Bortolato (Conams): che cos’è il rischio radicalizzazione e come si combatte di Rosa Polito Agi, 8 gennaio 2017 "I Centri di accoglienza per i migranti non credo siano il luogo primario della radicalizzazione: mi sembra che un eccessivo allarmismo sia ingiustificato. Le tensioni in quei luoghi nascono da situazioni di estrema precarietà e da condizioni di vita molto difficili anche per l’intollerabile affollamento". Marcello Bortolato, segretario del Conams (Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza) e coordinatore del tavolo degli Stati generali dell’esecuzione penale che si è occupato dei detenuti pericolosi, in un’intervista all’Agi fa il punto sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista. I rischi maggiori sono legati al carcere? "È necessario prima di ogni cosa distinguere tra coloro che sono stati già condannati in Italia per reati di terrorismo di matrice internazionale islamica (mi risulta ve ne sia uno soltanto) e quel numero di soggetti che per orientamento religioso o ideologico sono a rischio di radicalizzazione nelle carceri e che, una volta "fuori", potrebbero arruolarsi nelle frange più estreme. La radicalizzazione si manifesta in carcere per lo più con l’adesione, palese o occulta, ai fatti esterni di terrorismo o di guerra riconducibili all’estremismo islamico cui potrebbe seguire, all’esito del percorso carcerario, l’arruolamento. Il rischio più grave è che per tali soggetti gli strumenti dialogici di prevenzione generale positiva e quelli di reinserimento sociale o rieducazione si considerino inattuabili per cui rimarrebbe per loro la sola neutralizzazione. Per esempio, mettere insieme i detenuti con storie criminali di provenienza omogenee è molto rischioso. Bisogna cercare, invece, di rompere la barriera che li divide dai detenuti ‘comuni’ e tentare di offrire anche a quelli più difficili attività trattamentali significative. Fermi restando gli strumenti offerti dal regime speciale dell’art. 41 bis (applicabile anche al terrorismo internazionale), un "circuito" riservato ai "più pericolosi" non contribuisce a quella necessaria trasformazione di mentalità del condannato che continuerà a vedersi solo con i suoi simili (condannati per gli stessi reati) senza eliminare del tutto il rischio di influenze reciproche negative, anzi accrescendolo". Come si combatte la radicalizzazione? "Premesso che la politica non può esaurire il proprio compito delegando al diritto penale, inidoneo a risolvere questioni generali, e che il rischio di affidare troppe risposte alla magistratura, in particolare a quella di sorveglianza (dal momento che parliamo di detenuti condannati), appare funzionale talvolta all’assenza di scelte da parte del potere legislativo, la radicalizzazione si combatte con le armi del trattamento e cioè con scuola, cultura, lavoro e contatti col mondo esterno, strumenti previsti dall’ordinamento penitenziario del 1975 e "rinnovati" dalla legge Gozzini e dal Regolamento del 2000. È poi fondamentale garantire stessi diritti religiosi a tutti: si tratta della più importante risposta democratica alla radicalizzazione, che giustifica l’indicazione di dar vita a luoghi di culto nei singoli istituti, oltre che prestare un’attenzione non formale alle regole di alimentazione. Il rischio elevato nei confronti del radicalismo, certo o solo presunto, è dunque quello di sottrarre questi soggetti, anche i semplici c.d. monitorati, ai percorsi trattamentali di rieducazione e, quindi, spingerli ai limiti e oltre i limiti dei principi costituzionali". Quanti sono i detenuti di fede musulmana? Quanti quelli radicalizzati? "Bisogna intendersi sul concetto di radicalizzazione: è quel processo che porta un individuo o un gruppo ad agire in forme violente collegandosi a un’ideologia, a contenuto politico, sociale o religioso, estrema. Ma il fenomeno della radicalizzazione ha una dimensione oggettiva legata all’esclusione sociale, al conflitto tra culture e religioni, alle politiche dei paesi occidentali nei confronti del Medio Oriente. Dai dati che abbiamo, in Italia i detenuti stranieri sono oltre 18.600 e quelli di fede musulmana intorno ai 6.000, di cui circa la metà proveniente dal Marocco, la nazione più rappresentata ma non caratterizzata da fenomeni di estremismo o fondamentalismo religioso. I detenuti già radicalizzati sarebbero 19 e circa 200 quelli monitorati. Tuttavia solo 52 istituti detentivi, in base a un protocollo con l’Ucoii, ospitano quelle che possono essere definite "moschee", mentre gli imam "certificati" sono soltanto nove: questo significa che chi guida la preghiera all’interno del carcere molto spesso è un detenuto che a stento sa leggere e scrivere in arabo, ha una cultura molto bassa ed è molto probabile che venga da una formazione radicalizzata già fuori dal carcere. Dalle testimonianze che abbiamo la predicazione generalmente avviene in arabo, ed è difficile che un agente penitenziario lo conosca e capisca che cosa si dice, ma soprattutto il dato più evidente è che questi imam in cella trovano terreno fertile perché canalizzano la frustrazione dei detenuti extracomunitari. Il penitenziario diventa un incubatore dove prendere contatti per poi completare l’iter del jihadismo fuori dal carcere". Sono garantiti i diritti religiosi in carcere? "Non sempre: lo stesso capo del Dap ha dichiarato che bisogna creare subito le condizioni strutturali affinché i diritti vengano garantiti attraverso l’ingresso di ministri di culto e mediatori culturali nelle carceri. Diritto all’assistenza religiosa dunque in primo luogo, che significa possibilità di pregare secondo le regole del proprio culto, che non sempre rimettono la preghiera al solo foro interiore della coscienza, ma chiedono tempi e spazi precisi, difficili da armonizzare con tempi e spazi della vita del carcere; possibilità di celebrare liturgie specifiche; possibilità di seguire norme alimentari specifiche; possibilità di vedere trattato il proprio corpo secondo norme particolari (dalle cure igieniche a quelle mediche); possibilità di avere assistenza spirituale o relativa all’applicazione di norme religiose in un contesto così difficile quale il carcere mediante il rapporto con un ministro di culto della propria tradizione; possibilità di avere accesso ai testi sacri o ad altri simboli religiosi considerati sacri; possibilità stessa di venire informati in modo completo ed esauriente circa le condizioni del diritto al culto dietro le sbarre". Ferri: "espulsioni-lampo già possibili, non più solo per chi ha commesso reati gravi" di Matteo Massi Quotidiano Nazionale, 8 gennaio 2017 Sottosegretario Ferri, le espulsioni si sono rivelate spesso un flop. È fattibile ora parlare di espulsioni immediate dopo il primo grado di giudizio senza aspettare eventuali ricorsi? "La legge attuale prevede già la possibilità di espellere il cittadino extracomunitario condannato anche solo in primo grado per una serie dì reati gravi che prevedono l’arresto in flagranza - dice Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia. Oggi, senza modificare la normativa attuale si vuole prevedere la possibilità di espellere lo straniero richiedente asilo che ha avuto il diniego sia della commissione territoriale sia del tribunale di primo grado. Così solo dopo questi due dinieghi si potrebbe prevedere la possibilità dì espellere immediatamente lo straniero senza attendere i successivi gradi dì giudizio che ovviamente potranno essere esperiti dallo stesso". Da un punto di vista strettamente giuridico come può migliorare il sistema delle espulsioni ed essere più efficace? "Occorre intensificare i rapporti bilaterali con gli Stati di provenienza garantendo più collaborazione e riduzione dei tempi. La strada indicata dalla Commissione Europea del progetto Migration Compact può essere risolutiva ma deve diventare efficace e quindi l’Europa deve pretendere ì rimpatri dai Paesi Sudan, Eritrea, Niger, Gambia e Mali che chiedono collaborazione anche economica. Come è stato fatto nell’accordo tra Ue e Turchia, bloccando così la rotta balcanica". Quali altre azioni possono essere messe in campo per gestire l’emergenza immigrazione? "Il tema dell’identificazione è la criticità da risolvere perché anche nel caso di Amri l’identificazione dalla Tunisia, se pur richiesta tempestivamente, è arrivata in ritardo all’Italia". E bastano i Cie per risolvere la questione? O si rischia di generare altre dispute lega? "Intanto va premesso che sì entra nei Cie a seguito dì un provvedimento del Prefetto, eseguito dal Questore, e convalidato dal Giudice di Pace; che ì soggetti all’interno possono liberamente comunicare e hanno tempi dì permanenza ben determinati (possono permanere solo 30 giorni se entrano dopo una scarcerazione e per un massimo di 90 giorni se entrano dopo un controllo ordinario). Dopo questo termine gli stranieri devono essere accompagnati nel paese d’origine e comunque vengono invitati con altro provvedimento del Questore a lasciare il Paese. Ecco perché il punto nodale è ottenere la massima collaborazione nell’identificazione". Le richieste d’asilo si sono moltiplicate. È vero che nel nuovo Ddl Orlando sono previsti 12 tribunali distrettuali che sì occuperanno solo di questa materia per sveltire le pratiche? "L’obiettivo è quello dì ridurre i tempi e di espellere chi non ha avuto il riconoscimento del diritto d’asilo. Bisogna introdurre misure di semplificazione; prevedere la soppressione dell’appello: le decisioni relative al riconoscimento di protezione internazionale non potranno essere impugnate, in sede giurisdizionale, nel caso in cui siano respinte". E tutto questo basta per snellire le pratiche? "È evidente che la specializzazione del magistrato, l’accorpamento delle competenze in un numero limitato di Tribunali possa portare risultati positivi in termini della qualità della decisione e della rapidità. Agli uffici giudiziari indicati dovranno essere però fornite le risorse necessarie". Radicalizzazione in carcere, Brescia fa scuola: ecco gli assistenti religiosi di Marco Toresini Corriere della Sera, 8 gennaio 2017 Imminente l’ingresso a Canton Mombello e Verziano di due operatori religiosi di fede musulmana con il compito di supportare i detenuti stranieri nella preghiera. Tecnicamente non sono Imam, ma, semplificando, potrebbero stare alla religione musulmana come i catechisti stanno a quella cattolica. Dovrebbe essere imminente l’ingresso nelle carceri di Brescia di Canton Mombello e Verziano di due operatori religiosi di fede musulmana con il compito di supportare i detenuti stranieri (fino ad ora privi di guida spirituale) nella preghiera. Si stanno perfezionando i dettagli burocratici (i permessi dell’autorità penitenziaria) e si sta attendendo che una delle due persone individuate con la collaborazione del centro culturale islamico di via Corsica, ritorni dall’estero dove momentaneamente lavora per pianificare il suo impegno con i detenuti. "Questo è un primo passo importante contro il rischio di radicalizzazione" osserva Luisa Ravagnani, garante per i diritti dei detenuti del Comune di Brescia che con l’Associazione carcere e territorio e il corso di criminologia penitenziaria tenuto dal professor Carlo Alberto Romano alla Statale di Brescia sta lavorando ad un progetto che risponda al pericolo di radicalizzazione con l’integrazione. Il progetto bresciano sarà esportato - "La presenza di persone qualificate che si occupino dell’assistenza religiosa dei detenuti musulmani, rappresenta una garanzia importante a che il recluso non abbracci tesi radicali e integraliste" continua la dottoressa Ravagnani. Il progetto, però, prevede anche un lavoro a tappeto per conoscere cosa percepiscono i detenuti musulmani del fenomeno e come si pongono davanti al rischio della radicalizzazione. Si è iniziato con la distribuzione di questionari ai detenuti di Brescia per poi passare a Roma e al carcere di Rossano Calabro, uno dei penitenziari italiani (gli altri sono in Sardegna) dove vengono custoditi stranieri accusati dei reati di terrorismo. "Ora - spiega Luisa Ravagnani - abbiamo avuto le autorizzazioni per poter entrare nelle carceri del Veneto con la nostra ricerca potendo ampliare ulteriormente la base sulla quale lavorare". I detenuti musulmani promuovono l’iniziativa - Fino ad ora i primi risultati dello studio (anticipati dal professor Carlo Alberto Romano sul Corriere in un articolo dell’8 novembre scorso) hanno dato chiavi di valutazione interessanti: ad esempio il 70% degli intervistati ritiene sia necessario un supporto religioso idoneo per evitare il rischio di radicalizzazione. Grazie alla ricerca partita da Brescia, dunque, si potrà avere un quadro abbastanza completo della situazione e di cosa pensano i detenuti musulmani del fenomeno della radicalizzazione che tanto spaventa l’occidente e quali siano gli interventi migliori per circoscrivere la deriva integralista. "Abbiamo fino ad ora incontrato situazioni di profonda disperazioni in cui versano molti detenuti stranieri - osserva Luisa Ravagnani - per i quali è anche difficile comprendere alcune dinamiche di cui possono diventare vittime. Ecco perché la migliore arma contro la radicalizzazione sia quella dell’integrazione e della rieducazione. L’Europa sta lavorando su questo fronte con buoni risultati. Noi prediligiamo ancora misure come l’espulsione che potrebbe non rappresentare il modo migliore per togliere il problema alla radice". Capece (Sappe): "contro la radicalizzazione carceri ad hoc e formazione per gli agenti" di Giuseppe Fin ildolomiti.it, 8 gennaio 2017 Il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria denuncia la mancanza di agenti al carcere di Spini e questo "mette a dura prova il controllo di comportamenti estremisti nella struttura". Tra le proposte anche quella riservare nei concorsi per agenti dei posti ai figli degli immigrati di terza generazione che conoscono l’arabo e che potrebbero essere molto utili anche per fare prevenzione. "A Trento ci sono grossissime difficoltà ed è messa a dura prova il controllo della radicalizzazione dei detenuti di fede islamica perché gli agenti di polizia penitenziaria sono costretti a lavorare spesso sotto il livello minimo di sicurezza". Sul rischio terrorismo con l’estremizzazione dei detenuti nelle carceri a intervenire è Donato Capece, segretario del Sappe, il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria che sottolinea le difficoltà degli agenti in forza presso il carcere di Spini di Gardolo per il controllo della situazione. Il Sappe, come già fatto diverse volte, torna a puntare il dito sull’organico insufficiente. "In organico - spiega Capece - ci dovrebbero essere 214 persone invece ad oggi, secondo i dati che abbiamo, attivi presso il carcere di Trento sono 139. Ci sono 75 agenti in meno di quanti ne servirebbero e questo va a pesare sulla capacità anche di controllare l’eventuale rischio di diffusione di idee estremiste all’interno della struttura". Sempre secondo i dati forniti dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria, all’interno del Carcere a Spini di Gardolo sarebbero presenti 330 detenuti e di questi 89 imputati e 241 condannati. Dottor Capece, per quanto riguarda il rischio di estremizzazione dei detenuti come avviene il controllo all’interno del carcere da parte degli agenti? "Il nostro controllo consiste nel vedere il cambiamento di vita che avviene in un determinato soggetto. Mi riferisco ad un cambiamento negli atteggiamenti, al diventare fondamentalista, si fa crescere la barba, atteggiamenti che indicano un cambiamento di status e che abbracciano una ideologia che non è più quella del rispetto dell’islam come religione ma entra in un’altra dimensione". All’interno del carcere c’è il rischio di proselitismo? "Il rischio noi lo abbiamo già denunciato. Oggi in molti dicono quello che avevamo fatto presente in passato. Quando si cambia atteggiamento nei confronti di tutti i detenuti, passando da una vigilanza statica ad una vigilanza molto allentata, è chiaro che diventa facile influenzare i soggetti più deboli da parte di soggetti che hanno un rapporto psicologico più forte". Cosa bisognerebbe fare per evitare questo? "Noi condividiamo l’idea proposta dal governo francese. Io ritengo che questi soggetti debbano essere estromessi e collocati in carceri ad hoc. In Italia abbiamo oltre 300 di questi soggetti osservati perché abbracciato il radicalismo. Questi, compresi quelli sotto sorveglianza a Spini di Gardolo, andrebbero isolati e coinvolti in un’azione di recupero e rieducazione anche grazie all’aiuto degli Imam". Gli agenti di Polizia Penitenziaria sono pronti ad affrontare questi pericolo di radicalizzazione all’interno delle carceri? "Purtroppo su questi temi l’amministrazione penitenziaria arriva tardi. Agli agenti viene fatto un corso di formazione che dura pochi giorni. Noi chiediamo una specifica formazione. Per i nuovi agenti chiederemo la possibilità di privilegiare la conoscenza della lingua francese ed inglese. Addirittura lancerei dei concorsi dove siano riservati dei posti ai figli degli immigrati di terza generazione che conoscono l’arabo e quindi molto utili anche per capire meglio la situazione e fare prevenzione. La formazione e fondamentale. Non servirebbe solo isolare i detenuti ma occorre un’attività di rieducazione". Sardegna: sovraffollamento carceri, il penitenziario di Uta non ha risolto il problema radioiscuttaweb.com, 8 gennaio 2017 L’associazione "Socialismo Diritti Riforme" segnala il superamento del numero regolamentare di detenuti ospitati nel carcere di Uta. Il 31 dicembre si contavano 582 detenuti su 567 posti disponibili, un dato che si accompagna ad altre problematiche allarmanti. La carenza del numero di Agenti (55 unità in meno) e di educatori, attualmente solo 7. "Dati oggettivi sui quali occorre riflettere anche perché le presenze nel penitenziario cagliaritano eccedendo la capienza regolamentare hanno determinato l’inserimento nelle celle, progettate per due posti letto, di un terzo e in alcune stanze del quarto letto". In aumento anche la presenza di extracomunitari all’interno della struttura. Chiunque potrebbe pensare che il problema abbia cominciato a sorgere solo negli ultimi mesi, ma in realtà ha un’origine ben più distante. "Il trasferimento dei detenuti dal carcere di Buoncammino nella nuova struttura di Uta ha messo in evidenza la situazione di crisi che vive l’intero sistema carcerario. Insufficiente il numero di agenti, in attesa di rinforzi a garantire un’adeguata sicurezza, le cucine in tilt, guasti ai sistemi elettronici che devono garantire il sistema automatico di chiusura delle celle e delle diverse sezioni del carcere, per non contare tutti i disagi per i detenuti e per le famiglie, visite dei familiari sospese, l’ora d’aria spesso in ritardo". Sono parole del consigliere regionale Piero Comandini (Pd), e risalgono al 2014. Parole che, almeno in parte, non sembrano avere avuto seguito considerando i numeri. Lo stesso Comandini ricordò come lo Stato Italiano fosse stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione omonima. L’accusa è di aver perpetrato trattamenti inumani derivanti dall’accertata condizione di sovraffollamento delle carceri. Una condizione di sovraffollamento a cui nessun Governo ha mai tentato di porre rimedio. I 582 reclusi del carcere di Uta rappresentano un quarto dei detenuti in Sardegna, che ammontano a 2.137 "ospiti". Velletri: ancora una tragedia in carcere, 19enne del Bangladesh muore suicida castellinews.it, 8 gennaio 2017 Ancora una tragedia senza appello tra le mura della Casa Circondariale di Velletri. Un detenuto di appena 19 anni, del Bangladesh, si è tolto la vita impiccandosi con una corda rudimentale (fatta con un lenzuolo) alle sbarre della finestra della propria cella. Il giovane era stato trasferito nel penitenziario veliterno da Regina Coeli dopo una tentata evasione. A darne notizia sono ancora una volta i sindacalisti di Ugl Polizia Penitenziaria Carmine Olanda e Ciro Borrelli che si complimentano con il personale di Polizia Penitenziaria e con il personale sanitario per la tempestività e l’efficienza dei soccorsi. "Come sindacato", segnalano, "chiediamo al Ministro lo sblocco dei concorsi con il conseguente invio di nuovo personale, in particolar modo quello femminile. Chiediamo al Dap e alla Asl Rm H di Albano di aprire urgentemente l’infermeria al nuovo padiglione che ospita oltre 200 detenuti". Novara: detenuto morto per un ictus, il pm proroga le indagini di Marcello Giordani La Stampa, 8 gennaio 2017 L’esposto della figlia: "Ritardi nel trasferimento in ospedale". Evidentemente ci sono degli aspetti della vicenda tutti da chiarire. La Procura di Novara ha disposto la proroga delle indagini sulla morte di Paolo Guerrieri. E l’uomo deceduto il 26 settembre del 2015 all’ospedale di Borgomanero: detenuto nel carcere di Novara per scontare una condanna per furto, malato di diabete, si era sentito male in cella il 28 agosto. Era poi stato trasferito all’ospedale di Novara, era entrato in coma e successivamente trasportato a Borgomanero agli arresti domiciliari, sempre in ospedale. Qui era spirato senza riprendere conoscenza. Da allora la figlia Monica si sta battendo per fare luce su quanto è accaduto, perché è convinta che nella tempistica di ricovero e nella terapia qualcosa non sia andato per il verso giusto. "Da oltre un anno - dice la donna - sto cercando inutilmente delle risposte: ho chiesto come mai si è tardato tanto per trasferire mio padre dal carcere all’ospedale, che tipo di cure gli sono state praticate, e per quale ragione, nonostante più volte avesse manifestato i suoi problemi di salute, non gli erano stati concessi gli arresti domiciliari a casa, qui a Borgomanero. Sono in attesa di giustizia, adesso spero sia la volta buona". Il legale della famiglia Guerrieri è l’avvocato Mario Cometti: "La Procura di Novara ha disposto la proroga delle indagini dopo che abbiamo depositato una perizia medico-legale che, a nostro avviso, offre elementi evidenti che in questa vicenda ci sono state delle responsabilità nel decesso di questa persona. Noi abbiamo le idee abbastanza chiare su quello che è accaduto. Naturalmente attendiamo l’esito degli sviluppi investigativi". Monica Guerrieri intanto continua a ricevere lettere da ex compagni di carcere del padre: "In una di queste, che mi è arrivata per le feste di Natale, un detenuto mi racconta che pubblicherà un libro con una serie di testimonianze e storie di vita carceraria, e tra queste ci sarà anche la vicenda di mio padre, vista dall’interno, dai suoi ex compagni di detenzione". Trento: l’Imam "incontro i detenuti due volte al mese, serve tenere alta l’attenzione" di Giuseppe Fin ildolomiti.it, 8 gennaio 2017 Secondo l’ultimo rapporto del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria a Trento sono una decina i detenuti di religione islamica sotto sorveglianza. Hanno atteggiamenti che si possono definire estremisti e che derivano dal non conoscere la realtà dei fatti e della religione. Persone che vengono rinchiuse per qualche reato e assumono poi comportamenti che rilevano qualche forma di radicalizzazione. L’asticella di attenzione da parte della Polizia Penitenziaria è alta anche in Trentino, al carcere di Gardolo, dove, secondo i dati oggi dal Corriere del Trentino, (riferiti all’ultimo rapporto del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria), sarebbero una decina i detenuti sotto sorveglianza perché a rischio a radicalizzazione. Per contrastarla già in passato il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria ha stretto una convenzione a livello nazionale con l’Ucoii per autorizzare la presenza di Imam nelle strutture penitenziarie al fine di svolgere assistenza spirituale. Nel carcere di Spini per due volte al mese, con incontri di circa un’ora, ad essere presente è l’Imam di Trento, Aboulkheir Breigheche, che porta avanti l’attività di guida spirituale con i detenuti che decidono di incontrarlo. Imam Breigheche, secondo la sua esperienza svolta in questi anni, tra i detenuti presenti al carcere di Spini di Gardolo ci sono stati segnali di radicalizzazione e c’è qualche pericolo che possano aumentare? "Questa è una domanda facile a cui rispondere ma allo stesso tempo difficile. Bisognerebbe chiedere alle autorità che gestiscono il carcere e che vedono più da vicino il comportamento della popolazione carceraria di religione islamica. Per quanto mi riguarda, io frequento come ministro di culto il carcere due volte al mese ed incontro chi lo desidera e chi accetta di avere assistenza spirituale e religiosa islamica. Incontro in media una ventina di persone e tra queste alcune hanno avuto degli atteggiamenti un po’ estremisti basati però sull’ignoranza più che su ideologie. Questi atteggiamenti ho cercato di smussarli". Quando parla di "atteggiamenti un po’ estremisti" a cosa si riferisce? "Intendo atteggiamenti, per esempio, nei confronti dell’Occidente che loro credono combini guai nei nostri Paesi di origine. Non conoscendo però la reale situazione e avendo un certo livello culturale, in loro sono comparse alcune idee un po’ estremiste" Dagli incontri che lei ha con queste persone ha visto dei cambiamenti? "Con quelli che frequentano il gruppo di incontro ho notato un ottimo risultato con il passare del tempo. Vedo che riusciamo a dialogare e, come già detto, a smussare eventuali atteggiamenti e idee particolari. Quasi nessuno ha una ideologia islamica religiosa estremista, ma sono persone che, con tutto rispetto, sono ignoranti anche nella propria religione islamica perché nel loro passato hanno frequentato altri ambienti e non quelli religiosi". L’attenzione deve quindi essere alta? "Io credo che l’attenzione e la sorveglianza deve essere massima perché sono persone che purtroppo hanno commesso errori gravi nella loro vita che potrebbero condurre ad altri anche dal punto di vista del terrorismo. Ma non possiamo giudicare così superficialmente se non su dati concreti. Se delle persone sono sorvegliate, questo non significa dire che sono etichettate di terrorismo o altro. Sono persone che hanno più bisogno di essere ascoltate, di dialogare per capire le loro idee". Sono abbastanza i due incontri che lei svolge al mese presso il carcere di Spini di Gardolo? "La direzione del carcere è molto disponibile. Questa però è la disponibilità che riesco a dare e cerco di fare il mio meglio. Non servirebbero più ore classiche come quella del sermone del venerdì ma vedrò a breve di proporre alla direzione del carcere di creare dei momenti diversi di incontro generale nei quali si possa parlare liberamente anche di problemi connessi alla religione e a quello che succede nel mondo". Sassari: (Unidos) "nel carcere di Bancali sono detenuti pericolosi jihadisti" sardiniapost.it, 8 gennaio 2017 "Quello di Sassari è il carcere dei terroristi dell’Isis, tra loro anche uno nella lista nera di Obama". Lo denuncia il deputato di Unidos, Mauro Pili, che oggi ha effettuato una visita ispettiva a sorpresa nell’istituto penitenziario di Bancali. "La struttura ospita 18 terroristi islamici - riferisce Pili - nelle celle distrutte dalla violenza jihadista la tensione è alle stelle". Secondo l’ex presidente della Regione "il braccio 8 dell’alta sicurezza è la Cayenna islamica dedicata al terrorismo internazionale". Pili riferisce anche delle difficoltà di un organico sottodimensionato. "Mancano 150 agenti, non c’è un interprete, le telefonate sono senza controllo", accusa il parlamentare sardo, secondo cui "lo Stato, dopo aver dislocato i capi mafia, sceglie Sassari per scaraventare sulla Sardegna quelli che vengono ritenuti dai giudici i più pericolosi terroristi in circolazione in Italia". Pili racconta che oggi durante la visita in carcere si è imbattuto in "Muhammad Hafiz Zulkifal, imam di Bergamo e Brescia, tunica bianca e barba lunga tinta di rosso, il capo della cellula italiana di Al Qaeda, composta da 18 persone", che gli avrebbe detto di "essere un predicatore radicale, non un terrorista". Ma a Sassari Mauro Pili incontra anche Hamadi Ben Abdul Aziz Ben Ali, tunisino di 51 anni, il cui alias è Gamel Mohamed. "Obama lo ha inserito tra i 30 più efferati criminali jihadisti al mondo", è l’allarme di Pili. E ancora Abderrahim Moutaharrik, 27 anni, marocchino, campione di kickboxing, finito in carcere lo scorso aprile con l’accusa di terrorismo internazionale per presunti legami con l’Isis, e Yahya Khan Ridi, afghano, 37 anni, arrestato a Foggia. "Non bastavano gli 89 capi mafia reclusi nel braccio del 41 bis, da qualche settimana il braccio 8 ospita i più efferati terroristi islamici in circolazione in Italia. Metà dei più pericolosi detenuti islamici in Italia sono nel carcere sassarese - conclude Pili - la cellula di Bancali è operativa, con il silenzio e la complicità di molti". Aversa: nell’ex Opg progetto di sostegno alla genitorialità dei detenuti campanianotizie.com, 8 gennaio 2017 Oggi, 8 gennaio 2017, a partire dalle ore 10:00, presso la Casa di Reclusione di Aversa (ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario), prende il via il progetto di "sostegno alla genitorialità" con una serie di attività ludico-ricreative rivolte ai figli minori dei detenuti. L’obiettivo è quello di strutturare durante i colloqui - attraverso la presenza qualificata di operatori volontari - un contesto educativo e relazionale a supporto dei genitori detenuti per ridurre il distacco tra padri/figli minori e migliorare la qualità di vita dei soggetti reclusi. Il progetto, che si sviluppa in un ampio arco di tempo con cadenza mensile, è promosso d’intesa tra l’Associazione Casmu, presieduta da Mario Guida, la Rassegna Nazionale di Teatro scuola PulciNellaMente, rappresentata dal direttore Elpidio Iorio, i vertici della casa di Reclusione, ovvero la direttrice Elisabetta Palmieri, il comandante commissario Luigi Mosca e il responsabile Area Educativa Angelo Russo. Il progetto nello specifico prevede la collaborazione dell’Agenzia di Animazione "Frizzi party" di Cesa, guidata da Salvatore Vozza, che oltre a favorire una più costruttiva relazione dei bambini con i propri genitori ristretti, attenuerà il disagio che prova il minore nei confronti dell’istituzione carceraria. Ci saranno altresì la sociologa, Enza Barbato, la psicologa Anna Costanzo e l’artista Fabiana Live che daranno vita ad una serie di attività con l’intento di ridurre il distacco forzato del genitore dal nucleo familiare causato dalla carcerazione, poiché è notorio che esso si riverbera in negativo sullo sviluppo psicologico dell’infante. Col tempo si cercherà di creare degli spazi a misura di bambino, nonché una vera e propria ludoteca attrezzata, che consentirà ulteriormente di migliorare l’intervento psico-educativo e favorire quindi un miglioramento delle attuali condizioni detentive. Nel corso della mattinata, ai bambini sarà donato un gioco come ricordo dell’esperienza trascorsa insieme al proprio genitore, agli operatori volontari e a quelli istituzionali. Sempre a gennaio, per la precisione il 14, saranno avviate le selezioni per la formazione di una squadra calcistica formata interamente da detenuti. A coordinare le attività sarà il giudice popolare Luigi Baldascino. Opera (Mi): skilifting, il laboratorio che insegna la libertà di Max Cassani La Stampa, 8 gennaio 2017 Lo sci è divertimento. In alcuni casi può rappresentare persino un’opportunità di rifarsi una vita e di conquistare la libertà, quella vera. È il caso di Kais e degli altri detenuti del carcere di Opera che hanno prestato servizio presso il laboratorio Skilifting di Peschiera Borromeo, periferia Est di Milano. Un laboratorio di sci mirato al reinserimento lavorativo dei carcerati promosso dalla cooperativa Fuoriluoghi, che si occupa anche di altri progetti alternativi alla pena. La storia del tunisino Kais è esemplare. Nel 2008, a 28 anni, finisce dietro le sbarre per spaccio di droga: 13 anni e due mesi. "Grazie al sostegno della cooperativa, dentro il carcere di Opera ho lavorato come saldatore, specialità carpenteria metallica e assemblaggio elettromeccanico. Mi piaceva: alla fine sono arrivato ad avere la responsabilità di 15 persone". Nel 2015, cinque anni prima della fine pena, inizia a uscire grazie ai permessi premio ottenuti per buon comportamento. Inizia così la sua esperienza formativa al laboratorio Skilifting sotto la guida dei tutor Davide e Matteo, appassionati di sci e ideatori del progetto. Kais si occupa della rilaminatura a mano degli sci, della riparazione e sciolinatura della soletta fino al bootfitting, ovvero l’adattamento a caldo dello scarpone alla conformazione del piede. Da maggio non ha più neppure l’obbligo di rientrare in carcere per la notte. Grazie all’affidamento ai servizi sociali può dormire a casa con i suoi figli e sua moglie, che è italiana. "Prima di lavorare al laboratorio non avevo mai visto uno sci in vita mia - ammette. Men che meno uno snowboard. Grazie a chi mi è stato a fianco in questi mesi, ho imparato tantissimo e ho acquisito una nuova professionalità". Oggi Kais ha 36 anni, sta riprendendo possesso della sua vita e grazie a Skilifting può di nuovo godersi la libertà. Il lavoro quotidiano presso il laboratorio di sci gli garantisce anche uno stipendio: circa 1.000 euro al mese. L’obiettivo è continuare a lavorare all’interno della cooperativa, che d’estate si occupa di ristrutturazioni edilizie con il progetto Olio di Gomito. "Ho perso tanti anni - continua Kais. Lavorare è una spinta in più per cambiare e lasciarti le cose brutte alle spalle. Il contatto con le persone libere aiuta a resistere alle tentazioni e a tornare a una vita normale". Roma: tentata evasione da Rebibbia, detenuto bloccato sotto il muro di cinta di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 8 gennaio 2017 Questa volta il sistema di sicurezza del carcere di Rebibbia ha retto. Micliuc Sergiu Cesare, romeno di 32 anni, ieri mattina ha provato ad evadere ma è stato bloccato dagli agenti della penitenziaria sotto il muro di cinta. Ad un passo dalla libertà insomma. Impresa però, che negli ultimi dieci mesi, è riuscita a cinque reclusi. Cesar detenuto nel reparto G12, in carcere per furto, sarebbe dovuto uscire nel 2020. Una pena che, con ogni probabilità, andrà ad aumentare a causa del tentativo di evasione di ieri: si è arrampicato su un palo portando con sé delle lenzuola per poi calarsi giù dal muro di cinta. Lo scorso 27 ottobre tre albanesi sono riusciti a scappare. Di loro si sono perse le tracce. E per la loro fuga, avvenuta di notte e secondo il più classico dei copioni, sbarre segate, fagotti dentro i letti e lenzuola annodate per poi calarsi e scappare, adesso rischiano di finire sotto processo gli ex vertici di Rebibbia. L’inchiesta della procura ha messo a nudo tutte le falle del penitenziario romano: turni di sorveglianza non rispettati, detenuti a rischio fuga lasciati quasi incustoditi. Ronde abolite, monitor di sicurezza mai controllati. Allarmi lanciati con ritardi incredibili, trasferimenti non regolari e temporanei approvati e diventati definitivi. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino e la pm Nadia Plastina, per questo motivo hanno inviato il 19 dicembre un avviso di conclusione delle indagini a tutti i responsabili della clamorosa evasione. Tra i nomi eccellenti spiccano quelli dell’ex direttore Mauro Mariani, il dirigente del provveditorato Claudio Marchiandi e Massimo Cardilli, capo delle guardie carcerarie all’epoca della fuga dei tre albanesi. La procura contesta a loro e ad altri 11 agenti il reato di "colpa del custode": li ritiene responsabili di procurata evasione colposa. Avrebbero favorito la fuga di Tesi Basho che scontava l’ergastolo per omicidio, Ilir Pere con fine pena tra 25 anni e Mikel Hasanbelli condannato per estorsione e prostituzione. I tre erano rinchiusi nel reparto G9. La responsabilità degli indagati consisterebbe nell’aver omesso "le doverose cautele e nella violazione delle norme regolamentari, nonché delle norme generiche di prudenza, la cui osservanza avrebbe impedito o reso più difficoltoso l’allontanamento dei detenuti", si legge nel capo d’imputazione. Soprattutto perché, dopo un’evasione fotocopia avvenuta il 14 febbraio a Rebibbia (due romeni poi riacciuffati) le falle nella sicurezza non erano state sanate, nonostante le sollecitazioni della Procura e del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il problema delle evasioni, per Leo Beneducci, segretario generale dell’Osapp, il sindacato della Polizia penitenziaria, come ha spiegato ieri dopo il tentativo di fuga sventato dagli agenti a Rebibbia, è dovuto anche alla "carenza di personale e all’eccessiva libertà interna data ai reclusi". La vera notizia che il giornalismo non vuole vedere di Alberto Burgio Il Manifesto, 8 gennaio 2017 È forse il caso di tornare sull’attacco mosso da Beppe Grillo alle testate che, a suo dire, fabbricano notizie false nell’interesse del potere costituito. Grillo non perde occasione per muoversi come un energumeno nella cristalleria. Del resto il suo scopo è mercantile, essendo ormai la politica una merce. Fare proseliti, piazzare il prodotto, conquistare maggiore visibilità. Con buona pace della qualità di una sfera pubblica ormai insostenibile per volgarità. Enrico Mentana ha quindi avuto buon gioco. Ha minacciato querele e subito ottenuto soddisfazione, a riprova della consistenza della campagna grillina. Quindi: incidente chiuso, e tanto rumore per nulla. Senonché l’episodio è un’occasione persa perché, al netto del fragore mediatico, l’accusa ha in sé una verità interna che la replica del direttore del Tg7 rischia di oscurare. Mentana ha replicato in nome proprio e della corporazione, invocando alti principi e buone ragioni. Ha sfidato Grillo a dimostrare le proprie accuse e ha facilmente avuto la meglio. Ma questo dimostra la buona qualità del giornalismo italiano e, soprattutto, la sua irreprensibilità etica e politica? Evidentemente no, e parlarne seriamente una buona volta sarebbe vantaggioso, benché forse incomodo per taluni. Il fatto è che chi vuol difendere a priori e in blocco il giornalismo nazionale non potrebbe augurarsi critici migliori di Beppe Grillo, le cui invettive scomposte offrono il destro a difese altrettanto generiche. In che senso vi sarebbe materia per una utile discussione sulla qualità dell’informazione nel nostro paese e sul nesso tra giornalismo e potere politico? È presto detto, con il primo esempio che viene in mente. Al netto dell’insulto, c’è di che scandalizzarsi per l’accusa di divulgare verità distorte ("governative") se si pensa al quotidiano racconto della crisi che ci accompagna da una decina d’anni e mediante il quale si è scrupolosamente impedito ai non addetti ai lavori di vedere il gigantesco processo di drenaggio verso l’alto della ricchezza sociale che ha trasformato il mondo capitalistico? La crisi è stata e continua a essere venduta dalla maggioranza di giornali e tv come un evento fatale, un terremoto o uno tsunami. Se ne è parlato e se ne parla in modo cifrato, sempre tacendo verità elementari che avrebbero forse esibito relazioni pericolose. Non si è soltanto evitato di chiarire al volgo che l’immenso potere economico e politico dei grandi investitori è frutto delle scelte compiute negli anni ‘90 (non soltanto dall’amministrazione Clinton, anche dalle classi dirigenti europee) di liberalizzare i movimenti di capitale, di rimuovere ogni distinzione tra banche commerciali e banche d’investimento e di privatizzare interi settori dello Stato sociale. Si è anche, coerentemente, impedito di comprendere che la sequenza di disastri innescata nel 2007 dalla crisi dei mutui subprime e dalla bancarotta di Lehman Brothers si è propagata in Europa ed è diventata una duratura tragedia per milioni di persone perché si è scelta una strategia di politica economica incentrata sulla socializzazione delle bancarotte private: una storia che continua ancora, come mostra il caso Mps. La crisi non è stata una catastrofe naturale né una disgrazia per tutti. Ha operato, come ogni guerra, ridisegnando le gerarchie sociali, radicalizzando le sperequazioni, creando nuove oligarchie. Un giornalismo indipendente e critico - oltre che all’altezza - non avrebbe forse dovuto mettere le opinioni pubbliche in condizione di decifrare i processi in atto e di farsi un’idea per quanto possibile chiara delle responsabilità di chi in Italia e in Europa - politici, tecnocrati, banchieri centrali - ha contributo alla costruzione di un efficiente sistema di privatizzazione della ricchezza sociale in grado di avvantaggiarsi delle sue stesse inevitabili crisi sistemiche? Chi si inalbera nel nome dell’onorabilità della categoria può in coscienza rispondere che si è fatto il possibile in tal senso e non invece per accreditare letture superficiali, disorientanti e fatalistiche? Si potrebbe naturalmente continuare moltiplicando gli esempi. Varrebbe la pena di discutere una buona volta anche di giornalismo d’inchiesta piuttosto che di conformismo mediatico, o di riflettere sulla logica delle interviste zerbino o dei famigerati talk-show. Ma occorrerebbe volersi interrogare senza partiti presi, e di questa disponibilità non pare esservi traccia. Immigrazione, siamo a una svolta? di Luca Ricolfi Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2017 Non so se sia la paura delle imminenti elezioni politiche, o un effetto dell’avanzata delle forze populiste in Europa e in America, o una risposta alle mosse del Movimento Cinque Stelle, sempre più critico sull’immigrazione irregolare. Sta di fatto, però, che sul problema dei migranti, dopo anni di più o meno rassegnato immobilismo, le cose stanno cambiando. Il neo-ministro degli interni Marco Minniti è uno dei pochi politici messi ad occuparsi di qualcosa che conoscono nei dettagli. Minniti sembra intenzionato a non lasciare che le cose continuino come sono andate in questi anni, con un sistema dell’accoglienza in perenne oscillazione fra i due estremi del modello italiano: da un lato il mancato rispetto del diritto dei migranti a un trattamento umano e a tempi di attesa ragionevoli, dall’altro la perdurante disponibilità a chiudere un occhio sugli irregolari e su chi non rispetta i decreti di espulsione. Da qualche giorno, finalmente, si torna a parlare delle strutture di accoglienza e della loro inadeguatezza in termini concreti, pensando più alle soluzioni che agli slogan. Il tentativo del governo Gentiloni di affrontare il problema rompe una situazione in cui, talora anche nel mondo dell’informazione, si erano cristallizzate due posizioni. Da una parte il semplicismo della destra, che parla come se esistessero soluzioni di facile attuazione, dall’altra la cecità della sinistra, che parla come se il problema non esistesse, o non ammettesse altra soluzione che il perseverare nelle politiche di accoglienza attuate fin qui. In realtà il problema esiste, ed è diventato drammatico da quando, per una concatenazione di eventi sociali e militari (dalle "primavere arabe" al dilagare dell’Isis), il flusso dei migranti verso l’Europa ha assunto dimensioni insostenibili. Ma se il problema è uno, la soluzione del problema - se mai ve ne sarà una- non potrà essere né unica, né semplice. Perché il problema degli ingressi irregolari in Europa, a mio modo di vedere, possiede una pluralità di facce, e solo prendendole sul serio tutte avremo qualche possibilità di venirne a capo. Una prima faccia sta nella mancanza di una chiara risposta alla domanda: il numero degli immigrati attualmente presenti in Europa è eccessivo, o adeguato, o addirittura insufficiente? E qual è il livello ottimale per ogni paese? La generosità della Germania è di natura politica, o risponde ai suoi bisogni economici? È diverso, infatti, gestire una politica di redistribuzione o gestirne una di contenimento, ed è piuttosto curioso che non vi siano "numeri" europei al riguardo. Una seconda faccia sta nelle politiche di controllo degli ingressi irregolari via mare, con annesso problema di scafisti e trafficanti di esseri umani. Qui sarebbe auspicabile decidere, una volta per tutte, se debbono continuare a farsene carico i paesi mediterranei (soprattutto Italia, Grecia, Spagna e Malta), magari con l’assistenza tecnica di organismi tipo Frontex, o se preferiamo affidare a un contingente navale europeo la sorveglianza delle coste meridionali dell’Europa. E forse, altrettanto auspicabilmente, dovremmo decidere fino a che punto (ovvero fino a che distanza dalle coste dell’Africa), l’Europa è disposta ad accettare l’azzardo morale di chi si mette (o si fa mettere) in mare non per arrivare sulle nostre coste con imbarcazioni africane, ma per essere prelevato e trasportato sul vecchio continente da imbarcazioni europee. C’è poi la terza faccia, quella delle espulsioni di chi non ha diritto all’asilo politico, o ad altre forme di protezione internazionale. Qui, ammesso che l’Europa ritenga di avere già troppi immigrati sul proprio suolo (il che dipende innanzitutto dalla risposta alla nostra prima domanda: i numeri attuali sono effettivamente troppo alti?), i problemi sono almeno due, uno europeo e l’altro specificamente italiano. Il problema europeo è che esistono paesi di provenienza che non hanno accordi di rimpatrio dei propri cittadini che hanno violato leggi europee. I problema italiano è che la possibilità di dar corso effettivo (e celere) ai rimpatri è ostacolata anche dalle nostre prassi e dalle nostre leggi, in particolare dal numero di gradi di giudizio previsti, che rendono estremamente accidentato l’iter delle espulsioni. Due problemi opportunamente richiamati giusto ieri dal Capo della Polizia Franco Gabrielli, ma peri quali non esistono soluzioni facili e immediate: ci sono paesi con cui è impensabile stabilire accordi di rimpatrio semplicemente perché non assicurano un livello accettabile di tutela dei diritti umani, e ci sono garanzie delle nostre procedure di espulsione che sono insopprimibili perché poggiano sul diritto internazionale. Senza contare il problema dei problemi: anche ammesso di aver risolto la questione dei rimpatri e di aver semplificato l’iter delle espulsioni, resterebbe il dato di fatto dell’inadeguatezza sia quantitativa che qualitativa della rete di accoglienza, chiaramente mal disegnata e sistematicamente incapace di gestire gli arrivi in modo non puramente emergenziale. Ci sarebbe poi una quarta e ultima faccia, spesso dimenticata perché sgradevole, del problema degli immigrati: il loro tasso medio di criminalità è molto maggiore di quello dei nativi (circa 4volte più alto), ma mancano, non solo in Italia, norme che abbiano un effettivo potere di deterrenza verso la commissione di reati. Il fatto che molti reati di elevato allarme sociale possano essere compiuti ripetutamente, senza dare luogo né a misure di incapacitazione significative (permanenza in carcere), né a restrizioni dei diritti connessi alla residenza in un paese Ue, né tanto meno al divieto (più o meno definitivo) di ingresso e permanenza in Europa, configura una situazione non solo pericolosa, ma chiaramente contraria al comune senso di giustizia, secondo cui chi è ospitato, indipendentemente dal suo status di rifugiato o di migrante economico, hanno speciale dovere di rispettare norme e regole della comunità ospitante. Credo che se la violazione delle nostre leggi abbassasse in modo tangibile le chance di usufruire dei benefici della permanenza in Europa, fino all’espulsione automatica (ad esempio dopo 2 condanne penali), ridurremmo in modo apprezzabile alcuni comportamenti opportunistici, realisticamente basati sulla nostra tolleranza per l’illegalità e sulla scarsa effettività delle pene previste dal nostro ordinamento e dalle nostre prassi. Migranti. L’Associazione Antigone: "i Cie non diventino luoghi di detenzione arbitraria" Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2017 "Oggi il Capo della Polizia in alcune interviste conferma l’intenzione del Governo di riaprire un Cie per regione, prevedendo finanche la permanenza obbligata in essi fino a un anno. Ricordiamo che non molto tempo fa, proprio per le ingiustizie, le disumanità e l’ineffettività del sistema di identificazione - per il quale un allungamento del periodo di trattenimento si rivela privo di efficacia, i tempi furono fortunatamente ridotti a novanta giorni. La detenzione nei CIE, va altresì ricordato, avviene per persone che non hanno commesso un reato o che, avendolo commesso, hanno già scontato la propria pena. Non va quindi trasformata in detenzione arbitraria. Inoltre rivolgiamo un appello alle forze di Polizia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: prima di fare passi in avanti (comunque inutili ai fini delle espulsioni) per l’apertura dei CIE si faccia ciò che la legge prevede già, ovvero l’identificazione degli immigrati irregolari all’interno delle carceri. Molti immigrati passano prima dal carcere e poi arrivano in questi Centri. Dunque c’è tutto il tempo per identificarli. Non farlo e poi inviarli nei CIE per identificarli è ingiusto, costoso, ineffettivo". A dichiararlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone e della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili Droghe. Nella farmacia della cannabis di Stato: "Come un medicinale, basta la ricetta" di Maria Vittoria Giannotti La Stampa, 8 gennaio 2017 Per ora la produzione di cannabis è limitata a 50 kg all’anno, ma aumenterà per coprire il fabbisogno italiano. Dalla serra al bancone La cannabis di Stato è coltivata dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Quella del Madonnone è un’antica farmacia fiorentina. Sopravvissuta alle bombe della Seconda guerra mondiale e all’alluvione del ‘66, da qualche giorno è proiettata nel futuro della farmaceutica italiana. Quello in cui la cannabis è considerata un medicinale, acquistabile presentando una ricetta anche del medico di famiglia. "Da oggi non si torna più indietro" annuncia con soddisfazione il titolare, Pierluigi Davolio, stringendo la prima confezione di Fm2 - questo il nome del nuovo medicinale - appena arrivato dalle serre dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze e confezionato nel laboratorio che si trova sul retro della farmacia, sempre affollatissima. La svolta - La novità è nella provenienza. Perché, in realtà, sono circa due anni che il dottor Davolio prepara dosi di cannabis terapeutica destinata ai suoi pazienti, bambini compresi. Ma finora la cannabis arrivava dall’Olanda. Ora è anche made in Italy e per di più a chilometro zero. "La qualità del prodotto è molto elevata e rispetta standard rigorosi nel processo di realizzazione come se fosse un farmaco" spiega il farmacista. Le serre in cui le piantine vengono coltivate sono all’avanguardia: niente terra, ma un ambiente asettico, con impianti costosissimi. Il prodotto ha una bassa concentrazione del principio attivo Thc, responsabile degli effetti psicoattivi, che provoca lo "sballo". Sull’efficacia della canapa nel trattamento di molte patologie Davolio non ha dubbi. E autorevoli studi scientifici lo dimostrano. L’elenco è lungo e si trova sul sito del Ministero della Salute che, con il Ministero della Difesa, da cui dipende lo stabilimento chimico farmaceutico, ha dato il via a questa produzione per ora limitata a 50 chili all’anno, ma destinata ad aumentare per coprire il fabbisogno italiano. Con la cannabis si alleviano i dolori neuropatici cronici e quelli con spasmo della sclerosi multipla. È efficace anche per la sua proprietà ipotensiva in alcuni casi di glaucoma e per i attenuare i tic della sindrome di Tourette. I pazienti oncologici la apprezzano perché allevia la nausea provocata dalla chemio e dalla radio. Ma gli effetti benefici riguardano più in generale la qualità della vita di tanti malati: il tono dell’umore si innalza, migliora la qualità del sonno e fa aumentare l’appetito di chi combatte contro l’Aids o l’anoressia nervosa. "Per molti aspetti è meglio della morfina che in alcuni casi peggiora la nausea" assicura il dottore. Di risultati estremamente positivi il farmacista è stato testimone diretto. "Avevo una paziente - racconta Davolio - che era stata costretta a mettere in vendita l’auto perché non riusciva più a guidare per i dolori provocati da una fibromialgia. Solo grazie alla cannabis (olandese, ndr.) è tornata al volante". farmacista fiorentino è stato un pioniere del settore: "Devo ringraziare il primo importatore della cannabis dall’Olanda, l’Acef che mi ha convinto ad iniziare, e soprattutto il professor Paolo Poli che, dopo aver visto i primi risultati, si è subito imbarcato in quest’avventura, creando anche una società scientifica, la Sirca, per la ricerca nel settore". Il rischio - All’inizio la legislazione rendeva molto più complicato procedere senza rischiare di infrangere le norme. "Ma la competenza della dottoressa Gianna Acciai, mia collaboratrice, e di alcuni dirigenti dell’Asl di Firenze hanno reso possibile procedere con la necessaria sicurezza". Seguendo le prescrizioni segnate sulla ricetta, Davolio ha confezionato i primi tre farmaci per altrettanti pazienti. Il primo è stato un paziente fibromialgico: la userà per preparare un decotto la sera e riuscire a dormire senza risvegliarsi per i dolori. Una donna, con sclerosi multipla, avrà un’arma efficace contro gli spasmi. L’accesso alla terapia è semplice e l’unica complicazione sta nel consenso informato che il paziente è invitato a firmare al momento della prescrizione. Poi, una volta ottenuta la ricetta (che al posto del nome ha un codice alfanumerico) si procede come per un qualsiasi medicinale. Turchia. Nuova ondata di arresti dopo Reina e Smirne di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 8 gennaio 2017 In due giorni detenuti decine di politici curdi, giornalisti e presunti gulenisti. In manette altri co-sindaci dei comuni del sud-est. Fa discutere il caso del reporter Ahmet Sik: secondo i legali è stato lasciato senz’acqua. Cacciati 350 diplomatici. All’ombra tetra degli attentati che hanno sconvolto la Turchia l’1 e il 5 gennaio, continuano le operazioni di polizia in tutto il paese. Soltanto tra il 5 e il 6 gennaio sono stati arrestati 21 rappresentanti curdi, tra cui i co-sindaci dei distretto di Kulp a Diyarbakir, Viransehir, Bozova ad Urfa, tutti con l’accusa di complicità con il Pkk. Sale così a 76 il numero dei co-sindaci in stato di detenzione, mentre sono 52 i municipi commissariati dalle autorità governative. Continua la repressione anche nel giornalismo e fa sempre più discutere il caso di Ahmet Sik, giornalista del quotidiano Cuhmuriyet arrestato il 29 dicembre con l’accusa di propaganda in favore del Pkk e dell’organizzazione Feto, etichetta del governo turco per la congrega religiosa di Gülen. In isolamento nella prigione di Metris fino al 2 gennaio e poi trasferito nel carcere di massima sicurezza di Silivri, Sik ha potuto incontrare la madre e gli avvocati solo il 5 gennaio. Questi hanno denunciato le condizioni di detenzione, sostenendo che sia stato lasciato senza acqua potabile per tre giorni. Il Direttorato delle Carceri ha emesso un comunicato per ribattere alle accuse, visto che al detenuto sarebbero "stati dati 1,5 litri d’acqua in data 1 gennaio" e che "a ciascun detenuto sono forniti quotidianamente 50 litri d’acqua calda e 200 litri d’acqua fredda, potabili secondo le ultime analisi del 24 dicembre" scorso. Già incarcerato a Silivri nel 2011 per indagini giornalistiche sul sodalizio tra Gülen e Akp, il partito di governo, Sik aveva inoltre partecipato poco prima della detenzione all’iniziativa di una fotografia collettiva di 100 giornalisti da inviare ai colleghi detenuti in carcere, ai quali non è spesso concesso di ricevere la posta a causa delle restrizioni legate allo stato di emergenza. Una campagna per chiedere il suo rilascio è stata lanciata da English Pen. Revocata invece la tessera stampa della giornalista Amberin Zaman, per alcuni tweet in favore dei curdi siriani lanciati a commento dell’attentato della notte di capodanno al club Reina di Istanbul. Sono oltre 620 le tessere stampa non rinnovate fino ad oggi dal Direttorato per la Stampa turco. Arrestato Kemal Sancili, direttore del quotidiano filocurdo Ozgur Gundem, chiuso da tempo, senza che se ne conoscano i capi di accusa. 68 impiegati dell’azienda delle telecomunicazioni di Stato Trt sono stati invece arrestati in due settimane per presunti collegamenti con Gülen. Lo stilista Barbaros Sansal è stato incarcerato il 4 gennaio "per incitamento all’odio". Voce critica del governo e figura di spicco della scena Lgbt, alla vigilia di capodanno aveva pubblicato su internet duri commenti, con una chiusa volgare, sulla situazione turca. Espulso da Cipro Nord in cui si trovava, è atterrato ad Istanbul e preso in custodia da agenti, quando una ventina di civili hanno cercato di linciarlo in nome della nazione, scatenando un putiferio attorno alle misure di sicurezza dello scalo. Tre fermi sono stati eseguiti nelle alte sfere del colosso Dogan per presunti collegamenti con la rete di Gülen. Il proprietario, Aydin Dogan, ha reagito negando ogni accusa per i suoi uomini di fiducia. L’Associazione degli Avvocati di Istanbul ha invece duramente bollato l’arresto di Yucel, consigliere legale del gruppo come azione intimidatoria da parte del potere politico. Dogan è una holding a cui fanno capo anche emittenti tv, radio e pubblicazioni cartacee, tra cui colossi dell’informazione come il canale televisivo Cnn Turk ed i quotidiani Hurriyet e Posta. Il ministro degli Esteri Cavusoglu ha poi fatto sapere che sono 350 i rappresentanti della diplomazia turca allontanati dal Ministero in quanto considerati vicini a Gülen. Siria. Erdogan si ritira dall’offensiva su Mosul di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2017 Ospiti assai sgraditi degli iracheni nella base militare di Zelkan a Bashiqa, 13 chilometri a Nord-est di Mosul, i turchi hanno deciso, dopo mesi di tensione, di levare le tende. La decisione costituisce un’altra svolta nella strategia di Ankara: dopo essersi messo d’accordo con Putin e Teheran sulla permanenza di Assad al potere, abbandonando il sostegno ai jihadisti in Siria, Erdogan ha deciso, a quanto pare, di distendere i rapporti con il governo di Baghdad a maggioranza sciita, uno stretto alleato dell’Iran, impegnato con l’appoggio dagli Usa nell’offensiva contro il Califfato a Mosul cominciata il 17 ottobre. In sintesi la Turchia, dopo la caduta di Aleppo, ha chinato la testa davanti a Putin, ma ha dovuto dare soddisfazione anche all’Iraq e a Teheran, che a Mosul ha in campo le milizie sciite, equiparate di fatto agli effettivi dell’esercito iracheno regolare. Così facendo Ankara elimina anche uno dei tanti motivi di frizione con Washington: gli Stati Uniti si erano opposti alla presenza turca a Mosul. Il riallineamento, non diversamente da quello degli altri attori in campo, guarda all’insediamento dì Trump: non è un caso che Putin abbia appena deciso un progressivo disimpegno dalla Siria con il ritiro di parte della flotta e della portaerei Kuznetsov. L’accordo tra Baghdad e Ankara è intervenuto nello stesso giorno in cui una potente autobomba ha fatto circa 6o morti nella città di siriana di Azaz, a stretto contatto con il confine turco. Occupata dal Califfato nel 2013, la roccaforte sulla direttrice di Aleppo era stata poi conquistata dal Free Syrian Army, l’Esercito libero siriano (Els) filo-turco che ora si trova sotto attacco da parte dell’Isis, mentre intorno ci sono anche le milizie curde siriane dell’Ypg, le Unità di protezione popolare, ritenute da Ankara una gruppo terroristico al pari del Pkk, ma sostenute dagli Stati Uniti nella battaglia contro i jihadisti. Azaz costituisce per la Turchia una base di estrema importanza, perché si trova tra Kobane e Afrin, e la presenza dell’Els interrompe la continuità territoriale nell’area controllata dai curdi siriani, l’obiettivo dell’operazione di Ankara "Scudo dell’Eufrate". L’intesa tra Turchia e Iraq per il ritiro delle truppe è stata annunciata dal primo ministro iracheno, Haidar al Abadi, il quale ha affermato che un accordo con la Turchia è stato raggiunto durante la visita a Baghdad del primo ministro turco Binali Yildrim. Le forze di Ankara a Bashiqa hanno addestrato in parte i curdi iracheni di Massud Barzani, ma anche i miliziani sunniti schierati per partecipare all’offensiva lealista per riconquistare la roccaforte dello Stato islamico in Iraq. La loro presenza era stata decisamente contestata dal Governo di Baghdad perché erano entrate senza permesso, da qui le forti tensioni trai due Paesi: l’Iraq aveva protestato a gran voce per la "violazione di sovranità". Sul ritiro delle truppe i turchi sono stati più ambigui rispetto alla controparte irachena. Il premier di Ankara Binali Yildrim ha ammesso in una conferenza stampa che è stata raggiunta un’intesa su Bashiqa, ma senza entrare nei dettagli. È evidente che Erdogan ha dovuto assumere, dopo la Siria, un’altra decisione imbarazzante perché aveva proclamato ai quattro venti che era un diritto della Turchia essere protagonista della liberazione di Mosul, reclamando più di una volta che era stata sottratta illegalmente alla giurisdizione turca dopo la fine dell’Impero Ottomano. In realtà con le truppe di stanza a Bashiqa, Erdogan voleva presentarsi come il difensore dei sunniti di Mosul, componente maggioritaria della città, nei confronti delle milizie sciite e soprattutto intendeva in questo modo contrastare la presenza del Pkk curdo e le sue mire irredentiste sul Kurdistan turco. Se confermata dai fatti, questa sarà un’altra marcia indietro per il presidente turco che sta affrontando in casa un’ondata di attentati scatenati dai jihadisti che si vogliono vendicare del ribaltamento della politica di Ankara in Siria dopo l’accordo con Mosca e Teheran.