La passione per la cultura è un antidoto contro il veleno dei reati Il Mattino di Padova, 9 gennaio 2017 Lo studio è spesso una grande occasione di riscatto per le persone detenute, ma lo è doppiamente per le persone che stanno nelle sezioni di Alta Sicurezza, e quindi hanno alle spalle storie pesanti di criminalità organizzata, ma spesso anche una grande povertà culturale. "È lo studio che mi ha permesso di apprendere che esistono delle regole che si chiamano legalità", scrive un detenuto, e questo è vero per molti: cresciuti in ambienti culturalmente arretrati, arrivano spesso per la prima volta proprio in carcere a misurarsi con lo studio, e scoprono il piacere della cultura, della crescita personale, della presa di distanza da un passato, dove l’illegalità era la regola, nella vita quotidiana così come nella vita criminale. Per questo il Volontariato che si occupa di pene, di carceri, di reinserimento nella società di chi ha sbagliato chiede che cambi la qualità della vita detentiva, e che sia dato più spazio, oltre che al lavoro, alle attività culturali, che le carceri perciò non "muoiano" alle tre del pomeriggio, ma continuino nel corso della giornata a essere luoghi vivi con orari che assomiglino di più alla vita vera. E con la possibilità continua di un confronto con la società, che avviene solo quando i cancelli del carcere si aprono per accogliere le scuole, le parrocchie, l’Università, il mondo del lavoro, come avviene a Padova, e come dovrebbe avvenire più spesso in tutte le carceri del nostro Paese. Per me lo studio è un formidabile strumento di consapevolezza e di conoscenza di sé Sono entrato in carcere giovanissimo e paradossalmente, proprio in carcere, ho conosciuto un altro mondo, quello della cultura. Un mondo, quello dello studio, che mi affascina, e mi rammarico di non averlo scoperto prima. Si, perché quand’ero in libertà non avevo tanta voglia di andare a scuola, ci andavo malvolentieri, sono riuscito a prendere la terza media e pure a stento. Oggi invece ho capito l’importanza dello studio e grazie ad esso sono riuscito a spendere in modo proficuo questo tempo che prima consumavo inutilmente. In carcere, dopo tante difficoltà e sacrifici, sono riuscito finalmente a diplomarmi: che dire? è stata un’esperienza straordinaria, mi ha arricchito tantissimo sotto molti aspetti. Tuttavia il mio cammino non si ferma qui, ma continua. Tant’è che mi sono iscritto alla facoltà di Lettere, Arti, Storia e Società indirizzo Comunicazione e Media Contemporanea per le Industrie Creative. Dunque mi si potrebbe chiedere a cosa possa servirmi una laurea se poi non può essere spendibile concretamente, vista la mia condizione di ergastolano. Bè, per una cosa semplicissima, e cioè, perché, a prescindere della spendibilità di un diploma o di una laurea, per me lo studio significa riscoprire la propria qualità e capacità individuale, significa dare un senso a questo luogo di non senso e avere una visione differente sia per gli anni di detenzione, e perché no, sia per un prossimo ritorno nella società, proprio perché ogni persona deve avere il diritto alla speranza, diversamente perde il senso di essere in quanto tale. Perché ritengo che l’istruzione sia la base essenziale per raggiungere il primo passo nella ricostruzione dell’identità personale. Sono davvero grato all’altro me di avermi invogliato allo studio. A lui devo tutto, poiché mi ha aiutato a dare delle risposte a quelle domande che ogni persona durante il cammino della propria vita prima o dopo si pone. Mi ha insegnato a vedere le cose sotto angolature molto diverse. Mi ha aiutato a imparare a dare un senso ad ogni incontro, ad ogni colloquio, e valore ad ogni cosa. Mi ha aiutato a essere libero e a rendermi conto nonostante tutto che sono vivo, perché la cultura è esistenza, è libertà, ti appartiene, ti apre una finestra con il mondo, un rapporto con il fuori che ti permette di acquisire strumenti d’interpretazione critica del presente. È uno strumento mentale per il proprio compimento ed il miglioramento personale, è un mezzo capace di orientare la persona su orizzonti inesplorati, a fare analisi critica, a indirizzarla verso un progetto di creazione, che contribuisca a reimpostare, a rafforzare il proprio futuro. Dà indipendenza nel pensare e nell’agire. È un tempo che ti spinge a rivolgere lo sguardo dentro, a venire a sapere ciò che sei con coscienza, è un formidabile strumento di consapevolezza e di conoscenza di sé. Ecco a cosa serve lo studio. Ecco a cosa è servito a me lo studio, e questo indipendentemente dalla condizione in cui mi trovo. Giovanni M. Lo studio mi rende libero, mi porta il mondo nella cella Sono Taurino, ho 51 anni e da 25 mi trovo in carcere perché condannato all’ergastolo per concorso in omicidio. Io non so spiegare fino in fondo e in maniera convincente perché alcune persone devono prima perdersi per poi ritrovarsi: io sono una di quelle persone che hanno prima smarrito e poi ritrovato la strada grazie allo studio e non al carcere. Fin da subito dico che studiare per me ha una valenza vitale: mi permette di respirare, mi permette di continuare ad illuminare la strada ancora buia, per alcuni tratti che devo percorrere prima di uscire definitivamente dall’oscurità… Intendo dire con questa affermazione che studiare mi permette di continuare a vivere uno scampolo di vita secondo ideali e valori che prima dello studio non conoscevo. Lo studio mi rende libero, mi porta il mondo nella cella: e io con il mondo ci parlo, e quando chiudo i libri o termino di preparare un esame avverto una sensazione di smarrimento, di straniamento. Vivere la dimensione del carcere è in qualche modo come se il luogo stesso volesse spazzare via tutta la preparazione e anche i sacrifici fatti durante lo studio. Lo studio è però quella componente della vita che mi ha permesso di crescere culturalmente; mi ha fatto conoscere il mondo, i suoi travagli, il suo progresso. Ed è sempre la conoscenza appresa dai libri che mi ha "suggerito" che stare al di fuori dei processi produttivi equivale ad essere un parassita. È lo studio che mi ha permesso di apprendere che esistono delle regole che si chiamano legalità, valore questo al quale oggi mi appello con tutte le mie forze. Studiare per me è stata una scelta e non un rimedio per contrastare la solitudine e le nevrosi che il carcere comporta. Mentre scorre la penna sul foglio mi è compagno il silenzio complice - sono le cinque di mattina - che solo il carcere può dare. È un silenzio che non è uguale a nessun altro silenzio né a quello descritto sui testi sacri né a quello dei conventi. Questo è un silenzio che grida, un silenzio amaro. Un silenzio però che per primo ha parlato alla coscienza del sottoscritto, che si è risvegliato ed è diventato - grazie allo studio - una persona nuova. Rapportarmi coi libri e col mondo universitario (sto scrivendo la tesi di laurea in Beni culturali) è ciò che conta di più per me in assoluto, perché lo studio, ovvero la conoscenza, è quello strumento che rompe le catene del "servaggio" e rende finalmente liberi. Taurino Carceri a rischio radicalizzazione. "Noi guardie, poche e senza mezzi" di Edoardo Izzo La Stampa, 9 gennaio 2017 Tra gli agenti di polizia di Rebibbia: non siamo stupidi, abbiamo le mani legate. "Non siamo stupidi. Siamo pochi e abbiamo le mani legate". Non vuole essere citato l’agente di polizia penitenziaria del carcere romano di Rebibbia che parlando con La Stampa esprime tutto lo sconforto di chi ogni giorno cerca di far rispettare le regole in un posto dove questo risulta molto difficile, come il penitenziario romano. Le parole di Gentiloni sul rischio radicalizzazione dei detenuti islamici nelle carceri non ha lasciato indifferenti gli uomini che dei detenuti hanno cura. E il giovane collega che accompagna il graduato (un ragazzo di circa 25 anni) confida: "Io non sono razzista, non ce l’ho con gli islamici. È vero che nell’ora d’aria spesso stanno tra di loro e quando parlano non capiamo cosa dicono, ma secondo te come facciamo ad impedirglielo? Non possiamo discriminare le persone, se non ci sono motivi concreti non possiamo spostarli di cella. La maggior parte di loro è in carcere per reati comuni (borseggi, rapine, risse finite male), quasi nessuno per terrorismo. La nostra Costituzione tutela la religione altrui e devono esserci motivi seri per spostare di cella qualcuno". "Ma poi sei sicuro che dividendoli ottieni il risultato? Impedendogli di praticare la loro religione?", chiede l’agente più esperto, che aggiunge: "L’emarginazione crea solo odio, e gli jihadisti ci vanno a nozze. Più li allontani tra loro più hanno motivo per odiare l’Occidente. Noi teniamo la guardia alta, ma evitiamo i divieti. Li facciamo pregare è vero, ma impedendoglielo creeremmo solamente rivolte interne e altri problemi. Siamo pochi, non possiamo permetterci rivolte". Tra l’altro Rebibbia è stata anche luogo di conversioni, di persone che si sono avvicinate alla religione cattolica abbandonando l’Islam. Questi convertiti - confidano gli educatori - rischiano in prima persona, così come i loro parenti. "In certi casi - dicono - subiscono ripercussioni serie che vanno dagli incendi dolosi alle loro attività lavorative fino alle percosse". "Uno di loro - dice un operatore - è diventato il braccio destro di un parroco a Roma". Nella struttura di Rebibbia importante è il lavoro di Apeiron (Associazione operatori penitenziari nel trattamento e nella riabilitazione) un gruppo di criminologi che, su sollecitazione del direttore di reparto, hanno aiutato spesso i detenuti di fede diversa "sostenendoli, andando a lavorare sulle motivazioni che sono alla base del reato". Un’analisi che coincide in molti punti con quella di Marcello Bortolato, segretario del Conanms (Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza), secondo il quale "garantire stessi diritti religiosi a tutti sarebbe la più importante risposta democratica alla radicalizzazione". E questo "giustifica l’indicazione di dar vita a luoghi di culto nei singoli istituti, oltre che prestare un’attenzione alle regole di alimentazione". Quanti sono i detenuti di fede musulmana? Quanti quelli radicalizzati? "Bisogna intendersi sul concetto di radicalizzazione - sottolinea il magistrato -, quel processo che porta un individuo o un gruppo ad agire in forme violente collegandosi a un’ideologia, a contenuto politico, sociale o religioso, estrema. Ma il fenomeno della radicalizzazione ha una dimensione oggettiva legata all’esclusione sociale: in Italia i detenuti di fede musulmana sono circa 6.000, quelli già radicalizzati sarebbero 19 e circa 200 quelli "monitorati". Tuttavia solo 52 istituti detentivi ospitano quelle che possono essere definite moschee, mentre gli imam "certificati" sono solo nove". Stefano Dambruoso: "Servono giudici specializzati contro il terrorismo" di Stefano Zurlo Il Giornale, 9 gennaio 2017 Bocciata la sua proposta di sezioni ad hoc: "Ma oggi abbiamo bisogno di magistrati all’altezza del compito". Siamo in guerra e, come afferma il capo della polizia Franco Gabrielli, purtroppo un attentato potrebbe insanguinare le nostre strade. Cosa si può fermare o almeno arginare la deriva del terrorismo? Stefano Dambruoso, oggi deputato di Civici e innovatori, ma in passato pm di punta sulla prima linea di Al Qaida a Milano e per questa consacrato da Time come eroe europeo, aveva lanciato poco meno di due anni fa una proposta di legge per istituire sezioni specializzate contro l’eversione. Che ne è stato di quel provvedimento? "Nulla. Forse si è ritenuto che la creazione di un giudice ad hoc, in qualche modo speciale, avrebbe violato la Costituzione. E avrebbe innescato un domino interminabile: se immagini una toga specializzata nel contrasto alla jihad, allora puoi pensare che lo stesso debba accadere per la corruzione o i temi ambientali e cosi via". D’accordo, ma la sostanza non cambia. Come bloccare i progetti di morte che aleggiano sulle nostre teste? "Un attimo, qualcosa si è fatto. Nel 2015, dopo il massacro di Charlie Hebdo, abbiamo criminalizzato alcuni comportamenti che prima non costituivano reato". Ad esempio? "Oggi possiamo inquisire un tizio che se ne sta in casa sua, incollato davanti al pc, e lì si indottrina e studia le tecniche dell’Isis. Oppure compra semplicemente un biglietto aereo per la Turchia". Come hanno fatto centinaia di foreign fighter in tutto il mondo? "Esatto. Oggi abbiamo strumenti legislativi emergenziali per difenderci meglio di prima. Non è poco. Non solo: con quella proposta di legge ho comunque ottenuto un risultato molto importante". Quale? "È stata creata la procura nazionale antiterrorismo, un’idea contenuta nel mio pacchetto. Oggi il procuratore nazionale antimafia è anche procuratore antiterrorismo e alle riunioni con i colleghi europei finalmente abbiamo una sola figura che ci rappresenta e non una delegazione come in precedenza". Resta il nodo di fondo. "Esistono le procure distrettuali antiterrorismo e ora abbiamo pure la procura nazionale, sia pure con alcuni limiti, ma mancano giudici corrispondenti. Con competenze ed esperienze particolari". In concreto? "È vero, la Costituzione pone paletti precisi, ma dobbiamo trovare il modo di creare squadre di toghe all’altezza del compito. E della fase drammatica che attraversiamo: oggi ci sono gip che si occupano di un fallimento alle 10 e alle 11 passano all’Isis. E da Milano a Reggio Calabria possono cambiare i criteri di valutazione della prova". In parte questo non è fisiologico? "Certo, ma mi preoccupo se la giurisprudenza è troppo ondivaga e se inchieste clamorose, durate anni, vengo smantellate, come è successo, con provvedimenti che hanno fatto discutere". Insomma, cosa ci vuole contro il radicalismo estremista? "Un gruppo compatto di toghe che lavori al meglio, come in fondo è accaduto ai tempi delle Br. Il modo lo scelgano governo e parlamento, ma non perdiamo tempo. Non aspettiamo che a dettare l’agenda sia la cronaca con i suoi ritmi e le sue emozioni". Gentiloni e Orlando voglio istituire 12 sezioni specializzate per combattere l’immigrazione clandestina. Un’operazione di sostanza o maquillage? "Il proposito è lodevole. Rendere la macchina meno farraginosa, tagliare i tempi dei ricorsi, puntare su professionisti del diritto che si occupino solo di queste materie. Mi pare un passo in avanti, anche se il tema è complicato". Sarà, ma in questo momento siamo all’invasione. E al colabrodo. "Nel nostro Paese circolano troppi soggetti di cui non sappiamo nulla: questo è intollerabile. E poi sappiamo, senza per questo voler sviluppare facili equazioni, che i clandestini alimentano il mercato criminale, a sua volta contiguo nei Paesi d’origine a quello del terrore". Leggi speciali? "Abbiamo già, come accennavo, misure emergenziali adeguate. Il problema è farle funzionare. Servono mezzi, risorse svincolate da logiche burocratiche ed è decisiva l’azione degli apparati di intelligence. Ma non è tutto". Che altro serve? "Dobbiamo promuovere in tutti i modi il dialogo interreligioso e culturale. Darà i suoi frutti nel medio e lungo periodo, ma ci eviterà la nascita delle banlieue da cui sono usciti gli assassini del Bataclan". Il piano anti-clandestini del Governo: giudici ad hoc per esami sprint delle pratiche di Alessandro Farruggia Il Giorno, 9 gennaio 2017 Ecco i punti del ddl voluto dal ministro della Giustizia Orlando. Procedure di espulsione più semplici, più rapide, più efficienti. Istituzione in 12 tribunali distrettuali di sezioni speciali in materia di immigrazione. Semplificazione delle notifiche. Forte limitazione del diritto all’appello dopo una decisione sfavorevole delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Aumento di 887 unità del personale della Polizia penitenziaria. Il testo del ddl, voluto dal ministro della Giustizia Orlando già ai tempi del governo Renzi, è a palazzo Chigi da qualche tempo. Lo "schema di disegno di legge recante l’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione e altre misure per l’accelerazione dei relativi procedimenti giudiziari e delle procedure innanzi alle commissioni territoriali" ha 17 articoli. Nel primo si istituiscono presso i tribunali di Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Palermo, Roma, Salerno, Torino e Venezia sezioni specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale. All’articolo 2 si stabilisce che alle sezioni specializzate non potranno essere affidati altri affari e vengono fissate le procedure di scelta dei magistrati che le comporranno, almeno 3 per tribunale, quindi almeno 36 giudici in totale. All’articolo 12 si prevede però che per fronteggiare l’incremento dei procedimenti il Csm predisporrà un piano straordinario di applicazioni extra-distrettuali fino a un massimo di venti unità. La competenza (art. 3) delle sezioni specializzate sarà in materia immigrazione e in primis di controversie sul mancato riconoscimento del diritto d’asilo o del mancato riconoscimento del diritto di soggiorno di cittadini Ue, o del mancato rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dall’articolo sette in poi il Ddl si occupa delle commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo. L’articolo 7 si occupa di disciplinare, semplificandolo, il complesso processo delle notifiche (che non di rado oggi vanno a vuoto) e soprattutto della riscrittura dell’articolo 35 (relativo alle controversie sul decreto di asilo) del decreto legislativo 28 gennaio 2008 numero 25. Il ricorso è sempre ammesso entro 30 giorni e come adesso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impegnato, ma - novità essenziale - non più se il soggetto è ospite di un Cie, o si è già visto respingere una volta la domanda di asilo, oppure si è visto rigettare la domanda per manifesta infondatezza o anche se il provvedimento è stato adottato nei confronti di soggetti fermati per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera o fermati e trovati in condizione di soggiorno irregolare. Praticamente tutti. Il tribunale dovrà decidere sul ricorso entro 4 mesi ed è sempre possibile impugnare il decreto "per saltum" in Cassazione. Ma sempre dopo essere stati espulsi. Il ddl dovrebbe essere nei prossimi giorni all’esame del Cdm che l’approverà e potrebbe decidere di stralciarne una parte e proporla per decreto assieme al provvedimento sui Cie allo studio del Viminale e del quale Minniti parlerà giovedì con il commissario europeo all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, che ha già espresso in un tweet ("sostengo con forza l’ampia strategia politica del ministro Minniti sulle migrazioni") il suo appoggio alle politiche del governo italiano sul tema. La mia disgrazia si chiama Giustizia di Ludovico Gay articolo21.org, 9 gennaio 2017 Mi chiamo Ludovico Gay, ho 50 anni e da 4 anni combatto contro una disgrazia che mi toglie la forza e la voglia di vivere e che mi isola dal resto del mondo. Non si tratta di una grave malattia fisica, né di una forma di depressione cronica, anche se sono convinto che ci siano tante analogie tra la mia e questo tipo di avversità che capitano agli umani. La mia disgrazia si chiama Giustizia. Il 12 dicembre del 2012, all’alba, degli agenti della Guardia di Finanza, pistole e manette bene in vista, mi "catturano" mentre dormivo nel letto di casa mia, ignaro di tutto. Mi notificano una lunga ordinanza di arresto che coinvolgeva oltre 30 persone, tra dirigenti, funzionari pubblici ed imprenditori privati, accusati a vario titolo di corruzione, abuso d’ufficio e concussione. Gli agenti mi hanno fatto preparare un bagaglio minimo e sotto gli occhi sgomenti di mia moglie (oggi ex) e dei miei figli, mi hanno portato a Regina Coeli, dove sono rimasto rinchiuso per i successivi 120 giorni, di cui buona parte in stato di isolamento, nel braccio, per intendersi, dove finiscono i detenuti da tenere sotto controllo o ai quali deve essere inflitta una punizione. Sono rimasto li fino all’8 aprile del 2013, 120 giorni esatti, fintanto che la Corte di Cassazione ha deciso la mia immediata scarcerazione, annullando "senza rinvio" l’ordinanza di arresto e quella del "tribunale delle libertà" che aveva invece confermato la necessità "cautelare" certo della mia colpevolezza e giustificando tale necessità in quanto non avevo mostrato alcuna "resipiscenza" in sede di interrogatorio di "garanzia". Altrettanto convinti della mia colpevolezza sono stati, da subito, gli organi di informazione: tg nazionali, giornali, siti noti e ignoti, blog e altro, inclusi quelli dei 5 Stelle. Unanimi hanno invocato per qualche settimana successiva al bliz della Magistratura, la necessità di pene esemplari per quella che era stata definita la "cricca dell’agricoltura, hanno elaborato teorie che prospettavano inimmaginabili sviluppi dell’inchiesta che avrebbe coinvolto presto i vertici politici ed istituzionali del Ministero e hanno concordato più o meno coralmente sulla necessità di gettare le chiavi della piccola cella nella quale ero rinchiuso, senza mostrare, per giunta, segnali di pentimento. Il migliore articolo pubblicato sul caso, dal mio punto di vista, fu di un giornalista di cui non ricordo il nome, del quotidiano "Il Messaggero", il quale, credo più che altro preoccupato di dare un pò di coerenza alla sua narrazione, scrisse più o meno di me: " …. e non saranno certo questi gli unici benefici ricevuti dal Gay, direttore generale di Buonitalia". Il suo pezzo, ordinanza alla mano, elencando i milioni di contributi che avevo erogato a soggetti pubblici e privati nel corso degli anni in cui avevo lavorato al Ministero delle politiche agricole, accertava che avevo ricevuto in cambio tre (tre!) notti in alberghi di lusso e la promessa (la promessa!) di una cucina. E non importava se già in sede di interrogatorio avevo dimostrato, documenti alla mano, che i soggiorni erano missioni istituzionali e che la cucina era stata regolarmente pagata a rate e per il suo effettivo costo. Non un euro di mazzetta, nessun conto milionario in paradisi fiscali, nessuno appartamento con vista monumentale, nessuna vacanza su lussuose barche in luoghi esotici, niente di niente, ma sicuramente, per il giornalista, qualche cosa doveva esserci, altrimenti tutto questo baccano (di manette e di inchiostro!) non avrebbe trovato alcuna "giustificazione". Credo di essere stata l’unica persona che ha colto allora, in quella parte di articolo, l’evidenza di un’indagine inconsistente, basata su congetture illogiche e non documentate, meramente assertive, che i media avrebbero dovuto e potuto cercare di comprendere e di denunciare anziché lasciarsi andare al facile e appassionante gioco del massacro mediatico contro persone private, di fatto, anche della libertà di parola. Dopo un lungo processo, che il codice di procedura penale definisce addirittura "immediato cautelare", il 14 aprile del 2016 è arrivata la sentenza di assoluzione in primo grado, piena, perché il "fatto non sussiste". Giustizia è fatta? Ebbene no, perché il "ragionevole dubbio" che fossi colpevole del rato di corruzione, sebbene fosse stato instillato dalla Cassazione prima e sancito poi dalla sentenza di primo grado, non è stato sufficiente affinché il Pubblico Ministero, affatto resipiscente, non potesse o non volesse presentare il ricorso in appello. Da un punto di vista formale infatti, il PM può appellare un giudizio che ritiene non corretto, anche senza apportare qualche nuovo elemento di prova a favore della sua tesi accusatoria. E nel silenzio quasi totale dei media, gli stessi che ieri mi condannavano senza giudizio, oggi, attendo una nuova sentenza. E in attesa di questo giudizio in qualche modo, "ragionevolmente" contaminato almeno dal dubbio che qualche fraintendimento abbia generato l’inchiesta che mi ha stravolto la vita, continuo a scontare la condanna latente del pregiudizio sociale. Perfino trovare una casa è diventata un impresa impossibile. I locatori curiosano su internet ed è fatta: la casa è già stata affittata a miglior referenza, ci dispiace tanto. Il lavoro è una chimera e d’altra parte le istituzioni latitano. Nessuno beneficio finanziario o morale è previsto in questi casi. Anzi, potendo si infierisce ancora un pò negando perfino le spese legali che in questo caso dovrebbe risarcire il Ministero con l’avvallo dell’Avvocatura di Stato. Trovare un senso e dare un perché alla vita di ogni giorno è l’impegno quotidiano maggiore, il come vivere poi è relegato alla saltuarietà di qualche lavoretto e alla magnanimità dei pochi amici che, in questi casi sciagurati, restano fedeli e vicini. Dalla stepchild adoption alla tenuità del fatto: un anno ricco di novità di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Archiviato il 2016 è il momento di fare il punto sulle sentenze che hanno maggiormente segnato l’anno giudiziario appena trascorso. Solo per fare alcuni esempi: stepchild adoption, riforma Fornero, tenuità del fatto. Temi "caldi" sui quali i giudici, in campo civile e penale, si sono espressi con principi di diritto innovativi e di grande impatto dal punto di vista processuale e anche quotidiano. Per il civile, la I sezione della Cassazione ha dato il via libera alla stepchild adoption anche per le coppie gay. Per i giudici di legittimità, infatti, chi convive stabilmente con il proprio partner può adottare il figlio minore di quest’ultimo. Oppure in tema di lavoro la sezione Lavoro della Suprema corte ha precisato che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, modificato nel 2012 dalla riforma Fornero, non si applica ai dipendenti pubblici, in mancanza delle regole attuative previste per l’estensione di queste nuove norme anche al settore del pubblico impiego. Infine, in ambito processuale, le Sezioni unite hanno affermato che la procura ad litem che conferisce al difensore "ogni facoltà" consente al legale la chiamata in causa del terzo anche attraverso la cosiddetta azione di "garanzia impropria". Passando invece al penale di grande rilievo è stata la questione della tenuità del fatto. Le sezioni Unite hanno stabilito che la causa di non punibilità può essere applicata a ogni reato, e cioè anche a quei delitti per i quali il legislatore ha previsto delle soglie di rilevanza penale, ma è esclusa quando l’autore ha commesso più reati della stessa indole, oltre a quello oggetto del procedimento. In materia societaria, spicca la decisione che ha detto la parola fine sull’incertezza circa la rilevanza del falso valutativo: sussiste il delitto di false comunicazioni sociali se, in presenza di criteri di valutazione fissati da norme, il redattore del bilancio se ne discosta consapevolmente e senza darne adeguata giustificazione, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari dello stesso. Per ultimo, sull’arresto in flagranza i giudici di legittimità hanno stabilito che affinché sia valido è necessario assistere al crimine per avere la certezza che la persona fermata sia la stessa che ha commesso il reato. Nei due commenti che qui di seguito presentiamo vengono ripercorse le pronunce che il quotidiano del diritto ha pubblicato e commentato durante il 2016 proprio per la loro importanza, riassunte anche sotto forma di tabella. Penale. Le sentenze più importanti del 2016 di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Tenuità del fatto, stupefacenti, messa alla prova, arresto in flagranza. Questi e altri sono gli argomenti oggetto delle "sentenze penali più importanti dell’anno", riportate puntualmente sul Quotidiano del diritto, che qui si è cercato, senza pretesa di esaustività, di raggruppare in una tabella riepilogativa. Concorso formale esclude il ne bis in idem Si parte con due interventi particolarmente importanti della Corte costituzionale. Con il primo, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 649 del Cpp laddove, in tema di ne bis in idem, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che "sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale". Con la seconda pronuncia, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 69 comma 4 del Cp, per violazione del principio di ragionevolezza, laddove si prevede la prevalenza della recidiva reiterata, prevista dall’articolo 99, comma 4, del Cp, sulla circostanza attenuante della collaborazione nei reati di droga, di cui all’articolo 73, comma 7 del Dpr 309/1990. E sempre in tema di recidiva, sono invece le Sezioni unite ad affermare che il limite di aumento di pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, di cui all’articolo 81 comma 4 del Cp, nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva, prevista dall’articolo 99 comma 4 del Cp, opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti. La tenuità del fatto si applica a tutti i reati Dalle Sezioni unite arrivano, poi, altre importanti decisioni. In tema di particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis del Cp, per i giudici di legittimità, la causa di non punibilità può essere applicata a ogni reato, anche a quei delitti per i quali il legislatore ha previsto delle soglie di rilevanza penale, ma è esclusa quando l’autore ha commesso più reati della stessa indole, oltre a quello oggetto del procedimento. Arriva anche una precisazione in ordine alle depenalizzazioni attuate con i Dlgs 7 e 8 del 2016: per il reato che diventa illecito amministrativo, il giudice dell’impugnazione deve sempre decidere sui diritti della parte offesa; per il reato che diventa illecito civilistico, il magistrato deve invece solo rinviare la decisione al giudice civile, titolare tra l’altro anche del nuovo potere sanzionatorio verso l’autore dell’illecito ex penale. Falso in bilancio se non si seguono i criteri tecnici In materia societaria, spicca la decisione a Sezioni unite che ha posto fine all’incertezza circa la rilevanza del falso valutativo, sorta a seguito dei diversi orientamenti giurisprudenziali formatisi dopo che la Legge 69/2015 ha cancellato negli articoli 2621e 2622 del Cc l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" con riferimento ai fatti materiali. Per i giudici di legittimità, sussiste il delitto di false comunicazioni sociali se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, il redattore del bilancio se ne discosta consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari dello stesso. Frodi Iva, il regime di prescrizione è salvo se l’episodio non è grave Importante è, poi, la decisione della III sezione in materia di prescrizione e frodi Iva, che in attesa dell’intervento chiarificatore della Corte costituzionale, ha cercato di riempire di contenuto i requisiti previsti dalla sentenza Taricco della Corte di giustizia dell’Unione europea che impongono al giudice nazionale la disapplicazione della normativa interna. Per i giudici di legittimità, un importo di poco superiore ai centomila euro, l’assenza di una spiccata capacità criminale e di una particolare organizzazione di mezzi sono elementi in grado di fare venire meno l’elemento della gravità della frode. In materia di stalking, invece, le Sezioni unite hanno precisato che il reato di cui all’articolo 612-bis del Cp rientra tra i crimini commessi con violenza alla persona e, pertanto, la vittima deve essere informata in caso di richiesta di archiviazione del reato. Arresto in flagranza, necessario assistere al crimine Sempre in tema processuale, infine, arrivano due importanti principi a Sezioni unite. Per i giudici di legittimità, "non può procedersi all’arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto": affinché l’arresto in flagranza sia valido, è necessario che vi sia la certezza o l’altissima probabilità che la persona arrestata sia la stessa che ha commesso il reato. E, inoltre, valorizzando il fine deflattivo dell’istituto finalizzato alla risocializzazione, per la Corte, ai fini dell’individuazione dei reati per i quali è astrattamente applicabile l’istituto della messa alla prova, la pena edittale non superiore a quattro anni va riferita alla pena massima prevista per la fattispecie base senza che possano assumere rilievo le circostanze aggravanti, anche se a effetto speciale. "Mantenuta" nella causale del vaglia? È diffamazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 5 gennaio 2017 n. 522. Condannato per diffamazione l’ex marito che, all’insegna del bon ton, scrive la parola "mantenuta" nello spazio riservato alla causale del vaglia. Il "signore" si difende giurando che era certo che il messaggio sarebbe stato letto solo dalla destinataria, mancherebbero dunque gli estremi del reato di diffamazione che scatta quando l’offesa è comunicata a più persone. Secondo il ricorrente grazie alle attuali e rigide norme in tema di privacy della corrispondenza, si doveva escludere che l’operatore del servizio postale potesse leggere le comunicazione del mittente. Tanto è vero che i telegrammi, con un sistema improntato alla massima riservatezza, arrivano al destinatario in busta chiusa. Per finire l’uomo metteva in discussione anche il grado di offensività del termine usato, a causa del quale invece il tribunale lo aveva condannato a pagare 5 mila euro all’ex moglie per la sofferenza psicologica che le era stata procurata. I giudici della Suprema corte (sezione V, sentenza 522 del 5 gennaio 2017) respingono il suo ricorso. Non è vero che il vaglia resta riservato tra il mittente e il destinatario. Per necessità operative del servizio postale, infatti, il suo contenuto è conosciuto da più persone addette al servizio, facendo così scattare il requisito previsto dall’articolo 595 del codice penale, secondo il quale basta che il contenuto diffamante sia noto almeno a due persone. Che il temine poi sia offensivo non c’è dubbio, perché, come spiega con grande garbo la Cassazione, "si riferisce alla nozione comunemente accettata in ambito sociale di percettrice di reddito da soggetti terzi, in assenza di qualsivoglia prestazione lavorativa". Nella fattispecie degli "eco-reati" la condotta abusiva ha un concetto ampio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 novembre 2016 n. 46170. La Corte di cassazione fissa i punti fermi nell’interpretazione del reato di inquinamento ambientale. Lo fa con la sentenza 46170/2016, la prima che affronta gli "eco-delitti" introdotti dalla legge 68/2015 nel codice penale (articolo 452-bis). La pronuncia, depositata il 3 novembre, fissa i primi importanti princìpi interpretativi sul nuovo delitto. I fatti - La Corte ha annullato con rinvio al Tribunale di La Spezia una vicenda sul dragaggio delle acque del golfo spezzino. Con il rinvio, la Cassazione, sottolineando la novità, si sofferma opportunamente sugli elementi costituitivi del nuovo delitto, dando corpo ai suoi tratti salienti. Abusività della condotta - Il requisito dell’abusività della condotta, espresso dall’avverbio abusivamente utilizzato nell’articolo 452-bis del Cp, va interpretato negli stessi termini del reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152), ovvero laddove vi sia inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni: il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (attività clandestina) ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime. Va dunque riconosciuto un concetto ampio di condotta abusiva, anche alla luce dei contenuti della direttiva 2008/99/Ce, comprensivo non soltanto di quella posta in essere in violazione delle leggi statali o regionali, ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni amministrative. Elemento materiale del reato - Ai fini della configurabilità dell’elemento materiale del reato di cui all’articolo 452- bis del Cp, i concetti di compromissione e di deterioramento indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti, in quanto si risolvono entrambi in una alterazione, ossia in una modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema caratterizzata, nel caso di compromissione, in una condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi squilibrio funzionale, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema e, in quello del deterioramento, come squilibrio strutturale, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi. Non assume rilievo, pertanto, l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’articolo 452- quater del Cp. Il bene ambientale - Il bene ambientale oggetto materiale del reato si identifica, nelle acque in genere e nell’aria (senza alcuna limitazione quantitativa o dimensionale, di fatto difficilmente individuabile), nonché nel suolo o sottosuolo, il cui degrado, invece, deve interessarne porzioni estese o significative. È tuttavia evidente che, in ogni caso, l’estensione e l’intensità del fenomeno produttivo di inquinamento deve avere comunque una sua incidenza, difficilmente potendosi definire significativo quello di minimo rilievo, pur considerandone la più accentuata diffusività nell’aria e nell’acqua rispetto a ciò che avviene sul suolo e nel sottosuolo. Significatività e misurabilità - Ai fini della configurabilità dell’elemento materiale del reato, i requisiti della significatività e della misurabilità che devono connotare la compromissione o il deterioramento dell’aria, delle acque, del suolo o del sottosuolo, connotano la condotta di un elevato livello di lesività, escludendo i fatti di minore rilievo: in ogni caso, l’assenza di espliciti riferimenti ai limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui superamento non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile. Conducente colpevole per l’investimento del pedone fuori dalle strisce di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 23 settembre 2016 n. 39474. In tema di omicidio colposo, per escludere la responsabilità del conducente per l’investimento del pedone, è necessario che la condotta di quest’ultimo si ponga come causa eccezionale e atipica, imprevista e imprevedibile dell’evento, sì da poter sostenere che si tratti della causa esclusiva dell’evento. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 39474 del 2016. Ciò deve escludersi, spiegano i giudici della quarta sezione penale, nel caso di attraversamento del pedone, pur fuori dalle strisce pedonali, in una strada costeggiata su entrambi i lati da case ed esercizi commerciali: in tale contesto, infatti, il conducente del veicolo, pur non trovandosi nell’immediata prossimità di un attraversamento pedonale, deve considerare possibile l’eventuale (pur colposa) sopravvenienza di pedoni e, quindi, tenere un’andatura e un livello di attenzione idonei a evitare di investirli (da queste premesse la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di condanna dell’automobilista per l’investimento mortale di un pedone, ha sostenuto non essere affatto eccezionale e imprevedibile che, nelle vicinanze di un bar, qualcuno decida di attraversare anche in assenza di strisce pedonali o di un semaforo, onde il conducente del veicolo deve tenere in debita considerazione tale eventualità). Le norme che deve seguire il conducente - Le norme che presiedono il comportamento del conducente del veicolo, oltre a quelle generiche di prudenza, cautela e attenzione, sono principalmente quelle rinvenibili nell’articolo 140 del codice della strada, che pone, quale principio generale informatore della circolazione, l’obbligo di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione e in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale, e negli articoli seguenti, laddove si sviluppano, puntualizzano e circoscrivono le specifiche regole di condotte. Tra queste ultime, di rilievo, con riguardo al comportamento da tenere nei confronti dei pedoni, sono quelle dettagliate nell’articolo 191 del codice della strada, che trovano il loro pendant nel precedente articolo 190, che, a sua volta, dettaglia le regole comportamentali cautelari e prudenziali che deve rispettare il pedone. In questa prospettiva, la decisione della Cassazione ribadisce la regola prudenziale e cautelare fondamentale che deve presiedere al comportamento del conducente, sintetizzata nell’obbligo di attenzione che questi deve tenere al fine di avvistare il pedone sì da potere porre in essere efficacemente gli opportuni (rectius, i necessari) accorgimenti atti a prevenire il rischio di un investimento. Va ricordato che il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel richiamato principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare; quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni; si vedano per riferimenti, tra le tante, sezione IV, gennaio 1991, Del Frate; sezione IV, 12 ottobre 2005, Leonini; sezione IV, 13 ottobre 2005, Tavoliere). Si tratta di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell’attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi violativi degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’articolo 190 del codice della strada (tipico, quello dell’attraversamento della carreggiata al di fuori degli appositi attraversamenti pedonali; altrettanto tipico, quello dell’attraversamento stradale passando anteriormente agli autobus, filoveicoli e tram in sosta alle fermate). Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (sezione IV, 30 novembre 1992, Cat Berro). Ne discende, quindi, che il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o violativo di una specifica regola comportamentale) del pedone (una tale condotta risulterebbe concausa dell’evento lesivo, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente: articolo 41, comma 1, del Cp), ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento. Ciò che può ritenersi solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, in vero, l’incidente potrebbe ricondursi eziologicamente proprio esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente e operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima. Alessandria: Carcere, incontro col Provveditore sul problema della carenza del personale radiogold.it, 9 gennaio 2017 Ad oggi sono solo 70 gli agenti in servizio all’istituto penitenziario alessandrino di San Michele: per sorvegliare i 320 detenuti presenti ne servirebbero almeno 40 in più. Il problema della carenza del personale sarà oggetto di un incontro previsto martedì a Torino, convocato dal Provveditore Regionale alla Polizia Penitenziaria Luigi Pagano. Nel dettaglio si parlerà proprio della situazione di Alessandria, con i direttori dei carceri di San Michele e Cantiello e Gaeta: "l’auspicio è che si trovi il modo per alleviare il disagio" ha detto il direttore del carcere di San Michele Domenico Arena "confido che si possa trovare una soluzione". Solo la scorsa settimana, infatti, un detenuto è stato sfregiato al volto con una lametta da altri carcerati e il giorno dopo è stato sventato un tentativo di ritorsione tra altri due uomini. I sindacati si sono fatti sentire con appelli, comunicati e lettere, indirizzate anche al prefetto di Alessandria, Romilda Tafuri. Dallo scorso 22 dicembre, inoltre, i poliziotti non mangiano più il pasto servito in mensa, visti gli eccessivi carichi di lavoro causati dalla carenza d’organico nell’istituto. "Questo personale, il poco rimasto, nonostante "affamato", non ha indugiato, per l’alto senso del dovere, a sobbarcarsi di turni di servizio che vanno ben oltre le nove ore continuative, di turni notturni a raffica e anche a compiere servizio rientrando dallo smontante per mandare avanti questa "baracca sgangherata" di San Michele" ha scritto Salvatore Carbone, segretario regionale Uil-pa "e il fatto che ci sia un direttore non fisso, un comandante e un vicecomandante che non sono dei loro fa sì che non venga trasmesso quel senso di appartenenza che rinforza le relazioni. Il morale del personale è sceso a livelli inferiori allo zero." "Spesso c’è un solo poliziotto a controllare 90 detenuti nelle sezioni detentive" ha scritto Andrea Mancaniello, delegato locale del sindacato Uspp "viviamo nel buio totale. In queste condizioni non possiamo più controllare al meglio la sicurezza dei detenuti e la nostra. Da un anno siamo in pochi ma finora abbiamo sempre affrontato le criticità dell’istituto ma così è molto difficile". Viterbo: Cisl-Fns; Mammagialla, bomba a orologeria a causa del sovraffollamento viterbonews24.it, 9 gennaio 2017 Mammagialla, tensione sempre più alta all’interno della casa circondariale viterbese. L’ultima goccia che rischia di far traboccare definitivamente il vaso, è stato l’incendio divampato lo scorso 1 gennaio, appiccato su dei materassi da alcuni detenuti utilizzando i fornelli del gas in dotazione nella celle. Bilancio finale: quattro agenti avrebbero riportato una forte intossicazione, di cui uno in particolare che ha fatto ricorso all’ossigeno. Intossicati anche i due detenuti, che hanno riportato lievi ustioni. Un altro carcerato, cardiopatico, ha accusato un malore ed è stato sottoposto ad accertamenti. "Secondo noi gli incendi - dice Massimo Costantino, segretario regionale Cisl Fns - potrebbero essere evitati con un’unica soluzione: togliere queste "maledette" bombolette di gas all’interno delle celle. Nel Lazio, negli istituti penitenziari di più recente costruzione, come quello di Rieti, sono state tolte, e in altri istituti messi a norma sono state realizzate delle cucine comuni per i detenuti. Oltre agli incendi, come quello del 1 gennaio, si possono creare anche altre situazioni pericolose, come l’accumulo di più bombole all’interno della cella con l’intento di farle scoppiare. Andrebbero fatte sparire definitivamente, non solo dal reparto di isolamento ma in tutto l’istituto, a Viterbo e nel resto d’Italia. Abbiamo scritto al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) chiedendo di rivedere la normativa che ne permette l’utilizzo". Ma non sono solo le bombole di gas l’unico problema per la polizia penitenziaria nel carcere viterbese. "Abbiamo riscontrato nei passeggi delle infiltrazioni d’acqua, - continua il segretario Costantino - e peggio ancora dei veri e propri buchi dovuti alla ruggine, e fino ad oggi il problema non è stato ancora risolto. Si tratta pur sempre di un posto di lavoro, dove il personale di polizia penitenziaria è lì per espletare un servizio pubblico. Per non parlare poi della mancanza di termosifoni. Abbiamo chiesto al provveditorato degli interventi (fondi) per risolvere queste criticità. Non sono un tecnico ma per me quel posto andrebbe chiuso: è chiaro che potrebbe esserci un rischio per il personale nella struttura". A tutto ciò si aggiunge il problema del sovraffollamento e la carenza di personale. La casa circondariale Mammagialla può infatti contenere un massimo di 432 detenuti, invece in questo inizio 2017 se ne contano ben 172 in più, per un totale di 604 detenuti ospitati. "Il Mammagialla - spiega Massimo Costantino - è sicuramente uno degli istituti che risulta sovraffollato e questo, di certo, non è un bene. Anche se ci sono stati degli interventi legislativi per ridurre il sovraffollamento i risultati, purtroppo, non arrivano. La carenza di personale c’è, come c’è dappertutto nel Lazio, compresa Viterbo. Vi sono troppe aggressioni, che si susseguono almeno col ritmo di una ogni 15 giorni. C’è un forte malcontento all’interno della polizia, ma sappiamo benissimo che sono i rischi del nostro lavoro". Bologna: intervista a Elisabetta Laganà "il Cie era terribile, ricordo solo momenti tragici" di C. Gius. La Repubblica, 9 gennaio 2017 Intervista alla Garante del Comune per le persone private della loro libertà. Laganà cosa ne pensa della nuova figura di garante dei Cie ipotizzata dal governo? "Il garante a Bologna esiste già: io andavo regolarmente al Cie, ma questo purtroppo non è mai stato sufficiente per garantire il rispetto dei diritti fondamentali al suo interno. D’altronde se fossero bastati i garanti l’Unione Europea non avrebbe condannato l’Italia per lo stato del suo sistema carcerario". Lei spera ancora che non si arrivi alla riapertura di un Cie in ogni regione italiana, come ipotizzato dal ministro Minniti? "Siamo davanti a delle dichiarazioni politiche che andranno verificate, si sono levate voci autorevoli contro questa ipotesi: la Caritas, tutti quelli che si occupano di migranti si sono sollevati in coro contro l’idea di riaprire i Cie. E credo che difficilmente ci sarà l’accordo di sindaci ed enti locali, che stanno esprimendo molte perplessità". Cosa non funzionava nel Cie? "Tanto per cominciare i tempi di detenzione, che slittavano di continuo: il fatto di trattenere gli irregolari fino a diciotto mesi in luoghi fatiscenti non può essere la soluzione. Dopo l’identificazione si poteva procedere con le espulsioni, ma in realtà anche le espulsioni sono sempre state molto complicate: spesso i paesi di origine non acconsentivano e queste persone restavano lì un tempo lunghissimo, poi uscivano". Cosa ricorda del Cie? "Momenti tragici, persone con le labbra cucite, situazioni femminili drammatiche. La struttura era fatiscente: c’erano accumuli di rifiuti, bagni distrutti. I letti erano di pietra per evitare che fossero divelti. Era terribile. Anche il sindaco Merola ne uscì profondamente impressionato. Credo che nessuna persona, dopo tutto quello che abbiamo visto in questi anni di gare al massimo ribasso, possa mai più concepire di riaprire luoghi così". Ma non potrebbero esistere Cie diversi, dove il rispetto dei diritti fosse garantito? "Finora non è mai stato possibile". Palermo: caso Mered, parla il fratello dell’uomo in carcere di Silvia Buffa meridionews.it, 9 gennaio 2017 Si chiama Noh Tesfamariam e vive a Luanda, in Angola. È da lì che, tramite l’avvocato Michele Calantropo, segue la vicenda giudiziaria che vede imputato suo fratello, Medhanie Tesfamariam Berhe, detenuto al Pagliarelli con l’accusa di essere Yedhego Medhanie Mered, il più pericoloso trafficante di morte degli ultimi anni. "Sono andato in un internet cafè e lì ho visto quella foto: ritraeva mio fratello appena sceso da un aeroplano fra due ufficiali di polizia. I notiziari dicevano che lui era il trafficante di esseri umani più ricercato". Inizia così il racconto di Noh Tesfamariam, fratello di Medhanie Tesfamariam Berhe, l’uomo che secondo lui è detenuto per errore al carcere Pagliarelli di Palermo con l’accusa di essere il pericoloso boss della tratta Yedhego Medhanie Mered, ritenuto responsabile del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013. I due fratelli crescono insieme ad Asmara, fino a quando Medhanie non lascia casa e decide di trasferirsi in Etiopia. È il novembre del 2014 e insieme a una sorella si sistema nella capitale, Addis Abeba. Ma è un’alternativa che dura per poco. Perché nel 2015 è la volta di Khartum, in Sudan. È qui che le autorità inglesi lo arrestano nel 2016, convinti di aver preso uno dei peggiori trafficanti di morte di questi anni. Quando sia esattamente avvenuto lo scambio di persona ipotizzato dalla famiglia dell’uomo attualmente detenuto qui e dal suo legale Michele Calantropo, resta ancora oggi il punto più oscuro dell’intera vicenda. Se davvero in prigione si trovasse l’uomo sbagliato, quand’è che questo errore si sarebbe compiuto? Già al momento dell’arresto oppure subito dopo, nelle prigioni africane? Di questa vicenda Noh Tesfamariam rimane all’oscuro, fino a quando non riceve la telefonata di un conoscente. "A giugno mi ha chiamato un amico, mi disse che aveva visto mio fratello sui notiziari, era stato arrestato in Italia. Sono tuttora scioccato, deluso, nervoso", racconta a MeridioNews. Da quel momento iniziano le ricerche, gli approfondimenti, soprattutto le domande, molte delle quali ancora senza risposta. "Tutte le informazioni scritte fino ad ora non descrivono mio fratello - prosegue Noh. Hanno detto che lui è Medhanie Mered, ma non lo è. Hanno detto che è un trafficante, ma ancora di più non è nemmeno questo. Hanno detto che ha 35 anni, ma è ancora lontano dal compierli". E l’uomo che emerge dai suoi racconti di fratello, in effetti, appare notevolmente distante dal ritratto costruito in aula dai magistrati palermitani. "Tra fratelli e sorelle, in tutto siamo sette - racconta ancora Noh. In Eritrea ha lavorato come falegname e, prima ancora, in un caseificio". Ad aiutarlo economicamente ci sono anche i fratelli che adesso vivono negli Stati Uniti e che progettano di portarlo lì con loro. Le umili origini e lo stile di vita sono uno dei motivi per cui Noh Tesfamariam è convinto che il fratello detenuto non abbia mai nemmeno avuto occasione di conoscere il vero boss che si presume sia ancora in libertà: "Io rifiuto fortemente di credere che loro si siano anche solo conosciuti - precisa infatti - Neppure io conosco Mered, non potrei essere in grado di dire qualcosa su di lui". Per i due fratelli vedersi e comunicare è ad oggi abbastanza complesso. "Fino ad ora il nostro unico tramite è stato l’avvocato, il ponte fra lui e il resto della famiglia - dice Noh. Ci tiene informati ed è a lui che stiamo dando tutti i documenti che riguardano mio fratello, sin da quando era bambino". Michele Calantropo, infatti, continua a battersi soprattutto perché venga fatta chiarezza in primis sull’identità dell’uomo trattenuto al Pagliarelli. È per questo che nelle ultime due udienze di dicembre ha depositato del materiale nuovo, compresa la testimonianza resa da un giovane eritreo detenuto a Roma e che il giudice di corte deciderà se ammettere al fascicolo o meno. Nel racconto reso agli inquirenti, l’eritreo chiuso al Rebibbia parla del vero boss Mered, che individua anche in alcune foto. Nelle immagini, però, ad essere ritratto non è l’uomo che oggi si trova a Palermo. "Questa è una buona notizia alla fine - aggiunge Noh - Per la prima volta ci sono dei magistrati che iniziano a credere che sia stato arrestato l’uomo sbagliato". Malgrado la speranza e il conforto costante della fede, i familiari di quella che potrebbe essere la vittima di un clamoroso scambio di persona restano tuttavia in preda alla preoccupazione, acuita enormemente dalla distanza geografica: "Non so perché si continui a perdere tempo, lui non può essere lasciato in carcere. Non si può seppellire la verità - prosegue ancora Noh. Sono mesi che ignorano la sua innocenza, mesi di violenze psicologiche". Se da Palermo, infatti, le notizie sullo stato di salute del detenuto sono rassicuranti, non si può dire lo stesso del suo stato mentale, motivo principale di preoccupazione di Noh Tesfamariam: "Mio fratello non ha fatto nulla che giustifichi questa detenzione o l’attribuzione di una tragedia come quella avvenuta a Lampedusa nel 2013 - conclude l’uomo. Immagino che si senta inquieto, stressato e che avverta questa situazione come un’ingiustizia. Davvero, non capisco perché i magistrati siano così riluttanti ad accettare la realtà". "Sono innocente": la tv civile è una garanzia per gli ascolti Corriere della Sera, 9 gennaio 2017 Il nuovo programma di Rai3 è dedicato alle storie di persone comuni che per errori giudiziari o indagini mal direzionate sono finite in carcere pur essendo innocenti. "Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato". Non ci sono parole più pertinenti o più angoscianti per raccontare "Sono innocente", il nuovo programma di Rai3 dedicato alle storie di persone comuni che per errori giudiziari o indagini mal direzionate sono finite in carcere pur essendo completamente innocenti (sabato, 21.10). È una sensazione kafkiana d’impotenza mista a paura: è noto che in Italia finire in carcere può essere un’esperienza terrorizzante, che lascia dei segni indelebili su chi l’ha provata. Il tema della responsabilità civile dei magistrati (sempre impuniti) e quello della situazione delle carceri meritano un ragionamento serio ed è giusto che i riflettori rimangano accesi anche con programmi intensi come questo. Per le false rivelazioni di un collaboratore di giustizia, l’imprenditore Diego Olivieri viene sospettato di avere delle connessioni con un boss mafioso e da lì inizia la sua odissea giudiziaria: un anno in carcere per reati gravi, mai commessi. Maria Andò viene collegata a una rapina con tentato omicidio per una fotografia in cui somigliava alla vera colpevole. Le tracce sono labili, ma a 21 anni finisce in prigione, per poi venire liberata con tante scuse. Da un punto di vista tecnico, "Sono innocente" (firmato da Rai3 e Nonpanic) segue un filone internazionale consolidato, quello del true crime: casi giudiziari reali che vengono raccontati dai veri protagonisti, con il supporto di ricostruzioni interpretate da attori e interviste in studio condotte dal giornalista del Tg1 Alberto Matano. I linguaggi sono moderni ma il mito è classico, quello della tv civile di Angelo Guglielmi che rivive, con nuove premesse, nella nuova Rai3, in cui i programmi di questo tipo (vedi soprattutto "Chi l’ha visto") sono anche garanzia per gli ascolti. Rai3 diventa garantista e manda in soffitta la gogna mediatica di Lodovica Bulian Il Giornale, 9 gennaio 2017 Dopo anni di processi in tv, la malagiustizia sbarca in prima serata. "Basta colpevolismo". "Ho baciato la terra e ho ringraziato Dio. Dicevo a mio figlio, in macchina, ma quanto corri?. Papà sono a 50 km all’ora. Un anno di carcere ti fa perdere le misure, il profumo dell’autunno. Là questo non c’è". "Là" è la cella dove Diego Olivieri, imprenditore vicentino, ha vissuto 365 giorni da innocente. E le parole con cui ricorda la fine di quell’incubo hanno aperto la prima puntata della nuova trasmissione su Rai Tre, che manda in soffitta un ventennio di giustizialismo in prima serata. Il format condotto dal giornalista e volto del Tg1, Alberto Matano, per la prima volta accende le telecamere sul rovescio della medaglia. Quello che dà voce, con ricostruzioni, immagini e documenti, all’inferno di chi finisce nel vortice della malagiustizia, un girone da 24mila dannati in 24 anni. E che sul terzo canale - dopo la parentesi di "Presunto colpevole", seconda serata su Rai due nel 2012 - porta le "storie di uomini, donne, che sin da primo momento hanno gridato una cosa sola: sono innocente", proprio come il titolo del programma. Sotto i riflettori dell’inedita prima serata non ci sono più i processi giudiziari e mediatici che per 35 anni hanno fatto il successo di programmi come Un giorno in pretura, che hanno gonfiato lo share viaggiando sul confine sottile tra informazione e morbosità, offrendo in pasto al pubblico atti, testimonianze, alimentando spesso dibattiti autoreferenziali. E che hanno trascinato le aule di giustizia nei tribunali televisivi. Nel richiamo dell’Agcom a Michele Santoro per una puntata di Annozero nel 2008, l’Authority spiegava che "il processo, lo pseudo processo o la mimesi del processo non si possono fare. L’informazione non può diventare gogna mediatica né spettacolarizzazione ispirata più all’amore per l’audience che all’amore per la verità". Ora tocca alle storture del sistema, agli ingranaggi che si inceppano e inghiottono esistenze che passavano di là per caso. In studio con Matano ci sono non solo i protagonisti, ma anche i loro familiari, gli avvocati che hanno lavorato per smontare accuse piovute come massi da faldoni di ordinanze di custodia cautelare. In una corsa contro il tempo per dimostrare la verità. La stessa che può venire oscurata, travisata da un’ intercettazione, da una parola che genera equivoci, da una dichiarazione di un pentito. Come quella per cui Olivieri è stato accusato per 5 anni ingiustamente di riciclaggio, associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti, prima di essere assolto perché "il fatto non sussiste". O da un maledetto scambio di persona, all’origine dell’altro caso raccontato nella puntata di sabato sera, per cui una studentessa, Maria Andò, nel 2008 finì in carcere per 9 giorni, indagata per rapina e tentato omicidio, salvo poi, dopo un anno, essere assolta con tante scuse: "Il maresciallo era convinto che fossi io il colpevole, che il caso fosse chiuso". La madre Giusi si sentì dire che "sua figlia stasera dormirà in carcere", al Pagliarelli di Palermo. "Vivere l’esperienza del carcere può cambiare la vita - ha esordito Matano presentando la prima serata - Soprattutto se non si è colpevoli. Non vogliamo fare il processo al processo, né cercare una nuova e diversa verità giudiziaria, semplicemente vogliamo raccontare delle storie". Anche perché "davanti a certi casi serve più prudenza e meno fretta di sbattere il mostro in prima pagina: soprattutto negli ultimi anni in Italia si abusa di colpevolismo". Forse è la fine di un’era. Almeno di un’era televisiva. Terrorismo e democrazia, se l’Islam fa autocritica di Francesco Maria Greco Corriere della Sera, 9 gennaio 2017 L’annoso problema della compatibilità dell’Islam con la democrazia, i diritti umani e lo sviluppo economico capitalista rappresenta ormai una questione esistenziale per quella parte di mondo musulmano che si interroga su come affrontare la crescente islamofobia e, più in generale, il rapporto con la modernità. Un significativo contributo proviene da una lettera - pubblicata sulla rivista Foreign Affairs - in cui il diplomatico emiratino Omar Saif Gobash affida i suoi consigli al figlio sedicenne e idealmente a tutti i giovani musulmani. Si tratta di argomenti facilmente strumentalizzabili che egli esamina con forte spirito critico specie di fronte ad alcuni ricorrenti luoghi comuni: a partire dalle responsabilità dei terroristi islamici. Si dice che "queste persone non hanno nulla a che fare con l’Islam" ma per lui si tratta di un "ritornello" che non funziona: essi sono musulmani in quanto proclamano che Allah è il solo dio e Maometto il suo Profeta e tanto basta. Coloro che si oppongono al pensiero jihadista non devono solo rompere il silenzio ma dar prova della propria contrarietà manifestando l’idea che il dubbio possa applicarsi anche alla fede perché la genuina tradizione islamica è predisposta a "dibattere per costruire consenso". A chi considera la democrazia un peccato contro il potere e la sovranità di Allah, Gobash (oggi ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Mosca) replica :"io rappresento una monarchia, ma non considero eretico o non islamico chi propone riforme democratiche". Altrettanto ardito appare il suo approccio al tema della disparità fra sessi e della pretesa inferiorità biologica e psicologica della donna la quale andrebbe protetta da un mondo pericoloso: ciò che egli considera la classica opinione che si auto-avvera. Non vi è nulla - precisa l’autore - di "scolpito nella pietra" che sancisca tale inferiorità. Non si tratta dunque di un dovere religioso, ma solo dell’eredità di società patriarcali. Questi limiti, dal velo al divieto di muoversi da sola alle restrizioni nel campo dell’istruzione e del lavoro, non hanno fondamento dottrinale ma discendono dal timore maschile di perdere il controllo sulla donna e persino di subirne la concorrenza professionale. Altro luogo comune è quello sulla corruzione. La Fratellanza Musulmana dice che se i corrotti fossero veri musulmani questo non accadrebbe in quanto l’Islam è la soluzione di tutto. Pertanto, se i successi di un glorioso passato sono stati realizzati sotto regime religioso, costruendo oggi un nuovo Califfato che imponga le leggi dell’Islam, ogni problema sarebbe risolto da Allah. A questa asserzione risulta non facile controbattere perché Maometto, in definitiva, era anche un leader politico. Gobash osserva che in fondo i fanatici dell’Isis o i sottili teocrati della Fratellanza coincidono nella convinzione che ogni fallimento derivi da mancanza di fede e devozione. Ma con questo approccio si dà per scontata una semplicistica benevolenza divina, quando invece "dovremmo fare come i musulmani delle origini studiando e lavorando sodo, senza affidarci a un comodo oscurantismo". E infine viene affrontato il tema della ummah o comunità dei fedeli che sovrasta l’individuo e crea un’anacronistica pseudo-identità in chiave anti-occidentale. Tutto questo compromette il dibattito interno e il dialogo esterno: occorre invece riferirsi a responsabilità e scelte etiche personali piuttosto che a famiglie, tribù o sette. Se il principale comandamento che presiede ad ogni forma di dialogo interreligioso o interculturale è di fare giustizia del concetto della propria superiorità, il messaggio di Gobash rappresenta uno straordinario punto di partenza per un confronto aperto che venga trasferito da un livello intellettuale alla pratica quotidianità in linea con la riflessione avviata di recente dal nostro governo. Migranti. Sindaci divisi sui Cie di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2017 Sulla riapertura dei centri di identificazione ed espulsione (Cie) proposta dal Viminale, i sindaci hanno opinioni divergenti. Con voci critiche che sono emerse anche tra i primi cittadini di centrosinistra, provenienti dalla stessa parte politica del ministro dell’Interno Marco Minniti. Ultimo in ordine di tempo a esprimere dubbi è stato il sindaco di Firenze Dario Nardella (già fedelissimo del segretario Pd Matteo Renzi): "Non facciamo confusione fra immigrati e migranti che si dichiarano rifugiati politici. I due problemi vanno affrontati con strumenti dedicati e differenziati. Vediamo meglio il piano, cerchiamo di capire. Non voglio dire no a priori, ma non chiamiamoli Cie perché l’esperienza di questi centri in passato non ha funzionato. Rischieremmo di avere tante Guantanamo". Una posizione che si è anche tirata dietro le critiche di Fabrizio Cicchitto di Ncd: "Nardella attacca il progetto del governo parlando di piccole Guantánamo, dimostrando di non aver capito nulla di ciò che sta avvenendo in Italia". Parole concilianti invece sono venute dal Flavio Tosi, sindaco di Verona e segretario di Fare! (ex Lega): "Se Minniti farà seguire alle parole i fatti e se dai Cie si uscirà solo per esser espulsi dal Paese, come fece Maroni, Verona è disponibile". Anche il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza (centrodestra), nei giorni scorsi aveva espresso una posizione nel solco di quella della sua parte politica, in linea generale favorevole ai Cie: "Io voglio che nella mia città chi delinque venga cacciato e rispedito al proprio Paese. Chi spaccia droga deve essere condannato e andare in carcere, ma al suo Paese. Sono quindi favorevole alla riapertura dei Cie finalizzata a questo obiettivo, ovvero espellere dal nostro Paese chi delinque". Più articolata invece la posizione tra i sindaci di centrosinistra. Pochi giorni fa il sindaco di Milano Giuseppe Sala aveva così espresso la sua posizione su Facebook: "Non intendo essere contrario in modo preconcetto alla riapertura dei Cie. Ma, come ho sostenuto più volte, è necessario predisporre un piano nazionale serio". Anche il delegato Anci (l’associazione dei Comuni) all’immigrazione e sindaco di Prato, Matteo Biffoni (Pd), non aveva chiuso ai Cie, ma con alcuni paletti: "Nessuno crede che i Cie siano la panacea di tutti i mali. Possono servire se utilizzati per quello che dovrebbero davvero essere, cioè dei luoghi in cui vengono reclusi in attesa di espulsione i cittadini non comunitari che hanno commesso dei reati. In questo senso sì, oggi possono servire, naturalmente rispettando i diritti costituzionali dei migranti, anche per quanto concerne il tempo di permanenza". Più critica Maria Rosa Pavanello (Pd), che oltre ad essere presidente di Anci Veneto è anche sindaco di Mirano. In merito alla proposta di aprire un Cie in ogni regione, ha precisato: "Su questo tipo di realtà avevamo già espresso delle perplessità a suo tempo, le esperienze di questi centri non sono mai state positive". In sostanza sono le parole ripetute anche dal sindaco di Parma Federico Pizzarotti (ex M5S): "Il tema dei Cie non risolve il problema, come non risolve la grande aggregazione di queste persone. Bisogna creare una filiera, serve tenerli occupati". Migranti. "Un Cie in ogni Regione. Useremo 7mila militari, quelli di Strade sicure" di Chiara Giannini Il Giornale, 9 gennaio 2017 Il Sottosegretario alla Difesa Rossi: "L’allerta è alta C’è il rischio attentati, minaccia asimmetrica". Nei Cie saranno probabilmente utilizzati i militari di Strade sicure. Anche per il 2017 il governo ha deciso di stanziarne poco più di 7mila. Ma saranno sufficienti a coprire le esigenze antiterrorismo di tutto il territorio? Lo spiega il sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi. "Il rischio attentati c’è - conferma, ma i soldati sono addestrati". Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha detto ieri che per i Cie, che il governo vuol riaprire in ogni regione, potrebbero essere utilizzati i militari. Ne impiegherete altri oltre a quelli attualmente dedicati all’antiterrorismo? "Potrebbero essere utilizzati i militari già impegnati nell’operazione Strade sicure, addestrati anche per questi compiti. Per il 2017 ne sono stati confermati 7mila nella legge di Bilancio. L’attenzione, visto il momento delicato, è massima e la Difesa è impegnata, con questi soldati che operano sul territorio nazionale, in stretto contatto con le forze di polizia". Il capo della polizia Franco Gabrielli, in un’intervista al Giornale, è stato chiaro: il rischio attentati è altissimo anche nel nostro Paese. Lei ha la stessa visione? "Nessun Paese è a rischio zero, il rischio attentati c’è. Siamo davanti a una minaccia sempre più asimmetrica, un terrorismo più insidioso perché più imprevedibile. Il livello di attenzione in Italia è sempre molto alto. Un esempio sono le misure di sicurezza aggiuntive, concordate con le prefetture, messe in atto durante le festività e volte a contrastare le nuove tecniche usate dai terroristi, come a Berlino. Quindi, siamo vigili, ma continuiamo a vivere come fatto fino a oggi. Non dobbiamo rinunciare alle nostre libertà e lasciare che il fronte del terrore condizioni le nostre scelte. Così faremmo solo un regalo ai terroristi". Che tipo di terrorismo è quello che abbiamo davanti? "Prima della mia vita politica ero un militare, ho chiuso la carriera come sottocapo di Stato maggiore dell’esercito. Nel 1974, quando è iniziata la mia carriera, il mio capitano mi portò a qualche chilometro da Gorizia e mi disse: Noi ci schieriamo con i carri armati qua, attaccheranno di là, dobbiamo resistere 36 ore, per poi aggiungere e chiudere con un tempo stimato di sopravvivenza un’ora e mezza. Questo molte volte lo racconto anche ai giovani ufficiali per far capire cosa è cambiato in 40 anni. Oggi abbiamo il Daesh e la minaccia non è più quella del ‘74, quando del nostro potenziale nemico conoscevamo tutto. La minaccia di oggi è asimmetrica e indefinita". Ma i nostri soldati sono preparati a eventuali attacchi? "Siamo passati, negli anni, da un esercito di leva a un esercito professionale e da 190mila unità, con la legge 244 del 2012, a 150mila per le tre forze armate, che è un numero assolutamente congruente con quella che può essere una minaccia, ma che ci ha fornito anche la possibilità di ritrovare all’interno del budget risorse che venivano assorbite in buona parte dal personale per dedicarle all’investimento e al funzionamento. Sono risorse potenzialmente molto valide". Il governo punta anche a collaborazioni con la Libia per risolvere il problema immigrazione. Che cosa state facendo? "Sicuramente molto, in primis con l’operazione, denominata Ippocrate, che prevede lo schieramento di una task force di 300 militari, ma anche attraverso l’impegno in mare. Tanto per dare qualche dato, a dicembre 2016, le imbarcazioni sottratte dalla disponibilità dei trafficanti dal 12 marzo 2015 (inizio di operazione Mare Sicuro) da mezzi della Marina sono 549, di cui 91 barconi, 442 gommoni e 16 barchini. I sospetti scafisti consegnati all’autorità giudiziaria da parte della Marina dal 18 ottobre 2013 (Inizio di operazione Mare Nostrum) ad oggi sono 415". Lotta alla povertà, basta rinvii. Un anno fa il provvedimento del governo di Enrico Marro Corriere della Sera, 9 gennaio 2017 Se il tema è una priorità, bisogna sciogliere in pochi giorni questo nodo e magari trovare qualche finanziamento in più. Il governo Gentiloni ha definito la lotta alla povertà una priorità. Questa scelta è giustificata dal fatto che l’Italia, nonostante i richiami degli organismi internazionali, è rimasta unica in Europa a non avere uno strumento nazionale contro l’indigenza mentre il problema si è aggravato: le persone in condizioni di povertà assoluta sono quasi triplicate in dieci anni, passando da 1,6 milioni nel 2006 a 4.6 milioni nel 2015, pari al 7,6% della popolazione. I poveri assoluti sono quelli, secondo la definizione Istat, non in grado di acquistare un paniere di beni e servizi "necessari a uno standard di vita minimo accettabile". Insomma, la crisi ha aumentato le diseguaglianze e non è affatto vero che nessuno sia rimasto indietro. Ad aiutare le famiglie povere (quasi 1,6 milioni) sono stati finora soprattutto gli enti locali, le parrocchie, il volontariato. Tutte queste azioni non vanno disperse ma messe a sistema con quello che sarà il reddito di inclusione. Un assegno, accompagnato da un servizio di reinserimento sociale e lavorativo, che dovrebbe sollevare le famiglie più povere, partendo da quelle con figli minori. Questo prevede il disegno di legge delega approvato dal governo Renzi. Solo che è passato ormai un anno e il provvedimento non è stato ancora approvato dal Parlamento. Ora governo e maggioranza discutono di come accelerare: se sia meglio trasformare la delega in un disegno di legge immediatamente dispositivo o approvare un decreto legge. Se il tema è una priorità, il governo non deve far altro che sciogliere in pochi giorni questo nodo e magari trovare qualche finanziamento in più. Perché con il miliardo e mezzo a disposizione quest’anno si potrà dare un sostegno, ha spiegato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, a circa 400 mila famiglie, cioè solo una su quattro di quelle in povertà assoluta. Mauritania. L’appello dalla di Cristian Provvisionato: "rilasciatemi, sono innocente" di Andrea Spinelli Barrile ibtimes.com, 9 gennaio 2017 "Dopo un anno e quattro mesi chiedo di essere rilasciato dalle autorità della Mauritania, che sanno bene che io sono una vittima, parte lesa come in questo caso è anche il governo mauritano. Comprendo il risentimento di questo governo, il medesimo che provo anche io, ma personalmente ho sempre garantito la massima collaborazione sia alle autorità mauritane che a quelle italiane, contro chi mi ha messo in questa situazione. Richiedo che venga messa la parola "fine" alla mia detenzione il prima possibile e che venga trovata una soluzione con il governo italiano. Colgo l’occasione per ringraziarvi per il vostro interesse nella mia vicenda. PS: In ogni caso, la speranza è che questa brutta storia - per me e la mia famiglia - possa essere l’inizio di una nuova vera amicizia tra Italia e Mauritania". Con queste parole Cristian Provvisionato, detenuto da 16 mesi in una caserma della polizia in Mauritania, nella capitale Nouakchott, ha chiesto nuovamente di occuparsi del suo caso. Provvisionato, 43 anni di Cornaredo in provincia di Milano, si trova ingiustamente detenuto nella capitale mauritana dal settembre 2015, dove era arrivato circa tre settimane prima per motivi di lavoro: l’azienda per la quale lavorava come guardia giurata e bodyguard, la Vigilar Group di Milano, lo aveva inviato subito dopo Ferragosto di quell’anno in Mauritania per presentare un’azienda produttrice software di sicurezza informatica che il governo del paese africano voleva acquistare da una terza società. Provvisionato, arrivato a Nouakchott seguendo le indicazioni dei titolari della Vigilar, si è trovato in una situazione più grande di lui: al suo arrivo le autorità hanno preso il suo passaporto, quel meeting non si è mai tenuto e lui si è ritrovato in arresto. Il governo della Mauritania accusa gli italiani di averli danneggiati, che parte di quanto già pagato non è mai stato fornito loro e che avrebbero liberato Provvisionato solo quando previo pagamento di un risarcimento danni proprio dalla sua azienda, che in Mauritania operava tramite una società spagnola. La quale, successivamente, sembra essere sparita nel nulla (mentre Vigilar è ancora attiva, tra i leader del mercato in Italia). La famiglia Provvisionato ha denunciato alla magistratura milanese la società Vigilar Group e la proprietà di quest’ultima, Davide Castro: Cristian Provvisionato sarebbe un ostaggio, vittima di un vero e proprio scambio di persona inviato in Mauritania per sostituire chi avrebbe dovuto tenere quella presentazione di prodotto, Leonida Reitano, un giornalista che è anche esperto di sicurezza informatica. Il prodotto che sarebbe dovuto essere venduto al governo della Mauritania, paese nel quale la repressione del dissenso e dell’opposizione è spietata, dove i diritti umani e civili vengono regolarmente calpestati in nome di un’interpretazione molto radicale della Sharia e in cui è ancora in vigore la schiavitù, come raccontò Biram Dah Abeid durante una conferenza qualche tempo fa, era un software di intrusione telefonica. Per capirci, lo stesso utilizzato dalle autorità egiziane per rintracciare il telefonino di Giulio Regeni, lo stesso che diversi regimi antidemocratici utilizzano per controllare le telefonate dei propri cittadini-sudditi. Arrestato i primi di settembre 2015, dopo avere accompagnato Leonida Reitano all’aeroporto ed averlo visto salire su un aereo per l’Italia "scortato da due mauritani" secondo quanto sostiene una fonte locale a IBTimes Italia, Provvisionato è letteralmente sparito nel nulla e la sua famiglia è caduta in un’angoscia profonda fino al gennaio 2016, quando un poliziotto ha dato a Cristian il suo cellulare permettendogli di chiamare i suoi cari in Italia. Da allora la sua compagna, tutta la sua famiglia e i suoi amici cercano in ogni modo di far conoscere la storia di Cristian e di riportarlo a casa: i rapporti tra il governo italiano e quello mauritano però sono rari e sporadici, nel Paese non c’è nemmeno un’ambasciata e ogni volta i funzionari italiani devono arrivare da Rabat, in Marocco, per fornire quel minimo di assistenza che il detenuto italiano necessita. Un detenuto in qualche modo "speciale": non si trova in carcere ma all’interno di una caserma, da solo e per fortuna non soffre le tragiche condizioni di detenzione di tutti gli altri detenuti mauritani. Provvisionato viene, in un certo senso, trattato come ostaggio e non come prigioniero anche se nei primi mesi ha perso molto peso ed ha sofferto non poco la poverissima dieta del detenuto. Cristian Provvisionato e la sua famiglia da mesi denunciano l’ingiustizia subita e, scrivono i giornali mauritani, sembra che il governo di Nouakchott abbia confermato la sua innocenza e il suo status non formale di ostaggio, nonostante l’incriminazione pretestuosa di "attentato alla sicurezza dello Stato". Su articolo21 Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, pochi giorni fa ha scritto chiaramente che "Cristian Provvisionato è un ostaggio. Per rilasciarlo la Mauritania chiede qualcosa: ha ricevuto un prodotto "fallato" o "incompleto"? Non si sa. Non si sa neanche perché l’Italia tenga un profilo così basso su questa vicenda". Quello che è certo, perché è un fatto dimostrato da dichiarazioni e documenti, è che Cristian Provvisionato si trova prigioniero di un Paese straniero. E che le autorità italiane sembrano in preda ad un enorme imbarazzo: come sottolineato da Stefania Maurizi de L’Espresso di recente il dibattito sulla vicenda è praticamente inesistente e il profilo che il governo italiano sta mantenendo sulla vicenda è bassissimo. Tutto sembra portare la mente allo scandalo Hacking Team, alla vicenda Marco Carrai messo a capo di un’agenzia di cyber-security, alla "guerra fredda" interna ai servizi segreti che diversi organi di stampa hanno raccontato. Una "guerra fredda" che Marco Minniti, nuovo ministro degli Interni italiano ed ex-sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti (dal maggio 2013 alla sua nomina al Viminale nel dicembre 2016), dovrà gestire cercando anche di dipanare le complicate matasse della cyber-sicurezza italiana. È impensabile che un’azienda italiana possa legittimamente fare affari con un governo di un paese in black-list, nello specifico la Mauritania, per un prodotto strategico di tale importanza senza l’avallo dei servizi segreti. Allo stesso modo è impensabile che a fare le spese di affari altrui, se non illeciti quantomeno moralmente discutibili, siano delle persone tirate in ballo senza motivo. Brasile. Oltre 100 morti nelle rivolte delle carceri in una settimana euronews.com, 9 gennaio 2017 Altri 4 morti nelle carceri brasiliane. Le vittime sono detenuti, uccisi e decapitati nel carcere Desembargador Raimundo Vidal Pessoa a Manaus, nel Nord del Paese. Sono così oltre 100 le persone uccise nelle violenze scoppiate nelle carceri del sistema penitenziario brasiliano nel corso della prima settimana dell’anno. Domenica il governo brasiliano ha autorizzato l’invio delle forze federali nello stabilimento in cui sono scoppiati i disordini oltre ad aver predisposto nuovi materiali per le prigioni di diversi Stati del Paese, in particolare in Amazonia, Rondonia e Mato Grosso. La maggior parte delle persone uccise sono state vittima di una vera e propria guerra tra clan contrapposti originari rispettivamente di Rio de Janeiro e di Sao Paulo. Gambia. Passaggio del potere a rischio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 gennaio 2017 Giovedì 19 gennaio dovrebbe essere un giorno storico per il Gambia, quello in cui il presidente eletto Adama Barrow dovrebbe assumere formalmente il potere. "Dovrebbe". Perché, dopo aver sorprendentemente ammesso la sconfitta alle elezioni di dicembre, il presidente uscente Yahya Jammeh - che esercita il terrore da 22 anni - ha compiuto il gesto tipico del dittatore in difficoltà: ha dichiarato di non riconoscere il risultato elettorale e ha minacciato caos e repressione. Di quest’ultima in realtà, dopo l’iniziale rilascio di decine di attivisti dell’opposizione, si sono visti già i segnali. Il 13 dicembre il presidente e lo staff della Commissione elettorale indipendente sono stati licenziati dopo che Jammeh, nel suo repentino ripensamento, li aveva definiti "traditori". Il 30 dicembre Alieu Mimarr Njai, il presidente della Commissione, è stato costretto a rifugiarsi all’estero. Negli ultimi 10 giorni sono stati arrestati almeno sei attivisti della campagna #Gambiahasdecided, che chiede a Jammeh di lasciare pacificamente il potere. Due leader della campagna, Salieu Taal e Raffi Diab, sono stati costretti a lasciare il paese a causa delle minacce di morte provenienti dall’Agenzia nazionale per la sicurezza, i servizi segreti del Gambia. Il 1° gennaio sono state chiuse tre radio private: Teranga Fm, Hilltop Radio e Afri Radio. I cittadini del Gambia sono rimasti così senza mezzi d’informazione indipendenti in un periodo tra i più cruciali della storia del paese. Come uscire da questa situazione non semplice. Dal punto di vista giuridico, il ricorso contro i risultati delle elezioni presentato dal partito di Jammeh dovrebbe essere esaminato dalla Corte suprema, che però è a corto di giudici e dovrebbe essere reintegrata da nuove nomine effettuate proprio da Jammeh. Occorrerà allora che l’Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, mantenga ferma la posizione assunta il 17 dicembre: saranno prese "tutte le misure necessarie" perché il risultato delle elezioni sia rispettato e dunque il 19 gennaio scada il mandato di Jammeh e Barrow effettui il giuramento come nuovo presidente del Gambia. Cosa accadrà in Gambia in queste settimane dovrebbe interessare anche l’Italia, anche solo per motivi egoistici: con una popolazione che non raggiunge neanche quella di Milano, questo paese è il sesto per arrivi di richiedenti asilo alla frontiera marittima europea.