D’Elia (Nessuno Tocchi Caino): "Nelle carceri non hanno dimenticato Marco Panella" di Valentina Stella Il Dubbio, 7 gennaio 2017 Il Segretario di Nessuno Tocchi Caino racconta le visite negli istituti penitenziari: "ci hanno chiesto di portare un fiore a Pannella al cimitero. Ma per dare davvero speranza ai detenuti occorrono fondi e progetti. Mancano anche operatori e Magistrati di sorveglianza". Sono terminate in concomitanza con l’Epifania le visite dei militanti e dei dirigenti del Partito radicale nelle carceri italiane. Quaranta gli istituti di pena, da nord a sud passando per le isole, in cui i radicali dal 23 dicembre hanno trascorso parte delle festività natalizie insieme con i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. Questo è stato il primo anno senza il leader Marco Pannella ma la sua scomparsa, avvenuta lo scorso 19 maggio, non ha fermato la tradizione radicale di condividere le feste e "dare speranza" a quelli che Pannella appellava con "gli ultimi". Per fare un bilancio dell’iniziativa abbiamo incontrato Sergio D’Elia, membro della presidenza del Partito radicale e segretario di Nessuno Tocchi Caino. Partiamo subito dalle condizioni delle carceri. Qual è il loro stato di salute? Chiaramente è difficile esprimere un giudizio che possa fornire un quadro complessivo. Ci sono realtà diverse in tutta la penisola. Il carcere di Lecce è un esempio virtuoso nel sud d’Italia, grazie all’opera straordinaria della direttrice Rita Russo e del comandante Riccardo Secci. È una delle carceri dove è stata sperimentata la vigilanza dinamica e dove le attività trattamentali, come i corsi scolastici, le attività teatrali e imprenditoriali come la sartoria, sono molto ben sviluppate". Esempi meno virtuosi invece? Non è una questione di graduatorie ma il problema è che lo Stato ha distratto le somme necessarie affinché gli istituti fossero migliorati o almeno portati al di sopra della soglia minima di tolleranza. I direttori e le guardie hanno supplito a queste carenze andando ben oltre il loro dovere ma questo è passato da situazione estemporanea a condizione sistematica. Non si può continuare così e sarebbe ingiusto quindi fare una classifica tra le carceri perché si tratterebbe di fare una graduatoria dei "penultimi". Il primo anno senza Marco questo. Quest’anno purtroppo non ci sono stati cori a favore di Marco, ma noi tutti lo abbiamo sentito con noi, come fonte di ispirazione. Un detenuto ci ha chiesto di portare un fiore a Marco al cimitero. Sia i detenuti che gli operatori ci hanno accolto come sempre hanno accolto Marco, erano letteralmente felici che la tradizione pannelliana, direi cristiana, nel fare visita ai carcerati non si fosse interrotta durante le festività. Erano commossi e rincuorati dalla nostra presenza. "Ci sentiamo più liberi quando venite voi" ci hanno ripetuto, molte volte commossi. La presenza di Marco era unica nelle carceri ma siamo orgogliosi di poter portare il suo messaggio di speranza a tutta la comunità penitenziaria. Per la maggior parte delle persone può sembrare strano quello che dico, perché purtroppo il carcere è concepito come una discarica sociale che comporta una disumanizzazione del detenuto. Al contrario io, come il partito radicale, come il Papa stesso, credo che le carceri debbano essere luoghi dove si coltivi la speranza e non ci si abbandoni alla disperazione; solo se si incarna la speranza è possibile concepire quella finalità della Costituzione per il quale le pene devono tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale di persone, prima che di detenuti. Passiamo alla questione sovraffollamento: 54.653 reclusi per 50.228 posti nei 191 penitenziari italiani. L’impegno di Orlando per migliorare la situazioni delle carceri sta funzionando? La situazione è leggermente migliorata per il sovraffollamento, anche se si registra una tendenza all’aumento: dall’inizio del 2016 ad oggi registriamo un aumento di 1600 detenuti in tutte le carceri. Purtroppo abbiamo riscontrato altri problemi oltre a questo. Quali? Mancano progetti per rieducare il detenuto e metterlo nelle condizioni di rientrare in società senza sentirsi un emarginato e con gli strumenti per ricominciare. La mancanza forse più grave e che è strutturale in tutte le carceri è l’organico insufficiente di educatori da un lato e di magistrati di sorveglianza e dello staff a supporto del magistrato stesso dall’altro lato. Se vengono meno questi elementi è illusorio pensare di concedere pene alternative ai detenuti. La storica battaglia del Partito radicale è per un provvedimento di amnistia e indulto. Ma a tenere caldo il dibattito c’è la riforma, bloccata al Senato, della giustizia. Pannella concepiva il provvedimento di amnistia come necessario, strutturale, per una radicale riforma della giustizia, una giustizia inefficiente e lenta. La parola "amnistia" - vietata e condannata - va riabilitata. Tuttavia è un obiettivo difficile da raggiungere considerate le priorità dell’attuale classe politica dirigente. Ma quello che si può fare subito è stralciare dalla parte del Ddl sul processo penale la parte che riguarda l’ordinamento penitenziario. Il prossimo passo? Consegnare a Papa Francesco, al ministro Andrea Orlando e al Capo dello Stato Sergio Mattarella il volume "Forza Francesco, grazie Marco", in cui abbiamo raccolto le circa 20000 lettere di detenuti che ci sono arrivate in concomitanza con la marcia per l’amnistia dello scorso novembre. Detenuti stranieri obbligati a scontare la pena in Italia di Dimitri Buffa Il Tempo, 7 gennaio 2017 Circa 800 detenuti hanno chiesto di scontare la loro detenzione o un residuo di essa all'estero, nei paesi di rispettiva provenienza, nel 2016, e circa 660 l'anno prima. Ma quasi mai la burocrazia italiana arriva prima che la pena sia stata scontata per intero nel nostro paese. Con la conseguenza che la maggior parte di loro resta qui e magari rischia di tornare a contatto con il circuito della criminalità. Organizzata o meno. E tutto perché i Tribunali sono così intasati che spesso esaminano le pratiche solo anni dopo la presentazione dell'istanza. Esattamente come succede anche per i detenuti italiani che, per altri motivi, fanno le richieste più disparate. La denuncia di questa situazione paradossale viene, neanche a farlo apposta, da Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale Transnazionale, in questi giorni in tour per buona parte delle carceri italiane a portare conforto e anche a raccogliere dati e denunce. "Io non ho il numero esatto (noi de Il Tempo lo abbiamo trovato scavando nei siti del Ministero della Giustizia, ndr) ma so che mi sono fatta, insieme ai miei compagni radicali, negli ultimi due anni quasi tutti e duecentotrenta gli istituti di pena italiani e ovunque andavo trovavo qualcuno di questi detenuti stranieri in questa situazione kafkiana, cioè avere chiesto di scontare la pena all'estero o una liberazione anticipata condizionata al rientro nel paese di provenienza... e invece le loro domandine neanche arrivano sui tavoli dei magistrati, talvolta, o se e quando ci arrivano e vengono esaminate il detenuto ha già finito di scontare la pena". E ovviamente esce e fa perdere le tracce. La Bernardini dai microfoni di Radio radicale sottolinea anche un altro fatto inquietante. Molti, trai detenuti stranieri, restano per anni senza venire correttamente identificati e quindi, quando escono, devono essere trasferiti nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) perché ciò avvenga. Certo anche all'ufficio matricola prendono le impronte ma queste spesso non bastano all'identificazione in mancanza di altri precedenti. I sindacati della polizia penitenziaria come Il Sappe e il Sap, notoriamente i più polemici con le verità di repertorio dei vari titolari del Viminale o di via Arenula, a loro volta forniscono altri dati. Che rischiano di rendere la missione del ministro dell'Interno Marco Minniti in Nord Africa come qualcosa di poco più che simbolico. Sostiene, e scrive in un comunicato, ad esempio Donato Capece del Sappe, che "le espulsioni di detenuti stranieri dall'Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili: 896 nel 2011, 920 nel 2012, 955 nel 2013, 811 nel 2014, 725 nel 2015 e, nei primi sei mesi del 2016, solamente 413, prevalentemente in Albania, Marocco, Tunisia e Nigeria". E quindi? "Si spera da parte nostra che il Governo Gentiloni e il Ministero della Giustizia pongano la questione delle espulsioni dei detenuti stranieri tra le priorità di intervento". Ma se le espulsioni degli extra comunitari vanno a rilento e non si riesce a mandarli nel loro paese neanche quando lo richiedono... come se ne esce? A fine giugno 2016 i detenuti stranieri in Italia erano oltre la soglia dei 18 mila e neanche 500 di loro sono riusciti a scontare una parte di pena nei paesi di provenienza, nonostante lo abbiano domandato con regolare istanza tramite i propri avvocati. Tra le righe gli addetti ai lavori, che poi sono quelli della polizia penitenziaria oltre alle forze dell'ordine, tifano per il "deal" all'americana: quando si "beccano" stranieri per reati di micro criminalità (e se il paese di provenienza non è una feroce dittatura o una teocrazia islamica come ad esempio in Iran, Arabia Saudita, Egitto, Territori palestinesi, Siria, Sudan, Iraq, Pakistan o Nord Corea) gli si propongono ampi sconti di pena pur di tornare nei paesi di provenienza con l'impegno a non rimettere piede in Italia. In fondo sarebbe l'uovo di Colombo. Se si mandano all'estero i pentiti di mafia che hanno ucciso decine di persone, per giunta stipendiandoli a vita con le relative famiglie anche allargate, perché non accelerare le espulsioni, svuotare le carceri e i Cie da piccoli o medi spacciatori di droghe varie, autori di piccoli furti, rapine e via dicendo? Non lasciando tutto in mano alla burocrazia dei magistrati di sorveglianza, che peraltro farebbero a meno di questo onere, si risparmierebbe non solo tempo, ma anche denaro. Tanto. I dati dei suddetti sindacati di polizia penitenziaria dicono che una singola espulsione di un ladruncolo costa intorno ai 18-20 mila euro. E non c'è alcuna garanzia che dopo pochi mesi l'espulso non si ripresenti in Italia. "Sono diventato jihadista nelle carceri italiane. Ecco come ci reclutano" di Domenico Quirico Il Secolo XIX, 7 gennaio 2017 L’uomo che racconta questa storia l’ho incontrato in un viottolo di campagna vicino a Sousse. Ulivi, terra e cielo. Nessuno che potesse ascoltare. Abbiamo parlato in un furgoncino bianco, che odorava di cipolle e verdura. Precauzioni. L’uomo è tunisino, come il terrorista di Berlino. Racconta di prigioni italiane e di conversioni. Terribili assonanze. Forse il segreto della jihad sanguinaria non era in Siria o nei deserti, ma qui sotto i nostri occhi ciechi. Ecco il suo racconto. "Ecco quello che mi è rimasto in mente delle prigioni italiane, ne ho viste una infinità: Rebibbia, Civitavecchia, Firenze, Venezia, Milano. Il rumore delle porte che si chiudono è un rumore unico, come se tirassero un colpo di fucile. Ma il rumore, poi, si smorza, senza eco, i rumori di una prigione sono tetri e privi di eco. E poi, il volto del Reclutatore. Era egiziano, aveva braccia pesanti come clave e mani curate, i baffi tagliati come usano i salafiti, i radicali di Dio. Non c’era in lui alcuna traccia di senilità. La voce. Magica, ti faceva diventare un uomo. Sapeva tutto il Corano e gli hadith profetici e la sunna. Restare con lui nell’ora d’aria e di socializzazione era una festa per i sensi e per il cuore. Con lui, persino io, giovane delinquente intossicato dall’eroina, mi sentivo purificato, elevato. La Terra e il Paradiso - Al sicuro. Con lui, nessuno ti guardava male, nessuno ti giudicava. Eri libero e calmo. Tutto ti apparteneva, tutto ti spettava come seguace di Dio. Al Alim, colui che sa. Il sole che entrava a fatica nel carcere, il vento che sentivi al di là dei muri, il cielo. La voce era calda, melodiosa capace di evocare la terra e il paradiso, i versetti li pronunciava in modo lento e sfolgorante, tanto che diventavano invocazioni, quando smetteva per prender fiato gli chiedevamo: ancora, ancora. "La mia comunità non sarà mai d’accordo nell’errore". Ricordava e raccontava le storie di quando l’Islam conquistava il mondo, dei Califfi che sbaragliavano i nemici come se fossero polvere del deserto. E dell’emiro Osama, che aveva messo paura all’America. Chi ci aveva mai raccontato queste cose? Li vedevamo tutti, mi vedevo davanti a loro, mi sentivo esaltato, ispirato, arricchito di minuto in minuto, da un racconto all’altro. Gli dicevo: queste storie non le dimenticherò mai, e lui: per questo ve le affido, perché siate buoni musulmani e perché non vengano dimenticate. Eravamo in tanti in quella sezione del carcere, sapevo che lui ci sorvegliava e i suoi occhi ci benedicevano. Droga alla Garbatella - Dov’è ora? È morto. Tento qualche volta di immaginarlo avanzare con gli altri combattenti di Dio, tra le rovine di Homs, verso il luogo in fiamme da cui nessuno ritornava. No, non voglio pensarlo là. Non posso. Penso che l’incontro di un uomo con la Morte debba rimanere segreto. Preferisco distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi. E lo ricordo la prima volta che mi avvicinò in prigione: nella doccia. Chi ero io allora, vuoi sapere? Fai domande, troppe. Ma tutto è scritto nelle carte, su da voi, che cosa ti nascondo? Tutto è cominciato con un gruppo di ragazzi tunisini come me, arrivati in Italia. Un giorno, mi fanno vedere la droga, spacciavano. Era marrone e io ero sorpreso: ma nei film la droga è bianca, gli dicevo. Ho provato, era buona. Spacciavo nelle strade e la prendevo, l’eroina, spacciavo per farmi, non per diventare ricco. Alla Garbatella c’era un posto semi abbandonato, quasi in rovina. Ne avevano fatto una moschea irregolare, ma era destino che fede e droga fossero per me sempre vicini. Noi la usavamo per tagliare l’eroina e per dormire. C’era un odore pazzesco di piscio di gatti, quando eravamo fatti davamo la caccia ai gatti e li ammazzavano a bastonate. Eravamo tunisini e qualche algerino. Non era un giro grosso e così un giorno, con altri tre, decidiamo di tentare il colpo: rapinare altri spacciatori più ricchi di noi. Scegliamo i nigeriani, perché? Sono negri. Ne adeschiamo uno, proponendogli una partita di eroina a prezzo buono, quando arriva con il denaro uno di noi, tira fuori una 7,65 e prendiamo tutto. Venne fuori una sparatoria, uno dei nigeriani fu ferito gravemente. In tre giorni, ci hanno preso. Tentato omicidio, spaccio, stavolta ero nel giro grosso, ma in galera. E in regime di sorveglianza speciale, si chiamava così, mi pare. Allora: la doccia. Io la doccia la facevo nudo, dell’Islam non m’importava nulla, mi piacevano le donne con le tette grosse e il vino. Lui mi parla: "Perché fai la doccia senza mutande, siamo musulmani noi, abbiamo degli obblighi che ci impone Dio, e Dio non vuole". Ma non era una minaccia, un ordine, era una conversazione tra amici. Si vedeva che mi aveva già studiato, lui controllava tutti i nuovi, quelli che venivano da Paesi dell’Islam. Sapeva tutto: perché erano dentro, la durata della condanna, quelli che avevano pene lunghe li teneva per ultimi, aveva tempo per non farseli sfuggire, quelli più interessanti erano i tossici, sapeva se prendevano il metadone. Sapeva perfino cosa compravamo allo spesino, cibo, sigarette. Sapeva, per esempio, che io compravo vino, quello da poco prezzo, ma sempre vino era. È dalla spesa che si capisce se sei un detenuto che ha soldi o sei un poveraccio che non ha nulla, una recluta più facile per Dio. Perché lì non hai speranze, non sei nessuno senza la droga, sei un malato. Gli educatori, lo psicologo? E chi li vede mai. Aspetti qualcuno che ti prenda con sé, che ti chiami fratello nell’Islam. Ci vediamo in paradiso. I reclutatori sono persone che ti riempiono di emozioni. Simile con il simile - La seconda volta che mi parlò, fu a causa delle partite di pallone. Giocavamo a calcetto nell’ora d’aria, in genere quasi tutti in slip. E lui sempre gentile, calmo: "Sai che noi dobbiamo coprirci le gambe. Perché non vieni a pregare con noi? Non sai i versetti? Non importa, ti insegneremo. E poi, perché parli con gli italiani, kafir, questi cani di miscredenti? Non vedi come ci trattano?" In quella sezione, c’erano camorristi che avevano separato da famiglie rivali, e forse qualcuno che aveva cominciato a pentirsi. E poi slavi, romeni e serbi. L’odio tra noi e loro saliva, erano risse continue. Solo gli albanesi erano con noi, perché erano anche loro musulmani. In carcere ci si raggruppa subito, tunisini con tunisini, Islam con Islam. E poi, alla matricola arrivi e leggono da dove vieni: sei musulmano? Benvenuto! Ti metto con i tuoi, così vi tenete compagnia tra maomettani. I guardiani sono stupidi: notano che, dove ci sono quelli che pregano, tutto è tranquillo, mentre gli altri fanno risse, bevono, danno problemi. Allora, quando il Reclutatore andava dal direttore a chiedergli, umilmente, una stanza per pregare il venerdì - in fondo, noi musulmani siano gli unici che non abbiamo nulla -, quello la concedeva con gioia. Anche il cappellano del carcere era d’accordo! Tra credenti, ci si dà una mano. Usavamo la stanza del biliardino, stendevamo dei tappeti. Si pregava molto, e molto si parlava: la Palestina, l’Iraq, la Siria, il Califfato, le solite storie, guarda gli infedeli come ci rubano tutto il petrolio. Uno si convertì quando gli raccontarono che le donne cecene non chiedevano cibo o aiuti in denaro, ma solo confezioni della pillola del giorno dopo, perché i soldati russi le violentavano tutte. Ti senti vuoto - Questo è il punto essenziale: tu entri in prigione, non hai più niente, niente droga, niente soldi, ti senti vuoto, ti pare d’impazzire. È una sorta di ingombro che senti confusamente annodarsi giù, e diventare corpo nel corpo. Scopri di punto in bianco che non sei più niente, ti palpi dentro la mente, lo spessore del buio che avanza nelle viscere. Questa è la materia prima per convertire. Le celle, diciamo un pò delle celle: in dieci, quattordici. In buchi che puzzano di tutti quelli che ci hanno vissuto dentro. È lì che vivi. Al mattino alle 8,30 la doccia, se è giorno stabilito, poi più nulla, fino alle 12, quando passa il carrello del cibo. Al pomeriggio, due ore d’aria, torni in cella, la conta, ti resta un’ora di socialità, passi da una cella all’altra, prima che chiudano. Non fai niente, magari per anni, perché c’è la graduatoria prima di diventare scopino o porta vitto: parli, parli e vedi la tv, sempre accesa, e vedi gli attentati, gli americani sgozzati, le bandiere con i segni islamici sulle città conquistate, e cominci a fare il tifo per Bin Laden, per il Califfo, per i vendicatori. Parla calmo e gentile - E il Reclutatore parla sempre, calmo e gentile: dice che la religione vera non è quella che abbiamo imparato da piccoli, che siamo nati per una missione, combattere per il Profeta. È la jihad della comunicazione questa, la jihad della parola, più efficace delle bombe. Lui sceglie proprio i peggiori, quelli più istupiditi dalla droga e quelli poveri, a cui non arriva mai nulla dall’esterno. Offre buoni piatti di cibo, regali. I soldi non mancano, accrediti postali da spendere allo spaccio interno, che non destano sospetti. E poi ci sono i telefonini. Dal carcere i Reclutatori sono in contatto continuo con i loro confratelli, per avere i telefoni corrompono una guardia o qualche volontario ingenuo di buona volontà: devo chiamare la mia famiglia, non li sento da anni, e con il telefono fai tutto. Li si nasconde nel water per sfuggire alle ispezioni, basta svitare due bulloni, togli la memoria e lo avvolgi accuratamente in modo che non si danneggino. Oppure nel frigorifero, tra la verdura che non permette, in caso di scoperta, di risalire a un detenuto. Il Reclutatore è in carcere sempre per reati in fondo minori: documenti falsi, detenzione di un’arma. La sua è una missione specifica. Si diventa emiri così: più conversioni ottieni in prigione e più sali nelle gerarchie della jihad. La violenza se sgarri - Se ti opponi, se sgarri, c’è la violenza. Un giorno, all’inizio, devo incontrare l’avvocato, prima di andare in parlatorio, bevo due sorsi di Tavernello, ti ho detto che mi piaceva il vino. Sulle scale incontro il Predicatore, lui scende, io salgo. Mi chino per omaggiarlo e lui sente subito l’odore del vino: miscredente, infame, attento a non rifarlo. Mi hanno picchiato, non so come sono rimasto vivo. Voi non capite niente: sempre a ragionare, ma quelli sono drogati, spacciatori, cosa c’entra l’Islam? La droga, il vizio, tutto ciò che disonora, ha in certi esseri un potere eguale a quello della fede: la stessa disperazione cerca diverse profondità. Milano è un posto importante della jihad e dello spaccio. Hanno emanato a Milano una fatwa: la droga potete venderla, per fare soldi per la causa, e poi quelli che crepano sono i figli dei miscredenti, che vadano in malora. Sui sacchetti di eroina scrivono la frase del Corano: in nome di Dio, cominciamo. Quando passa la polizia e tu sei lì che spacci, ti insegnano un versetto del Corano da dire: "Dio ha alzato una barriera attorno a noi per difenderci. I nostri nemici sono ciechi". E quelli sono convinti davvero che, per la polizia, loro sono invisibili. Quando sono entrato in carcere la prima volta, quelli che pregavano erano forse il cinque per cento, ora sono la maggioranza. E quelli che resistono sono pochi e senza aiuto. Un tunisino che aveva denunciato le violenze e le minacce di morte dei salafiti al capo delle guardie si è sentito rispondere: che posso fare? Portarti a casa mia? Dio vi acceca e non vi lascia immaginare l’unica misura efficace, infiltrare detenuti musulmani che siano con voi e far cadere tutta l’organizzazione interna. Noi possiamo mentire, comportarci in modo empio, per ingannarvi meglio. Voi non comprendete che la grazia e il peccato sono spesso molto vicini. A proposito: non ti è venuto il dubbio che io potrei essere il Reclutatore?". "Io, ex detenuto, mi sono salvato dal radicalismo" di Diego Motta Avvenire, 7 gennaio 2017 Samad: in cella sono le "conversioni" fulminanti le più pericolose. Samad Bannaq ha 27 anni, è musulmano di origini marocchine ed è stato in carcere. Era detenuto alla Dozza di Bologna quando, nel 2012, il terremoto colpì l’Emilia. Ricorda ancora bene l’esultanza dei compagni di cella, che gridavano "Allah akhbar", "Dio è grande" perché avevano interpretato la scossa come un segnale di giustizia divina contro gli infedeli. Samad è stato il protagonista di "Dustur", che in arabo significa "Costituzione", un documentario che ha raccontato un percorso di incontro possibile, avvenuto nel penitenziario bolognese, tra la cultura occidentale e i nuovi arrivati dell’islam che si sono macchiati di reati. Un progetto che ha dimostrato come sia possibile una risposta alta contro il diffondersi del radicalismo. Del resto, che le carceri italiane fossero l’incubatore di fenomeni di estremismo è noto da tempo e lo hanno confermato ieri a Palazzo Chigi i massimi vertici del governo, che hanno indicato proprio nella fase della reclusione uno dei momenti-chiave per la svolta fondamentalista di tanti: centinaia in Italia, molti di più in Europa. La cronaca stessa ha raccontato, recentemente, la deriva islamista intrapresa in cella dal protagonista della strage di Berlino, Anis Amri, poi ucciso in Italia. "Dietro le sbarre ho visto conversioni fulminanti - racconta oggi Samad. Persone a lungo perse nell’alcol e nella solitudine, diventate improvvisamente fanatiche. Gente che si faceva crescere barbe lunghissime, che non parlava più con nessuno. Sono i cambiamenti repentini i più pericolosi". La storia di questo ragazzo che ha scontato la sua pena e ora studia giurisprudenza, girando scuole e teatri per narrare la sua esperienza, dice invece che un cambio di prospettiva avviene solo grazie all’incontro con le persone giuste. Ma per comprendere come sia possibile prevenire i rischi di radicalizzazione in carcere, occorre partire dall’inizio della storia. Arresto, abbandono e derive - Degli inizi della sua vita precedente, Samad ricorda tutto: l’arresto in Francia, al confine con la Germania, per traffico internazionale di droga, l’appellativo con cui lo chiamavano Oltralpe ("mi dicevano, monsieur Bannaq. Perché signore, mi chiedevo, con quello che ho fatto?") la resistenza iniziale a qualsiasi tentativo di redenzione. Poi la convivenza, recluso in pochi metri quadrati, con altri quattro detenuti. "In carcere spesso si è abbandonati da tutti e diventa inevitabile aggrapparsi a qualcosa di immateriale e di spirituale. Senza guide religiose vere e riconosciute, si finisce alla deriva. Così io, che ero colpevole, mi sentivo una vittima. Era come vivere dentro una morsa: da un lato c’era la società che non faceva che opprimermi con la giusta privazione della libertà, dall’altro sperimentavo l’isolamento. Così, decidi di aggrapparti a quello che c’è, hai bisogno di un branco che in un modo o nell’altro ti accolga". È il momento più pericoloso nei percorsi di radicalizzazione, quello in cui per superare una grande fragilità personale ci si attacca a qualcosa di altro. Non conta se si di puro delirio pseudoreligioso. "Basta che chiunque si autoproclami come imam, perché chi è più debole decida di seguirlo senza capire più nulla. Ci si affida a chi c’è, magari è il detenuto che ha la condanna più lunga e dice di aver già letto il Corano. Succede il venerdì, quando c’è il sermone. Il problema è che manca una guida vera dell’islam dietro le sbarre. I cattolici hanno un prete, un cappellano. Noi no, eppure siamo obbligati ad ascoltare gente spesso analfabeta, che mischia conoscenze sommarie a considerazioni sull’attualità. Nulla di oggettivo, ovviamente, ma su alcuni faceva presa". Messaggio agli aspiranti jihadisti - Il dualismo tra "noi" che siamo dentro e "loro" che stanno fuori aumenta, prima è impercettibile e poi esplode fragorosamente. Anche Samad ha corso questo rischio, non ha paura ad ammetterlo. "Stavo già disegnando la mia mappa criminale, pensavo ad evadere e a uscire dal carcere. Poi ho trovato chi, per fortuna, mi ha aperto la mente e ha cambiato la mia vita". È l’incontro con Pier Cesare Bori, storico delle religioni oggi scomparso. "Lui ha cambiato la mia prospettiva: non mi faceva la predica, come gli altri. Mi ha fatto conoscere me stesso, mi ha detto: puoi usare i tuoi talenti e puoi raggiungere i tuoi obiettivi. Discutevamo di filosofia, di religione, dell’esistenza di Dio. Senza approssimazioni". Qui si interrompe tutto e la possibile deriva viene disinnescata. Samad cambia radicalmente la strada, conosce un altro educatore che continua con lui il lavoro fatto in precedenza: è fratel Ignazio De Francesco, un monaco dossettiano. "Il ruolo dell’educatore è stato molto importante per me" dice oggi il giovane. Tre anni e tre mesi dopo, al termine della pena, il ragazzo esce dal carcere diverso da come era entrato. Oggi ripete a tutti che "quello che vedete, quello che dice il Daesh non è l’islam. E i jihadisti buttano via la loro vita e quella dei loro familiari". Nel percorso di deradicalizzazione è stato cruciale il confronto con la Costituzione italiana, "un modello esemplare da conoscere e da far conoscere, a noi stranieri e anche ai giovani italiani. Ho scoperto che l’integrazione può partire da quei precetti fondamentali. Nelle scuole, innanzitutto". Nella legge degli uomini e per gli uomini, c’è scritto secondo Samad quel che possiamo fare insieme. "È una cosa meravigliosa, l’esatto contrario di tanti proclami carichi d’odio che ho sentito in cella e che vedo rilanciati nei messaggi letti alle tv. Una ricetta contro il rischio del diffondersi del jihadismo? Prendersi cura delle persone, educare e non solo reprimere. Dobbiamo piantare un albero ed accudirlo. Ci vorrà tempo, sarà faticoso e magari non vedremo subito i risultati. Ma alla fine i frutti saranno migliori di quelli del tempo presente". Terrorismo, in arrivo la legge anti-proseliti di Sara Menafra Il Messaggero, 7 gennaio 2017 Entro febbraio in aula il testo. Presto Minniti in Commissione. Un testo sul quale lavorare già c’è, ma ora l’intenzione del titolare del Viminale Marco Minniti, d’accordo con i parlamentari della maggioranza è integrare il primo testo con i risultati della commissione sulla radicalizzazione che proprio due giorni fa ha consegnato il risultato del proprio lavoro allo stesso Minniti e al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Il documento elaborato da una commissione presieduta dal professor Lorenzo Vidino e della quale hanno fatto parte ricercatori e giornalisti esperti del fenomeno fa un quadro della radicalizzazione in Italia, identificando, ad esempio, i 110 foreign fighters partiti dal nostro paese e i 17 tornati, dei quali 6 attualmente presenti sul nostro territorio. Ma, soprattutto, parla della difficoltà che operatori sociali e istituzioni hanno quando un individuo si radicalizza o appare affascinato dal fenomeno e, specie se è minorenne, gli strumenti repressivi non possono essere applicati o risultano comunque insufficienti: "È questa la situazione di stallo che attanaglia le forze dell’ordine e di intelligence di ogni paese democratico: cosa fare con un soggetto che non compie nessuna attività penalmente rilevante ma che comunque è chiaramente radicalizzato?", si legge nel documento che cita il caso di giovani di nazionalità italiana il cui radicamento era stato segnalato alle autorità ma che sono comunque partiti per andare a combattere in Siria senza che ci fossero gli strumenti adeguati per fermarli. E propone, dunque, di intervenire con piani di contrasto della radicalizzazione, la cosiddetta, Cve, che in altri paesi europei hanno dato buoni risultati e per i quali le Nazioni unite hanno scritto delle linee guida segnalando l’importanza di strumenti di questo tipo che includono campagne sui social e presenza sul territorio di iniziative anti radicalizzazione destinate soprattutto ai giovani. Un testo di legge sugli strumenti di prevenzione del Radicalismo in Italia che potrebbe essere la base per inserire anche interventi di questo tipo esiste già, primi firmatari Stefano Dambruoso di Scelta civica e Andrea Manciulli del Pd e proprio nelle prossime settimane potrebbe riprendere il proprio iter nella commissione affari costituzionali. Una ipotesi per trasformare i suggerimenti della commissione sulla radicalizzazione in un provvedimento operativo in tempi rapidi è che la legge attualmente in discussione includa i suggerimenti della commissione. "Valuteremo le conclusioni della commissione voluta dal premier e dagli Interni", dice il responsabile sicurezza del Pd Emanuele Fiano: "Legge e approfondimenti dei commissari hanno viaggiato di pari passo". Nelle prossime settimane, la commissione Affari costituzionali dovrebbe convocare il ministro Marco Minniti per parlare proprio del testo di legge in discussione. E quella potrebbe essere la sede per far converge i due progetti. Intanto, il capo della polizia Franco Gabrielli è intervenuto anche a proposito dei dati diffusi negli ultimi giorni sulla presenza di gruppi di simpatizzanti con la jihad attivi in Italia. "Tutti gli aspetti vanno presi con la dovuta cautela, per quanto ci riguarda - ha detto - al fine di non sottovalutarli, ma nemmeno perché vengano amplificati. Intelligence e controllo del territorio sono i due pilastri con i quali si costruisce il sistema della sicurezza del nostro paese". Una centrale operativa a Palazzo Chigi contro il pericolo islamista di Francesca Schianchi Il Secolo XIX, 7 gennaio 2017 Un Centro Nazionale sulla Radicalizzazione, denominato Cnr, da creare "in seno a Palazzo Chigi", composto da esperti, psicologi, assistenti sociali, forze dell’ordine. Seguendo l’esperienza di Paesi che già hanno una struttura simile, ci si potrebbe avvalere anche dell’aiuto di ex militanti. E poi venti Centri di Coordinamento della Radicalizzazione a livello regionale, Ccr, formati da un numero ridotto di membri (tra 5 e 8): radar sul territorio e punto di riferimento per chiunque colga segnali di radicalismo in un figlio, un amico, un vicino di casa. È questa la proposta principale presentata al governo dalla Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, istituita quattro mesi fa e incontrata ieri l’altro dal premier Gentiloni. Un’idea "altamente consigliabile", contenuta in una bozza riservata della relazione del gruppo di studio, che Palazzo Chigi e Viminale stanno valutando con molto interesse. Per quanto i numeri della radicalizzazione nel nostro Paese non siano paragonabili a quelli di alcuni vicini europei (110 foreign fighter contro i 1500 francesi) "anche in Italia è presente una scena informale che, con vari livelli di intensità, adotta l’ideologia jihadista", si legge: non basta più il sia pur necessario contrasto tramite arresti ed espulsioni; servono anche, raccomandano i 19 esperti, politiche non repressive che prevengano la radicalizzazione. Ecco allora la proposta: non solo l’invito a una "contro narrativa" (e magari alla creazione di un "portale multimediale gestito dalla Rai" con programmi di musica e sport capaci di veicolare messaggi di tolleranza e integrazione), ma anche una struttura di lavoro che abbia la sua centrale operativa direttamente a Palazzo Chigi, sede del governo, e da lì garantisca unità di intenti e coordinamento ai centri regionali. Ai quali spetta il compito più delicato: guadagnare la fiducia e fare rete con i soggetti locali - dalla scuola alle comunità islamiche - che possono venire a conoscenza di fenomeni di radicalizzazione, e essere per loro un referente. Per evitare quello che, racconta la relazione, successe tre anni fa nel Milanese, quando un paio di comunità per minori notarono segnali strani in due giovani originari del Marocco, ne parlarono a servizi sociali e Tribunale, ma, non avendo i ragazzi commesso reati, nulla si poté fare. Entrambi sono partiti per combattere in Siria con l’Isis, uno di loro è morto. E che fare nel caso in cui un Centro regionale abbia una segnalazione? Nel percorso che la Commissione sottopone al governo, a quel punto bisogna individuare un mentore, una persona con "profonda conoscenza religiosa" capace di conquistare la fiducia del soggetto per distoglierlo dall’ideologia jihadista. Un lavoro lungo, ma non impossibile, come dimostra la storia di un olandese di origini marocchine deradicalizzato con l’aiuto di due mentori: oggi lui gira per incontri e seminari a raccontare la sua storia. Questa, secondo la Commissione, la strada da affiancare a quella di polizia. Tutta da impostare, ma ritenuta necessaria. E, sottolineano gli esperti, dal costo "molto più basso di quello supportato per la normale attività investigativa, processuale e detentiva". Reggio Calabria: tre anni in cella da innocente, nel frattempo le sue aziende sono fallite di Francesco Altomonte Il Dubbio, 7 gennaio 2017 Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi presenta il conto allo Stato. Un conto salato. Attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Putrino, l’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. La stessa somma è stata richiesta anche dal fratello di Galimi, Pasquale, coinvolto nell’inchiesta per una presunta questione di armi non provata durante il dibattimento. L’inchiesta - I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria denominata "Cosa mia", nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria nel cosiddetto V macrolotto, quello compreso tra lo svincolo di Gioia Tauro e di Scilla. Secondo la Dda, che ha coordinato le indagini della Squadra mobile, la ditta Galimi era riconducibile ai Gallico e grazie alle due aziende, il clan sarebbe riuscito a aggiudicarsi alcuni appalti peri lavori sull’autostrada. Vincenzo Galimi, per l’accusa titolare di fatto della ditta "Galimi" intestata al figlio Giuseppe, secondo i pm avrebbe messo a disposizione dei Gallico la sua azienda, consentendo l’infiltrazione sia nei lavori di ristrutturazione dell’A3, sia in quelli di manutenzione e somma urgenza del Comune di Palmi. Il processo - Alla fine del processo di primo grado, la Procura ha chiesto una condanna a 16 anni di carcere. Ma a prevalere è stata la linea della difesa: Vincenzo Galimi aveva pieno titolo a avere rapporti con le ditte e le amministrazioni pubbliche, non solo perché fosse dipendente della stessa, ma anche perché era stato nominato procuratore speciale dell’azienda Galimi con vari poteri. La società, prima del sequestro del 2010, assumeva decine di operai e aveva appalti per svariate centinaia di migliaia di euro, oltre a mezzi tecnici per milioni di euro. Il giorno della sentenza di assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, la Corte d’assise di Palmi ha disposto la restituzione dell’intero patrimonio aziendale. Che a quel punto, però, era ridotto a poca cosa. Nel corso del processo di primo grado la Procura aveva chiamato a deporre l’imprenditore e testimone di giustizia Gaetano Saffioti, che negli anni 90 si ribellò alle imposizioni del clan Gallico denunciando estorsioni e facendo nascere il processo denominato "Tallone d’Achille". Mentre per altri imprenditori attivi nel movimento terra Saffioti fu in grado di collegarli alla cosca Gallico, per Galimi disse: "Credo che siano imprenditori che si sono adeguati al sistema, ma non so se siano collegati alla ‘ ndrangheta". Dopo l’assoluzione in primo grado è arrivata anche quella in secondo grado, non appellata dalla procura generale. Una decisione che ha portato le misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria alla revoca della misura di 3 anni imposta dal Tribunale dopo la sentenza di primo grado. E subito dopo la maxi richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione, mentre per quella relativa alle aziende è ancora in fase di quantificazione da parte dei periti nominati dalla difesa. Crotone: arrestati i 2 detenuti evasi un mese fa dopo un permesso dal carcere di Voghera La Repubblica, 7 gennaio 2017 Sono stati bloccati all'arrivo di un pullman di linea dal Nord Italia. Uno è stato condannato all'ergastolo ed è un collaboratore di giustizia, l'altro deve scontare 40 anni. Una fuga lunga un mese. Finita a Crotone. termina con la cattura la latitanza dei due detenuti, tra cui un ergastolano, evasi lo scorso 12 dicembre dal carcere di Voghera. I due, Alessandro Covelli, collaboratore di giustizia, e Tommaso Biamonte, entrambi 60enni, a dicembre non avevano fatto rientro in carcere dopo un permesso premio. Biamonte e Covelli sono stati arrestati venerdì appena scesi da un pullman di linea arrivati dal Nord Italia. Alla vista dei poliziotti, guidati dal questore Claudio Sanfilippo, i due evasi hanno parlato di uno "scambio di persona" ma poi hanno ammesso la loro vera identità. Alessandro Covelli, collaboratore di giustizia calabrese, non aveva fatto rientro nel carcere di Voghera da cui aveva ottenuto un permesso premio per andare a trovare l'anziana madre. L'uomo aveva fatto perdere le proprie tracce dopo un violento litigio con un albergatore del centro di Torino, dove si trovava contravvenendo alle disposizioni del tribunale di Sorveglianza. Covelli, che sta scontando una condanna a 40 anni, aveva ottenuto un permesso premio di quattro giorni dal magistrato di sorveglianza. Si era così recato nella zona di Ivrea, dove abita la madre: doveva rientrare il 12 dicembre ma non si era presentato alla casa circondariale di Voghera. Al momento dell'arresto i due avevano una pistola scacciacani caricata a salve. Covelli nel 2005 era già evaso dalla Dozza, il carcere di Bologna, approfittando della semilibertà. In quell'occasione aveva commesso un altro crimine, la rapina a un supermercato: fu subito trovato dalle forze dell'ordine e arrestato. Il suo nome è molto noto a Crotone, città di cui è originario. Negli anni Ottanta infatti, era considerato il capo di una 'ndrina locale dedita al traffico di stupefacenti. Biamonte, invece, doveva scontare una condanna all'ergastolo per omicidio. Trieste: detenuto con gravi problemi psichiatrici tenta il suicidio per la seconda volta triesteprima.it, 7 gennaio 2017 Salvato dagli agenti della Polizia penitenziaria. L'Ugl-Pp: "In un momento di gravissima carenza di personale, gli operatori non mancano di distinguersi per senso del dovere e professionalità. Bisogna al più presto affrontata in termini operativi l'apertura delle Rems". Ieri pomeriggio, venerdì 6 gennaio, nella carcere triestino, il personale di sorveglianza del reparto di isolamento, durante un consueto giro di controllo, ha sorpreso un detenuto appeso a una mensola di metallo: ha usato le poche cose a disposizione per crearsi un cappio e cercare di farla finita. Per fortuna però sono intervenuti prontamente, ancora una volta, gli agenti della Polizia penitenziaria che lo hanno salvato. "Le segreterie provinciale e locale Ugl-Pp esprimono il loro riconoscimento per l’operato dei poliziotti penitenziari i quali, in un momento di gravissima carenza di personale, non mancano di distinguersi per senso del dovere e professionalità - si legge in una nota del sindacato. Oltre ad esprimere orgoglio per l’operato dei colleghi, la segreteria vuole nuovamente evidenziare le grandi difficoltà con cui la Polizia penitenziaria riesce ogni giorno a trattare con fermezza e umanità casi come quello del protagonista di questa vicenda, che aveva già tentato il suicidio non più di tre settimane fa. È necessario, però, che sia coordinato in modo sempre più accurato un lavoro in rete affinché le istituzioni che si prendono in carico queste persone con gravissimi problemi di salute mentale, rispondano in modo appropriato alle esigenze terapeutiche delle stesse, anche all’interno di un carcere". "Sarebbe opportuno - sottolinea l'Ugl-Pp - che venisse al più presto affrontata in termini operativi l’apertura delle Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) in tutto il territorio nazionale al fine di garantire la cura del soggetto reo nel rispetto della sua dignità e salute con interventi terapeutici individualizzati e appropriati per ogni singolo caso, evitando quanto più possibile situazioni come quella verificatasi ieri nel carcere di Trieste". Sassari: incendio nel carcere di Bancali, detenuto dà fuoco al materasso sardegnalive.net, 7 gennaio 2017 Un incendio è divampato nella notte, intorno alle 2:00, in una cella del carcere di Bancali a Sassari. A prendere fuoco è stato un materasso incendiato da un detenuto. Una grande nube di fumo ha interessato un’intera sezione del penitenziario: i 31 detenuti presenti sono stati fatti evacuare. Tre agenti sono rimasti intossicati dal fumo dei materassi e dal materiale sparato dagli estintori. Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti con coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari. "Lodevole l'operato dei colleghi che, benché in pochi, hanno salvato la vita di tutti, portando i detenuti nel locale passeggi - ha spiegato l’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria -. Nonostante il dottore presente in Istituto gli abbia consigliato di abbandonare il servizio, gli agenti con grande senso di responsabilità lo hanno condotto sino alla fine". "Come sempre - sottolinea l’Uspp - dobbiamo rilevare che la responsabilità dell'Istituto cade su un Assistente capo lasciato solo davanti a decisioni rilevanti (di notte è difficile reperire comandante e direttore). Si disconoscono le misure che si sarebbero dovute prendere ai sensi della legge 81/08, e si ribadisce la mancanza di personale. Nonostante ciò si continua a far crescere per numeri e qualità il Carcere di Sassari il quale ha il triste vanto di sezioni A.S.2, sezioni circondariali, sezioni femminili, di reclusione, protetti, 41bis, semiliberi e isolamento vanto per i vertici, ma per i poliziotti che sono sempre pochi soprattutto in situazioni critiche come questa". Palermo: Pino Apprendi (Pd) in visita alla Casa circondariale di Termini Imerese Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2017 Continua l'attività nelle carceri siciliane di Pino Apprendi, deputato all'Ars e esponente di Antigone. "Il carcere dei Cavallacci di Termini Imerese è una struttura che risale al 1914, oltre 100 anni di vita, inadeguata nonostante gli encomiabili sforzi della direttrice e del personale. Un progetto prevede la ristrutturazione di tutte le celle, alcune già hanno avuto realizzato il servizio igienico e la doccia. Rimane il problema del sovraffollamento, le presenze effettive, 105 al momento, vanno oltre la tollerabilità che è prevista in 98 unità a fronte di 77 presenze previste. Nessuno dei detenuti fruisce dell'articolo 21, che prevede la possibilità di lavorare fuori dal carcere, malgrado la direzione del carcere abbia cercato una interlocuzione con il comune di Termini Imerese. È stato creato un ampio spazio esterno "area verde" per i bambini e uno spazio interno attrezzato. La presenza degli extracomunitari è in linea con il dato nazionale, 30, su 105, fruisce di una convenzione con un mediatore culturale, poche le ore per lo psicologo, 20 ore al mese. Alla polizia penitenziaria mancano 26 unità dall'organico, sono 84 a fronte di una previsione di 110 e non è previsto alcun incremento. Arresti domiciliari e pene alternative al carcere, sono le condizioni indispensabili che devono crearsi per smaltire il sovraffollamento nelle carceri". Palermo: "Buone feste a tutti i detenuti. Amnistia", la Questura rimuove lo striscione palermotoday.it, 7 gennaio 2017 Il messaggio ad opera degli attivisti di Anomalia non è piaciuto alle forze dell'ordine. Era stato affisso sulla saracinesca del panificio Imperia, in piazza Alfano. "Buone feste a tutti i detenuti. Amnistia". Lo striscione, realizzato dai ragazzi del centro sociale Anomalia e comparso negli scorsi giorni in piazza al Borgo Vecchio, adesso è stato rimosso dalle forze dell'ordine. Oltre agli auguri nello striscione era apparso anche un chiaro auspicio per il futuro dei detenuti, con un parola - "Amnistia" - che evidentemente non è piaciuto. Lo striscione era stato affisso sulla saracinesca del panificio Imperia, in Piazza Alfano. "Ogni anno - si difendono da Anomalia - abbiamo scelto di salutare ed esprimere solidarietà alle famiglie ed ai carcerati stessi in occasione delle feste natalizie. La nostra è una scelta politica e umana che vuole esprimere vicinanza oltre che denunciare la condizione delle carceri in Italia che rende ancora più dura la permanenza in galera. Dalla Commissione europea alle associazioni umanitarie, passando per gli appelli dell'attuale Papa, il tema dell'amnistia assume oggi centralità politica. Il sovraffollamento e la pessima condizione strutturale degli istituti meritano riflessione e interventi reali da parte della politica". Quindi la chiusura: "Rimuovendo il nostro striscione, le forze dell'ordine si assumono prerogative che non le sono proprie e scelgono di interpretare un ruolo politico che nessuno ha chiesto di assumere; si contraddistinguono per iniziative politicamente arbitrarie e disumanizzanti in termini delle relazioni sociali. Di realmente "inopportuno" è quindi proprio il loro modus operandi. E, da parte nostra, anche se le feste sono ormai concluse: Buone feste a tutti i detenuti. Amnistia". Giudici schierati sul fronte migranti: ecco il ddl Orlando di Errico Novi Il Dubbio, 7 gennaio 2017 Il ministro invia a Palazzo Chigi il testo sui richiedenti asilo. Come in guerra: magistrati al fronte. Non militare ma umanitario. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando trasmette a Palazzo Chigi il ddl migranti. Il testo messo a punto da via Arenula riguarda i procedimenti in materia di protezione internazionale e introduce norme dal significato emergenziale: in particolare l’istituzione in 12 tribunali distrettuali di sezioni speciali esclusivamente preposte al contenzioso sulle richieste d’asilo, con possibili applicazioni extra-distrettuali di magistrati fino a un massimo di 20 unità per sede. Il tutto sarà a breve integrato con un secondo ddl, messo a punto dal ministro dell’Interno Marco Minniti, che definirà tra l’altro l’annunciata delocalizzazione dei Cie in tutte le regioni. Si formerà così un un unico pacchetto immigrazione. In cui comunque il versante relativo alla giustizia avrà un peso enorme. Da una parte le sezioni specializzate alle quali, diversamente da quanto avviene oggi, non potranno essere affidati altri affari: le 12 sedi in cui saranno costituite sono Roma, Bari, Catanzaro, Catania, Palermo, Milano, Venezia, Firenze, Salerno, Bologna, Torino e Cagliari. Dall’altra parte la prevista soppressione del giudizio d’appello. Resta però la possibilità di ricorrere in Cassazione entro 6 mesi. Considerato il possibile aumento della popolazione carceraria, sarà aumentato di 887 unità l’organico della polizia penitenziaria. Sembrano misure di guerra se si considera che le forze della magistratura destinate all’immigrazione verranno sottratte appunto a questioni come lo smaltimento dell’arretrato civile, per le quali spesso l’Italia è censurata dai partner europei e dagli organismi internazionali. Pur di fronteggiare la nuova emergenza il governo italiano ritiene dunque di poter sacrificare in parte l’efficienza complessiva della macchina giudiziaria. D’altronde le statistiche dimostrano come l’allarme umanitario legato all’immigrazione abbia un pesantissimo risvolto giudiziario, che il sistema non riesce più a controllare: nella relazione introduttiva del ddl Orlando si ricorda come nell’anno appena trascorso ci sia stata una crescita esponenziale delle impugnazioni proposte dagli aspiranti rifugiati, fino al 300% in più in tribunali come quelli di Milano, addirittura superiore in altre sedi come Ancona e Catania. Nel capoluogo lombardo i procedimenti aperti nel 2015 dai richiedenti asilo erano 1674, l’anno scorso sono stati 400 al mese: vuol dire che nell’intero 2016 se ne conteranno poco meno di 5000, il 300% in più appunto. I dati sono incredibilmente allarmanti. Sembrano giustificare sia la "dislocazione" di magistrati sulla nuova emergenza sia la scelta di abolire l’appello, anche se quest’ultima rischia di rivelarsi incostituzionale. Spetterà ora al ministero dell’Interno integrare le misure con le norme sui Cie: l’intero pacchetto sarà innanzitutto sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni il prossimo 19 gennaio. In quella sede probabilmente saranno individuate misure da stralciare e destinare a un decreto legge. In tal modo il governo riuscirebbe a battere sul tempo il Csm, da mesi impegnato sulla stessa materia. In particolare la Settima commissione presieduta dal togato di Mi Claudio Galoppi ha quasi concluso un monitoraggio sui carichi di lavoro nei tribunali distrettuali, quelli dei "capoluoghi" dei distretti di Corte d’Appello, preposti oggi a definire i procedimenti sulle richieste d’asilo. "L’obiettivo è individuare buone pratiche per accelerare procedure e decisioni", spiega Galoppi. In particolare si vuole incoraggiare la specializzazione dei magistrati sulla complessa materia. Le "linee guida" saranno catalogate in una circolare della stessa commissione. Nell’ultima seduta prenatalizia il plenum ha già approvato una delibera favorevole al progetto organizzativo della presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano, che ha disposto il rafforzamento della sezione immigrazione del tribunale con l’applicazione temporanea di magistrati provenienti da tutte le sedi del distretto. Nello specifico, il Csm si è mosso nonostante il Consiglio giudiziario di Firenze avesse bocciato il progetto. Gran parte della magistratura ritiene evidentemente pericoloso dirottare risorse dal già impegnativo fonte dell’arretrato civile e penale. Ma l’emergenza è tale da doverci passare sopra, almeno secondo il governo. In realtà il Csm rischia di arrivare al traguardo anche prima del Parlamento. A meno che l’esecutivo non decida davvero di utilizzare, per gran parte delle norme, la via della decretazione d’urgenza. Nuovo modello di asilo: via i ricorsi al giudice contro le espulsioni di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 7 gennaio 2017 La nostra Africa. In arrivo un disegno di legge con 17 articoli dal ministro Orlando Bruxelles plaude alla riapertura dei Cie e Frontex cofinanzia i voli. Aumentare i luoghi di detenzione di "migranti irregolari" prima del rimpatrio, il nuovo verbo del governo italiano in materia di immigrazione, piace a Bruxelles. Senza indulgere in aggettivazioni, il portavoce della Commissione Junker ieri "accetta" - ma di fatto plaude - le direttive del nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti. Anzi, fa sapere che finora i "luoghi dedicati a questo scopo attualmente attivi in Italia" erano giudicati insufficienti "allo scopo di velocizzare il processo delle richieste d’asilo e di incrementare i rimpatri di chi non ha i requisiti per accedere alla protezione internazionale". L’Agenzia europea Frontex, adibita al controllo delle frontiere esterne all’area Schengen fa sapere che il 2016 è stato l’anno più caldo degli sbarchi in Italia con il record di 181 mila arrivi, in particolare dall’Africa occidentale (soprattutto dalla Nigeria, seguita da Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio e Gambia nell’ordine) sulla rotta del Mediterraneo centrale. Frontex ricorda che in virtù dell’accordo Ue-Turchia (costato 6 miliardi di euro) per sigillare le sue frontiere e dei muri eretti lungo la rotta balcanica, in Grecia dal marzo scorso non è arrivato più quasi nessun siriano, afgano o iracheno. Tradotto significa che l’Europa può esultare di aver sbattuto le porte in faccia e buttato la chiave di fronte a chi fugge dalle guerre, inclusi tutti i vari Aylan Kurdi su cui il web e vari politici nostrani continuano a piangere lacrime di coccodrillo. L’afflusso dall’Africa verso i lidi italiani viene definito da Frontex "una pressione migratoria costante". L’agenzia negli ultimi mesi si è attivata in modo straordinario nel coordinamento delle operazioni di rimpatrio congiunte dei migranti che non hanno ottenuto un permesso di soggiorno: voli charter verso paesi terzi con cui esistono accordi di riammissione (con l’Ue oltre alla Turchia, il Niger, la Nigeria, il Senegal, il Mali e l’Etiopia) . Su questi aerei noleggiati devono trovare posto le persone espulse per ordine di un tribunale o di una autorità amministrativa competente, quindi sotto scorta, magari perché ritornati dopo essere già stati espulsi. Il Paese che organizza il volo supervisiona il trasferimento ma Frontex partecipa ai costi attraverso un apposito "fondo europeo per i rimpatri". Le domande d’asilo rifiutate dagli Stati a livello europeo sono circa la metà di quelle presentate: circa 250 mila persone l’anno, che secondo Frontex potrebbero essere soggette a ordine di rimpatrio, su mezzo milione che attraversano le frontiere europee "in modo irregolare". Il reclamato boom delle espulsioni ha però finora un freno: gli avvocati. Il Ministero della Giustizia guidato da Andrea Orlando ha fatto i conti sulle impugnazioni in sede giurisdizionale contro i dinieghi alle domande di asilo delle Commissioni territoriali amministrative sostenendo che sono troppe. E in crescita "esponenziale". La relazione del ministero di via Arenula contiene una sorta di lista "nera" delle Corti di appello che detengono il primato dei ricorsi in esame: il Tribunale di Milano con circa 400 procedimenti iscritti al mese è il primo della lista, quasi a pari merito con Torino (circa 350 al mese nel 2016) ma anche Catania, Ancona, Caltanissetta, Catanzaro, Cagliari, Firenze hanno accettato di aprire molti più fascicoli di riesame delle pratiche (il 300% in più rispetto al 2014) . Cosa fa dunque il governo Gentiloni e lo stesso Orlando? Palazzo Chigi annuncia di aver messo a punto un provvedimento - un ddl di 17 articoli - con l’obiettivo dichiarato di "accelerare le procedure delle domande d’asilo" che elimina la fase di appello. E pure l’esame in udienza, ad esempio delle registrazioni del colloquio davanti alla Commissione territoriale, dove spesso si vedrebbe che il migrante neanche viene ascoltato o che non viene tradotto. In caso di diniego si potrà ancora portare la questione di fronte al giudice ma il Tribunale deciderà un no o un sì solo con decreto camerale. E "il decreto non è reclamabile", si legge nel ddl. Il Tribunale dovrà decidere entro sei mesi e il ricorso si potrà presentare solo in Cassazione. Sembra il modello Jobs Act applicato ai migranti: far piazza pulita delle ultime tutele. L’asilo politico è regolato dall’articolo 10 della Costituzione. Qualcuno lo ha letto? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 gennaio 2017 La recente e asperrima campagna elettorale sulle riforme proposte dal governo Renzi aveva avuto - almeno a prima vista - vari effetti politici e istituzionali, dei quali uno sembrava decisamente positivo e rassicurante: la dimostrazione di attaccamento - da parte di gran parte del paese, e del ceto politico, e dei giornalisti, e dei magistrati, e di molti altri rappresentanti della classe dirigente - alla Costituzione italiana che è in vigore dal 1948. Soprattutto dal fronte del No, che poi ha vinto largamente il confronto alle urne, è venuta una richiesta fortissima di rifiuto di ogni "stravolgimento " della Costituzione. Eppure la riforma Renzi-Boschi si limitava a portare delle modifiche alla seconda parte della Costituzione, quella che riguarda l’ordinamento dello Stato. Non si sognava neppure di sfiorare i principi fondamentali. I nostri "padri costituenti" avevano suddiviso la Carta costituzionale in tre segmenti. Il primo è un preambolo, e fu intitolato "i principi fondamentali". Poi ci sono la prima parte della Costituzione che definisce i Diritti e i Doveri dei cittadini, e dunque delinea il nostro Stato di diritto. E poi c’è la Seconda parte che stabilisce i modi e le forme dell’esercizio dei poteri. Dal 1948 a oggi sono state portate 16 modifiche alla Costituzione. Quasi tutte queste modifiche riguardavano la seconda parte, e solo pochissime la prima parte, considerata quasi intangibile. Nessuno mai si è però sognato di cambiare il preambolo della Costituzione e cioè i primi 12 articoli che stabiliscono i principi fondamentali della convivenza. Tra questi primi 12 articoli, evidentemente, c’è anche l’articolo numero 10. Che si occupa degli stranieri che vengono a vivere in Italia, o che vorrebbero farlo. È composto da quattro paragrafi (commi). Il quarto lo trascrivo: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge". Non c’è bisogno di essere dei gran costituzionalisti per capire il senso e la lettera di questo articolo. Dice che l’Italia concede l’asilo politico a chi proviene dai paesi che non assicurano diritti e libertà pari a quelli che la Costituzione garantisce in Italia. Ora non è che ci siano molti dubbi su questo punto: in nessuno dei paesi africani dai quali provengono i profughi che in questi ultimi anni stanno sbarcando da noi, a centinaia di migliaia, viene assicurato neanche un centesimo dei diritti e delle libertà di cui godiamo qui nella penisola. Giusto? E allora possiamo francamente dire che il dibattito sui profughi è chiuso: tutti accolti. Le cose però non stanno così. Il problema dei profughi esiste, è complicato, e sebbene abbia poco o nulla a che fare con i problemi del terrorismo islamico, è chiaro che è reso ancor più drammatico, nella psicologia di massa, dalla presenza in Europa del terrorismo islamico. E l’articolo 10 della Costituzione, che fissa un principio essenziale di civiltà, e cioè uno di quei principi per i quali la nostra è una grande civiltà e noi ne andiamo orgogliosi, non ci aiuta in nessun modo ad affrontare e risolvere il problema. Ci serve solo ad inquadrarlo. Ci sono due strade, allora. La prima è quella di modificare questo articolo della Costituzione. Bisognerà poi spiegare come mai il mono- cameralismo sia considerato uno stravolgimento della Costituzione e la modifica di uno dei 12 principi essenziali non lo sia. La seconda strada è quella di prendere atto di un principio, che è al fondo anche un principio di legalità, e di dedurne che nessuno può essere espulso. Oppure c’è una terza strada, ma è strettissima. Che è quella di provare a ragionare su come rispettare l’articolo 10 della Costituzione e contemporaneamente realizzare politiche di accoglienza e di distribuzione (se posso usare questo termine algido e un pò repellente) che permettano di non far ricadere il peso dell’ondata di profughi sulle spalle - e sulla vita - solo di alcuni, e generalmente della fasce più deboli della nostra popolazione (quella che vive nelle periferie, o nelle campagne). Creando ingiustizia, sofferenze e disagio sociali insopportabili. Per fare questo bisognerebbe però che innanzitutto tutti i partiti decidessero di sospendere (che so: per 24 mesi?) la demagogia, almeno su questo punto, e accettassero di discutere le soluzioni possibili senza sperare di ottenere voti in più o di punire gli avversari strappandogli fasce di consenso. Sull’argomento immigrazione ci sono due posizioni estreme: quella della Chiesa, che chiede cristiana accoglienza comunque e senza limiti (in linea con l’insegnamento di Gesù e con il pensiero e la morale cristiana) e quella - diciamo così: laica - della lega, di FdI e del Movimento 5 Stelle, che chiedono espulsioni di massa, spesso usando terminologie un pò brutali. A metà strada ci sono forze che hanno una notevole influenza in Parlamento. Ma sembrano un pochino spaventate dall’aggressività degli altri. Possiamo immaginare un tavolo di discussione, con dentro tutti, che cerchi soluzioni da portare poi - e da imporre - in Europa? Dobbiamo stabilire qual è il budget che possiamo stanziare per l’accoglienza (lo 0,7 per cento del Pil, per esempio, che è l’obiettivo fissato dall’Onu per la cooperazione e che, nell’emergenza potremmo stornare? Sarebbe una bella cifra: più o meno 15 miliardi all’anno); e poi decidere come dividerlo nella varie regioni italiane e come utilizzarlo al meglio, impedendo speculazioni, imbrogli e guadagni non dovuti da parte di associazioni varie. Subito dopo dobbiamo decidere, sulla base di numeri certi, quanti di questi profughi possiamo tenere in Italia, in modo civile, in sicurezza e sulla base di quel budget, e quanti invece pensiamo debbano essere accolti negli latri paesi europei. Infine dobbiamo imporci al tavolo europeo, ponendo la soluzione del problema profughi come condizione per la permanenza dell’Italia in Europa. Naturalmente un comportamento di questo genere metterebbe fuorigioco tutti quei fattori di populismo che sin qui hanno governato flussi consistenti di voti in tutti i partiti. Esiste la disponibilità della politica a compiere questo sacrificio? Cioè esiste la possibilità che la politica ponga "lo Stato" e "la Comunità" al di sopra dei propri interessi elettorali? Chissà Iraq: chiusa l’associazione che assisteva le ex prigioniere yazide di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 gennaio 2017 Il 2 gennaio, con un provvedimento inspiegabile e che rischia di avere conseguenze assai gravi, le autorità della regione autonoma curda irachena hanno chiuso "Yazda", l’organizzazione non governativa che dal 2014 forniva aiuto e cure mediche alle numerosissime donne, molte delle quali minorenni, liberate dopo che erano state rapite e ridotte in schiavitù sessuale dallo Stato islamico (qui un ottimo articolo per comprendere la situazione attuale). Il direttore di "Yazda", Murat Ismael, non si capacita. Secondo le autorità curde, l’organizzazione svolgerebbe non meglio precisate "attività politiche" illegali. Accuse infondate, che hanno dato luogo a una decisione "vergognosa", come lo ha definito Nadia Murad, la premio Sakharov 2016. Il risultato è che da quasi una settimana il personale di "Yazda" non può più accedere ai campi per sfollati del Kurdistan iracheno, che costituiscono l’attuale sistemazione per gli sfollati yazidi e di altre comunità vittime della pulizia etnica e religiosa dello Stato islamico del 2014. Tra le varie Ong presenti nella zona, "Yazda" è l’unica composta da operatori e operatrici della comunità yazida, di cui per evidenti ragioni le sopravvissute allo stupro e alla schiavitù sessuale tendono a fidarsi maggiormente. Recentemente, "Yazda" aveva annunciato l’avvio di un piano, sostenuto dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, per aiutare almeno 3000 famiglie nella zona del Sinjar attraverso la fornitura di mezzi di sussistenza. Questa, secondo fonti yazide, potrebbe essere la causa effettiva del provvedimento di chiusura di "Yazda". Le autorità curde tendono a limitare o quanto meno a tenere sotto stretto controllo la distribuzione di aiuti nel SInjar per il timore che finiscano nelle mani del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) oltre confine. Secondo recenti stime, circa 3500 yazidi restano prigionieri nelle mani dello Stato islamico. Invece di ostacolare gli aiuti e l’assistenza psicofisica alle vittime, occorrerebbe raddoppiare gli sforzi per liberare questi ostaggi e, una volta rilasciati, garantire loro un ambiente sicuro e cure efficaci per poter ricominciare a vivere. Brasile: un altro massacro di detenuti per gli scontri tra gang rivali di Geraldina Colotti Il Manifesto, 7 gennaio 2017 Dopo quella di Manaus, mattanza nel Roraima, 33 morti. Almeno 33 detenuti sono stati uccisi nel Penitenziario agricolo di Monte Cristo (Pamc), il principale carcere dello Stato di Roraima, nel nord del Brasile. Una nuova strage che fa seguito a quella avvenuta nei giorni scorsi a Manaus (in Amazzonia). Lì, una rivolta e il violento scontro tra due grandi bande rivali che si contendono il controllo del penitenziario hanno portato alla morte di 60 reclusi, 4 dei quali uccisi in una vicina struttura. Sono stati trovati molti colpi mutilati e decapitati. C’è anche stata un’evasione di massa, ma una parte dei detenuti è stata ripresa per aver fatto uso di facebook e di cellulari per vantarsi della fuga. Secondo la versione delle autorità locali, questa volta a scatenare l’eccidio sarebbe stata una delle due gang coinvolte negli scontri di Manaus, la Primeiro Comando da Capital (Pcc) per vendicare i suoi morti nell’altra struttura detentiva. Anche in questa occasione, si sono ripetuti atti feroci, purtroppo frequenti nelle carceri brasiliane: decapitazioni, smembramenti, cuori strappati dal petto. Secondo il Dipartimento di Giustizia e Cittadinanza di Roraima i reparti speciali hanno già sedato la rivolta, mentre come l’altra volta i familiari ne denunciano la brutalità e le condizioni di invivibilità in cui versano le carceri brasiliane. Una "tragedia annunciata", secondo il vice coordinatore della Pastorale carceraria nazionale, padre Gianfranco Graziola, che segue i detenuti a Roraima da quasi 15 anni. Tragedie annunciate anche per l’Ufficio Onu per i diritti umani a Ginevra e per le associazioni di giuristi democratici, che accusano lo Stato di inerzia e inadempienza e invitano a investigare "in forma imparziale e immediata" le morti in carcere. Solo nel mese di ottobre dell’anno scorso, sono morti 22 reclusi durante rivolte negli stati di Roraima, Rondonia e Acre. Dopo la parentesi di alcuni progetti di prevenzione e reinserimento tentati dai governi del Partito dei lavoratori (Pt), che però non hanno intaccato i guasti strutturali, le carceri brasiliane sono un vero e proprio inferno destinato a peggiorare con gli orientamenti della gestione Temer, frutto del golpe istituzionale contro Rousseff. Inasprimento delle pene, incremento dei delitti più gravi, durata dei processi giudiziari, abuso del carcere preventivo, assenza di misure alternative e di interventi strutturali su povertà e disuguaglianze, hanno elevato la popolazione carceraria a 548.000 persone: la quarta più numerosa al mondo, dietro Stati uniti, Russia e Cina. I reclusi vivono in condizioni sub-umane nelle strutture adatte a contenere solo 319.000 persone. In Brasile muore in media un detenuto al giorno. Temer ha parlato per la prima volta in pubblico dopo il massacro di Manaus, definendolo "un incidente pauroso", promettendo la costruzione di nuove carceri e stanziamenti per 1.200 milioni di reales (circa 366 milioni di dollari) da utilizzare anche per "modernizzare" le prigioni esistenti. Dopo aver cercato di scaricare le responsabilità sulle "gestioni regionali" ha anche promesso di attivare maggiori controlli alle frontiere e annunciato che, nonostante la crisi, continuerà sulla via delle riforme strutturali.