foto di Francesco Malavolta, Alessandro Penso e Alessio Romenzi. Porte aperte #WithRefugees. L’UNHCR assieme alla Rete SPRAR - rappresentata dalla direttrice del servizio centrale, Daniela Di Capua - e agli enti gestori, in collaborazione con altre associazioni quali ARCI, Caritas, Centro Astalli e Refugees Welcome intende dare visibilità alle espressioni di solidarietà verso i rifugiati, amplificando la voce di chi accoglie e rafforzando l’incontro tra le comunità locali e i rifugiati ed i richiedenti asilo. Per questo motivo chiediamo alle persone di mostrare solidarietà ai rifugiati incontrandoli durante una giornata di "porte aperte" dei centri di accoglienza. La mappa dei centri. Global Trends 2016. Presentazione del rapporto statistico dell’UNHCR "Global Trends 2016", una mappatura globale dei flussi di uomini, donne e bambini in fuga da guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani. Partecipano UNHCR, Ministero degli Interni, Ministero degli Esteri. Il 20/06 presso la Sala dell’Associazione Stampa Estera, in Via dell’Umiltà 83/c a Roma. Carlotta Sami. La portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa, che ha moderato la presentazione delle iniziative per la Giornata Mondiale del Rifugiato, nel suo intervento ha detto: "Mai come in questo momento è necessario stare dalla parte dei rifugiati - ha sottolineato - persone che non hanno scelto di lasciare il proprio Paese e che affrontano una pesantissima sfida, quella di ricominciare da zero in un ambiente nuovo, spesso diffidente e, nel peggiore dei casi, ostile. Quest’anno vogliamo che la gente incontri e conosca i loro nuovi vicini di casa, ne scopra i talenti e la generosità" ha aggiunto la Sami. "Chi sta dalla parte dei rifugiati ha deciso di aiutarci a mostrare queste qualità dando loro voce, incontrandoli in un centro d’accoglienza, cucinando insieme, condividendo un campo di calcio o un palco per suonare, siete tutti invitati". Picchiati, derubati, deportati: così la Croazia caccia i rifugiati di Nicole Corritore* Il Manifesto, 10 giugno 2017 La denuncia delle Ong: "La polizia abusa dei migranti per chiudere la rotta balcanica". Zagabria nega, ma la conferma arriva dalle decine di referti medici delle vittime. Diverse associazioni denunciano l’uso della violenza e respingimenti illegali da parte della polizia su rifugiati entrati in Croazia. Il ministero dell’Interno nega, ma promette l’avvio di indagini. "Dal 10 maggio abbiamo verificato un aumento sensibile di casi di violenza della polizia su rifugiati che hanno attraversato il confine", ha dichiarato il 26 maggio per T-Portal Owen Breuil, responsabile della sezione croata di Mdm - Médecins du monde. Una violenza che, secondo le 30 testimonianze raccolte dal 19 maggio nei pressi dei confini da Msf - Medici Senza Frontiere in Serbia, ha sempre le stesse caratteristiche: percosse con manganelli, distruzione dei cellulari, sequestro dei soldi. Il portavoce di Msf, Stephane Moissaing, ha aggiunto che è inaccettabile che si usi la violenza come deterrente per rimandare indietro i migranti da mesi bloccati lungo la rotta balcanica. Violenze, oltre che respingimenti illegali, che in realtà vengono segnalate da mesi da organizzazioni come Human Rights Watch, Jesuit Refugee Service, Oxfam, oltre che dai rappresentanti dell’iniziativa Dobrodošli! (Benvenuti!) che fa riferimento al Centro per gli studi sulla pace e all’associazione locale Are you Syrious?, nata a Zagabria nel 2015 durante il primo grande flusso di rifugiati e che produce informazione giornaliera sui migranti nei Balcani. Il 29 maggio a Zagabria, le due associazioni hanno presentato il Rapporto sulla nuova ondata di violenze sui migranti ai confini della Repubblica di Croazia, realizzato in base a testimonianze raccolte direttamente o dati di altre organizzazioni. Come il report di aprile 2017 dell’Unhcr in Serbia dal quale risulta che in quel mese 246 rifugiati sono stati rimandati a forza in Serbia, mentre il report della settimana tra il 15 e il 21 maggio segnala: "137 rifugiati hanno subito l’espulsione collettiva, un numero doppio rispetto alla settimana precedente, a molti è stato negato l’accesso alla procedura d’asilo e si denota lo sproporzionato uso della forza da parte della polizia". Nel rapporto di Are You Syrious e Dobrodošli vengono citati anche dati forniti dalle missioni in Serbia di Msf e Mdm sul numero dei feriti: "Negli ultimi dieci giorni, Mdm ha curato 23 casi nella loro clinica di Adaševci (in Serbia, al confine con la Croazia, ndr) il che conferma l’aumento significativo della violenza usata ai confini. Msf sostiene di aver curato nel proprio ospedale a Belgrado, nella settimana tra il 19 e il 25 maggio, dieci migranti feriti e tutti hanno dichiarato di essere stati picchiati dalla polizia croata". Secondo Are you Syrious? e Dobrodošli! le violenze perpetrate dalla polizia alla frontiera tra Croazia e Serbia hanno preso di nuovo il sopravvento. Durante la presentazione pubblica del rapporto Lea Horvat, di Dobrodošli, ha rilevato come oltre alla violenza fisica i migranti subiscano la violazione del diritto all’asilo, il sistema di protezione internazionale recepito dalla legislazione croata. Kelsey Montzka, dell’associazione Are You Syrious, ha fornito dettagli sulle modalità: "Dalle denunce dei migranti emerge che i poliziotti li fermano una volta già entrati in territorio croato e li riportano nei territori in vicinanza del confine con la Serbia. Qui vengono trasferiti su altri mezzi e trasportati alla frontiera. All’arrivo li scaricano uno ad uno, picchiandoli a mani nude o con bastoni o manganelli, come se con i loro corpi giocassero a calcio". Sulla base delle testimonianze raccolte tra i rifugiati dalle due associazioni, emerge che si tratta di violenze frequenti e continue, che provocano pesanti conseguenze sull’indennità fisica e sulla sicurezza dei rifugiati. Per questo motivo Are You Syrious e Dobrodošli hanno presentato alle autorità croate precise richieste: fermare immediatamente l’uso della violenza da parte della polizia, avviare urgentemente un’indagine e sanzionare i responsabili; assicurare a chiunque lo richieda l’accesso alla procedura di richiesta dell’asilo; rendere possibile ai rifugiati, illegalmente espulsi e interessati a richiedere asilo in Croazia, di rientrare ed essere accolti nel centro per richiedenti asilo di Zagabria o di Kutina per poter avviare la richiesta di protezione internazionale; sospendere il Regolamento di Dublino. Il ministero dell’Interno ha risposto immediatamente alle accuse con una nota ufficiale, come riporta il quotidiano Vecernji List del 26 maggio: "Fino ad ora non ci risultano registrati casi di comportamento non professionale o illegale della polizia nei confronti dei migranti. In caso di segnalazioni, come sempre fatto in passato, il procuratore di Stato avvierà le dovute indagini". Ha aggiunto, inoltre, che con i colleghi della Serbia avvengono giornalieri scambi di informazioni e finora non sono mai stati segnalati i casi denunciati dalle Ong. Di diverso avviso Vladimir Cucic, Commissario responsabile per i profughi e le migrazioni in Serbia, che il 2 giugno ha confermato l’uso della forza: "Non sono rari i casi di migranti rimandati indietro dai paesi vicini, che tornano con visibili ferite e segni da percosse". Aggiungendo che questa "prassi" è usata anche da Ungheria e Bulgaria. *Osservatorio Balcani e Caucaso Iraq. La battaglia finale per Mosul, tra attacchi indiscriminati contro i civili e scudi umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 giugno 2017 La battaglia tra le forze irachene e della coalizione a guida Usa contro lo Stato islamico nella zona occidentale di Mosul, dove si trova il centro storico della città, è oggi arrivata al 111° giorno e i circa 200.000 civili intrappolati sono sempre più a rischio e sopravvivono mangiando granaglie e bevendo acqua piovana. Il 25 maggio le forze irachene e della coalizione a guida Usa che combattono contro lo Stato islamico hanno lanciato volantini per sollecitare i civili a lasciare le zone ancora sotto il controllo del gruppo armato. La risposta dello Stato islamico è stata cinicamente chiara: non si muove nessuno e chi fugge viene ucciso. Un enorme numero di civili è così a disposizione per farne scudi umani. Un evidente crimine di guerra che non solo mette a rischio la vita di famiglie intere ma che rende molto complicato distinguere tra civili e combattenti nei due chilometri quadrati del centro storico di Mosul. La tattica dello Stato islamico è chiara: costringere la controparte a scegliere se rinunciare all’assalto finale o fare una carneficina di civili, resa peraltro ancora più probabile dalla modifica alla procedura sull’individuazione dei bersagli che le forze Usa hanno fatto alla fine dello scorso anno e quasi annunciata dall’avviso che il finale sarà estremamente violento. Già ad aprile le vittime civili di Mosul, così come quelle degli attacchi in Siria, erano risultate in aumento. Le forze irachene non sono da meno. Di fronte a questa situazione, cinque organizzazioni non governative per il rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario - Airwars, Amnesty International, Human Rights Watch, War Child e International Network on Explosive Weapons - hanno chiesto alle forze irachene e a quelle della coalizione a guida Usa di non usare armi esplosive con effetti ad ampio raggio, come le bombe aeree di 500 libbre o proiettili non guidati lanciati da mortai e lanciarazzi. Le cinque Ong hanno sollecitato le forze irachene e della coalizione a guida Usa a usare tutti i mezzi disponibili per verificare la presenza di civili nelle immediate vicinanze di uomini armati o di altri obiettivi militari. Le cinque Ong ricordano a tutte le parti in conflitto che le leggi di guerra proibiscono l’ìmpiego di scudi umani, vietano di condurre attacchi deliberati contro i civili od obiettivi civili così come attacchi indiscriminati o sproporzionati e obbligano coloro che prendono parte a un conflitto ad avere costante attenzione, durante le operazioni militari, per le vite dei civili e a "prendere tutte le misure necessarie" per evitare o minimizzare vittime civili o danni a obiettivi civili come conseguenza di un attacco.