Controlli in carcere sui detenuti a rischio terrorismo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 gennaio 2017 Non solo barbe lunghe e religione. Così si individua un jihadista in cella. Rispetto ai circa 10 mila detenuti di religione islamica, di cui 7.500 praticanti, il 5 per cento "desta segnali di preoccupazione a vario titolo". Amir veniva dalla Siria, e lì voleva tornare. Per andare a combattere. Quando è stato fermato all’aeroporto di Orio al Serio, con un documento falso e un telefonino pieno di propaganda islamica violenta, aveva 17 anni. È diventato il primo (e finora unico) detenuto minorenne accusato di associazione con finalità di terrorismo internazionale. Con il rito abbreviato l’hanno condannato a tre anni di pena. Con lui il Dipartimento della giustizia minorile ha avviato un percorso di "deradicalizzazione", con la collaborazione di assistenti sociali e psicologi, che per un periodo l’ha portato fuori dal penitenziario, con esiti positivi. Prima dichiarava di voler andare a combattere o farsi esplodere per uccidere gli infedeli, adesso sta cambiando visione del mondo. "Atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo" - Un esperimento confortante sul piano della prevenzione, guardato con interesse anche dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che gestisce centinaia di reclusi considerati a rischio. Tra i minorenni stranieri, oltre ad Amir, ce n’è solo un’altra decina (senza alcuna accusa specifica) sotto osservazione, mentre nelle carceri ordinarie sono 373. I dati aggiornati al 30 dicembre riferiscono di 172 detenuti "monitorati", perché accusati direttamente di reati connessi al terrorismo internazionale o ritenuti di interesse per "atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o reclutamento". Poi ce ne sono 64 "attenzionati" per via di "atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza alle ideologie jihadiste". Infine, sul gradino più basso della presunta pericolosità, si contano 137 "segnalati": soggetti sui quali dalle prigione sono arrivate informazioni generiche sui quali sono in corso approfondimenti. Prevenzione dietro le sbarre - Rispetto ai circa 10 mila detenuti di religione islamica, di cui 7.500 praticanti, significa che il 5 per cento "desta segnali di preoccupazione a vario titolo", come ha ripetuto più volte il ministro della Giustizia Andrea Orlando negli ultimi mesi. Decidendo di dedicare molta attenzione a questo problema, tanto che alle riunioni del Comitato di analisi strategica antiterrorismo insediato al Viminale partecipano regolarmente i rappresentanti del Dap guidato dal magistrato Santi Consolo. La prevenzione passa anche dal costante controllo di ciò che accade dietro le sbarre, e di questo processo fa parte la "deradicalizzazione" tentata con i soggetti a rischio. Una strategia che si rivela più efficace quando lo Stato non mostra soltanto il suo volto repressivo; di qui l’intenzione di trasferire i detenuti islamici considerati di bassa pericolosità nelle vecchie colonie agricole penali, dove potrebbero godere di un regime più "aperto", che consenta loro di convincersi ad abbandonare propositi di aggressione e vendetta. Com’è successo nel caso di giovanissimo Amir. Distribuiti sul territorio - I reclusi che invece sono stati inseriti nel circuito dell’Alta sicurezza, quello più restrittivo e controllato, sono 44, distribuiti in dieci diversi istituti; una ventina in Sardegna, divisi tra Sassari e Nuoro, gli altri sparpagliati lungo la penisola. Prima erano concentrati per la maggior parte a Rossano Calabro, ma dopo gli episodi di giubilo dell’ultimo anno seguito agli attentati di Parigi, Bruxelles e Dacca si è deciso di separarli. Rientrano nella categoria dei "monitorati", e 37 di loro sono accusati di terrorismo internazionale: tre condannati con sentenza definitiva, due che aspettano il giudizio della Cassazione, sei in attesa dell’appello, 26 che non hanno ancora avuto il primo processo. Contatti epistolari - Di tutti gli altri, più di 300, si osservano ogni giorno con particolare attenzione i comportamenti quotidiani. "Sono ristretti principalmente per reati legati al traffico di stupefacenti, furti e rapine, e normalmente le detenzioni non sono molte lunghe - ha riferito il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria nell’ultimo rapporto. Non risultano gruppi estremistici islamici presenti sul territorio italiano in contatto con i detenuti monitorati", mentre "emergono contatti epistolari tra soggetti ristretti per reati di terrorismo e associazioni antagoniste italiane, il cui supporto è principalmente quello di pubblicazione delle lettere-denunce in opuscoli anti-carcerari". Programmi tv e Coca Cola - Gli indicatori della radicalizzazione - che di per sé non bastano a destare allarme, ma attivano la vigilanza - variano dalla pratica religiosa (se si intensifica, o se ci si allontana dagli imam moderati), alla routine quotidiana (rifiuto di condividere gli spazi comuni, di alcuni programmi televisivi o di bibite come la Coca Cola, barbe lasciate crescere, abbigliamento tradizionale); dall’addobbo o decorazione delle celle (per esempio con scritte islamiche) al comportamento con le altre persone (aggressività o rifiuto di sottoporsi alle perquisizioni, rigetto degli operatori o reiterate disobbedienze), fino ai commenti sugli avvenimenti esterni: non solo l’esultanza per le stragi ma anche per calamità naturali nei Paesi occidentali come terremoti o alluvioni, critiche contro Israele o gli interventi armati nei Paesi islamici. Terrorismo, sei combattenti Isis in Italia: in carcere 153 detenuti pericolosi di Sara Menafra Il Mattino, 6 gennaio 2017 Sono pochi, rispetto al fenomeno europeo. Ma da qualche tempo, i combattenti di ritorno dal fronte siriano e iracheno, esistono anche in Italia. Foreign fighters che hanno passato anni a combattere e che gli esperti italiani ed europei considerano candidati a proseguire la guerra jihadista anche una volta tornati nel continente. L’Antiterrorismo della Polizia italiana ne ha identificati sei "presenti sul territorio nazionale", sul complesso di 110 combattenti che dall’esplosione del conflitto in Siria e Iraq sono partiti per arruolarsi. Il numero, che oltre ai miliziani del terrore, comprende anche coloro che si sono arruolati negli altri fronti di guerriglieri (in Italia arruolarsi con organizzazioni terroristiche all’estero è reato) è contenuto nel rapporto della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista che ieri ha consegnato le proprie conclusioni in 42 pagine al presidente del consiglio Gentiloni. Una fotografia che identifica quelli che sono tornati, ma anche il fenomeno degli italiani convertiti: "I foreign fighters collegati con l’Italia sarebbero 110. Tra essi 32 sarebbero deceduti nel teatro siro-irakeno, 17 sarebbero ritornati dal conflitto ma solo 6 si trovano sul territorio nazionale. Dieci sono donne (di cui 8 con cittadinanza italiana), 11 sono convertiti (ma solo 3 si sarebbero convertiti in Italia), 5 minorenni". Il proselitismo in carcere - La commissione sottolinea che i numeri "sono decisamente inferiori a quelli della maggior parte dei paesi europei". E i dati confermano: in Francia i fighters sono almeno 1.500 dalla Germania sono partiti in 1.000, in 500 dal Belgio. Ma se questo fenomeno nel nostro paese è meno pervasivo che altrove, forse anche perché i migranti di seconda generazione sono pochi, sostengono i membri della commissione, il proselitismo, specie attraverso la rete, è invece in costante crescita. "Se le prigioni hanno avuto un ruolo nei processi di radicalizzazione della scena jihadista italiana, si può dire con tranquillità che il web lo abbia giocato per tutti", scrive la commissione. E il fenomeno più interessante è la crescita di veri e propri "cyber-propagandisti" del jihad, una comunità attiva anche in Italia "intesa non come una struttura monolitica e compatta bensì come una rete dai nodi più o meno stretti". L’identikit dei propagandisti in rete comprende, e il dato è molto interessante per l’Italia, italiani convertiti all’Islam: "È una scena - si legge nella relazione - composta da giovani tra i 18 e i 24 anni, con molti convertiti e soggetti nati o perlomeno cresciuti in Italia". I soggetti "segnalati" sono in crescita, dentro e fuori dal carcere: "Solo i Ros dei Carabinieri hanno ricevuto 1.400 segnalazioni di casi di potenziale radicalizzazione nel 2015, e 2000 da gennaio ad agosto 2016". Sotto controllo, dicono i commissari la situazione nelle carceri: "Secondo un recente censimento effettuato dal Dap, i detenuti attualmente sotto osservazione per legami fattuali o ideologici con il terrorismo sono 345. Tra questi, 153 sono classificati come ad alto rischio radicalizzazione". E di questi, dice il documento del Dap, 18 sono italiani e 35 i condannati per terrorismo. Chiara la sintesi: "Anche in Italia è presente una scena informale che adotta l’ideologia jihadista". Che nei prossimi anni potrebbe crescere. Nelle conclusioni, la commissione riconosce l’efficacia delle leggi italiane nel reprimere chi si avvicina alla jihad. Ma sulla prevenzione, aggiunge, la strada è lunga mentre molti paesi europei hanno da tempo avviato meccanismi di Cve, contrasto all’estremismo violento. L’Italia dovrebbe allinearsi al resto dell’Unione, operando su tre livelli: "Al macro livello, adottando misure di contro-narrativa per contrastare l’attività del messaggio jihadista; al meso livello, attraverso misure di ingaggio positivo con le comunità e i segmenti ad alto rischio di radicalizzazione; al micro livello, attraverso interventi sui singoli individui, segnalandoli ad esponenti della società civile il cui compito è cercare di distoglierli dal credo jihadista". Il progetto - "Finora l’Italia non ha sperimentato una strategia di prevenzione della radicalizzazione", ha spiegato in conferenza stampa Lorenzo Vidino, professore e presidente della commissione di cui hanno fatto parte anche ricercatori e giornalisti. "L’istituzione di presenze sul territorio per intervenire sui giovani a rischio radicalizzazione è una novità assoluta", dice il giornalista Carlo Panella. Il rapporto sarà ora inviato alle Camere che potrebbero usarlo per integrare i progetti di legge già in discussione sul tema. Quei terroristi radicalizzati in carcere e sul web di Carlo Bonini La Repubblica, 6 gennaio 2017 Ammesso e non concesso ci fosse bisogno di una conferma, da ieri mattina, con la consegna al Presidente del Consiglio e al Ministro dell’Interno della relazione conclusiva del lavoro svolto in questi quattro mesi dalla "Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista in Italia", il Paese sa di non godere più di uno statuto speciale di fronte al radicalismo islamico. Alla forza contagiosa ed emulativa del suo messaggio. Da ieri mattina, con la presa d’atto, nelle parole di Paolo Gentiloni, come in quelle di Marco Minniti, che, pur nella diversità dei numeri rispetto alla scena jihadista nordeuropea, l’Italia ha di fronte una sfida non diversa da quella francese, belga, tedesca, inglese, rispetto alle comunità musulmane presenti sul suo territorio - vale a dire quella di proteggerle dal contagio, e, insieme, liberarle lì dove si sia già prodotto - si può senz’altro dire che il nostro sistema di prevenzione antiterrorismo, le politiche necessarie a ridefinirlo di fronte a una minaccia che cambia rapidamente di qualità, intensità e segno, entrano in una nuova fase. Se è vero infatti che le dinamiche di radicalizzazione dei singoli rispondono all’interazione di fattori diversi, in cui entrano in gioco tanto la componente psicologica e personale, quanto quella più propriamente politica e sociale, è altrettanto vero che gli strumenti di prevenzione o di "deradicalizzazione" dovranno necessariamente rispondere e modellarsi su uno stesso piano di complessità. Chi è in procinto di radicalizzarsi o si è già radicalizzato non necessariamente è infatti ancora in una condizione giuridica di pericolosità che giustifichi nei suoi confronti misure di polizia. Dunque, le misure che possono ricondurlo in una condizione di "neutralità" dovranno necessariamente trovare spazio e legittimità in luoghi diversi dal codice penale, da un commissariato o da una caserma dei carabinieri. L’idea della Commissione, recepita ieri dalla Presidenza del Consiglio, è che anche in Italia possa essere costruito un modello di intervento da tempo diffuso in Europa (battistrada è stata l’Inghilterra nel 2003) e noto come "Cve, Countering Violent Extremism", Contrasto all’Estremismo Violento. Un complesso di misure che dovrebbe intervenire su tre livelli. Il primo, cosiddetto "Macro", avrebbe quale interlocutore l’intera popolazione musulmana in Italia e il suo oggetto sarebbe la cosiddetta "contro narrativa" al messaggio jihadista. Il secondo livello, cosiddetto "Meso", avrebbe invece come destinatarie singole comunità considerate ad alto rischio di radicalizzazione e lo strumento di "ingaggio", in questo caso, passerebbe attraverso gli strumenti tipici del dialogo interreligioso. Il terzo livello, cosiddetto "Micro", contemplerebbe invece l’intervento su singoli soggetti, ma attraverso un approccio e interlocutori diversi da quelli di polizia e dunque fuori da un tradizionale circuito di prevenzione legata alla privazione della libertà o all’espulsione del singolo. Restano naturalmente aperte due questioni macroscopiche. Che hanno a che fare con i due luoghi individuati dalla Commissione come quelli di elezione nelle dinamiche di "radicalizzazione" e "auto-radicalizzazione": le carceri e la Rete. E qui è difficile non dare ragione all’associazione "Antigone" e al suo presidente Patrizio Gonnella, quando ricorda al Governo che il rischio di radicalizzazione dietro le sbarre si può ridurre "soltanto attraverso l’applicazione degli standard internazionali del Consiglio d’Europa e cioè attraverso il riconoscimento dei diritti religiosi, di quelli degli stranieri, da accompagnare ad una costante informazione, possibile solo attraverso uno staff specifico fatto di mediatori culturali e linguistici". Ben più complessa, invece, la partita sulla Rete, dove le implicazioni del rapporto tra "libertà di culto" e "sicurezza", tra "libera manifestazione del pensiero" e "propaganda di morte" si muovono su un piano che ha attori e confini sovranazionali. Quello per il quale Palazzo Chigi, ancora ieri, è tornato a chiedere uno "sforzo internazionale, dei Governi e dei grandi Provider contro il malware del Terrore". Ma su cui è più difficile, al contrario del resto, riuscire a coltivare ottimismo. Almeno nel breve periodo. Il carcere, la palestra dove reclutare nuovi "martiri" di Karima Moual La Stampa, 6 gennaio 2017 Il carcere si sta dimostrando sempre più come la miglior palestra del radicalismo jihadista. Ce lo ha ricordato l’ultimo terrorista, Anis Amri, passato proprio per le nostre carceri dove ha avuto modo di radicalizzarsi. Ma lo è stato anche per altri jihadisti, dalla Francia al Belgio. Il passato degli attentatori, lontani dalla fede e più inclini alla trasgressione e alla delinquenza, è la leva sulla quale gli indottrinatori del jihad hanno saputo far forza. Anis Amri e i suoi predecessori, da delinquenti e trasgressori dell’islam, sono diventati martiri in nome della fede, pura e dura. E paradossalmente con il jihad hanno trovato la chiave di emancipazione alla loro fallimentare storia nella società e nella Umma islamica. Lo strumento del web, infine, è stato la piattaforma ideale per veicolare al meglio la propaganda jihadista. Come rispondere ora alla minaccia? Sappiamo bene che il nostro Paese non è certo immune da questo pericolo, perché i detenuti di fede islamica non sono pochi e vegetano nelle carceri senza programmi di reinserimenti ad hoc. Sono oltre 200 gli osservati speciali negli istituti di pena italiani, su 10 mila e 400 detenuti di fede islamica. Diversi sociologi sono concordi su quanto l’aspetto religioso sia tutt’altro che secondario per i detenuti. Negli istituti di pena, gli incontri di preghiera ci sono, ma solo 52 carceri dispongono di un locale adatto, mentre in 132 il culto è esercitato nelle stanze detentive o in posti occasionali. Un aspetto preoccupante perché fuori dal controllo. Per quanto riguarda le figure religiose che hanno accesso alle carceri, per rispondere e fungere da antidoto a chi potrebbe approfittare del vuoto e riempirlo con messaggi e ideologie fondamentaliste, siamo anche qui davvero indietro con solo 30 imam. Fotografato il quadro generale, c’è da aggiungere che negli ultimi mesi alcune organizzazioni islamiche italiane, come l’Ucoii, hanno proposto di avviare l’inserimento di più figure religiose nelle carceri. Ma la sensazione è che ancora si brancoli nel buio. Sappiamo che è ancora problematico avere figure preparate e di alto livello anche nelle moschee, figuriamoci pretendere di avere imam che abbiano anche una formazione basata su una contro-narrativa efficace e avvincente nel contrastare ogni forma di radicalismo. Un approccio nuovo e di studio che solo pochi Paesi, come il Marocco, hanno intrapreso con risultati efficaci. La verità è che non disponiamo attualmente di figure formate per questa grande sfida, che non si presta al dilettantismo ma ha bisogno di un approccio nuovo. Serve coinvolgere anche Paesi esterni che in materia hanno esperienza e personale adatto. L’ideologia jihadista è una minaccia globale, che ha bisogno anche di una risposta globale che di certo non si esaudisce con la figura di un imam che sappia solo leggere il corano e guidare alla preghiera. Quello che serve, invece, è personale religioso capace di contro-ribaltare in maniera convincente l’ideologia jihadista, nelle carceri, come nel web. Nuova prescrizione ora sono i pm a volerla "salvare" di Errico Novi Il Dubbio, 6 gennaio 2017 Le toghe di "Area": "la riforma penale non va svuotata". Tensione su riforma del processo e pensioni: domenica la giunta Anm potrebbe annunciare proteste per l’anno giudiziario, subito seguite dallo sciopero. "Inutile se non dannoso", così Piercamillo Davigo aveva definito il ddl penale di Andrea Orlando. Giudizio d’insieme che non risparmiava la prescrizione. In un faccia a faccia durante "In mezz’ora", il programma domenicale di Lucia Annunziata su Rai 3, il presidente dell’Associazione magistrati spiegò che la riforma del processo non convinceva le toghe anche per le nuove norme sui tempi di estinzione dei reati, ritenute poco stringenti. Adesso la magistratura associata sembra orientarsi su valutazioni diverse, se non proprio opposte. "Uno stralcio della prescrizione dal testo all’esame del Senato non ci vedrebbe per nulla d’accordo", spiega Eugenio Albamonte, pm a Ro- ma e rappresentante di "Area" nel direttivo Anm. "L’articolato non pare ricco di misure rivoluzionarie", aggiunge, "e anzi le correzioni alla legge ex Cirielli si segnalano tra i passaggi davvero qualificanti della riforma. Fossero messe da parte, non so fino a che punto avrebbe senso, per il ministro Orlando, una battaglia per l’approvazione del ddl". È una chiave di lettura che potrebbe apparire sorprendente, e che in ogni caso rende ancora più complessa la schermaglia in corso tra magistratura e governo. Eppure il conflitto, arrivato a un passo dallo sciopero dei giudici, si può ridurre a due fronti decisivi. Intanto va ricordato che lo stesso Davigo, in un successivo duello tv col guardasigilli, fece notare: "Sarebbe preferibile una prescrizione interrotta almeno dopo la sentenza di primo grado, ma non possiamo fare la guerra se il mondo non va come vorremmo". Lasciò intendere che le nuove regole erano comunque un passo avanti accettabile anche per i magistrati. "Non è quello che volevamo noi ma è certo meglio della disciplina attuale", conferma Albamonte a nome di "Area". Alle toghe d’altronde non pare sensato che il testo della riforma venga disossato in ogni sua parte tranne che sul punto più contestato dai pm: la norma che rende obbligatoria l’avocazione da parte del procuratore generale qualora il titolare dell’indagine non decida, in tre mesi, fra richiesta di rinvio a giudizio e archiviazione. Alla base dello sciopero che il direttivo Anm potrebbe annunciare il prossimo 14 gennaio c’è anche questa innovazione del processo. La seconda questione è ormai cronicizzata: la richiesta finora disattesa di rimediare al contestato (dai giudici) decreto sulla proroga per i vertici della Cassazione e portare l’età pensionabile a 72 anni per tutti; con il corollario della riduzione a 3 anni del tempo minimo di permanenza nella sede assegnata, almeno per i colleghi al loro primo incarico. Svanita l’occasione del mille proroghe, l’Anm lamenta il tradimento degli impegni presi dal governo. Domenica prossima la giunta del "sindacato" dei giudici dovrà mettere a punto una proposta da sottoporre il sabato successivo, il 14 gennaio appunto, al direttivo. Solo i davighiani di "Autonomia & Indipendenza" sono nettamente schierati per lo sciopero. "Unicost" è più prudente, e la stessa "Area" chiede di programmare innanzitutto un’iniziativa forte per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. L’ipotesi più realistica al momento sembra la seguente: nel giorno della cerimonia in Cassazione la magistratura associata potrebbe lasciare vistosamente vuoti gli scranni assegnati, oppure in ciascuna delle inaugurazioni presso le Corti d’Appello il malessere delle toghe verrebbe affidato a un comunicato da leggere in tutti i distretti; qualora il segnale non bastasse a produrre effetti immediati, il direttivo Anm fisserebbe subito la data dell’astensione dalle udienze. La soluzione sembra questa. È chiaro che i rapporti tra magistratura e esecutivo sono di nuovo molto tesi. Al di là della considerazione di cui Orlando sembra godere presso le toghe. D’altra parte in molti, dentro l’Anm, sanno che lo stesso stralcio della prescrizione dal ddl penale non sarebbe imposto da Orlando. A via Arenula si lascia intendere di voler fare tutto il possibile affinché Palazzo Madama approvi il ddl penale con dentro le norme sulla estinzione dei reati. Ma non è escluso che i precari equilibri del Senato impongano una scelta diversa. Magari su pressione della componente centrista della maggioranza. Le cui perplessità sono di natura opposta a quella dei magistrati innanzitutto sulla prescrizione, ritenuta anche da molti alfaniani fin troppo severa. Legittimo impedimento, vale la ricevuta di spedizione del fax con cui si chiede il rinvio di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2017 Corte di cassazione, sentenza 5 gennaio 2017, n. 535. È valida la richiesta di rinvio del processo per legittimo impedimento inoltrata dal difensore via fax. La richiesta vincola il giudice a valutarla, purché tempestiva e inviata al numero della cancelleria del giudice procedente (e non al generico dell’ufficio giudiziario). Inoltre, la stessa ricevuta di ricezione sarà sufficiente a provare il regolare inoltro del fax, esonerando da quest’onere il mittente del messaggio. Cassazione dirompente su un caso di legittimo impedimento a Catanzaro, che ha visto coinvolto il difensore di un imputato romeno, impossibilitato a presentarsi al processo per un improvviso guasto all’automobile. Immediata la richiesta di rinvio, inoltrata via fax alla seconda sezione della Corte di appello di Catanzaro ed avallata da una ricevuta di avvenuta ricezione. Un caso da manuale secondo i giudici di Cassazione e che - contrariamente a quanto stabilito dal tribunale di Vibo Valentia e confermato dalla Corte di appello di Catanzaro - vale la "nullità assoluta" della sentenza pronunciata in assenza del difensore, contenente la condanna dell’imputato. Scardinando un indirizzo restrittivo consolidato negli anni (soprattutto sul fronte dell’onere della prova), i giudici di Cassazione optano per una linea più aderente alle esigenze di semplificazione e celerità richieste dal principio della ragionevole durata del processo. Sono i tempi, d’altronde, a sancire il superamento del rigido formalismo, a favore di schemi procedimentali più flessibili, perché più adatti a garantire l’osmosi tra il processo e il diritto di difesa. Ragionando diversamente - concludono i giudici - si precluderebbe, per esempio, al difensore di comunicare via fax un impedimento improvviso che, come nel caso in esame, "non consente nemmeno di recarsi in cancelleria per verificare che il fax sia arrivato". "L’evoluzione delle forme di comunicazione e notificazione (anche a mezzo di posta elettronica certificata) previste nel processo civile, pur se ritenute non estensibili al processo penale, è significativa", si legge ancora nel documento. Lo schema procedimentale delineato dalla sentenza è estraneo al rigido schema previsto in via generale dall’articolo 121 del Codice di procedura penale, poiché non presuppone una formale istanza o una richiesta: è sufficiente che al giudice risulti l’impedimento, purché comunicato prontamente. Bancarotta, non c’è dolo se si cerca di evitare il dissesto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2017 Corte di cassazione, sentenza 5 gennaio 2017, n. 533. No alla condanna per bancarotta per operazioni dolose, dopo la chiusura del cinema multisala, se l’amministratore si è attivato per evitare un dissesto, frutto di una condotta imprudente. La Corte di cassazione, con la sentenza 533 depositata ieri, accoglie parzialmente il ricorso dell’amministratore di una serie di società rispetto alle quali viene confermata la responsabilità nella bancarotta patrimoniale distrattiva, in concorso con la moglie coimputata. I giudici della Quinta sezione penale annullano invece, con rinvio, la condanna relativa alla chiusura di un multisala adottata dalla Corte d’appello, dopo l’assoluzione in primo grado. Il verdetto favorevole del Tribunale era basato sull’accertata assenza dell’elemento soggettivo del reato. Gli imputati avevano si erano lanciati in un’operazione imprudente a causa delle loro scarse forze finanziarie e dell’inesperienza nel settore commerciale delle multisale cinematografiche, sulle quali avevano investito. I giudici di prima istanza avevano constatato l’attivismo imprenditoriale dell’amministratore che, malgrado le difficoltà incontrate nel portare a termine l’operazione, si era dato da fare dal punto di vista amministrativo, per far ottenere alla multisala la destinazione commerciale progettata e per stipulare contratti d’affitto d’azienda, prima, e preliminari di vendita dopo. Per il Tribunale tanto bastava ad escludere la previsione del fallimento o anche solo l’accettazione del rischio. La Cassazione contesta alla Corte d’appello di aver deciso per la "colpevolezza" senza confutare le argomentazioni sulle quali si basava l’assoluzione. La Corte territoriale aveva sottovalutato il peso di alcune circostanze, come un ricorso al Tar e la predisposizione di un piano di fattibilità. Per la Suprema corte persino la commissione di irregolarità amministrative o addirittura di reati edilizi depongono a "favore" degli imputati. I ricorrenti avevano, infatti, ampliato la metratura per i locali commerciali già prevista dalla convenzione urbanistica, mossa che evidenziava la volontà di massimizzare il profitto ricavabile dalla complessiva operazione edilizia e commerciale, con un’intenzione certamente non diretta a cagionare con dolo il fallimento della società. Un punto riproposto all’attenzione della Corte d’Appello e che non può essere trascurato nell’interrogarsi sulle reali intenzioni iniziali e successive, dei due imputati in relazione alla reale consapevolezza di mettere in atto azioni finalizzate a cagionare la decozione della società poi fallita. Sbaglia la Corte d’appello anche a sostenere il concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta e bancarotta impropria: quest’ultimo deve considerarsi assorbito nel primo, quando la condotta diretta a causare il fallimento è la stessa del modello descrittivo della bancarotta fraudolenta. Non sono i Pm, è la politica a usare gli avvisi di garanzia di Piergiorgio Morosini* Il Dubbio, 6 gennaio 2017 Si è giunti ad affidare alle procure la verifica sulla regolarità delle "primarie". Una "delega piena" alla magistratura in tema di etica pubblica, un crinale pericoloso per le istituzioni. Egregio Direttore, mi permetta di tornare sul suo editoriale di ieri dal titolo "Se inizia ad incrinarsi il fronte giustizialista". Lei prende spunto da mie dichiarazioni rilasciate al Giornale di Sicilia il 4 gennaio scorso sul tema del codice etico adottato dal Movimento 5 stelle. E mi attribuisce una tesi che non ho mai sostenuto. Ossia che "una parte della magistratura inquirente - fiancheggiata da un settore del giornalismo- usa gli avvisi di garanzia come armi di lotta politica". Dai virgolettati dell’intervista citata non credo si possa dedurre nulla di lontanamente simile. Comunque ci tenevo a dire, con estrema chiarezza: è una tesi in cui non mi riconosco affatto. E peraltro chi la sostiene, soprattutto se ricopre un ruolo istituzionale, dovrebbe accompagnarla con l’indicazione dei casi specifici in cui si è strumentalizzata la funzione giudiziaria. Chiarito l’equivoco. Le mie paro- le intendevano porre una questione di sistema. E richiamare la politica alle sue responsabilità. Viviamo una anomalia tutta italiana. I "test di affidabilità" degli uomini pubblici, da anni, paiono una esclusiva del processo penale. Sulla selezione dei politici "degni", i partiti sembrano avere abdicato da tempo. Talvolta, personaggi già "chiacchierati" solo dopo anni finiscono "fuori gioco" perché arriva una condanna o un arresto. E, paradossalmente, in altre circostanze basta l’avviso di garanzia, o lo stralcio di una intercettazione, per invocare le dimissioni di avversari esterni o interni al partito. A volte si è giunti persino ad affidare alle procure la verifica sulla regolarità delle consultazioni "primarie". Quasi a riprova di una "delega piena" alla magistratura in tema di etica pubblica. Ecco, questo è un crinale pericoloso per le nostre istituzioni. Procure e tribunali sono molto esposti, dunque. E si sa, quando persino una iscrizione nel registro degli indagati provoca "effetti automatici" nella sfera politica, dalla "delega" alla accusa di invasione di campo il passo è breve. Così le opzioni sui tempi e i modi della gestione delle indagini rischiano di essere condizionate, danneggiando la ricerca della verità. Certo, dati i riflessi politici dell’atto giudiziario, è auspicabile un supplemento di attenzione sulla segretezza degli atti da parte della stessa magistratura. Con sanzioni per chi non rispetta le regole. Ma, in una democrazia, occorre distinguere tra responsabilità politica e responsabilità penale. Ai partiti, dunque, spetta il compito di valutare, caso per caso, il peso di un atto giudiziario, senza attendere sempre la pronuncia di un giudice. Ben vengano allora i codici etici dei partiti. Nella consapevolezza che pure condotte penalmente irrilevanti possono appannare la credibilità pubblica. Penso ai favoritismi per amici o parenti, alla subordinazione a ricatti, alle reticenze su fatti di interesse pubblico. E su questo versante anche la stampa deve fare la sua parte con un serio giornalismo d’inchiesta che non si limiti alla pubblicazione di stralci di intercettazione o alla notizia del politico indagato. Infine, egregio direttore, mi consenta di dissentire sul punto chiave del suo editoriale. Ossia sulla presunta esistenza del partito dei PM che condiziona la politica, comportandosi con grande spregiudicatezza e mostrandosi compatto. Continuo a pensarla in modo diverso. La magistratura è un potere diffuso, senza "cabine di regia" o "vertici" più o meno occulti, come dimostra il "pluralismo" nell’interpretare le leggi e nei metodi investigativi. E anche la spregiudicatezza di cui parla, è smentita ad esempio dalle circolari delle più importanti procure italiane e del Csm sulla segretezza delle intercettazioni. Piuttosto la magistratura ogni giorno deve fare i conti con crimine organizzato e malaffare dilagante. Soprattutto negli enti locali, sono fenomeni che non risparmiano segmenti delle politica, come ricordano tanti analisti. Ciò porta la magistratura a sfide sempre più complesse. Non si tratta neppure di "missione salvifica" per il "controllo delle virtù pubbliche". Ma, di solito, di domande di giustizia di cittadini e associazioni che, in assenza di misure preventive da parte dei governi locali, denunciano forme di illegalità nell’edilizia, nell’urbanistica, nella sanità, nella gestione dei rifiuti. Ne derivano procedimenti penali complessi. In cui ogni decisione può sortire effetti indiretti sul piano politico, economico, occupazionale. Tutto questo impone a noi magistrati un "salto di qualità". Non solo sul piano della specializzazione e della cultura. Ma anche su quello dell’apertura al dubbio sui propri convincimenti e della disponibilità a confrontarsi con le critiche ai modi in cui si amministra la giustizia. Una disponibilità doverosa a condizione che le critiche siano legittime e non strumentali. *Membro togato del Csm, esponente di Magistratura Democratica Ma il partito dei Pm esiste e ha alleati nei partiti e nei giornali di Piero Sansonetti Il Dubbio, 6 gennaio 2017 Carissimo Morosini, sul Dubbio di ieri noi abbiamo riportato le sue dichiarazioni virgolettate ed esatte, e poi abbiamo pubblicato un commento. Come usano gli inglesi: i fatti separati dalle opinioni (in Italia, è vero, si usa pochissimo questo metodo). Naturalmente i commenti appartengono a chi li scrive e non certo a chi ne è "l’oggetto". Ovvio che le mie considerazioni non coincidono con le sue opinioni. Né tantomeno con le cose che lei dichiara ufficialmente, soppesando bene le parole, come è giusto che sia visto il suo ruolo istituzionale, la sua lunga carriera in magistratura e la sua presenza attiva nelle associazioni dei magistrati. Le sue opinioni però - interessanti e non frequenti tra i magistrati - mi hanno dato lo spunto per andare oltre e provare a rivolgermi a quella parte della magistratura più moderna e meno reazionaria (della quale lei sicuramente fa parte), per chiedere di venire allo scoperto, di partecipare o addirittura pro- muovere un dibattito di idee che è necessario per fare uscire la giustizia italiana dalla crisi profonda nella quale si trova. Quanto alle osservazioni espresse nella sua lettera, mi permetto di fare a mia volta qualche altra considerazione. A) Lei dice che per sostenere che esistono casi di magistrati che usano la giustizia per fare lotta politica bisogna fare nomi e cognomi. Specie se, come nel suo caso, si ricopre un ruolo istituzionale. Potrei fare diversi nomi e cognomi, visto che, ad esempio, come lei sa bene, il parlamento è pieno di magistrati, i vertici delle regioni sono pieni di magistrati, lo sono molte giunte comunali, diversi magistrati hanno partecipato anche ai governi della Repubblica, altri sono stati proposti per ruoli rilevantissimi, compreso quello di ministro della Giustizia. Oppure potrei citarle, tra i tanti, il caso di quell’ex deputato del Pd (che mi pare si chiami Nicola Sinisi, peraltro ottima persona e onestissimo) che dopo anni di battaglie contro Augusto Minzolini, giornalista schierato a destra e poi senatore di Forza Italia, si trovò a giudicarlo (e Minzolini finì condannato, credo ingiustamente); o ancora le potrei parlare di un certo Bernini, assessore in Emilia di centrodestra, che finì indagato per collusioni con la ‘ ndrangheta (restò nel limbo per anni, fu rovinato, e poi ne uscì pienamente assolto) da un magistrato di centrosinistra che era stato il capoufficio in un ministero del governo Prodi. Non sono belle cose, so che lei è d’accordo con me. Non succede in nessuna altra professione. Dopodiché è chiaro che in genere sono i partiti, e non direttamente la magistratura, ad utilizzare le inchieste a fini di lotta politica. Basta pensare alle liste di proscrizione stilate alla vigilia delle elezioni dalla Commissione antimafia, o al caso del povero sindaco di Roma Marino, del quale, giustamente, ha parlato anche lei, un po’ indignato, nell’intervista al quotidiano siciliano. B) Lei giustamente sottolinea la necessità di regole certe per i magistrati, in tema di segretezza e la necessità "di sanzioni per chi non le rispetta". Ha ragione. Però le regole ci sono, quasi nessuno le rispetta, e di sanzioni, fin qui, nemmeno l’ombra... O mi sbaglio? C) Lei dice che condotte penalmente irrilevanti possono appannare la credibilità di un politico, e dunque ben vengano i codici etici. Forse ha ragione. Io però penso che a giudicare le condotte penalmente irrilevanti sarebbe giusto che se fossero gli elettori. Dovranno pure avere un potere questi elettori, o no? Oppure devono solo ratificare le scelte compiute a monte o dalla magistratura o dagli Stati maggiori dei partiti, o - nel caso in cui si parla tanto in questi giorni - da Grillo in persona? D) Sul partito dei Pm possiamo discutere per ore e ore. Però, francamente, dottor Morosini, sostenere che non esiste è arduo. Ha una sua struttura (si chiama Anm), un capo (si chiama Davigo), una linea politica (attualmente, purtroppo, è il davighismo), moltissimi referenti esterni e moltissimi alleati, tra i quali un partito politico vero e proprio, i 5 Stelle, e un gran numero di testate giornalistiche. Altra cosa è dire che non è monolitico. Anch’io credo che non lo sia. E del resto la sua intervista al Giornale di Sicilia lo conferma. Il problema - che cercavo di sollevare nell’editoriale di ieri - è proprio questo: il silenzio di un pezzo importantissimo di magistratura che non è d’accordo con la linea davighiana eppure non esce allo scoperto. Le ultime righe della sua lettera mi incoraggiano: mi fanno capire che forse c’è la volontà di riaprire una discussione chiusa da troppo tempo. La domanda che le faccio è questa: esiste un pezzo di magistratura ha l’interesse e la forza e il coraggio per mettere tutto in discussione (in discussione vuol dire che si esaminano i pro e i contro e poi si decide): dalla separazione delle carriere, alla responsabilità civile, alle manette facili, al 41 bis, eccetera eccetera eccetera? Finché questa discussione non si apre, in modo moderno e leale, è difficile pensare a qualcosa di buono per la giustizia italiana. Trentino Alto Adige: anche la giustizia è sempre più autonoma di Filippo Merli Italia Oggi, 6 gennaio 2017 Il Cdm ha ceduto alla Regione Trentino la delega sul personale e sugli uffici giudiziari. Per lo Stato si tratta di una svolta destinata a lasciare il segno. Una giustizia a Statuto speciale. La Regione Trentino Alto Adige ha ricevuto dal Consiglio dei ministri la delega all’amministrazione degli uffici giudiziari. D’ora in avanti, le questioni logistiche della giustizia e il personale, a eccezione dei magistrati e di quattro dirigenti, non dipenderanno più da Roma, ma dalle Province autonome di Trento e Bolzano. È una svolta rivoluzionaria, un provvedimento che non ha precedenti in Italia e che è stato accolto con grande soddisfazione sia dal mondo politico trentino, sia dagli avvocati locali. La delega è scattata l’1 gennaio, ma avrà effetto a partire dalla seconda metà del 2017, in modo da consentire ai dipendenti di esercitare il proprio diritto di opzione tra le due amministrazioni coinvolte e di avviare le procedure contrattuali e l’eventuale conversione degli stipendi. "Una buona amministrazione della giustizia è uno dei parametri fondamentali per i cittadini, ma anche per le imprese che devono investire su un territorio", ha spiegato il governatore del Trentino, Ugo Rossi, esponente del Partito autonomista trentino tirolese (Patt). "Con questa delega avremo la possibilità di garantire nelle nostre province i servizi di qualità cui i nostri cittadini sono già abituati". Gli oneri della delega ricevuta da Roma, che si trovava nell’agenda del Trentino da una decina d’anni, saranno a carico delle Province di Trento e Bolzano tramite una riduzione del concorso delle stesse al risanamento del bilancio dello Stato. Dal punto di vista economico, l’operazione vale circa 22 milioni di euro l’anno e riguarda 400 dipendenti statali. Nella trattativa col Cdm, il ruolo chiave l’ha avuto il deputato del Centro democratico, Lorenzo Dellai, presidente della Commissione paritetica per le norme di attuazione dello Statuto speciale, detta anche Commissione dei Dodici. "Si tratta di un’ottima notizia per la nostra autonomia, che ne esce rafforzata, ma, in realtà, anche per tutto il Paese", ha sottolineato il parlamentare sull’edizione locale del Corriere delle Alpi. "È la prima volta che lo Stato delega una parte rilevante delle funzioni operative e amministrative in un settore considerato, per definizione, di assoluta riserva statale". "La Commissione dei Dodici, su input della Regione e delle Province di Trento e Bolzano, s’è impegnata moltissimo per questa norma, che ha più volte subito modifiche e affinamenti tecnici e che ora, finalmente, diventa operativa. L’auspicio", ha proseguito Dellai, "è che adesso si lavori con la collaborazione di tutti a definire i passaggi operativi, indubbiamente complessi, che la norma comporta". "In particolare, mi auguro che riprenda, con senso di responsabilità e reciproca apertura, il confronto tra la Regione e i sindacati dei dipendenti interessati al trasferimento nei ruoli regionali. Per quanto si può capire, non sembrano esserci ostacoli insormontabili per definire buoni accordi, aspetto fondamentale per garantire un percorso sereno e costruttivo". Per i sindacati, è stata la Uil ad augurarsi "maggior efficienza dei servizi di giustizia per la cittadinanza e per le imprese della Regione Trentino Alto Adige, ma anche nell’amministrazione del personale che transiterà dallo Stato all’ente territoriale. Si dovrà attivare immediatamente il tavolo tecnico per la definizione dell’assetto dei dipendenti e del diritto d’opzione di chi vorrà restare nei ruoli statali". Como: mistero sulla somala trovata impiccata in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 gennaio 2017 Si è impiccata martedì nella sua cella di isolamento. Inutili i tentativi di rianimazione: per lei non c’è stato nulla da fare. La suicida è una detenuta somala di 37 anni, detenuta a Bassone, a Como. Era in carcere da due anni, arrestata reati contro il patrimonio che le erano costati tre anni di condanna: a luglio sarebbe ritornata in libertà, anche se era rimasta senza casa né punti di riferimento. Una morte che rimane un mistero. Secondo il personale penitenziario non era ritenuta una detenuta critica, non presentava nessun particolare disagio. Però risulta che era in isolamento. Perché? Il carcere di Como era già stato sotto i riflettori nel 2014 a causa di tre suicidi avvenuti nel giro di poco tempo. I suicidi nelle carceri italiane sono un problema molto diffuso, causato dal degrado del sistema penitenziario: tre suicidi avvenuti nello stesso carcere in poco più di un mese sono però un evento molto raro, che portò a ben due interrogazioni parlamentari. Il primo suicidio era avvenuto domenica 12 ottobre 2014: il trentenne cileno Cuevas Galvez si era impiccato nella sua cella utilizzando un laccio legato al letto a castello, dopo aver assistito alla messa. Galvez si trovava in carcere per spaccio di sostanze stupefacenti e furto. Il terzo caso risale al 19 novembre dello stesso anno, quando Massimo Rosa - 63enne di Erba, in provincia di Como - era stato trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere, dov’era ricoverato per motivi di salute. Rosa aveva ucciso la madre malata, che aveva 83 anni: aveva sempre vissuto con lei e con il fratello e, come ha spiegato, progettava di uccidersi subito dopo il delitto ma aveva cambiato idea all’arrivo del fratello. Massimo Rosa era in attesa di giudizio e sarebbe stato giudicato con rito immediato. Il secondo caso è quello che continua ancora oggi a far discutere di più. Il 31 ottobre del 2014, verso le 16 del pomeriggio, il 28enne Maurizio Riunno era stato trovato impiccato con un lenzuolo alla finestra della sua cella. Riunno era stato arrestato dieci giorni prima per sequestro di persona e si trovava in carcere in custodia cautelare. Era già stato in carcere in passato ed era stato liberato poche settimane prima del nuovo arresto. Si trovava in una cella a parte, riservata ai detenuti che hanno problemi di convivenza con gli altri, una specie di isolamento: nel suo caso si trattava di esigenze giudiziarie legate alle indagini ancora in corso. La procura di Como aveva aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio, una pratica necessaria per effettuare l’autopsia che ha confermato la morte per asfissia. La famiglia però è rimasta convinta che Maurizio Riunno non si sia suicidato, soprattutto per via di alcune lettere che aveva scritto alla compagna in cui parlava del futuro, della voglia di ricominciare una vita con lei e i tre figli piccoli e con cui chiedeva francobolli per continuare a scriverle. Tutti elementi che facevano intuire che, lui, alla vita ci teneva. La donna aveva anche raccontato di aver guardato il corpo di Riunno prima dell’autopsia e di aver fotografato "un occhio nero, una spalla violacea, graffi sulle mani, graffi sul collo". Ha anche scoperto che la procura aveva sequestrato quattro lettere che aveva inviato a Riunno e una scritta da lui. La famiglia aveva chiesto aiuto ai Radicali per fare chiarezza sull’accaduto, che era stato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia Orlando dall’esponente del Pd Roberto Giachetti. A marzo del 2015, il giudice delle indagini preliminari ha rigettato la richiesta di archiviazione, accogliendo anche il ricorso presentato dall’avvocato Massimo Guarisco, legale prima di Riunno e ora dei suoi familiari. "Istigazione al suicidio" è l’ipotesi di reato sulla quale il magistrato ha ordinato di investigare. Dopotutto la stessa Procura aveva ipotizzato che il suicidio di Riunno potesse essere stato provocato, salvo poi chiedere l’archiviazione del caso per mancanza di elementi a carico di possibili sospettati. Intanto il carcere continua a mietere vittime. Nel solo 2016 sono morte 109 persone, delle quali 39 sono suicidi. Con l’impiccagione della donna somala, anche il nuovo anno comincia con la triste conta delle morti in carcere. Pesaro: detenuti "al fresco" anche in doccia, niente acqua calda di Samuele Animali (Antigone Marche) Ristretti Orizzonti, 6 gennaio 2017 Nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi, da circa un mese, manca l’acqua calda nei bagni delle celle e, per ogni reparto, c’è una sola doccia funzionante. La denuncia arrivata all’Associazione Antigone Marche. Stare al fresco in tutti i sensi. In modo da ritemprare mente e corpo allo stesso tempo. Un’esperienza che, specie a dicembre e a gennaio, deve essere di quelle che non si lasciano dimenticare tanto facilmente. Il 2017 della Associazione Antigone Marche si apre con la segnalazione che a Pesaro, Casa Circondariale di Villa Fastiggi, da circa un mese, i detenuti lamentano la mancanza di acqua calda sia nei bagni delle celle che nelle stanze con le docce. O, meglio, delle varie docce presenti in ogni reparto, solo una sarebbe ben funzionante. Una carenza di acqua calda che interessa tutte le quattro sezioni dell’istituto che, secondo il rapporto del Garante regionale dei detenuti, è il più sovraffollato della regione, con 222 detenuti (al 30 settembre 2016) a fronte di una capienza regolamentare di 153 unità. Quali siano le conseguenze della mancanza di acqua calda è facile immaginarlo: code per una rapida doccia calda e acqua fredda o niente alla maggioranza. Una situazione paradossale per ogni istituzione a cui sia affidata la cura delle persone, nei penitenziari come nelle scuole e negli ospedali. Una situazione che aiuta a comprendere come non si possano applicare i dettami costituzionali di rispetto dei diritti umani e di rieducazione delle persone private della libertà personale, quando è difficile garantire ai detenuti anche i più basilari elementi di igiene, quotidianità e convivenza. Forlì: carcere fatiscente, aspettando il nuovo che sarà pronto solo nel 2020 di Maria Neri romagnanoi.it, 6 gennaio 2017 Da oltre 10 anni non si ristruttura la rocca, ma il penitenziario al "Quattro" non sarà pronto prima del 2020. Lavori fermi per il nuovo carcere di Forlì nel quartiere Quattro. A fine anno è uscito il bando per concludere i lavori e il penitenziario non sarà pronto prima del 2020. Lo fanno sapere i riminesi Ivan Innocenti e Silvia De Pasquale del Partito Radicale che con il cesenate Enrico Maria Pedrelli, segretario dei Giovani socialisti dell’Emilia Romagna, accolti dalla direttrice Palma Mercurio e dalla comandante della polizia penitenziaria - alla guida di 99 agenti che soffrono soprattutto la mancanza di figure dirigenti - ieri hanno fatto un’ispezione alla Casa circondariale di via della Rocca. Il problema maggiore del carcere di Forlì - fanno sapere i tre politici - è proprio questo: "con il fatto che dal 2005 si attende il nuovo carcere, il vecchio, che già è un edificio ‘anticò e dunque con carenze strutturali, viene lasciato sempre di più com’è: ormai fatiscente". "Insomma - spiega Innocenti - si cerca di rattoppare, ma senza interventi strutturali da oltre dieci anni". "Chiediamo almeno - aggiungono - che venga riaperta l’ala in cui sono finiti i lavori di ristrutturazione, capace di ospitare 36 persone, ancora inspiegabilmente chiusa". I problemi maggiori riguardano, dunque, a Forlì i locali del carcere a partire dai servizi come le docce nella sezione maschile, mentre è particolarmente vivace la realtà associativa e le imprese che "investono" energie nella Casa circondariale forlivese con un paio di laboratori e attività lavorative che offrono un’opportunità di lavoro ai detenuti e dunque di fattiva "rieducazione". Non c’è in questo momento invece il problema del sovraffollamento con 114 detenuti (su una capienza massima di 126), 95 uomini e 19 donne, di cui 41 stranieri. In attesa di giudizio ci sono però 43 persone, mentre in 34 non hanno ancora subito alcun tipo di processo. Un fatto grave per chi si batte da sempre per l’amnistia "decisa dalla politica e non dalle prescrizioni dei magistrati". Fonte di molte lamentele a tutti i livelli, dai detenuti alla direzione, è invece "l’assenza" del magistrato di sorveglianza (che decide permessi, percorsi formativi, possibilità di accedere a benefici e altro): una figura fondamentale per chi è costretto in carcere e che, se manca, limita enormemente la funzione del carcere che non è punitiva in Italia, ma riabilitativa. Lavori fermi per il nuovo carcere di Forlì nel quartiere Quattro. A fine anno è uscito il bando per concludere i lavori e il penitenziario non sarà pronto prima del 2020. Lo fanno sapere i riminesi Ivan Innocenti e Silvia De Pasquale del Partito Radicale che con il cesenate Enrico Maria Pedrelli, segretario dei Giovani socialisti dell’Emilia Romagna, accolti dalla direttrice Palma Mercurio e dalla comandante della polizia penitenziaria - alla guida di 99 agenti che soffrono soprattutto la mancanza di figure dirigenti - ieri hanno fatto un’ispezione alla Casa circondariale di via della Rocca. Il problema maggiore del carcere di Forlì - fanno sapere i tre politici - è proprio questo: "con il fatto che dal 2005 si attende il nuovo carcere, il vecchio, che già è un edificio ‘anticò e dunque con carenze strutturali, viene lasciato sempre di più com’è: ormai fatiscente". "Insomma - spiega Innocenti - si cerca di rattoppare, ma senza interventi strutturali da oltre dieci anni". "Chiediamo almeno - aggiungono - che venga riaperta l’ala in cui sono finiti i lavori di ristrutturazione, capace di ospitare 36 persone, ancora inspiegabilmente chiusa". I problemi maggiori riguardano, dunque, a Forlì i locali del carcere a partire dai servizi come le docce nella sezione maschile, mentre è particolarmente vivace la realtà associativa e le imprese che "investono" energie nella Casa circondariale forlivese con un paio di laboratori e attività lavorative che offrono un’opportunità di lavoro ai detenuti e dunque di fattiva "rieducazione". Non c’è in questo momento invece il problema del sovraffollamento con 114 detenuti (su una capienza massima di 126), 95 uomini e 19 donne, di cui 41 stranieri. In attesa di giudizio ci sono però 43 persone, mentre in 34 non hanno ancora subito alcun tipo di processo. Un fatto grave per chi si batte da sempre per l’amnistia "decisa dalla politica e non dalle prescrizioni dei magistrati". Fonte di molte lamentele a tutti i livelli, dai detenuti alla direzione, è invece "l’assenza" del magistrato di sorveglianza (che decide permessi, percorsi formativi, possibilità di accedere a benefici e altro): una figura fondamentale per chi è costretto in carcere e che, se manca, limita enormemente la funzione del carcere che non è punitiva in Italia, ma riabilitativa. Bergamo: "la pena giusta", intervista a suor Margherita e ai detenuti di Casa Samaria di Ludovica Di Masi camminodiritto.it, 6 gennaio 2017 Qual è la giusta pena secondo i detenuti? Cosa c’è dietro le quinte di una condanna? Ne parliamo con gli addetti ai lavori e con i diretti interessati. Casa Samaria, si trova a Bergamo, a fianco alla Casa Madre delle Suore delle Poverelle. Tra i tanti compiti che svolge, la comunità accoglie persone cui è stata applicata una misura alternativa alla detenzione; offre ai detenuti un sostegno stabile fuori e dentro l’Istituto penitenziario di Bergamo. Intervista a Suor Margherita Gamba Sour Margherita Gamba presta la sua opera ai detenuti (e non solo) di Casa Samaria. Fa parte della Congregazione delle Suore delle Poverelle, composta da circa 800 suore che esplicano la loro missione in tutto il mondo. Si occupano dei più bisognosi: dei bambini, dei malati, dei poveri, accogliendoli nelle loro case. D: Innanzitutto la ringrazio per avermi dato la possibilità di intervistarla e di intervistare i detenuti di Casa Samaria. Colgo l’occasione per complimentarmi con lei per il lavoro quotidiano che svolge con massima sensibilità. Il suo lavoro è molto delicato, richiede una grande forza d’animo e un gran coraggio. Quali funzioni svolge in carcere? R: Attività di ascolto ed accompagnamento umano e spirituale delle detenute in collaborazione con l’area trattamentale; attività di catechesi e animazione liturgica in collaborazione con il Cappellano; partecipazione ed affiancamento alle insegnanti nei laboratori di ceramica e nelle diverse attività artigianali allestite in sezione; gestione di alcune attività ergo-terapiche nella sezione femminile: biblioteca, laboratori creativi, cineforum, progetti di inclusione sociale. D: Quali atteggiamenti mostrano i detenuti verso la sua figura? R: Si sono dimostrati sempre rispettosi, e accoglienti. D: Secondo lei, quali devono essere le caratteristiche di una pena giusta? R: Penso che sia difficile dire qual è la pena giusta. Se si applica la legge, ad ogni reato corrisponde una condanna; se invece pensiamo alla persona che ha commesso un reato, diverso è il pensiero. Mi spiego: una persona riceve una condanna e inizia a scontarla ma se si dà alla persona l’opportunità di prendere consapevolezza del dolore che ha arrecato e l’occasione di poter riparare, allora la pena sarà giusta. Intervista ai detenuti Come prima cosa, ringrazio i detenuti per la loro disponibilità. Per rispettare la loro privacy, ho preferito lasciare l’anonimato. Ogni domanda è stata rivolta a quattro persone, ragion per cui l’intervista procede in modo incrociato. D: Qual è la causa della sua detenzione? R1: Per documenti falsi. R2: Per detenzione illecita di armi. R3: Trasporto di droga. R4: Favoreggiamento all’immigrazione clandestina. D: Ritiene giusta la pena che le è stata inflitta? R1: Assolutamente no, mi sembrano troppi due anni per dei documenti falsi. R2: La ritengo troppo alta perché il mio ruolo era marginale. R3: Per quello che ho fatto la ritengo giusta, è la conseguenza dell’azione che ho commesso. R4: Non è giusta perché non hanno ascoltato le mie motivazioni. D: Come ha reagito quando è stata condannata? R1: Ero disperata, persa, non sapevo più cosa fare. Piangevo e non capivo cosa stava succedendo perché, essendo straniera, non capivo l’italiano e io non riuscivo a farmi capire da loro. R2: Sono stata un po’ male perché ero lontana dalla mia famiglia… ero più preoccupata per loro che per me. R3: Nel peggiore dei modi: ero nervosa, avevo paura, piangevo e pensavo che non sarei più andata a casa dalla mia famiglia. R4: Non l’ho vissuta malissimo perché comunque me l’aspettavo. D: Crede che alla società importi di lei e del suo futuro? R1: Quando ero in carcere mi sentivo sola e abbandonata ma quando sono stata accolta in comunità mi sono sentita voluta bene e importante per qualcuno. Agli operatori della comunità importa del mio futuro, il percorso vuole proprio accompagnarmi nella mia "nuova vita". R2: Quando ero in carcere pensavo non importasse molto di me alla gente. Quando, invece, sono venuta in comunità mi son sentita subito parte di una famiglia sentendomi una persona e non una "detenuta". A loro interessa aiutarmi a migliorare il mio futuro, accompagnandomi verso la libertà. R3: Credo che alla società interessi poco perché quando entri in carcere sei etichettata come "detenuta" e lo stesso è poi quando esci. Ma a Casa Samaria interessa di me e del mio futuro. R4: A qualcuno sì, come le comunità che ti aiutano a vivere la pena in modo diverso. Al resto della società non molto, siamo sempre classificati anche quando finiamo la pena perché non ci danno occasioni di lavoro e ci guardano sempre con ignoranza, anche se hai fatto un percorso e sei cambiata. D: Crede nella funzione risocializzante della pena? R1: Sì, ci credo perché per me è così, da quando sono in comunità sento che è molto più risocializzante rispetto al tempo trascorso in carcere. R2: Essendo la mia pena troppo alta (a mio modo di pensare) questo mi porta a stare lontano per troppo tempo dalla mia famiglia e questo mi fa essere un po’ arrabbiata. Comunque gli insegnamenti di Casa Samaria mi aiutano ad essere migliore. R3: Sì, da quando sono in comunità (perché in carcere non ho imparato nulla di buono) ho imparato a vivere le relazioni, a sentirmi responsabile, attiva, impegnata. R4: Se si ha la possibilità di un percorso in alternativa al carcere sì, ma in galera no. D: Secondo lei, l’ergastolo può essere considerato una giusta pena? O è solo una morte civile? R1: No, non è giusta in quanto non può essere né risocializzante né rieducativa… è una morte lenta. R2: No, non è una pena giusta, è morire lentamente. Anche se, pensandoci, in alcuni reati (come l’abuso di bambini) lo ritengo giusto. R3: Non credo sia giusta. R4: Se il giudice ritiene che merita questa pena vuol dire che è giusta…senza dimenticare però che sono sempre persone e non bisogna lasciarle "ai margini". D: Secondo lei, per essere giusta una pena, quali caratteristiche deve avere? Cosa si sente di consigliare alle Istituzioni? R1: Per essere giusta deve essere umana. R2: Non lo so. R3: Una pena giusta aiuta a migliorarsi facendo molte attività (lavoro, volontariato,…) senza vivere la noia, come è in carcere. R4: Dipende sempre dal reato che hai commesso. I percorsi in alternativa al carcere, se fatti bene, aiutano. D: Se potesse dire qualcosa al giudice che l’ha condannata, cosa gli direbbe? R1: Preferisco non rispondere perché sono troppo arrabbiata con lui. R2: Gli direi di provare a mettersi nei miei panni per capire cosa si prova. R3: Gli racconterei la mia vita, le mie motivazioni (senza giustificarmi) per fargli capire perché sono arrivata qui. R4: Niente, quello che avevo da dirgli gliel’ho detto in udienza. Lui fa il suo lavoro. D: Come si vive dietro le sbarre? Qual è la sua giornata-tipo? R1: A Bergamo il carcere non è troppo brutto, ci sono le suore e poi le celle sono aperte, però ti manca tutto soprattutto la libertà. In carcere le giornate le passavo aspettando che il tempo passasse, mentre qui in comunità le giornate passano veloci perché sei impegnata e ti senti come "in famiglia". R2: Fortunatamente ci sono le suore con noi, quindi non si sta troppo male. Le giornate sono noiose perché non c’è nulla da fare e rischi di diventare matta. La convivenza è difficilissima. R3: La vita è difficile senza libertà, ogni giorno è faticoso soprattutto perché lontano dalla famiglia e dagli amici. Ci sono troppe "chiacchiere" in carcere tra le detenute. R4: In carcere manca la vita privata, i sentimenti, i familiari…per il resto hai comunque quello che ti serve per vivere (un tetto, cibo, acqua, riscaldamento). D: Cosa farà quando avrà finito di scontare la sua pena? R1: Prenderò l’aereo per tornare a casa dai miei figli, riprendendo in mano la mia vita con gli insegnamenti che ho imparato in comunità. R2: Desidero continuare ad aiutare la mia famiglia, come ho sempre fatto, cercando di dare al mio fratellino un’educazione corretta per evitare che arrivi dove sono arrivata io. Per me invece non so ancora che futuro costruirò. R3: Cercherò un lavoro custodendo tutto quello che ho imparato qui. R4: Cercherò di mettere nella mia vita le buone cose che ho imparato vivendo una vita tranquilla e normale. Ascoli Piceno: in carcere Gesù nasce in una tenda della protezione civile di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 gennaio 2017 A Marino del Tronto i detenuti realizzano un presepe ambientato nella piazza di Norcia e dedicato alle vittime e alle popolazioni colpite dal terremoto. Fitto calendario degli eventi natalizi per avvicinare le famiglie e alleviare il dolore dovuto all’isolamento. La mangiatoia in una tenda della protezione civile, le macerie e la polvere dei crolli al posto della sabbia del deserto. La piazza di Norcia, fedelmente riprodotta, a fare da sfondo e la natività come segno di una rinascita che invita tutti a ripartire da zero e a ripensare strutture fisiche e filosofia di vita. È questo il messaggio di speranza, condivisione e solidarietà che arriva nei confronti delle popolazioni colpite dal terremoto, dai detenuti del carcere di Ascoli Piceno che hanno ambientato il presepe 2016 nel contesto che nelle Marche dall’agosto scorso ha segnato pesantemente la vita di migliaia di persone. Il lavoro, realizzato con la collaborazione dei volontari della Caritas, coordinati da Altero Cinaglia, partecipa alla mostra di presepi promossa dal centro culturale San Giacomo della Marca e resterà visibile al pubblico fino al 6 gennaio. Giunta quest’anno alla 41ma edizione, l’esposizione propone presepi artigianali provenienti da tutta Italia e da diversi anni ospita anche le opere realizzate nell’istituto di pena di Marino del Tronto. Oltre al presepe, fitto il calendario degli eventi promossi dalla direzione del carcere per le festività natalizie e che si concluderà sabato 7 gennaio con il concerto del Movimento Fides Vita e il Requiem di Mozart del coro "Incanto Piceno". Ha aperto il programma, l’appuntamento con la seconda edizione della partita di calcio organizzata a livello nazionale dall’associazione "Bambini senza sbarre" e che offre ai figli dei detenuti la possibilità di trascorrere un pomeriggio di festa con entrambi i genitori, tifando il papà impegnato in campo. "Il giorno di Natale - racconta la direttrice del carcere, Lucia Di Feliciantonio - il Vescovo di Ascoli è venuto a celebrare la messa e nel pomeriggio c’è stata la classica tombolata con i volontari della Caritas. Molto coinvolgente è stato il concerto gospel dei Blue Voices Gospel Choir, integrato, per l’occasione, dal nostro coro Brigantorum. E, sempre dedicato ai bambini, un momento dei colloqui con i giochi donati dalle classi elementari dell’Istituto scolastico delle suore Concezioniste di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto. Il Natale è uno dei periodi più complessi in carcere e cerchiamo sempre di renderlo meno pesante, coinvolgendo le famiglie e creando momenti di svago per alleviare la sofferenza causata dall’isolamento". Porto Azzurro (Li): artigianato dei detenuti in mostra quinewselba.it, 6 gennaio 2017 ?I lavori di artigianato dei detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro in mostra alla Biblioteca comunale di Rio nell’Elba. Giovedì 5 e venerdì 6 gennaio presso la Biblioteca comunale di Rio nell’Elba si svolgerà la mostra di oggetti d’artigianato, realizzati dai detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro. La mostra, ad ingresso libero, sarà aperta giovedì dalle ore 16 alle ore 23 e venerdì dalle ore 9 alle 18. Si tratta di un’importante iniziativa organizzata in collaborazione fra il Comune di Rio nell’Elba e l’amministrazione del carcere elbano, che si affianca alla già attiva collaborazione per il reinserimento sociale dei detenuti, in base alla convenzione stipulata lo scorso anno fra i due enti. "In questo caso - spiega l’amministrazione comunale - l’obiettivo è valorizzare il lavoro creativo svolto dalle persone che, pur vivendo in una situazione di libertà ristretta, tuttavia, grazie anche al personale educativo e ai volontari, hanno l’opportunità di sviluppare delle competenze artigianali ma anche artistiche. Questa iniziativa si inserisce nel percorso che da alcuni anni si cerca di portare avanti su più livelli da parte dell’amministrazione della Casa di reclusione di Porto Azzurro per creare sempre più ponti fra il dentro e il fuori, in modo tale anche da favorire il futuro reinserimento sociale dei detenuti". Firenze: la band in eterno mutamento suona un rap che rende liberi di Fulvio Paloscia La Repubblica, 6 gennaio 2017 Nonostante il nome, l’Orkestra Ristretta è un collettivo allargatissimo, mutevole, che non ha una line- up definita ma che di anno in anno vede avvicendarsi membri sempre nuovi e diversi. È il luogo dove è nata a determinare questa metamorfosi che, dal 2004, è la peculiarità del gruppo: la casa circondariale di Sollicciano, dove si scontano pene brevi e dove i detenuti spesso sono di passaggio per altre destinazioni. Lì, Massimo Altomare, figura storica del cantautorato italiano più libero e eticamente rigoroso, tiene un laboratorio musicale i cui frutti sono ora in un disco, il primo di questa formazione, Otto. Tessere fili spezzati con le note è il compito di Altomare: spezzate sono le vite di chi si trova a scontare una pena, lunga o breve che sia; spezzata è la comunicazione tra culture di provenienza e le diverse etnie rinchiuse in cella e che la musica riporta ad una sana, consapevole convivenza, ad uno scambio di esperienze di vita e di speranze. Il rapporto tra dentro e fuori - dentro uguale vita dietro le sbarre ma anche sfide e macerazioni del proprio io - è il filo che tiene unita la trama di questo disco, cucito con l’appuntito ago del rap, il genere musicale prediletto dai membri dell’Orkestra versione 2016. Che fa epidermicamente suoi pezzi come Gangstàs paradise di Coolio e Rebel Rebel di David Bowie trasformandole da "banali" cover in specchi in cui guardarsi negli occhi e riflettere sul proprio passato, la propria memoria, il rancore, la rabbia, l’errore, il riscatto. Ingenuità e schematismi passano in secondo piano rispetto all’entusiasmo di ogni singolo componente, alla capacità - orchestrata con maestria da Altomare - di dire la propria ma di trovare anche un dialogo con l’altro, di mettere il singolo in relazione con il resto della comunità. E, soprattutto, di trascinare l’ascoltatore "libero" in un mondo dove niente è scontato, dove le contraddizioni devono trovare per forza una soluzione. E dove la musica diventa davvero una questione di sopravvivenza. Napoli: il calciatore Marek Hamsik inforna una pizza per i giovani detenuti di Nisida di Robert Perdicchi Il Secolo d’Italia, 6 gennaio 2017 Cori da stadio, incoraggiamenti al calciatore e una richiesta al loro idolo: "Non togliere mai questa maglia!". E Marek Hamsik li ha rassicurati. Il calciatore del Napoli è stato in visita al carcere minorile di Nisida con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma anche con il compagno di squadra Dries Mertens e il nuovo acquisto Leonardo Pavoletti. I calciatori hanno risposto alle domande dei giovani detenuti, che hanno messo in difficoltà i campioni su alcuni argomenti come il motivo della scelta del numero 32 per Pavoletti e se Mertens rinnoverà il contratto, oltre al discusso rapporto che il belga ha con il collega napoletano Insigne. Il ministro ha ringraziato i calciatori per la partecipazione all’evento "perché il carcere deve manette il contatto con la società - ha affermato Orlando - sennò il lavoro fatto qui dentro non porta risultati". E allora, pronti via al nuovo arrivato Pavoletti: "Ti devi prendere la nove", gli ha urlato Salvatore. "Ti spetta". E lui: "Non è mai stato il mio numero preferito anche se sono un centravanti. L’anno prossimo, magari, vediamo come va". Ovazione per Marek Hamsik, che s’è divertito a infornare una pizza per i ragazzi. L’isola di Nisida era proprietà del duca di Amalfi e si è trasformata, nel corso degli anni, da lazzaretto fino a diventare casa di rieducazione negli anni Trenta. ll’interno della cinta muraria, la struttura è suddivisa in diverse palazzine: la prima, adiacente alla cinta muraria, è occupata dagli uffici della direzione e del personale amministrativo. Due palazzine sono destinate all’accoglienza dei ragazzi, divisi per sesso. Un’altra area, dove si trova la biblioteca, è dedicata alle attività didattiche. Vi è, poi, il teatro, voluto da Edoardo De Filippo e diversi spazi dedicati ai laboratori di formazione professionale. Gli agenti di polizia penitenziaria sono in totale 70 unità, rispettivamente 54 unità di Polizia Penitenziaria Maschile e 16 unità di Polizia Penitenziaria Femminile. Sono tenuti a frequentare corsi di specializzazione modulari e vestono abiti civili. Gli educatori sono 8, di cui 3 in formazione più un capo area. Una struttura modello, se non fosse per il valore ambientale del sito stesso. Che differenza c’è tra uomini e donne che vivono in carcere? di Letizia Paolozzi Il Dubbio, 6 gennaio 2017 Tre film - "Nella casa di Borgo San Nicola"; "Spes contra spem, liberi dentro" e "Robinù" diversi tra loro, mi hanno suscitato uno stesso interrogativo: in quale maniera si manifesta la differenza di questi uomini e queste donne che hanno frequentato il male? Lo stato, la vita umana, la violenza, l’indifferenza, la morte, la giustizia, il diritto, la colpa, la pena. Ne parlano tre film, diversi tra loro per tempi e luoghi in cui sono stati girati e soprattutto per gli interrogativi che rimbalzano dall’uno all’altro. Tuttavia, a me i film hanno suscitato un interrogativo che può apparire bizzarro: in quale maniera si manifesta la differenza di questi uomini e queste donne che hanno frequentato il male? Provo a estrapolare intanto da Caterina Gerardi e dal suo "Nella casa di Borgo San Nicola", tratto da un’indagine di Sandra del Bene, Caterina Gerardi, Rosamaria Francavilla (diventato poi un libro per le Edizioni Pensa MultiMedia). Caterina è fotografa sensibile. Nel raccogliere le aspirazioni e disperazioni delle detenute nella Sezione dell’Alta Sicurezza, accusate di reati legati al traffico o allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione, complicità con elementi legati alla malavita organizzata (Sacra corona unita), mette in scena mogli, sorelle, figlie di uomini già sottoposti a regime carcerario. Spesso, ma non sempre "il perché mi sono trovata in questa situazione" restituisce storie di miseria, senza possibilità di trasformazione. Crescere in un luogo poverissimo equivale a considerare la droga lo strumento per esistere. Per sopravvivere. Dietro i cancelli di ferro, il tempo scorre vuoto. "Viviamo in attesa della posta". La libertà - quell’allungare le braccia fuori dalle inferriate - significa ricucire legami strappati. "Mettiamo per assurdo che io abbia sbagliato; mio figlio però non ha sbagliato. Eppure, non me lo lasciano vedere". Il carico di negatività dell’esistenza viene scaricato sull’istituzione: "La legge con noi è ingiusta". Mica pretendono un trattamento speciale per via del loro sesso; unicamente, che la pena sia commisurata al reato compiuto. "Non giudicatemi in quanto moglie, sorella, figlia di…". Ma qui si annida la contraddizione con il convincimento che la punizione gli sia stata inflitta perché si sono rifiutate di "tradire" l’uomo amato. Speciale eroismo per un sentimento speciale. D’altronde, se quel boss "mi ha scelta", mi conferisce identità; dimostra la mia superiorità sulle altre donne. Qualcuna, sfrontata, comincia a rivendicare il gusto del comando. Passerà qualche tempo (il film Caterina Gerardi l’ha girato nel 2008) e nei reati di criminalità organizzata la parità con gli uomini conduce tante ad assumere il ruolo del compagno, del marito detenuto. Più focalizzato sulla (in) disponibilità della vita umana da parte dello Stato, il docufilm Spes contra spem, liberi dentro (è spesso contro la speranza che bisogna sperare, insegnava l’apostolo Paolo) a testimonianza della intensa attenzione di Marco Pannella (scomparso nel maggio scorso) e del Partito radicale (l’associazione "Nessuno tocchi Caino" con Sergio d’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti) sullo stato del sistema carcerario. Qui la macchina da presa di Ambrogio Crespi artiglia il lavoro di trasformazione soggettiva di alcuni "invisibili" (in Italia sono 1200) ristretti nel carcere duro di Opera. Sono i condannati del "fine pena mai". Se nell’ergastolo "normale", dopo 26 anni di detenzione, i condannati possono uscire oltre ad avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale, in quello "ostativo" i condannati risiederanno in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario, tranne in un caso: collaborando con la giustizia, diventando "pentiti". Nel docufilm, criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi espongono quasi fisicamente la fatica di una lingua in grado di disimparare (e disinnescare) la violenza. In effetti, dietro le sbarre "ho scoperto che sono libero di non uccidere" e "qui mi sono liberato delle cose che mi rendevano prigioniero dentro la testa". Visione "troppo poetica" (si è chiesto Salvatore Aleo, ordinario di Diritto penale all’università di Catania) per spazi senza tempo, dominati dalla luce artificiale, dove si vedono unicamente muri di cemento di fronte alle sbarre delle finestre? Infine, il film Robinù, di Michele Santoro con i ragazzini dei bassi napoletani (Forcella, i Decumani, i Tribunali, Porta Capuana) in fuga dall’adolescenza. Per diventare grandi, prendono esempio dai film americani furiosi; aspirano a possedere un "kalash" a riprova della loro potenza sessuale: "Meglio che stringere tra le braccia Belen". Obiettivo, i soldi. Tantissimi. Almeno, ne favoleggiano. Nei vicoli si accumulano i segni esteriori della riuscita sociale. Giubbotti alla moda, teste rasate sulle tempie, canna da fumare adagiata sull’orecchio, smartphone. "Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te". La "paranza dei bambini" occupa da due anni le strade napoletane. Baciare la pistola che ha sparato contro i poliziotti e poi festeggiare in un bar con champagne e cornetti: il rischio, la sfida, l’imprudenza sono all’ordine del giorno. Vince la legge del più forte. Impossibile sottrarsi al proprio destino. A meno di non scappare tirando un rigo sui codici, sulle parole d’ordine del tuo territorio. A scuola no, i ragazzini non sono mai andati. Comunque, la disaffezione scolastica non è affare recente. Entrare in carcere a diciassette anni; uscirne a quaranta. "Tu però queste cose le devi fare ora. Perché così, se vai in galera per vent’anni, esci e hai tutta la vita davanti". Emanuele Sibillo, il Robinù del titolo, ucciso latitante a diciannove anni da un clan rivale, ammoniva: "Non dovete comportarvi come me". L’hanno trasformato nell’icona del padre autorevole. Le figure femminili sono anch’esse protagoniste. Pronte a discutere sui modi di preparare le palline di coca o su Maria De Filippi, cambiano rapidamente posizione: da mogli giovanissime a compagne del nuovo capo. Certo, nel film di Santoro e prima, Nella casa di Borgo San Nicola, l’ineluttabilità della condizione femminile viene comprovata dalla funzione di moglie, madre, sorella, amica. Ai figli, alle famiglie si riferiscono pure i condannati del carcere di Opera. Ma loro ne ragionano con una sorta di autocoscienza femminista per scavare un intervallo dalla violenza praticata giacché "non si smette di essere persone per l’essere imprigionati a motivo del reato commesso". In Robinù i ragazzini hanno perso ogni capacità di distinguere tra male e bene. La loro è una rivolta giovanile spettacolarizzata nella quale famiglia, cultura, ambiente non rappresentano più un riparo, un contenimento. Si tira avanti in questa valle di lacrime dove la ragazza- madre agli arresti domiciliari spaccia per 35 euro al giorno. Badate: spaccia ai figli degli altri per la sopravvivenza del proprio figlio. E dal momento che "spacciatrici si nasce", lei che non ci è nata, si è trasformata - senza rimorsi, senza sensi di colpa - in spacciatrice "di necessità". Ma ai ragazzini di Forcella chi insegnerà la distinzione tra bene e male se non ci sono parole autorevoli da spendere? Migranti, il rapporto: "Cie inefficaci, producono clandestini invece di aiutare le espulsioni" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 gennaio 2017 La Commissione diritti umani del Senato: "Sostanziale fallimento del piano europeo, a un aumento delle persone identificate non corrisponde quello dei migranti ricollocati o delle persone rimpatriate". "Il bilancio dell’approccio hotspot non può che considerarsi deficitario ed evidenziare un sostanziale fallimento del piano europeo: a fronte del raggiungimento di un tasso di identificazioni di oltre il 94 per cento, non sono corrisposti risultati positivi in termini di persone ricollocate e persone rimpatriate". Qualche numero: "Alla fine di dicembre 2016, sono state ricollocate dall’Italia in altri Stati membri solo 2.350 persone sul totale di 40.000 previste dal piano europeo". Appena il 5 per cento. "La funzione del Cie è praticamente esaurita" - L’ultima fotografia scattata dalla Commissione diritti umani del Senato sui Centri di identificazione ed espulsione in Italia risale a tre giorni fa, è aggiornata con i dati relativi al 2016, e mostra che la quota di persone distribuite sul continente o rispedite nel Paese d’origine è molto inferiore alla soglia programmata o perseguita dalle varie strategie governative. La più recente, annunciata dal Viminale, prevede il ritorno ai Cie, ma dalla relazione della commissione presieduta da Luigi Manconi, senatore del Pd come il ministro dell’Interno Marco Minniti, emerge una critica nemmeno troppo velata. Perché "proprio alla luce dell’elevatissima percentuale di persone identificate all’interno degli hotspot e alla disponibilità immediata di dati anagrafici e impronte digitali in una banca-dati condivisa da tutte le forze di polizia degli Stati membri, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita". La difficoltà nei rimpatri - Insomma, se tra i migranti si vogliono cercare e fermare in tempo i potenziali terroristi o le persone considerate pericolose perché hanno già commesso reati, è un problema di polizia e di coordinamento tra apparati, soprattutto a livello europeo; non di identificazione. E nemmeno di espulsione, visto l’esito di quella ordinata - prima in Italia e poi in Germania - nei confronti di Anis Amri, lo stragista di Berlino. "L’analisi dei dati conferma le difficoltà nell’eseguire i rimpatri e l’inefficacia dell’intero sistema di trattenimento ed espulsione degli stranieri irregolari", denuncia la relazione. Durante i primi nove mesi del 2016, su 1.968 persone passate dai Cie, ne sono state rispedite indietro solo 876, cioè meno della metà. E negli anni precedenti, quando i numeri erano più alti, si è sempre rimasti intorno alla soglia del 50 per cento. Gli altri diventano automaticamente irregolari. Gli hotspot - Un’altra fabbrica di clandestini sono gli hotspot dove vengono raccolti i migranti prima dello smistamento secondo le indicazioni europee. Quelli che fanno domanda di asilo politico entrano in un circuito separato, mentre chi non lo chiede è destinato al rimpatrio. In teoria. Tra il settembre 2015 e il gennaio 2016, tra quelli sbarcati a Lampedusa 74 sono stati distribuiti nei Cie, mentre 775 (più del 18 per cento sul totale degli arrivi) hanno ricevuto l’ordine di lasciare il Paese entro sette giorni, verosimilmente non rispettato: "Di fatto sono destinati a rimanere irregolarmente sul territorio italiano, e a vivere e lavorare illegalmente e in condizioni estremamente precarie nel nostro Paese". I dati sull’hotspot di Taranto, relativi al periodo marzo-ottobre del 2016, riferiscono di 14.576 migranti transitati da quella struttura, di cui solo 5.048 (il 34 per cento) arrivati con gli sbarchi; gli altri "sono stati rintracciati sul territorio italiano e condotti a Taranto per essere identificati". Una pratica che secondo la Commissione "desta molte perplessità". Il 22 ottobre ne sono arrivati un centinaio da Milano, raccolti di notte intorno alla stazione; i successivi controlli hanno appurato che "alcuni avevano già avviato la procedura per la richiesta d’asilo, erano in possesso di regolare permesso di soggiorno e disponevano di un posto nel circuito di accoglienza". Anche a Taranto, come dagli altri Centri, chi non ha diritto all’asilo è destinato alla clandestinità. Nonostante la grande maggioranza aspiri a un lavoro, o già lo eserciti nelle pieghe nascoste della società. "C’è la tendenza a spingere verso l’illegalità criminale coloro che invece vorrebbero emergere nella legalità della regolarizzazione" spiega il presidente Manconi, per il quale una soluzione adeguata può essere cercata solo con adeguate politiche sociali. Migranti. I Cie ci costano 147 milioni, tra detenuti senza nome, evasioni e rivolte di Andrea Rossi La Stampa, 6 gennaio 2017 Solo il 50% degli "illegali" viene davvero rimpatriato. In media si spendono 10 mila euro per ogni immigrato È sempre stata (anche) una questione di sfumature lessicali. Li chiamavano Cpt: centri di permanenza temporanea. Permanenza, non detenzione, eppure hanno sbarre e filo spinato; sono strutture di passaggio, ma fino a poco tempo c’è chi vi restava anche un anno e mezzo. Nel 2008 hanno cambiato nome e ragione sociale: Cie, centri di identificazione ed espulsione. Ora il governo vorrebbe aprirne uno in ogni regione: strutture da 80-100 posti, vicine agli aeroporti. Eppure i Cie non hanno mai funzionato: una persona su tre non viene identificata e torna in libertà; e solo la metà degli "ospiti" finisce su un aereo che la riporta in patria. La macchina dei Cie, al massimo della sua efficacia, è riuscita a rimpatriare 4.459 persone. Era il 2007, si chiamavano ancora Cpt, e per produrre un risultato così modesto, quell’anno, le tredici strutture costruite dopo la legge Turco-Napolitano del1998 sono costate circa 100 milioni. Tredici centri per 1.900 posti, lievitati con il piano di ampliamenti nel 2011: 3 mila nuovi letti al costo di 250 milioni; ne erano già stati spesi 100 tra il 2008 e il 2011. Oggi ne restano sei, con una capienza massima di 720 posti. L’ultima relazione della commissione diritti umani del Senato risale allo scorso anno e certifica che dal primo gennaio al 20 dicembre 2015 sono transitate nei Cie 5.242 persone, di cui 2.746 poi rimpatriate. Poco più del 50%. Come negli anni precedenti. Come prima del 2011 quando per ovviare al principale dei problemi - la difficoltà nell’identificare gli "ospiti" - fu deciso di estendere da 6 a 18 mesi il periodo massimo di detenzione. Senza identità La misura si è rivelata un boomerang. La popolazione che transita nei Cie è composta per la maggior parte da persone che provengono dal carcere: significa che durante la detenzione non è stato possibile dare loro un nome. Al Cie, poi, il meccanismo spesso si inceppa perché il consolato del paese di (presunta) origine non collabora; per l’espulsione è necessario che il console riconosca lo straniero e successivamente rilasci il documento di viaggio per il rimpatrio. Un terzo dei reclusi dunque resta senza nome e solo la metà viene espulso. In compenso - complici le condizioni di vita nelle strutture - la stretta de 2011 ha moltiplicato evasioni e rivolte: solo due detenuti su cento riuscivano a scappare; dai primi mesi del 2011 le evasioni hanno superato il 7 per cento. Dei tredici Cie costruiti, sette sono stati chiusi proprio perché devastati dalle rivolte; gli altri funzionano a ranghi ridotti perché parzialmente inagibili, per lo stesso motivo. Anziché fare progressi, l’efficacia delle strutture nel tempo è precipitata: dai Cie passano circa 6 mila persone l’anno (l’apice è stato nel 2009: 10.913), un’inezia, visto che secondo le stime per l’Italia si aggirano almeno 400 mila immigrati senza permesso. Detto del 30 per cento rilasciato con un foglio di via perché non identificato, e del 7 per cento di evasi, restano i molti che abbandonano i Cie per motivi di salute e i pochi che vi muoiono. E resta un’altra falla nel sistema: un immigrato su dieci fa ricorso davanti al giudice di pace, lo vince, e viene rilasciato. I costi di gestione Preso atto del fallimento, lo Stato è tornato indietro: nel 2014 il periodo massimo di detenzione è stato ridotto da 18 a 3 mesi. In termini di efficacia non è cambiato molto, ma - per lo meno - si sono ridotti i costi di una macchina che macina denaro. Il professor Alberto Di Martino, docente di diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, nel 2013 con alcuni colleghi ha pubblicato una ricerca sui Cie. Ne ha esaminato gli aspetti giuridici concludendo che la "lotta" all’immigrazione irregolare in Italia viene "condotta con uno strumento penale che si è rivelato insostenibile sia alla luce dei parametri costituzionali italiani, sia della normativa europea". Ma soprattutto che lo strumento è tanto inefficace quanto costoso. Per ogni "ospite" lo Stato spendeva circa 55 euro per ciascun giorno di detenzione, cifra che di recente si è ridotta per via degli appalti al massimo ribasso. La gestione dei tredici Cie è arrivata a costare anche 147 milioni l’anno e mai meno di 60. In più oltre cinque milioni l’anno se ne vanno in burocrazia e spese legali: ogni immigrato ha diritto al gratuito patrocinio (costo medio 350 euro) cui vanno sommati 20 euro per ogni udienza in tribunale e 10 per ciascun ordine di convalida. Di Martino ha calcolato che dal momento dell’ingresso in un Cie per ciascun immigrato si spendono più di 10 mila euro. Spesso senza ottenere alcun risultato. Ma tutto il sistema è farraginoso: nel 2015 su 34.107 stranieri sottoposti a un provvedimento di espulsione 18.128 non hanno mai lasciato il paese. Migranti. Fuochi incrociati sul progetto securitario del governo, renziani in difesa di Andrea Colombo Il Manifesto, 6 gennaio 2017 La sinistra critica un modello fallito, la destra cavalca la propaganda facile. Linea dura dei 5 Stelle. Amnesty: "Il ricorso ai rimpatri potrebbe aumentare se si confermeranno le procedure superficiali e sommarie di valutazione dei requisiti per l’asilo". Tra due fuochi. Il ritorno ai Cie di Minniti e Gentiloni viene preso di mira, per motivi opposti, sia da sinistra che da destra e, con qualche contorsione in più, anche dall’M5S. I renziani, dopo l’esitazione iniziale e dopo la sostanziale retromarcia del ministro rispetto al progetto annunciato qualche giorno fa, appoggiano ora con la vicesegretaria e presidente del Friuli Serracchiani la svolta securitaria. Rispondendo al presidente della commissione Difesa del Senato Latorre, Pd, molto vicino a Minniti, che si era detto in un’intervista al Corsera "esterrefatto e colpito dalle critiche da parte di esponenti del Pd come Debora Serracchiani", la vicesegretaria cambia bruscamente marcia: "Già dalle modalità attraverso le quali si sta precisando il piano del Viminale si potrebbe capire che con Minniti c’è volontà di dialogo, approfondimento e collaborazione. Ma servono strutture piccole e agili, come dice lo stesso Latorre". Il tema, conferma la vice di Renzi, sarà al centro della conferenza Stato-regioni del 19 gennaio e in quella sede spera "prevarrà il senso di responsabilità e la volontà di imprimere una svolta allo stato delle cose". Un certo imbarazzo è palese a partire dalla formula "volontà di dialogo" che, se applicata a un ministro proveniente dallo stesso partito della Serracchiani, svela quanto, al netto della buona e "dialogante" volontà, la sintonia sia in buona parte ancora da ricercare. Il nodo è politico: la riapertura dei Cie rischia di suonare come una sconfessione della politica seguita dal governo Renzi, dunque un segnale di discontinuità che è al momento quanto il gruppo di testa del Nazareno teme di più. Il punto di convergenza sta tutto in quella formula lanciata dallo stesso Minniti: Cie sì ma senza "nulla a che fare" con quelli del passato. Anche così però la promessa del ministro non convince quasi nessuno. Amnesty conferma che la detenzione nei Cie è una violazione dei diritti umani e boccia senza appello la politica dei rimpatri: "Il ricorso a questo genere di rimpatri potrebbe aumentare se si confermeranno le procedure superficiali e sommarie di valutazione dei requisiti per l’asilo, caposaldo dell’approccio cosiddetto hotspot e se verranno raggiunti ulteriori accordi tra l’Italia e i Paesi d’origine o di transito". Da sinistra, Fratoianni ricorda che il modello Cie è già fallito: "Sono luoghi inumani, privi di ogni minima tutela". Critiche affilate arrivano anche dall’interno del Pd, non però dall’area renziana. Se il governatore toscano Rossi non esita a parlare di "vocazione al suicidio" della sinistra, la presidente dei Giovani democratici toscani Alessandra Nardini è anche più secca: "La riapertura dei Cie è chiusura alla ragionevolezza. È un’idea che assolutamente non condividiamo anche se si tratta di strutture diverse e più piccole". Da destra né Lega, né Fi hanno intenzione di lasciare al governo e il Pd la facile rendita di posizione propagandistica. Ma ancora una volta i toni divergono. Il partito di Salvini considera la riapertura dei Cie un puro bluff, se non accompagnata da espulsioni in massa e respingimenti. Gli azzurri sono più morbidi. Elvira Savino capogruppo in commissione Politiche comunitarie alla Camera, promuove l’approccio Minniti come "molto più concreto" di quello precedente ma ricorda che "la sinistra ha perso tre anni". Debora Bergamini insiste per l’approvazione della mozione forzista che propone di far scontare le pene nei Paesi d’origine: "È il principale strumento per il trasferimento delle persone condannate". Il partito di Arcore sa che nei prossimi mesi la situazione potrebbe diventare esplosiva, che sul tema il governo potrebbe avere bisogno di un appoggio esterno alla maggioranza in Parlamento e si candida a sponda "responsabile". M5S sceglie la linea dura: "Noi vogliamo che tutti gli aventi diritto siano accolti, ma chi non dovrebbe essere in Italia deve essere rimpatriato". È una partita appena iniziata. Nei prossimi mesi sarà molto difficile distinguere tra proposte reali e propaganda facile smerciata in vista delle elezioni. In mezzo, a farne le spese, saranno profughi e migranti. Migranti. Sui Cie Minniti sbaglia, pensi alle falle dell’intelligence di Luigi Manconi Il Manifesto, 6 gennaio 2017 Il Ministro dell’interno, Marco Minniti, che è persona intelligente e tutt’altro che sprovveduta, già ha dovuto ridimensionare l’annuncio sfuggitogli, nonostante l’accortezza che connota il suo stile pubblico. Il proposito di istituire "un Cie in ogni Regione" ha avuto vita breve, appena una manciata di ore, ed è sembrato rispondere più all’intento di sedare ansie diffuse che a quello di realizzare una strategia razionale. Per una serie di ragioni rivelatesi, alla luce dalla storia pregressa dei Cie (dal 1998 a oggi), inconfutabili. In estrema sintesi, i Cie rappresentano un autentico fallimento. Prendete quella sigla: l’acronimo richiama due funzioni - identificazione ed espulsione - che costituiscono lo statuto giuridico dei Cie e la loro sola finalità normativa. Nel tempo trascorso dall’approvazione della legge n. 40 del 1998, l’identificazione ha riguardato solo una quota minoritaria degli stranieri trattenuti in questi centri: e il dato stride con quella percentuale di oltre il 94% di identificati, grazie a procedure e a strutture diverse da quelle dei Cie, tra le persone sbarcate in Italia nel 2016. Insomma, in base a quanto appena detto, la funzione istituzionale dei Cie risulta residuale se non praticamente esaurita. Per quanto riguarda le espulsioni, la vicenda di Anis Amri, l’attentatore di Berlino, è la dimostrazione più limpida, e allo stesso tempo drammatica, di come tutte le misure di cui in questi giorni si è discusso con tanta foga siano approssimative, anche quando utili; e ancora più spesso sgangherate, quando si affidano a messaggi emotivi, destinati a blandire le pulsioni più oscure della società. Anis Amri trascorre quattro anni in un carcere italiano e viene poi trattenuto nel Cie di Caltanissetta, dove viene avviata la pratica di espulsione. Ma accade che le autorità consolari della Tunisia, che pure ha sottoscritto un accordo per la riammissione, si rifiutano di riconoscere Amri come connazionale. Di conseguenza, il provvedimento di espulsione risulta ineseguibile e Amri, che ha espiato la sua pena, torna libero. Ma il futuro esecutore della strage di Berlino è persona identificata, riconosciuta, fotosegnalata, della quale sono state rilevate le impronte digitali e il cui curriculum criminale e giudiziario, sociale e persino politico (si ipotizza una possibile radicalizzazione) è stato regolarmente depositato nella banca dati europea. Quella banca dati a cui accedono le forze di intelligence e di polizia dei diversi paesi dell’Unione. Nonostante ciò, Amri non solo può organizzare e realizzare il suo progetto terroristico, ma può attraversare tre (forse quattro) paesi europei prima di trovare la morte a Sesto San Giovanni. Se ne ricava che anche provvedimenti opportuni, come gli accordi con le nazioni extraeuropee, non offrono soluzioni miracolistiche: perché si tratta di paesi profondamente instabili, o lacerati da guerre civili, o soggetti a regimi totalitari; e perché, infine, quegli stessi paesi non hanno alcun interesse a riammettere connazionali che potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine interno. La fragilità di tutte le soluzioni prospettate significa forse che non vi siano vie d’uscita e che sia fatale arrendersi? Assolutamente no: ancora una volta, è la vicenda di Amri che segnala in maniera inconfutabile come la debolezza delle strategie antiterroristiche risieda nell’impreparazione e nell’inefficienza degli apparati di intelligence e delle forze di polizia; e innanzitutto nel disastroso deficit di comunicazione e cooperazione a livello europeo. Come è potuto accadere, infatti, che il responsabile di una strage atroce, pur se da tempo conosciuto, identificato e segnalato, non sia stato intercettato e fermato? E se fosse vero, come pure credo, che non tutto - e non tutte le insidie, e non tutti i terroristi potenziali - può essere previsto e prevenuto, resta indiscutibile che è lì, esattamente lì, che si deve intervenire, concentrare le energie, focalizzare l’attenzione e le forze. Dunque, circoscrivere e selezionare gli obiettivi veri, quelli che possono costituire una minaccia reale. E, invece, si fa l’esatto contrario: nel momento in cui si definiscono clandestini tutti gli irregolari, e si trattano tutti gli irregolari come clandestini e terroristi, e su questo meccanismo di sospetto si organizzano le politiche del controllo e della repressione, si ottengono due risultati analogamente perversi. Si finisce col trascurare i nemici veri e si trasformano in nemici coloro che nemici non sono affatto. Se definiamo e trattiamo come clandestini tutti gli irregolari - per esempio, la gran massa di quanti sono impiegati in nero in agricoltura o nell’edilizia - si avrà un effetto sicuro: spingeremo verso l’illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione. Ancora una volta, dunque, si dimostra come solo politiche sociali intelligenti rappresentino il contesto indispensabile per contrastare i fenomeni criminali. Infine, il ministro dell’Interno ha detto: "I Cie non avranno nulla a che fare con il passato". Voglio considerarla una condanna inappellabile per ciò che sono stati e sono oggi i Cie: strutture orribili, dove vengono violati costantemente i diritti fondamentali della persona. Un non luogo precipitato nel non tempo. Myanmar. L’odissea della minoranza musulmana Rohingya e i silenzi di Suu Kyi di Gianluca Di Donfrancesco Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2017 Villaggi distrutti, case date alle fiamme, stupri, uomini disarmati pestati e uccisi, insieme a donne e bambini. Il dramma dei Rohingya, la minoranza musulmana (1,3 milioni di persone), sottoposta da anni a una spietata persecuzione nel buddhista Myanmar, registra ogni giorno di nuove atrocità. Anche ora che alla guida del Paese c’è un Nobel per la pace e un’icona mondiale della lotta per i diritti civili come Aung San Suu Kyi. Mercoledì, la Cnn ha pubblicato la scioccante fotografia del cadavere di un bambino di sedici mesi, Mohammed Shohayet, riverso sulla spiaggia, affogato dopo che l’imbarcazione sulla quale si trovava si è rovesciata per il troppo peso. È finita così la sua fuga da violenze ormai tanto efferate da aver spinto anche il ministro degli Esteri della vicina Malesia ad accusare il Governo birmano di pulizia etnica, facendo eco alle denunce sollevate da Human right watch. Il padre di Mohammed, Alam, ha raccontato alla Cnn che stavano scappando da un raid delle forze di sicurezza. Shock per bimbo Rohingya morto. Birmania nega genocidio - Il Governo birmano nega l’autenticità della foto e parla di propaganda. La regione è interdetta non solo a giornalisti indipendenti, ma anche alle organizzazioni umanitarie, tanto che secondo Amnesty International, la popolazione è ora a rischio fame. Pochi giorni fa, la commissione nazionale incaricata da Suu Kyi di indagare sulla situazione ha assolto le forze di sicurezza dalle accuse di abusi e negato qualsiasi violazione dei diritti umani. Alla guida del panel c’è il vice presidente Myint Swe, uno dei tanti ex generali ancora ben insediati nei gangli vitali delle istituzioni birmane, anche dopo che la giunta militare che per decenni ha tirannicamente guidato il Paese ha dovuto fare un passo indietro, con le elezioni del 2015. L’ultima accelerazione nella campagna contro i Rohingya risale al 9 ottobre del 2016, quando un attentato contro una postazione militare ha ucciso 9 poliziotti. Da allora, 86 persone sono morte e 34mila sono fuggite in Bangladesh, dove però non hanno molte speranze di trovare un trattamento migliore. Insediamenti musulmani nel Myanmar Nord-occidentale sono rintracciabili dal 15° secolo. L’origine dei Rohingya, termine emerso solo negli anni 50 del secolo scorso, è però più complessa e risalirebbe alla seconda metà del 1800, quando l’impero britannico favorì una migrazione di massa dalle regioni dell’attuale Bangladesh nello Stato Rakhine, sulla costa occidentale della Birmania, abitato da un’altra minoranza allora maltrattata, i buddhisti Arakan. La convivenza tra i due gruppi, complici gli errori del colonialismo e poi le vicende della seconda guerra mondiale e la successiva "ritirata" britannica, non è mai stata pacifica, con violenze da entrambe le parti che hanno stratificato pregiudizi e rancore. Oggi, un terzo dei Rohingya vive nel Rakhine. Le violenze hanno subito una escalation nel 2012, quando i monaci buddhisti della regione, appoggiati da forze politiche locali, ne invocarono la cacciata, dopo che alcuni musulmani furono accusati di aver stuprato una donna Arakan. Secondo il dipartimento di Stato Usa, le violenze che ne seguirono causarono 200 morti e 140mila profughi. Le Nazioni Unite, quantificano in 160mila i Rohingya che dal 2012 hanno abbandonato la regione, cercando scampo in Malesia, Tailandia e Indonesia, oltre che in Bangladesh. Circa 120mila persone sarebbero internate in 40 campi di raccolta allestiti in Myanmar. Alla persecuzione etnico-religiosa si sovrappongono gli interessi economici. L’apertura agli investimenti internazionali ha infatti aperto una corsa all’acquisto di terreni che ha fatto esplodere le quotazioni di mercato e che ha prodotto un’ondata di espropri a scapito di piccoli proprietari un po’ in tutto il Paese e che diventa deportazione nei confronti di un gruppo etnico percepito come estraneo dalla maggioranza della popolazione. Il Governo, che si rifiuta di usare il termine Rohingya, ha sempre negato a questo gruppo la cittadinanza birmana, privandolo di diritti politici e civili. Nonostante vivano nella regione da generazioni, i Rohingya sono quindi considerati alla stregua di immigrati clandestini. Una situazione che non ha subito alcun miglioramento con l’ascesa al potere di Suu Kyi, che, nonostante le pressioni internazionali, rifiuta di affrontare il problema. Il Nobel per la Pace non ha mai pronunciato una parola in difesa dei Rohingya, una macchia che si allarga sempre più sulla sua immagine di paladina dei diritti civili. Tunisia: collettivo cittadini lancia iniziativa di sensibilizzazione contro rimpatrio terroristi Nova, 6 gennaio 2017 Le prigioni tunisine non sono in grado di accogliere tutti i terroristi che ritornano dalle zone di conflitto, ha aggiunto il sindacalista. Rajhi ha evidenziato la necessità di adottare misure specifiche nei confronti di questo tipo di detenuti, accusati di reati legati al terrorismo. Per limitare l’affollamento delle carceri da detenuti accusati di "reati minori", il consigliere del ministro della Giustizia responsabile per le prigioni, Kamel Eddine Ben Hsan, ha detto che sono state fatte delle proposte per modificare la Legge 52 sul consumo di droga e dei reati connessi. In particolare, le istituzioni stanno lavorando per prevenire la tossicodipendenza e creare dei centri di riabilitazione per consentire di limitare la presenza negli istituti di pena di questo tipo di detenuti. Parlando dell’annuncio fatto dal ministro della Giustizia Ghazi Jeribi sulla costruzione di un carcere destinato ad ospitare soltanto i terroristi, Hsan ha spiegato che l’obiettivo dell’opera è non far mescolare i diversi detenuti ed evitare così la possibilità di indottrinamento da parte di alcuni detenuti nei confronti di altri. Brasile: "Il delitto resta fuori". Apac, le carceri che funzionano Tempi, 6 gennaio 2017 A Manaus 60 morti per una sanguinosa rivolta. Ma nel paese esiste un altro modello penitenziario che funziona. Senza guardie armate. Una sessantina di vittime, di cui sei decapitate e alcune bruciate. Questo il bilancio della rivolta scoppiata nel carcere brasiliano Anísio Jobim di Manaus i primi giorni di gennaio. Sergio Fontes, locale segretario di Pubblica sicurezza, lo ha definito "il maggior massacro del sistema carcerario di Amazonas". Dopo diciassette ore di battaglia gli agenti sono riusciti ad avere la meglio, ma molti carcerati sono riusciti a fuggire. Modello Apac. L’Anísio Jobim è uno dei penitenziari più duri del paese. Come ha ricordato ieri su Avvenire Giampaolo Silvestri, segretario generale Avsi, ha "un tasso di sovraffollamento di quasi il 200 per cento, percentuale diffusa in molte altre carceri in un Paese che conta la quarta popolazione carceraria del mondo, 600 mila detenuti, dei quali quasi 250 mila in attesa di giudizio". Silvestri ha però giustamente ricordato che nel paese esiste un altro modello di detenzione. Si tratta degli Apac (Associação de Proteção e Assistência aos Condenados), le carceri dove le guardie non sono armate. Tempi vi ha parlato spesso di quest’esperienza, anche con un reportage sul campo di Rodolfo Casadei (che potete leggere qui) Il delitto resta fuori. Il modo migliore per ottenere risultati è trattare i condannati come uomini. Uomini che hanno sbagliato, che devono scontare la propria pena, certo, ma uomini, non bestie. Anche perché, chi viene trattato da bestia, al termine della pena, uscito, tornerà facilmente a delinquere. Lo dice il buon senso e lo confermano i numeri. La recidiva nelle carceri brasiliane è dell’80 per cento, negli Apac del 20. Il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune, e quello di mantenimento è dimezzato. Come raccontato nel reportage di Tempi, su una delle pareti di questi penitenziari sta scritto il motto più noto degli Apac: "Aqui entra o homem o delito fica la fora". Cioè "Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori". Etiopia: graziati 10 mila detenuti nell’Oromia per buona condotta Nova, 6 gennaio 2017 Il governo etiope ha "graziato" per buona condotta 10 mila detenuti nella regione di Oromia, teatro insieme alla regione di Amhara delle recenti proteste antigovernative, che hanno portato il governo a imporre lo stato di emergenza. Lo riferisce l’emittente televisiva etiope "Fana". I detenuti, si legge in un comunicato del governo, hanno manifestato una buona condotta in carcere e possono agire come agenti di cambiamento e sviluppo nelle loro comunità". Il provvedimento segue l’annuncio del rilascio di altre 10 mila persone arrestate durante lo stato di emergenza entrato in vigore ad ottobre, a seguito dell’ondata di manifestazioni iniziata dopo l’uccisione di almeno 55 persone a seguito di una manifestazione religiosa organizzata nella regione di Oromia. A riaccendere i riflettori sulla questione oromo era stato nel mese di agosto il plateale gesto di Feyisa Lilesa, il maratoneta etiope che alle Olimpiadi di Rio ha concluso la gara con le braccia incrociate in segno di protesta contro il governo per la repressione dei manifestanti di etnia oromo.