Il Papa contro il sovraffollamento delle carceri "nelle celle condizioni disumane" di Franca Giansoldati Il Mattino, 5 gennaio 2017 Basta con il sovraffollamento carcerario, i diritti troppo spesso negati, le condizioni disumane nelle celle. Al centro del nuovo appassionato richiamo di Papa Bergoglio c’è una battaglia di civiltà che unisce laici e cattolici. "Rinnovo l’appello perché gli istituti penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale, e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane. Non siano sovraffollati ma posti di reinserimento". Francesco al termine dell’udienza generale, dopo aver espresso "dolore e preoccupazione" per la strage avvenuta ieri nel carcere di Manaus, in Brasile, torna ad affrontare un argomento che gli sta particolarmente a cuore. Sin dai primi momenti del pontificato ha dedicato gesti coraggiosi e profetici a questa realtà. Nel 2013, appena eletto, ha voluto celebrare la Messa del Giovedì Santo nel carcere minorile di Casal del Marmo, successivamente ha visitato Rebibbia e in ogni viaggio internazionale include sempre una sosta di riflessione e preghiera in un carcere. Bolivia, Messico, Brasile, Ecuador. In novembre in piazza san Pietro, per il giubileo dei carcerati, campeggiava uno striscione con su scritto: "amnistia". C’erano anche i partecipanti della marcia organizzata dai radicali. A fine aprile 2014 il Papa volle chiamare Marco Pannella per chiedergli di sospendere lo sciopero della fame intrapreso per denunciare le condizioni disumane dei detenuti italiani. In quella occasione Radio Radicale diffuse il testo della telefonata: "Ma sia coraggioso, eh! Anche io l’aiuterò a lei, contro questa ingiustizia…", disse il Papa. E Pannella: "A favore della Giustizia, Santità". Bergoglio: "Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati". E così fece. "Ogni volta che entro in un carcere mi domando: perché loro e non io. Tutti, abbiamo la possibilità di sbagliare". Disse Bergoglio nel giorno del Giubileo dei detenuti, chiedendo poi "un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento", ma anche "in favore del miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri" e per "una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva" ma aperta "alla prospettiva di reinserire il reo nella società". Rivolgendosi ai mille carcerati arrivati in San Pietro per la messa, Francesco affermava: "A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere in voi solo delle persone per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione". Ma così, avvertiva il pontefice, "si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto". "Il carcere sia luogo di rieducazione". Intervista a don Grimaldi, Ispettore dei Cappellani radiovaticana.va, 5 gennaio 2017 Al termine della catechesi, il Papa ha espresso "dolore" per il massacro avvenuto nel carcere di Manaus in Brasilia, dove un violento scontro tra bande rivali ha causato decine di morti. Questo l’appello di Francesco: "Invito a pregare per i defunti, per i loro familiari, per tutti i detenuti di quel carcere e per quanti vi lavorano. E rinnovo l’appello perché gli istituti penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale, e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane. Vi invito a pregare per questi detenuti morti e vivi, e anche per tutti i detenuti del mondo, perché le carceri siano per reinserire e non siano sovraffollate; siano posti di reinserimento. Preghiamo la Madonna, Madre dei detenuti: Ave o Maria". Francesco chiede dunque maggiore reinserimento per i detenuti. Una questione che investe anche l’Italia. Alessandro Guarasci ha sentito don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei cappellani: R. - C’è sempre il grande dramma di come vivere questo reinserimento, per tanti motivi. All’interno del carcere ci si lavora: attraverso corsi per imparare un mestiere, attraverso il volontariato, attraverso noi cappellani… Cerchiamo veramente di aiutare i carcerati. Il grosso dramma per l’inserimento è quando escono fuori. Viviamo anche una situazione molto precaria di lavoro e già questo influisce negativamente sul pieno inserimento di un detenuto quando esce dal carcere. Ma soprattutto la nostra società dovrebbe avere un’attenzione particolare a coloro che hanno sbagliato: usare misericordia senza chiudere il cuore alle opportunità che si potrebbero dare. D. - Lei in questo momento vede una situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane? Questo era vero fino a un paio di anni fa, poi c’è stata in sostanza una deflazione: c’è un ritorno a una carcerazione "facile"? R. - Certamente un detenuto che esce e che non trova lavoro e che non trova inserimento, più facilmente rischia di rientrare in carcere... C’è una situazione anche di fragilità umana, che vivono i carcerati quando escono. D. - Ritiene che in Italia si percorra in modo serio la strada delle pene alternative? Sappiamo che se non si è in carcere, è più difficile una recidiva… R. - Partiamo dal fatto che comunque le leggi ci sono. Il problema è attuarle, questo è tutto. I magistrati dovrebbero chiaramente dare più fiducia, puntare molto sulla responsabilità del detenuto, anche con rischi - questo è vero - ma sappiamo che il detenuto quando esce ha bisogno di essere accolto dalle comunità. Questo lo aiuta a non ricadere più negli stessi errori. D. - Secondo lei, la figura del cappellano è valorizzata in modo adeguato nelle carceri? R. - Certamente è un punto di riferimento sia per i detenuti, sia per la polizia penitenziaria, sia per il volontariato. Chiaramente, in questo ultimo periodo, un pò per tante situazioni, la figura del sacerdote, del cappellano, viene messa in ombra. Dipende però anche da noi cappellani, da come lavoriamo all’interno, da come ci impegniamo, come ci rapportiamo con la Direzione, con i detenuti, con i volontari. Io penso che se siamo anche noi capaci di interagire positivamente con impegni forti, la figura del cappellano viene ben riconosciuta, all’interno della struttura penitenziaria. Youssef Sbai sarà il primo docente musulmano "spiegherò agli agenti la mia religione" di Valentina Stella Il Dubbio, 5 gennaio 2017 Youssef Sbai sarà il primo docente di fede musulmana a entrare nelle scuole italiane di Polizia Penitenziaria. Cinquantasei anni, da 36 in Italia, Sbai è originario del Marocco, musulmano sunnita, vive con la moglie a Massa Carrara, fa l’imprenditore e segue un dottorato in Scienze sociali presso l’Università di Padova, è stato cofondatore e vice presidente nazionale dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia. Dottor Sbai qual è lo scopo di questo suo nuovo incarico? Sono due gli obiettivi: in primo luogo quello di aiutare i detenuti musulmani a professore la propria religione in modo corretto; e poi quello di aiutare il personale carcerario a capire la religione musulmana e gli aspetti culturali relativi ai territori di appartenenza dei detenuti per comprendere il loro comportamento, così da esercitare la loro professione con più serenità e riuscire ad individuare un comportamento religioso "corretto" e un altro che potrebbe essere una strumentalizzazione della religione. Parliamo del rischio di radicalizzazione quindi. Noi dobbiamo metterci nei panni del personale carcerario che non conosce la religione musulmana ma vede l’immagine del detenuto musulmano che proviene dalla televisione. Il detenuto musulmano non è solo colui che ha commesso un reato ma è quello che in carcere comincia a indossare una tunica bianca, si fa crescere la barba ed inizia a compiere pratiche religiose. L’agente deve saper rispondere alle domande: come definire questo comportamento del detenuto? Tale comportamento è corretto oppure no? Quando può essere l’inizio di una eventuale radicalizzazione? Le mie lezioni serviranno a dare queste risposte. È vero anche che alcuni detenuti sfruttano la religione per eludere dei doveri? Sì, è vero. Cominciano a pregare per convincere il personale a lasciarli in pace in determinati momenti, per evitare ad esempio di incontrare il magistrato. Nelle carceri italiani la libertà di culto dei detenuti musulmani è rispettata? Dai dati del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) i detenuti musulmani praticanti sono tra i 5.000 e i 6.000. In Italia in circa 50 istituti ci sono delle sale di preghiere, che però non possono essere definite moschee. In altre carceri, in particolari festività, come per esempio durante il mese del ramadan, alcune sale vengono adibite a luogo di preghiera solo per un lasso determinato di tempo. Quindi direi che la pratica religiosa non è affatto ostacolata nelle carceri italiane. Si potrebbe fare qualcosa di più? Certo, intensificare il rapporto tra l’amministrazione penitenziaria e le figure professionali musulmane. La radicalizzazione quindi si combatte anche attraverso un forte approccio culturale? Non solo culturale, ma anche sociale e soggettivo, cioè agendo su una persona in particolare che sta vivendo un momento di crisi. La scintilla della radicalizzazione può avere origini diverse. Un problema all’interno delle carceri sono gli "imam fai da te", persone che si improvvisano ministri di culto ma che veicolano messaggi sbagliati. Io sono contrario a questo fenomeno. Nella maggior parte delle carceri sono i detenuti che si mettono d’accordo e individuano tra loro un imam. Solo in 15 casi l’imam viene da fuori. Il detenuto è dentro per scontare una pena, non per prestare un servizio agli altri detenuti, come può essere quello di amministrare il culto. Nel suo discorso religioso sarà sempre condizionato dal suo status di carcerato. E poi sono contrario al sermone del venerdì solo in lingua araba. Deve essere recitato o con la traduzione italiana o solo in italiano per permette anche agli operatori penitenziari di comprendere il messaggio religioso veicolato nel discorso degli imam Bufale e censure, così la stampa ha perso credibilità di Valter Vecellio Il Dubbio, 5 gennaio 2017 Qualche grillo berciante, in questi giorni, mette in guardia dai centri di potere "duri", quelli reali: che vanno al di là e al di sopra delle istituzioni; che influenzano e condizionano informazione, conoscenza, "sapere". La scoperta dell’acqua calda. Da sempre i centri di potere cercano di influenzare e condizionare gli strumenti cosiddetti di informazione. In Italia, e ovunque. Spesso si evoca lo spettro della censura, o meglio: dell’autocensura. Più propriamente si dovrebbe parlare di eccesso di zelo, che travalica nel servilismo. Di questo, in fondo, hanno beneficiato i dittatori e potenti/prepotenti di ogni epoca: di cattivi giornalisti e cattivi scrittori disposti ad andare ben al di là di quello che viene chiesto loro (Ho parlato di "cattivi"; ma lo hanno fatto e lo fanno, anche i "buoni"). Se tutti i maggiori quotidiani e settimanali dimezzano le copie vendute, se gli indici di ascolto (non parliamo del gradimento) dei programmi radiotelevisivi di informazione hanno percentuali da prefisso telefonico non è il risultato di un’informazione e di un "sapere" veicolato e sottratto da internet e simili. È perché si è persa la fiducia in quegli strumenti di comunicazione e di "sapere", e in chi in quegli strumenti opera; cosicché si cercano fonti, "alternative", crogiolandosi nell’illusione di averle trovate. Proviamo a tracciarlo l’identikit dell’editore, del direttore e del giornalista ideali: l’editore ideale è quello che vuole guadagnare dal suo "prodotto"; il direttore ideale è quello che fa un giornale che da lettore acquisterebbe ogni giorno; il giornalista ideale non è quello che racconta la verità assoluta; "semplicemente" racconta il fatto nel momento in cui gli "appare", e risponde alle cinque classiche domande: chi, dove, quando, come, perché. Il giornalismo è la verità del momento. Se ne ricava che di giornalismo ce n’è molto poco, a disposizione. Poi si accompagna il meccanismo della mistificazione, dell’utilizzo per altri fini: fenomeno vecchio quanto il mondo. Per quel che riguarda carta stampata e televisivi, molto è stato "descritto", anni fa, da un lucido osservatore francese, Jean- François Revel, autore de "La connaissance inutile", pubblicato anche in Italia: un volume del 1988 dove, per esempio, si racconta di come venne a suo tempo diffusa la "bufala" dell’Aids fabbricato in un laboratorio militare americano, e sfuggito di mano come un Golem: una branca del Kgb fa pubblicare la notizia da un quotidiano indiano filocomunista; agenzie di stampa sovietiche la rilanciano, e la "bufala" si propaga per la felicità di tutti i dietrologi e i boccaloni dell’universo. Lettura anche oggi consigliabile, magari recuperando un non troppo datato Homo videns di Giovanni Sartori. Le cose non sono cambiate di molto: magari i mezzi usati si sono raffinati, ma le "bufale", si tratti delle stragi alle Twin Towers volute e pianificate da Mossad e Cia, o le venefiche strisce bianche nel cielo, i microchip sottocutanei applicati a nostra insaputa o altre simili scempiaggini, trovano sempre dei gonzi che non chiedono di meglio che abboccare. Indubbiamente ora con gli strumenti messi a disposizione dal web, i processi di mistificazione sono facilitati e più veloci. Un recente saggio di Raffaele Simone (Come la democrazia fallisce) lucidamente "descrive" come la democrazia ci sia sfuggita di mano; come il massimo di informazione corrisponda a un livello infimo di conoscenza; come la pretesa partecipazione ("con internet siamo tutti uguali", secondo la favola bella dei sacerdoti del web), corrisponda a un inquietante e pericoloso vuoto fatto di inconcludenti scambi di mail che nessuno legge. Un "qualcosa" che non è solo peculiarità italiana; un "qualcosa" di totalitario, che si muove nell’aria e penetra nelle coscienze. Lo si può misurare, questo "qualcosa" nelle piccole, apparentemente insignificanti cose, basta prestare una briciola di attenzione a quello che accade intorno a noi. Produce una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge: una minaccia totalitaria da intendere non come qualcosa che attiene ai regimi autoritari e violenti già conosciuti. È piuttosto un "qualcosa" tra Orwell e Kafka, il livellamento delle idee, la loro cancellazione. Una favorita pigrizia mentale che lascia spazi vuoti destinati a essere occupati da questo "qualcosa" caratterizzato da assenza di memoria, conoscenza, "sapere". L’epifenomeno di questo processo è la polemica di questi giorni. La cretinata relativa alla post- verità che agita e scimmiotta un Beppe Grillo, con l’allegato della pretesa di un’impunità orgogliosamente rivendicata per quel che riguarda le scempiaggini che si possono diffondere attraverso la rete; il web con licenza di uccidere. Ma certo: ci si muove su un crinale delicatissimo, un terreno scivoloso; certo: si pongono mille problemi relativi alla libertà di espressione e di comunicazione. Certo: i "paletti" di garanzia facilmente si possono mutare in strumenti di ulteriore censura e manipolazione. Tutto vero. Ma questi rischi sono già incombenti, e non sono certo evitati dalle corbellerie di un grillo e dalle sue giurie popolari per valutare le bufale in rete (giurie elette come i candidati da presentare nelle liste pentagrilline?). Per alcuni mesi sono stato direttore responsabile di un settimanale satirico che ha fatto storia, "Il Male". Un onore, che mi ha procurato una sessantina tra querele e denunce, per tutto: perfino la divulgazione di segreto militare per la pubblicazione di una cartina dell’isola della Maddalena ricavata dall’Enciclopedia e un soggiorno di una settimana a Regina Coeli. Personalmente ho fatto un giuramento solenne a me stesso: mai e poi mai querelerò qualcuno, qualsivoglia mi si possa dire e accusare. Non cambio idea, ma non capisco perché nel social si può scrivere e sostenere di tutto, protetti dall’anonimato. È un qualcosa di molto vigliacco, sono questi abusi che "giustificano" le contro- misure che si intendono adottare e si adotteranno. Quanto alle "bufale", torno al discorso d’inizio: devono essere gli editori, i direttori, i giornalisti a conquistarsi una loro credibilità, meritare la fiducia che chiedono. Malati zelo, di servilismo, si raccoglie oggi quello che per anni e anni si è seminato. A tutti noi chiedo: ci sono questioni, tematiche che non vengono mai affrontate, discusse, approfondite, fatte conoscere. Quanti dibattiti e confronti sulla madre di tutti i problemi italiani, la giustizia e come ( non) viene amministrata, in questo paese? Durante le feste di Natale dirigenti e militanti radicali hanno organizzato visite ispettive in decine di carceri. Qualcuno ne ha scritto, parlato, lo ha saputo? In occasione della Marcia dedicata a Marco Pannella e papa Francesco per l’amnistia, circa ventimila detenuti hanno digiunato per due o tre giorni, nomi, cognomi, messaggi che hanno costituito un poderoso volume che sarà consegnato al Pontefice, al presidente della Repubblica Mattarella, al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ventimila detenuti che adottano uno strumento di lotta nonviolenta, un qualcosa che per le sue dimensioni e la sua portata si può accostare alle lotte gandhiane o a quelle di Martin Luther King. A parte il filosofo Aldo Masullo, qualcuno si è accorto e ha riflettuto sulla portata di questo evento? Ecco, partiamo da qui, per cercare di capire perché non si è credibili, non si viene percepiti come attendibili, perché furoreggiano le "bufale" nel web. Signori, questa pigrizia, questa indifferenza è il "qualcosa" di totalitario che ci opprime, ottunde, minaccia. Il "vuoto" che consente spazi alle corbellerie di grilli bercianti, e di conseguenza ad "antidoti" destinati ad essere più dannosi dei mali che intendono curare. Colleghi giornalisti, siamo vittime o carnefici? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 5 gennaio 2017 Ora non facciamo le verginelle, noi giornalisti, per favore. Gestiamo un potere di vita e di morte sui cittadini, secondo solo a quello dei magistrati. I quali peraltro sono più che soddisfatti quando hanno la nostra complicità ma anche il nostro incitamento, come sta accadendo in questi giorni con l’istigazione palese a che qualcuno si sbrighi a inviare un’informazione di garanzia al sindaco di Roma Virginia Raggi. Non possiamo dirci vittime, neppure quando capita, come in questi giorni, che un importante leader politico quale Beppe Grillo, ci accusi di essere manipolatori e dispensatori di notizie false. Non è forse vero? Non interessa il fatto che lui stesso con questa dichiarazione cerchi a sua volta di manipolare l’opinione pubblica (e ci riuscirà, perché la nostra categoria non è molto amata), quel che conta è avere il coraggio di superare la debolezza del corporativismo per ritrovare la forza di guardarci allo specchio e fronteggiare ad armi pari l’interlocutore politico. Né vittime né carnefici. Cerchiamo prima di tutto di non trasformare in vittima il "carnefice" Grillo, come fu fatto con Berlusconi per il reato di "editto", mentre fu salvato Renzi, che pure cacciò dalla direzione del Tg3 una brava giornalista come Bianca Berlinguer, la "strega" che non gli baciava l’anello. Cerchiamo di guardare con occhio autocritico tutti i nostri editti e le nostre manipolazioni. Piero Sansonetti ha spiegato molto bene quel che succedeva nelle redazioni dei tre principali quotidiani italiani e in quello che era organo del Pci nei primi anni novanta quando, in piena Tangentopoli, gli imprenditori ( compresi quelli che erano anche editori) cercavano in ogni modo di evitare la galera e i quattro direttori concordavano l’uscita collettiva del giorno dopo. E intanto, mentre Romiti e De Benedetti salvavano i polsi dalla seccatura delle manette, cadeva la Prima Repubblica. Siamo così sicuri che a vent’anni di distanza, noi siamo diventati più virtuosi? Sappiamo bene che quando inizia una campagna stampa nei confronti di qualcuno, quel qualcuno finirà, volente o nolente, per doversi dimettere. L’abbiamo visto accadere a Roma nei confronti dell’ex sindaco Marino, crocifisso per una questione di scontrini, e contro l’ex ministro Lupi (mai colpito da alcun provvedimento giudiziario) per un orologio regalato al figlio da un amico di famiglia. Questo significa una cosa sola: non solo che la stampa italiana è libera, ma anche che è in grado di modificare la realtà, quindi che è potente. E allora non si può prima dire che occorre colpire le bufale dei social (la violenza verbale sì, invece) e poi offendersi se Grillo ci dice che anche noi ogni tanto le spariamo grosse, e che vuol fare il "tribunale del popolo" neanche fosse il capo delle Brigate rosse. Impariamo prima noi a rispettare gli altri, tutti. Beppe Giulietti, presidente della Federazione della stampa, nell’intervista al nostro giornale invita Grillo a sollecitare i suoi parlamentari perché facciano approvare due proposte di legge giacenti in Parlamento: una contro il carcere per i giornalisti, l’altra contro la "querela temeraria", cioè pretestuosa e finalizzata a tappare la bocca al giornalista scomodo. Bene, questa seconda è argomento molto scivoloso e Giulietti, che è stato in Parlamento quindi è anche un politico di professione, sa bene che quando un quotidiano (o anche un singolo giornalista) ti prende di mira, ne puoi uscire solo attraverso la querela, l’unica forma di autodifesa possibile. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, con un’accorata pubblica dichiarazione di difesa della propria correttezza professionale, ha annunciato di querelarsi nei confronti di Beppe Grillo. Poi pare abbia cambiato idea. Ma è proprio sicuro di essere lui, in rappresentanza della categoria, la vera vittima e non, talvolta il "carnefice"? La nuova legge sull’omicidio stradale è servita a nulla? di Caterina Malavenda (Avvocato) Oggi, 5 gennaio 2017 Secondo le statistiche dei primi mesi dopo l’entrata in vigore, la norma ha ridotto solo del 4,8% il tasso di incidenti mortali. Nessuna legge può definirsi del tutto inutile, ma nessun provvedimento, specie se varato sull’onda dell’emergenza, ha mai risolto tutti i problemi cui si intendeva porre rimedio mentre, se non ponderato, può crearne di nuovi. L’introduzione dell’omicidio stradale e l’inasprimento delle pene avrebbero dovuto avere un effetto deterrente su chi uccide o ferisce gravemente un passante, non solo sotto l’effetto di droghe o alcool, ma anche facendo manovre pericolose o fugge subito dopo: la paura del carcere e di vedersi revocare per molto tempo la patente avrebbero dovuto dissuadere l’adozione di condotte pericolose e ridurre drasticamente gli incidenti. Questo non sembra sia successo, stando ai dati ufficiali della Polizia Stradale nei primi mesi di applicazione delle nuove norme. Anche perché le statistiche pongono oramai in cima alla classifica delle condotte pericolose al volante l’uso dello smart-phone, che non implica alcun aumento di pena se è causa di un incidente, mentre finiscono per patire sanzioni eccessive coloro che cagionano lesioni guaribili oltre i 40 giorni, quindi gravi per definizione, senza essersi messi in situazioni a rischio. Alla repressione, da ultimo, non si è aggiunta alcuna iniziativa preventiva, che impedisca, per esempio, a chi è sbronzo di mettersi al volante e, soprattutto, che inculchi davvero il rispetto della vita, un sentimento ancora assai poco diffuso. Valutazione indizi non consentita per l’estradizione di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 4 gennaio 2017 n. 386. La magistratura italiana non ha un potere autonomo di valutazione degli indizi per i quali è richiesta l’estradizione di un connazionale verso il Brasile. Il controllo dei giudici dovrà limitarsi invece al provvedimento restrittivo di cui si chiede l’esecuzione, in particolare alla descrizione del fatto, alla data e luogo di commissione, alla sua qualificazione giuridica e infine agli elementi necessari per l’identificazione della persona da consegnare. La Sesta penale della Corte di cassazione (sentenza 386/17) torna sull’interpretazione strettamente giuridica del Trattato bilaterale del 1989 con la repubblica sudamericana - trattato che contempla ovviamente anche il versante di competenza "politica" del ministero della Giustizia - per validare la decisione della Corte d’Appello di Venezia di consegnare una 38enne naturalizzata italiana, sospettata in concorso con il marito di una serie di reati nei confronti della collaboratrice domestica. Ribadendo che il ruolo giurisdizionale in questo ambito si limita alle verifiche "tecnico-formali" previste dal Trattato (e quindi va esclusa la valutazione degli indizi raccolti dall’autorità giudiziaria straniera) la Sesta sottolinea che il tribunale investito dovrà comunque "accertare che (nelle carte, ndr) risultino evocate le ragioni per le quali è stato ritenuto probabile, nella prospettiva del sistema processuale dello Stato richiedente, che l’estradando abbia commesso il reato oggetto della domanda". Tra i motivi di ricorso respinti dalla Cassazione, è importante la cronologia delle cause ostative previste dal Trattato bilaterale. In particolare la difesa eccepiva l’esistenza di un procedimento penale aperto anche in Italia per i medesimi fatti, da cui "peraltro emergerebbe l’assoluta estraneità ai fatti contestati dell’estradanda"; la Sesta ha però rimarcato che l’azione penale è stata esercitata solo sulla base della richiesta di estradizione - valutata come notitia criminis - estrinsecandosi peraltro finora solo in una rogatoria. Resta però aperto tutto il versante "politico" dell’estradizione in oggetto, argomenta ancora la Sesta penale, considerato che il Ministero dovrà valutare l’opportunità di far processare all’estero la cittadina (divenuta tale grazie al matrimonio con un italiano) e, soprattutto, valutare se "consegnarla" per fatti commessi prevalentemente in Italia. Ma questi aspetti inerenti il "rifiuto facoltativo" previsti dal Trattato bilaterale, sfuggono appunto al sindacato giurisdizionale. Affidamento esclusivo solo nell’interesse del minore di Silvia Marzialetti Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2017 L’affidamento del figlio minore a uno dei coniugi in via esclusiva deve essere motivato e comunque autorizzato nell’interesse esclusivo del minore. Lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza numero 27, depositata l’altro ieri (3 gennaio). Il caso preso in esame riguarda due bambini romani, affidati in via esclusiva al padre, in ragione di una particolare conflittualità esistente tra i genitori. Secondo la Corte di appello di Brescia tale conflittualità - derivante dalla "particolarità caratteriale di entrambi" - ostacolava la loro capacità di assumere scelte comuni, sicché un affidamento condiviso avrebbe creato una situazione di stallo nelle decisioni, negativa nell’interesse dei figli, bisognosi di particolari cure e attenzioni. Nell’assumere tale decisione, la Corte territoriale bocciava anche la richiesta di mantenimento avanzata dalla madre dei bambini, con la motivazione che, pur avendo il padre una maggiore capacità reddituale e patrimoniale, la donna godesse di redditi superiori a quelli dichiarati, tali da garantirle di mantenere il tenore di vita matrimoniale. L’orientamento secondo cui l’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori costituisce il regime ordinario di affidamento - sentenziano i giudici di Cassazione - costituisce il regime ordinario di affidamento, tranne quando tale regime sia pregiudizievole per l’interesse dei figli, alterando e ponendo in serio pericolo il loro equilibrio e sviluppo psico-fisico. In tal caso - si legge nella sentenza - la pronuncia di affidamento esclusivo deve essere sorretta da una puntuale motivazione in ordine non soltanto al pregiudizio potenzialmente arrecato ai bambini da un affidamento condiviso, ma anche all’idoneità del genitore affidatario e all’inidoneità educativa o alla manifesta carenza dell’altro genitore. Nel caso affrontato il genitore affidatario è stato scelto senza una specifica motivazione relativa al pregiudizio che sarebbe stato arrecato ai figli e lo stesso è accaduto - secondo i giudici - per quanto riguarda la scelta di escludere completamente la madre. Per questo motivo la Cassazione ha accolto i primi sei motivi di ricorso, dichiarando però inammissibili quelli relativi all’assegno di mantenimento. Sentenza impugnata e rinviata alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione. Como: detenuta somala di 37 anni si toglie la vita nel carcere del Bassone Il Giorno, 5 gennaio 2017 Era ormai a fine pena ma la donna di 37 anni che si trovava in isolamento non aveva più nessuno a cui rivolgersi fuori dal carcere e nemmeno una casa. Era da sola, in una cella di isolamento, e ha deciso di togliersi la vita. Un gesto estremo e irrimediabile, scoperto dagli agenti di Polizia penitenziaria alle 21.30 di martedì sera, all’interno della sezione femminile della Casa circondariale Bassone. La detenuta, una donna somala di 37 anni, si era impiccata poco prima, con un gesto deciso che non le ha lasciato speranza. Immediatamente è stato chiamato il medico in servizio all’interno del carcere, che a sua volta ha avvisato il 118. L’ambulanza è arrivata pochi minuti dopo, e sono stati fatti tutti i tentativi di rianimazione possibili in questi casi, anche se la situazione era drammatica, ma per la giovane donna non c’è stato nulla da fare. Era in carcere da due anni, arrestata per reati contro il patrimonio che le erano costati tre anni di condanna: a luglio sarebbe stata rimessa fuori, tornata in libertà, per quanto senza un punto di riferimento in Italia a cui rivolgersi o una dimora fissa. Cosa l’abbia spinta a prendere quella tragica decisione, rimane un mistero. Non risulta che abbia lascito nulla utile a capire i motivi di quella disperazione, e all’interno della sezione, non era ritenuta una detenuta critica, o in condizione di particolare disagio. Già abituata alla vita del carcere, con davanti una prospettiva di fine pena ormai vicina, che avrebbe dovuto incoraggiarla ad andare avanti. Eppure gli agenti, e l’intera struttura penitenziaria, sono stati travolti da questo accadimento drammatico. Per quanto gli atti di autolesionismo siano una realtà con cui ogni giorno devono fare i conti tutte le strutture penitenziarie, cono sempre un evento traumatico per tutti, per chi ci lavora e per chi lo vive suo malgrado. Un trauma molto forte anche per gli altri detenuti, che condividono la difficoltà di dover sopravvivere in un ambiente ostile e di privazione. Che fatti di questo genere accadano in sezioni femminili, è però un evento raro: da un lato per la percentuale molto bassa di donne rispetto alla popolazione carceraria maschile. Dall’altro per una diversa capacità di reagire alle avversità, che raramente spinge le donne verso scelte di questo genere. Eppure questa volta è stata proprio una sezione femminile a dover far i conti con questa triste pagina. Taranto: ruba 10 chili di uva e muore in cella, aveva 73 anni ed era cardiopatico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 gennaio 2017 La denuncia di Tania Rizzo, Segretaria Nazionale dell’Aiga. Un anziano malato di cuore era finito in carcere per aver rubato alcuni chili di uva. Dopo tre giorni, si è sentito male nella sua cella della Casa circondariale di Taranto. Portato prima in ospedale e poi in una clinica, non ce l’ha fatta. Parliamo di Leonardo Attanasio, 73 anni con problemi cardiopatici, fruttivendolo ambulante di Manduria. La tragedia è avvenuta una settimana prima di Natale nella clinica Villa Verde di Taranto. L’avvocato difensore non aveva fatto in tempo a chiedere la revoca della detenzione visto che era stato arrestato nel fine settimana. Leonardo Attanasio era stato condannato a dodici mesi nel 2012 per furto di uva commesso l’anno prima, sentenza diventata esecutiva nel 2014. Affidato in prova ai servizi sociali, per scontare la pena, nel 2015, quando gli mancavano pochi giorni è stato sorpreso di nuovo a rubare uva, dieci chili in tutto, ed è stato denunciato. La macchina della giustizia si è così rimessa in moto, decretando la perdita di tutti i benefici, e il ritorno in carcere, nonostante l’età avanzata e le sue precarie condizioni di salute. La morte dell’anziano ladro d’uva - era molto conosciuto per la sua attività di venditore ambulante, ha provocato stupore e rabbia in quella parte di opinione pubblica contraria allo stato detentivo di un uomo in età avanzata e oltretutto malato. Tania Rizzo, segretaria nazionale dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) non ha esitato a scagliarsi contro quella che ha definito "la giustizia con la g minuscola". "Quella giustizia, dice, che è sempre lieta di partecipare ai convegni dove dice il contrario di ciò che svolge ogni giorno in udienza; quella giustizia che è pronta a sottoporsi a verifiche sul proprio operato ma poi si auto assolve sempre e che ricorda i propri eroi e dimentica che eroi sono anche altri". Tania Rizzo è nota per aver difeso anche Carlo Saturno, il giovane trovato impiccato nel carcere di Bari dove morì sette giorni dopo nella rianimazione del Policlinico, vicenda per la quale la stessa avvocata Rizzo, d’accordo con la famiglia Saturno, chiede ancora che sia fatta piena luce. C’è un luogo comune secondo il quale si pensa che dopo una certa età non si vada più in carcere. Invece non sono pochi gli anziani che soffrono di patologie gravi vengono ristretti nelle patrie galere. Sempre più anziani si danno al crimine, perché la necessità di superare le ristrettezze economiche può spingere a commettere reati. Piccoli reati come il caso dell’ambulante. Nel 2011, ultimo anno per cui sono disponibili i dati Istat, gli over 65 hanno commesso circa 38mila reati in Italia, con una distribuzione quasi omogenea tra Nord e Sud. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda gli arresti domiciliari. Palermo: i giovani detenuti del carcere Malaspina diventano chef per un giorno blogsicilia.it, 5 gennaio 2017 È stato un periodo di feste diverso, con più calore e con momenti di allegria anche per i ragazzi del carcere minorile Malaspina di Palermo. Perché per un giorno sono diventati chef, grazie ad un evento organizzato dall’associazione YouDiveClub Capo Gallo insieme alla direzione del carcere, guidata da Michelangelo Capitano. Così i ragazzi hanno potuto preparare un pranzo di Natale per tutti, all’interno della struttura, prendendo parte attivamente a uno show cooking in cui proprio i ragazzi di YouDive Club Capo Gallo hanno svolto gran parte del lavoro di preparazione, affiancando gli chef professionisti. E nello speciale pranzo di Natale non mancava proprio nulla: dall’antipasto a base di frittura mista, con i calamaretti, ai bucatini con crema di cozze e allo sgombro al forno con formaggio, mollica uva passa e pinoli. Il tutto adagiato su porro e finocchio fritto. Per concludere, gli immancabili pandoro e panettone con crema di ricotta e scaglie di cioccolato. Ma quanti erano i ragazzi che, per un giorno, hanno potuto indossare il grembiule da chef? Ben 24, e oltre a cucinare le proprie portate hanno preparato per altre 16 persone. "Il direttore Michelangelo Capitano ha ringraziato la nostra associazione - dicono i ragazzi di YouDive Clucb Capo Gallo - per la collaborazione e l’impegno che abbiamo voluto mettere in campo per lo svolgimento di questo evento. Sono 4 i nostri associati che hanno partecipato attivamente, e a loro va il ringraziamento di tutto il gruppo. Si tratta di Erasmo, Francesco, Alessandro e Vincenzo. Un ringraziamento particolare anche agli chef che hanno regalato il loro tempo per preparare queste pietanze prelibate: Giulio Sorrentino e Fiamma Formisano". I 4 giovani sono stati ripagati dall’entusiasmo e dalla felicità dei ragazzi del Malaspina, che oltre a supportare la fase dei preparativi hanno anche servito al tavolo. Non è la prima volta che YouDive Club Capo Gallo affianca alle sue numerose attività per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente anche attività di sensibilizzazione sociale. Diverse le attività svolte in estate con i ragazzi del Malaspina, con l’obiettivo di aiutarli a re inserirsi nel tessuto sociale e, contemporaneamente, di ammirare le bellezze naturali del territorio, apprezzandole e rispettandole. Opera (Mi): a pazienza e la speranza, i violini nati in carcere di Giulia Polito Corriere della Sera, 5 gennaio 2017 Il carcere Opera è un modello in cui, spiega il direttore Giacinto Siciliano, "tutti hanno avuto un ruolo chiave, la direzione così come il personale penitenziario". Sono 1300 i detenuti coinvolti nei progetti che spaziano dalle attività professionali, a quelle artigianali, al teatro. Di questi 90 sono al 41bis. Tra gli obiettivi futuri c’è l’ideazione di un metodo di valutazione scientifica del tasso di recidiva: "Una volta che escono perdiamo le tracce dei nostri detenuti, a meno che non facciano ritorno. Lavoriamo ora ad un sistema che ci consenta di valutare l’impatto della nostra azione". Le mani sono ruvide e massicce, ma sfidano il legno scalfendolo con dolcezza. Sembra quasi una carezza che produce un suono secco e leggero. L’odore acre inonda l’aria, sa di vernice fresca e di terra. Le dita si muovono con arte. Il maestro non alza lo sguardo, resta concentrato sul ricciolo che ha quasi ultimato. Sarà uno dei pezzi che andranno a comporre il suo ultimo violino. Per completare ogni singolo strumento occorrono ben 300 ore di lavoro che per lui sono una piccola conquista. Il suo nome è Nicola e per lui quelle 300 ore sono tempo di libertà all’interno del Carcere Opera di Milano. All’interno di queste mura si cerca di creare una cultura differente, rafforzare (o costruire) il legame tra carcere e territorio. Un’idea su cui la direzione di Giacinto Siciliano ha puntato molto nel corso degli anni. "Partiamo dalla considerazione che il detenuto viene da fuori ed è fuori che deve tornare - spiega Siciliano -. All’interno di Opera noi cerchiamo di riprodurre un ambiente quanto più simile al "fuori", in modo che i detenuti vengano abituati al rispetto delle regole". Ad Opera si costruisce un ambiente quanto più possibile normale. E la normalità, per gli uomini che qui scontato le pene, passa soprattutto dal lavoro. Ecco perché negli anni sono sorti laboratori professionali o aule didattiche per permettere loro di riprendere gli studi. Tra i progetti, c’è anche un laboratorio di liuteria. Qui si creano prodotti che hanno scritto un pezzo importante della storia del made in Italy. Si tramandano i segreti più intimi della produzione di violini dei maestri di Cremona, che hanno creduto e investito nel progetto, prestandosi a titolo volontario per fare formare i detenuti coinvolti. Uno dei primi a partecipare al progetto, una volta uscito, ha proseguito nel lavoro di liuteria proprio a Cremona. Negli anni è tornato in carcere, nelle vesti di maestro. Ha formato i suoi ex compagni affinché quel tesoro di esperienze potesse un giorno accompagnare altre persone nel difficile percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Ad aver preso in gestione il laboratorio di liuteria è la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti: "Ad oggi i liutai più esperti sono in grado di produrre violini che sul mercato hanno un valore commerciale di diverse migliaia di euro" racconta Arnoldo Mondadori, tra i creatori della Fondazione. Ma è la metafora che sta dietro tutto il progetto la cosa che più lo emoziona: "È l’idea che dalla sofferenza possa scaturire qualcosa di bello. Così il suono che nasce dal dolore diventa universale". "La leggenda vuole che il legno assorba l’anima di chi lo sta lavorando" racconta Nicola. È come se il lavoro di liutaio lo costringesse ad essere felice, nonostante l’ergastolo cui è stato condannato. "Il legno percepisce tutto, è un materiale vivo". Prima di finire in galera Nicola lavorava i metalli: "Qui ho scoperto una parte di me stesso, ho avuto il dono della calma e della pazienza". Ricorda il momento in cui ha osservando il suo primo violino finito. Modello Chiara lo ha ribattezzato, dal nome della figlia cui lo ha regalato, custode inconsapevole della nuova anima del padre. Erjurgen ha partecipato anche ai laboratori di scrittura creativa. Dentro di sé ha scoperto un piccolo artista. Ha pubblicato un libro di poesie, la prima è dedicata al primo violino che ha costruito. La sua emozione più bella sentirlo suonare da un musicista. "Neanche a uomo libero ho provato una gioia così grande". Erjurgen che il profumo del legno di cui il laboratorio è intriso, tra i tavoli di lavoro, i violini appesi e un Pinocchio messo in un angolo che scruta e veglia il loro lavoro. Gli restano ancora diversi anni dei 25 cui è stato condannato. Nicola ed Erjurgen al momento sono gli unici "liutai in Opera". Di giorno in giorno, dai pezzi di legno grezzo producono sogni, speranze e passioni. Dalla galera immettono "fuori" tutto ciò che di bello l’animo umano possiede, osservando il mondo da dietro le sbarre, immaginando una vita nuova trascinati sulle note di un violino, in uno spazio che per loro è già di evasione. Lecce: bambini e carcere, coloriamo Borgo San Nicola di Mario Maffei Gazzetta del Mezzogiorno, 5 gennaio 2017 Al via il progetto vincitore del bando nazionale "Infanzia Prima" che mira a creare un sistema di accoglienza per minori in visita nel carcere di Lecce. La creazione di una biblioteca e di due ludoteche, la sistemazione di aree verdi e un fitto calendario di appuntamenti, laboratori, spettacoli, letture, mostre: prende il via con questo caleidoscopio di iniziative "Giallo, rosso e blu - I bambini colorano Borgo San Nicola". Si tratta di un progetto di Cecilia Maffei e Antonietta Rosato dell’Associazione culturale Fermenti Lattici, che realizzerà nel carcere di San Nicola di Lecce un sistema di accoglienza per i bambini in visita ai genitori detenuti, e che è stato presentato mercoledì 4 gennaio alle Manifatture Knos di Lecce nell’ambito della terza edizione di Kids - Festival del teatro e delle arti per le nuove generazioni (in calendario fino sino a domenica 8 gennaio). L’idea nasce, come ha spigato Maffei, con l’obiettivo principale del recupero del rapporto genitori-figli in un contesto difficilissimo come un penitenziario penale. bambini e offrire loro tempi e spazi di condivisione insieme alla propria famiglia. Durante la presentazione, cui hanno preso parte i responsabili dei soggetti culturali coinvolti, la direttrice di Borgo San Nicola, dottoressa Rita Russo, ha usato espressioni entusiastiche nei confronti delle operatrici di Fermenti Lattici, ed ha ricordato il successo che sta ottenendo da alcuni anni il laboratorio teatrale guidato da Paola Leone, come esempio felice di interazione proficua fra l’istituzione penitenziaria e la cultura. Il progetto, che rientra tra le dieci iniziative vincitrici del bando nazionale "Infanzia Prima" destinato a bambini sino ai 6 anni promosso da un gruppo di Fondazioni lungimiranti: Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione con il Sud, con l’accompagnamento scientifico di Fondazione Zancan e in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, avrà una durata di 24 mesi e sarà posto in essere da una rete di associazioni che operano già attivamente e in sinergia nel mondo dell’infanzia attraverso molteplici approcci. Team leder, Fermenti Lattici, che dal 2009 realizza progetti culturali per l’infanzia, promuovendo la lettura e la libera creatività dei bambini; coinvolti alcuni altri attori dell’associazionismo culturale leccese e salentino: Factory Compagnia Transadriatica, Principio Attivo Teatro, la Compagnia di attori/detenuti "Io Ci Provo". Ovviamente, e in prima linea, anche la Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce, l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Lecce, il Garante per i Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Puglia. Partner prezioso anche l’Istituto tecnico Olivetti. Il denso programma di attività è partito in anteprima lo scorso dicembre, con una serie di incontri tra l’associazione Fermenti Lattici e il corpo di polizia penitenziaria allo scopo di condividere obiettivi e definire le varie fasi del progetto. Parte trainante sarà l’autocostruzione e la rigenerazione delle aree esistenti che coinvolgeranno genitori e bambini, impegnati nella creazione dei nuovi spazi per un progetto comune sostenibile nel tempo. "Giallo, rosso e blu" aderisce alla Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti (nata a Roma il 6 settembre scorso presso Ministero di Giustizia) che riconosce formalmente il diritto dei minori alla continuità del proprio legame affettivo con il proprio genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità dei detenuti e si inserisce in un contesto caratterizzato da una condizione di svantaggio. Sono ben 250 i bambini figli di detenuti e detenute che non hanno la possibilità di instaurare un rapporto quotidiano con papà o mamma, costruire ricordi e condividere un’esperienza gratificante con la propria famiglia. Tra pochi giorni partirà la costruzione della biblioteca che sarà realizzata all’interno della sala accettazione del carcere. I bambini saranno sollecitati a immaginare e "progettare" e i genitori si occuperanno di realizzare i progetti dei piccoli; questo luogo sarà reinventato, ridipinto e reso adatto a loro, fornito di arredi, di libri e albi illustrati per l’infanzia per dare vita a una piccola biblioteca che possa crescere nel tempo. Parallelamente, sempre con bambini e genitori, si lavorerà alla realizzazione di un luogo idoneo a ospitare gli incontri: si darà vita a due ludoteche (nella sezione maschile e in quella femminile) dove genitori e bambini potranno prendere parte ad attività (visitare una mostra, giocare insieme, leggere un libro preso dalla biblioteca) oppure semplicemente incontrarsi in uno spazio più a misura di bambino. Sempre nel corso del primo anno saranno attivate le aree verdi attraverso attività di giardinaggio e la creazione di un orto. Laboratori, presentazioni di libri, letture, mostre, spettacoli continueranno anche nella seconda fase che sarà incentrata sulla sostenibilità futura dell’iniziativa con attività di formazione. Taranto: prende il via la quarta edizione del progetto "Fuori… gioco" lavocedimaruggio.it, 5 gennaio 2017 Dopo il successo delle precedenti edizioni, ha preso il via, per il quarto anno consecutivo, il progetto di rieducazione dei detenuti denominato "Fuori…gioco!" che ha come obiettivo quello di trasmettere ai reclusi i valori tipici dello sport quali il rispetto delle regole e dell’avversario. Il direttore dell’Istituto Penitenziario di Taranto, Dott.ssa Stefania Baldassari, ha accolto favorevolmente la riproposizione del progetto da parte del suo ideatore, l’Avv. Giulio Destratis, Presidente dell’Aps Fuorigioco di Manduria ed esperto in diritto sportivo. Anche quest’anno è prevista una prima fase del progetto articolata in otto lezioni di aula all’interno dell’istituto penitenziario in cui si parlerà di tecniche e tattiche di gioco ma anche di giustizia sportiva, di medicina e di ordinamento federale. I magistrati Dott. Maurizio Carbone e dott. Martino Rosati, che ancora una volta non hanno fatto mancare il loro sostegno all’iniziativa, relazioneranno sugli aspetti civili e penali relativi al calcio. Nel corso del primo incontro già svoltosi nel carcere di Taranto sono intervenuti l’Avv. Giulio Destratis e il Dottore in Legge Manolo Gennari in rappresentanza dell’Aps Fuorigioco, che hanno illustrato ai detenuti lo sviluppo delle attività progettuali. La seconda fase pratica prevede l’applicazione delle nozioni teoriche in allenamenti di gioco ma, soprattutto, un appuntamento unico in Italia: l’incontro di calcio quadrangolare tra le rappresentative di Magistrati, Avvocati, Agenti Penitenziari e detenuti, che si sfideranno all’insegna del Fair Play e che si terrà nel prossimo febbraio allo Stadio Iacovone di Taranto. Nel corso del progetto ed alla partita finale, interverranno l’ex calciatore della Nazionale Italiana, Nicola Legrottaglie, indimenticabile Campione del Mondo 1982 Claudio Gentile ed altri volti noti del calcio italiano. Imperia: Pagani (Uil-Pa) "un penitenziario dimenticato" riviera24.it, 5 gennaio 2017 Continuano oramai a non interessare più a nessuno le condizioni dell’Istituto imperiese, che oltre alla carenza nell’organico di polizia penitenziaria (urge conferma e invio in missione di poliziotti penitenziari ) e al sovraffollamento (oggi presenti 83 detenuti), l’Istituto dalle 22 alle 7 del mattino è scoperto anche di assistenza sanitaria (assenti medici ed infermieri), altra tegola inoltre è rappresentata dalla carenza di parcheggi per quei pochi lavoratori in servizio in carcere è impossibile parcheggiare o meglio, bisogna anche pagare il parcheggio per lavorare - così Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa polizia penitenziaria, rilancia l’allarme e presenta la drammaticità e la realtà del carcere di Imperia. "L’Istituto continua a vivere la piena emergenza. Ora basta - dice Pagani, il sindacalista della Uil-Pa - rilancia l’obiettivo della Uil-Pa, ovvero iniziare ad impedire ingresso dei detenuti nelle ore notturne". "Di notte il carcere dovrà restare chiuso se non sarà così - afferma il sindacalista - sarà protesta. Non è possibile che il personale di polizia penitenziaria di Imperia resti abbandonato. Si spera che in primis l’amministrazione penitenziaria, la quale non sembra preoccuparsi minimamente del problema, abbia compreso chiaramente la pericolosità e i forti rischi che l’istituto corre in quelle ore, soprattutto in termini di sicurezza, perché a rischio è la sicurezza sociale". "È giunto il momento che le Istituzioni (prefetto e sindaco), si attivino assumendosi per competenza le responsabilità, prima che sia troppo tardi - afferma Pagani - Inoltre a fine gennaio sarò ad Imperia per incontrare il personale di polizia penitenziaria, oggi abbandonato e demotivato, purtroppo in queste condizioni è a rischio la sicurezza dell’istituto e della stessa Città". Lecce: i poliziotti-sommelier e le degustazioni in carcere di Luciano Ferraro Corriere del Mezzogiorno, 5 gennaio 2017 Evadere dal carcere (con la testa) usando il vino. Con i poliziotti come maestri. È successo a Lecce. Un gruppo di trenta tra detenute e detenuti ha risentito i profumi della libertà e dell’aria aperta in un bicchiere di Negramaro. Otto lezioni organizzate dall’Associazione italiana sommelier. Il primo e unico corso del genere, dietro le sbarre, in Italia. L’idea è venuta al vice questore Amedeo Pasquino, dirigente della Digos leccese, ex capo della squadra mobile, con la passione del vino (è vice presidente dei sommelier pugliesi). "Abbiamo concluso un’operazione assieme alla polizia penitenziaria - racconta - alla fine ci siamo chiesti come potevamo aiutare umanamente gli arrestati. Per dare a tutti una seconda possibilità e far sentire la presenza dello Stato. Ne abbiamo parlato con la direttrice della casa circondariale, Rita Russo. L’idea le è piaciuta e ci siamo dati da fare per i permessi. Non è stato facile, in carcere il vino è vietato". Decisivo è stato il ruolo di Gianvito Rizzo, della cantina Feudi, a Guagnano, uno dei fautori del progetto e il fornitore delle bottiglie per le lezioni. Ad ottobre, quando il corso di conoscenza del vino è iniziato (l’annuncio era stato dato dal canale Cucina del Corriere) si sono presentati in 30. Alcuni avevano avuto a che fare con la criminalità organizzata, altri erano dentro per droga e rapine. In cattedra sono saliti un poliziotto della Mobile, Marco Albanese, e un sommelier professionista, Roberto Giannone. Lezioni separate, prima le donne, poi gli uomini. "Abbiamo parlato del ruolo del sommelier - racconta i poliziotti eno-appassionati - del modo in cui si produce il vino, delle caratteristiche organolettiche e un pò anche degli abbinamenti con il cibo. Ad ogni lezione abbiamo fatto degustare tre bicchieri di vino ai detenuti-allievi". In testa le glorie locali, Primitivo e Negramaro. Sui banchi c’erano le stesse persone che Albanese e Pasquino avevano conosciuto durante le indagini. Il 19 dicembre la cerimonia (e il brindisi) con la consegna degli attestati di partecipazione. "Un detenuto - ricorda il dirigente della Digos - ha spiegato che possiede qualche ettaro di terra incolta a Brindisi: quando uscirà, ha detto, pianterà viti e produrrà vino". Nelle carceri d’Italia ci sono già detenuti che si dedicano a botti e bottiglie. L’esperienza più nota è quella dell’isola di Gorgona, dove grazie all’intervento del marchese Lamberto Frescobaldi si assemblano Vermentino e Ansonica. Il "Valelapena" è la Barbera che esce dal carcere di Alba, il "Fresco di galera" è il Fiano (e Falanghina) che viene dall’Istituto di Sant’Angelo dei Lombardi. Ma quello di Lecce è il solo corso teorico e "professionale". "Dietro il vino ci sono lo svago, la convivialità e soprattutto la cultura - sostiene Antonello Maietta, il presidente dell’Ais - volevamo trasmettere questo. E dare qualche possibilità di lavoro ai detenuti, quando avranno scontato la pena. La formula di Lecce ha funzionato (ne ha scritto anche il New York Times), la ripeteremo presto in altre carceri". In fondo si può evadere con il pensiero anche così, con i profumi e il gusto del vino. Alessandria: aggressione in carcere "carenza di personale, difficile garantire il servizio" alessandrianews.it, 5 gennaio 2017 Una aggressione tra detenuti, avvenuta ieri nel carcere di San Michele, mette nuovamente l’accento sulla cronica mancanza di agenti di polizia penitenziaria all’interno della struttura alessandrina. Il fatto di cronaca, riportato dal sindacato Uil-Pa: nella giornata di ieri, martedì, durante il tempo riservato alla mensa per i detenuti, tre uomini di origini maghrebine hanno aggredito a colpi di lametta un loro connazionale ferendolo gravemente al volto e in altre parti del corpo, approfittando del fatto che l’agente di servizio al piano si trovava con l’infermiera nell’altra sezione per la distribuzione della terapia ai detenuti. La prognosi per il detenuto aggredito è di sette giorni, ma i danni ricevuti saranno permanenti. "Uno dei tre aggressori - spiega Salvatore Carbone - molto probabilmente il mandante, è lo stesso detenuto che poche settimane fa ha tentato la fuga durante un trasferimento in ospedale per essere sottoposto a visita specialistica". Il nodo sembrerebbe, ancora una volta, la carenza cronica di personale di vigilanza all’interno dell’istituto: una situazione denunciata più volte dai sindacati che, in questi giorni, hanno chiesto un incontro con il provveditore regionale. Dal 28 dicembre, infatti, gli agenti stanno mettendo in atto una sorta di "sciopero della fame" astenendosi dal consumare i pasti nella mensa messa a loro disposizione. Si tratta di una protesta spontanea degli agenti, che i sindacati non possono che appoggiare. Sono circa 300 gli agenti che operano ad Alessandria, suddivisi tra i centri Don Soria e San Michele. Mancano circa un’ottantina di agenti. "Abbiamo sottoposto la questione più volte sia alla direzione del carcere, sia al provveditore regionale" spiegano Salvatore Carbone della Uil e Vicente Santilli di Sappe. Il 10 di gennaio si dovrebbe tenere l’incontro richiesto a livello regionale. "Abbiamo proposto di destinare alcune unità al carcere di San Michele, dove la situazione è sempre più preoccupante, attivando la mobilità interna". Dopo la chiusura, lo scorso anno, della casa circondariale di Alba, alcuni agenti sarebbero stati destinati ad altre sedi, Torino e Novara. L’idea che sarà sottoposta al Provveditore è quella di spostare alcune unità anche ad Alessandria, in attesa di nuove assunzioni in pianta organica, rese possibili da un recente decreto governativo. "Vedremo il 10 gennaio quale possibilità si potranno percorrere", concludono i sindacati. Ci si interroga, intanto, "se questa grave aggressione poteva essere evitata". "La prassi adottata e consolidata dall’Amministrazione Penitenziaria è quella di trasferire tempestivamente ad altri istituti i detenuti che si sono resi responsabili di evasioni o tentate evasioni. Perché questo detenuto non è stato ancora trasferito?" "Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica", di Luigi Manconi di Errico Novi Il Dubbio, 5 gennaio 2017 "Dal caso Regeni al garantismo, sinistra senza cuore". Ci sono frasi che segnano la storia. Una, a sinistra, è l’affermazione gramsciana sulla "Buona Politica" che non può esserci "senza una connessione sentimentale con coloro che vuoi rappresentare". In questi anni nel centrosinistra italiano ce lo si è rinfacciati, spesso, come se fosse un problema di afasia, di torpore espressivo. Invece per una voce molto autonoma tra i dem come Luigi Manconi, la perdita riguarda "il corpo e l’anima della politica". Il presidente della commissione Diritti umani torna su un tema generale a lui caro, sul quale di recente ha pubblicato, per Mimimum Fax, un libro, "Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica". Vi torna in particolare a proposito del caso Regeni: se n’è occupato, ancora una volta, alcuni giorni fa in un intervento su quello che è pur sempre il quotidiano del Pd, l’Unità, e propone anche un link con un più specifico deficit di contenuto che si avverte a sinistra, quello sul garantismo. "Trentacinque anni fa la sinistra non era affatto più garantista di oggi, anzi. E comprensibilmente: le garanzie sociali e i diritti collettivi sono stati per un secolo al centro della sua azione. Di conseguenza le garanzie individuali e i diritti della persona venivano trascurati. Da allora, indubbiamente, un qualche passo avanti c’è stato. È rimasta, tuttavia, una forte impronta giustizialista. E così non si riesce ad andare oltre un’attenuazione di quella cultura del populismo penale, così diffuso oltre i confini del movimento che ne è l’espressione più aggressiva, nonostante i risibili ritocchi delle ultime ore: i 5 Stelle". Partiamo dal caso Regeni: la timidezza del Pd è stata decisiva nel mancato accertamento della verità? Certamente il Pd e più in generale il Parlamento non hanno incalzato il governo. Sono mancate sia un’adeguata mobilitazione sociale sia un’efficace pressione sull’esecutivo. Ha prevalso un’idea che alla resa dei conti si rivela nullista, addirittura nichilista: ogni azione dell’Italia nei confronti di Al Sisi sarebbe stata impraticabile per la rigidità dello scenario geopolitico mediorientale e per gli ineludibili interessi economici. Parliamo del limite fatale all’intera sinistra europea, schiacciata su realpolitik e pragmatismo? Sì, ma dobbiamo parlare sia del fallimento della politica come forza autorevole e autonoma, sia della sudditanza psicologica all’idea che il potere finanziario costituisca un dominio assoluto e incontrollabile. Un’idea non solo falsa ma che rischia di essere consolatoria, in quanto induce a una serena resa. Anche per il caso Regeni in luoghi comuni come "a comandare sono i petrodollari" vedo una concezione subalterna e rinunciataria della politica. Ma che cosa avrebbe dovuto fare il governo nei confronti del regime egiziano? Non doveva dichiarare guerra. Semplicemente, ricordarsi che il giacimento gas di Zohr interessa anche all’Egitto e che il flusso turistico dall’Italia poteva essere utilizzato come strumento di pressione democratica, o mille altri strumenti. Si è optato, invece, per la normalizzazione dei rapporti con un regime che ha sempre ostacolato il raggiungimento la verità. Lei sull’Unità ha scritto che non si tratta di un "caso" a sé stante ma che vi si scorgono questioni che costituiscono il cuore della politica. Nel caso Regeni come altrove si scorge un’idea tutta amministrativista e burocratica della politica. Eppure quella vicenda rimanda a tre grandi questioni: i rapporti tra uno Stato democratico e un regime dispotico, il posto da assegnare, nell’agenda delle relazioni internazionali, alla tutela dei diritti umani e il ruolo di quei "giovani contemporanei" di cui Giulio era un rappresentante esemplare, come ha detto sua madre. Tutto questo è stato ridotto nella migliore delle ipotesi a un problema umanitario, se non di filantropia. E invece si tratta del cuore della politica possibile, del suo corpo e della sua anima, della sua struttura profonda, radicata nelle sofferenze e nelle speranze degli esseri umani. Così come corpo e anima della politica dovrebbe essere la questione della povertà, che non può essere certo affrontata con un atteggiamento compassionevole. Si riferisce anche alle politiche sui migranti? Certo, e in generale alle disuguaglianze, che vanno affrontate partendo dalle storie di vita individuali e collettive: appunto dal corpo e dall’anima delle persone in carne e ossa. È per questo che devono giocare un ruolo importante le emozioni e quella che chiamiamo la passione politica. A sinistra la si è smarrita? Tutta la politica ne appare svuotata. E sinceramente, lo dico da non renziano, non vedo spazio per una critica specifica rivolta a Renzi che sarebbe colpevole di una mutazione genetica del Pd: l’assunto non mi pare regga. È un pò come quando si vagheggia di una fantomatica sinistra garantista del tempo perduto. Neppure questo mito sta in piedi? Lo ripeto: oggi la sinistra è sicuramente più garantista di trentacinque anni fa. O forse possiamo dire che non lo è mai stata davvero, se non in alcune minoranze: azioniste, radicali, libertarie. Anche nel passato è sempre stata più attenta alla tutela delle garanzie sociali che a quelle individuali. E non è cambiato nulla in quarant’anni? Pian piano, pur senza cogliere la lezione degli anni Settanta, c’è stata un’evoluzione che però non è mai divenuta espressione maggioritaria. È giusto quanto ha detto Andrea Orlando: il giustizialismo ha surrogato altri strumenti di lotta politica, che erano rivolti al perseguimento della giustizia sociale. È un errore terribile che oggi impedisce di vedere come l’ingiustizia sociale abbia una sua articolazione per esempio nella tutela delle persone detenute o dei migranti, appunto. Sinistra poco attenta ai migranti per derivazione giustizialista? Il totem della legalità induce anche una parte della sinistra a vedere nell’immigrazione prevalentemente una questione di sicurezza. Ma se ancora oggi non è abbastanza garantista, come farà la sinistra a fronteggiare Grillo? È un fatto: sui temi della giustizia la sinistra non ha sufficiente autonomia, prova a rincorrere modelli come quello dei Cinque Stelle in modo magari da depurarlo delle sue degenerazioni e renderlo virtuoso. Ma è un errore grave. Vuol dire che lei è molto pessimista, sulla contesa tra Pd e grillini. Lo sono senza dubbio. E mi trovo, diciamo, incoraggiato nel mio pessimismo dal successo che il messaggio dei Cinque Stelle continua ad avere in aree dell’elettorato che furono di sinistra. Certo è triste che a dettare la linea sia un partito autoritario con tratti dinastici: dove la leadership si eredita e diventa numero due, o uno, il figlio del co-fondatore. Quando Bettino Craxi era al massimo del suo potere il figlio non andò oltre la carica di consigliere comunale. Rai Uno, messaggio di speranza nella trasmissione "Nella memoria di Giovanni Paolo II" agensir.it, 5 gennaio 2017 Registrata nel carcere minorile di Torino. "Un messaggio di speranza e di riscatto per i giovani detenuti nel ricordo dell’opera e della testimonianza del santo Papa. È quello che è stato lanciato in occasione dell’evento televisivo "Nella Memoria di Giovanni Paolo II", andato in onda lunedì notte su Rai Uno, che ha registrato 480mila contatti con il 6,89% di share, il dato più alto tra i principali palinsesti nazionali nella specifica fascia oraria". Lo si legge in un comunicato diffuso oggi da Life Communication. "La trasmissione è stata prodotta dalla Life Communication in collaborazione con il ministero della Giustizia - Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e con il patrocinio del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione della Santa Sede, della Conferenza episcopale italiana - Fondazione dello spettacolo e della Fondazione Giovanni Paolo II - Centro studi e documentazione del Pontificato". Il programma "ha proposto alcuni dei momenti più significativi della serata condotta da Domenico Gareri, lo scorso 21 novembre, presso l’Istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino e caratterizzata dal ricordo degli insegnamenti del Santo Padre ai cosiddetti piccoli del Vangelo, i detenuti e i diversamente abili". Il comunicato riferisce: "Proprio i giovani detenuti, nel momento che ha preceduto l’inizio dell’evento, hanno aperto i loro cuori dando un nuovo significato alle parole e alle testimonianze di Giovanni Paolo II attorno a cui diversi artisti e rappresentanti del mondo delle istituzioni hanno offerto il proprio contributo. Il sottosegretario alla giustizia, Cosimo Maria Ferri, ha ribadito nel corso della serata quanto è importante portare avanti un percorso di comunicazione sociale per i ragazzi, come quello del programma già ospitato negli scorsi anni negli istituti penitenziari di Palermo, Napoli e Roma", esprimendo l’augurio che "i giovani possano ripartire essendo accolti senza pregiudizi". Migranti. Coro di no ai Cie in ogni regione, contrari anche M5S, Caritas e Cgil di Leo Lancari Il Manifesto, 5 gennaio 2017 Il ministro in Tunisa e a Malta in vista dei prossimi vertici europei. Il sindacato: "Non è alimentando il clima di paura che si batte il terrorismo". Dopo il no ricevuto da sindaci e governatori, ieri anche il sindacato ha respinto la proposta del ministro degli Interni Marco Minniti di riaprire i Cie, contestando soprattutto l’equazione che equipara gli immigrati irregolari ai terroristi. "Non è alimentando il clima di paura che si combatte il terrorismo" ha detto il segretario nazionale della Cgil, Giuseppe Massafra, ribadendo la "nostra contrarietà all’apertura di nuovi centri di identificazione e di espulsione in ogni regione". Ma il giro di vite annunciato dal titolare degli Interni continua a dividere anche il Pd. "I Cie non sono solo luoghi disumani di reclusione per chi non ha commesso reati - ha detto il senatore Sergio Lo Giudice - ma sono soprattutto strutture che si sono dimostrate inefficaci". Meglio, per il portavoce della ReteDem, rafforzare "gli accordi con i paesi di origine per snellire le procedure di rimpatrio". E un no secco è arrivato anche del M5S, per il quale i Cie "non farebbero altro che alimentare sprechi, illegalità e mafie e rallentare le espulsioni degli immigrati irregolari". Ieri Minniti si è recato in Tunisia e poi a Malta. Nel paese nordafricano - uno dei quattro con cui già esiste un accordo per il rimpatrio dei migranti - il ministro ha voluto affrontare i motivi che nei mesi scorsi hanno portato Tunisi prima a non riconoscere come proprio cittadino Anis Amri, l’attentatore al mercatino d Natale di Berlino, e poi a ritardare la consegna dei documenti necessari per il suo espatrio dalla Germania fino a quando non è stato ormai troppo tardi. A La Valletta Minniti ha invece incontrato il suo omologo Carmelo Abela, con il quale ha discusso di immigrazione e sicurezza, due dei temi in calendario per i prossimi vertici europei. Dal primo gennaio Malta è presidente di turno dell’Unione europea e tra gli impegni che l’attendono c’è la revisione del regolamento di Dublino già avviata - in maniera penalizzante per i paesi del Mediterraneo - dalla precedente presidenza slovacca ma che ora l’Italia spera di poter modificare con l’aiuto proprio dei maltesi. Oltre, naturalmente, al proseguimento della ricerca di accordi bilaterali con i paesi di origine dei migranti per facilitare i rimpatri e l’avvio di migration compact con cui l’Europa spera di mettere un argine alle partenze dall’Africa. Tutte questioni già avviate dal governo Renzi, quando agli Interni c’ era Angelino Alfano e alla Farnesina sedeva l’attuale premier Paolo Gentiloni e che ora, almeno in parte, si ritrova a dover gestire Minniti. Certo è che il debutto da titolare degli Interni non è stato dei migliori. Eppure con un passato come sottosegretario con delega ai servizi segreti Minniti sa bene che non esistono - almeno finora - collegamenti tra il fenomeno migratorio che da due anni coinvolge l’Europa e il terrorismo internazionale. Non a caso anche dallo stesso Pd si sono levate solo voci critiche alle sue proposte. Tra i primi a bocciare la riapertura dei Cie il governatori di Toscana e Friuli Venezia Giulia, Enrico Rossi e Debora Serracchiani, ai quali ieri si è aggiunto anche l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano, Pierfrancesco Majorino. "L’idea di aprire nuovi Cie non mi convince - ha scritto ieri su Facebook -. E non solo perché a Milano questo vorrebbe dire ricollocare 500 richiedenti ospitati a via Corelli ma perché i Cie sono stati un ibrido pericoloso dive persone con tutti i diritti e persone in attesa di rimpatrio sono state piazzate spesso per mesi". Fuori il Pd, commenti critici arrivano anche dal sindaco di Parma e dalla Caritas. "I Cie non risolvono il problema, così come non risolve la grande aggregazione di queste persone", ha detto Federico Pizzarotti, per il quale "bisogna creare un filiera e tenere occupati i migranti". Per il responsabile immigrazione della Caritas, Oliviero Forti, "abbiamo verificato che i Cie sono costosi, inefficaci e non riescono a raggiungere l’obiettivo per cui sono nati". D’accordo con Minniti alla fine sembrano essere solo il cardinale di Genova e presidente della Cei Angelo Bagnasco ("Tutto ciò che è utile per l’integrazione e la sicurezza generale va bene accolto"), parte della Lega e Forza Italia. Stop ai barconi di migranti. L’Italia cerca l’accordo in Libia di Francesca Schianchi La Stampa, 5 gennaio 2017 La prossima settimana il ministro dell’Interno Minniti sarà a Tripoli. Comuni e Regioni: chi arriva faccia lavori utili. Il M5S: no a nuovi Cie. La settimana prossima il ministro dell’Interno Marco Minniti volerà a Tripoli. È lì, in Libia, nel Paese a un braccio di mare dalla Sicilia, la chiave individuata dal governo per cercare una soluzione alla crisi dei migranti. Ieri "ci sono stati contatti fra il governo di accordo nazionale libico e il governo italiano su temi della sicurezza di comune interesse", recita un comunicato stampa del Viminale. Ma tra pochi giorni, quando dovrebbe anche riaprire la nostra ambasciata, quello di cui parlerà il nostro responsabile dell’Interno con esponenti del governo Serraj sarà soprattutto la bozza di un accordo per bloccare le partenze dei migranti. Intese simili il governo italiano le sta negoziando anche col Niger e altri Paesi (nei giorni scorsi il ministro Minniti è stato in Tunisia e a Malta): "Ma circa il 90 per cento degli arrivi in Italia parte dalla Libia", ricordano fonti del Viminale. Motivo per cui il patto chiave, che potrebbe veramente dare una svolta alla crisi, è quello con Tripoli. Facile a dirsi, molto più difficile a farsi, considerata la delicata situazione del Paese. Ma le trattative sono in corso, e Minniti a breve andrà di persona a cercare di dare concretezza alle ipotesi, che nelle intenzioni libiche consisterebbero nel fermare i migranti non sulle coste, ma lungo il confine meridionale del Paese, alla frontiera con Niger e Ciad. Un tentativo di trovare soluzione ai flussi che continuano ad arrivare in Italia e abbassare la tensione che in questi giorni è esplosa con la rivolta al centro di Cona, dove "non c’è nessuna condizione di umanità", denuncia il deputato di Sinistra italiana Nicola Fratoianni. Da una parte, accordi per evitare partenze e assicurarsi la possibilità di rimpatri; dall’altra, accoglienza diffusa e Centri di identificazione ed espulsione (Cie) in ogni regione: così il governo Gentiloni pensa di affrontare il problema. I numeri dei migranti in Italia - Da Regioni e Comuni arriva la proposta di mettere nelle condizioni "di obbligare a lavori utili le persone che arrivano nel nostro Paese": la avanza il governatore toscano Enrico Rossi, e come lui sindaci come quello di Prato, Biffoni, e di Verona, Tosi. Mentre la moltiplicazione dei Cie rischia di non andare a genio proprio al Pd di Minniti e del premier: dalla sinistra del partito, dopo la deputata Sandra Zampa interviene il senatore Sergio Lo Giudice per definirli "luoghi disumani di reclusione". Anche l’annunciata stretta, al grido di "via tutti gli irregolari", lascia perplesso qualcuno: "Non mi convince l’idea di risolvere una questione complessa con appelli volitivi: si rischia solo l’effetto annuncio", sospira Gianni Cuperlo. La prima a dichiararsi contraria ai Cie "come li abbiamo conosciuti finora" è stata la vicesegretaria del Pd e presidente del Friuli, Debora Serracchiani: ieri però ha fatto sapere che le Regioni incontreranno Minniti, "le strutture a cui fa riferimento il ministro credo possano essere altra cosa", concede. "Ci vorrà un confronto con chi guida gli Enti locali, i Cie vanno gestiti meglio, ma l’identificazione è un’idea democratica e non vedo quale altra soluzione si possa trovare", valuta Emanuele Fiano, responsabile sicurezza Pd. Non la pensa così il M5s: "Aprire un Cie per regione rallenterebbe solo le espulsioni degli immigrati irregolari e non farebbe altro che alimentare sprechi, illegalità e mafie", attacca dal blog di Grillo. Ribadisce Di Maio: "Nuovi Cie servono solo ad ingrassare cooperative amiche del governo". Migranti. Mauro Palma: "basta logiche emergenziali e serve un controllo dei Centri" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 5 gennaio 2017 Mauro Palma, Garante dei detenuti, vuole poter ispezionare anche i Cas come Cona. Entro gennaio visiterà Hotspot e Cie. Ma negli Hub non c’è autorità a cui appellarsi. Si appresta a partire per ispezionare tutti e cinque i Cie esistenti (Caltanissetta, Bari, Roma-Ponte Galeria, Torino e Brindisi) e tutti e quattro gli Hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Taranto e Trapani), Mauro Palma, presidente del collegio del Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale. "Li voglio visitare tutti entro gennaio", annuncia. Ma dopo la rivolta di Cona non vorrebbe limitarsi a questi, vorrebbe mettere il naso nelle altre mega strutture per migranti. Nei cosiddetti Hub o Cpa, i centri di prima accoglienza, e nei Cas, cioè centri di accoglienza straordinari, lei non ha competenza, vorrebbe visitare anche quelli? Sì, teoricamente la competenza del Garante è vincolata alle condizioni di privazione della libertà personale com’è nei Cie e negli Hotspot finché le procedure di fotosegnalazione e smistamento non sono espletate, e nei voli di rimpatrio non volontari. Ma sono intenzionato ad aprire un confronto dialettico con il ministero dell’Interno per quanto riguarda le strutture meno definite formalmente come questi Hub. Lì, anche se i migranti possono uscire nelle ore diurne, le restrizioni della libertà sono in ogni caso talmente condizionanti per i soggetti da poter essere assimilate alla privazione della libertà. Ho degli argomenti per sostenere questa tesi. Quali? In Francia fino al 95 in strutture paragonabili ai nostri Cie non era ammessa l’autorità dei comitati anti tortura, che hanno competenze simili a quelle del Garante, perché, si diceva, il soggetto è sempre libero di comprarsi un biglietto e tornarsene indietro. La Corte di Strasburgo nel ‘95 ha ribaltato questo indirizzo. E poi è interesse anche dell’istituzione che ci sia un organismo di controllo sulla vita interna di queste strutture come sulle cooperative che le gestiscono. Hotspot, Hub, Cas: non è proprio chiaro cosa siano dal punto di vista giuridico. Ha difficoltà di inquadramento normativo per i suoi interventi? La gestione delle strutture per migranti è ancora legata a una logica emergenziale mentre si dovrebbe passare a una situazione strutturale, molto più definita. La differenza è fortissima. Di fronte a un evento inatteso come la cosiddetta "Emergenza Nord Africa" del 2011, era comprensibile che il quadro presentasse sfumature e anche ambiguità, altro conto è attrezzarsi alla gestione di un flusso migratorio che è strutturale. È chiaro che serve un quadro normativo più solido, che preveda, ad esempio, la possibilità di appellarsi a una autorità terza. Non solo per quanto riguarda la domanda di asilo ma anche di fronte a condizioni indecorose di permanenza nei centri. Nei Cie c’è una competenza limitata, diciamo una tutela debole, del giudice di pace ma nelle altre strutture non c’è a chi appellarsi. E non va bene. Ora, negli Hotspot i paesi nordeuropei avrebbero voluto, per accelerare le identificazioni, che le procedure di rilevamento potessero essere anche forzate e l’Italia, giustamente, si è rifiutata. A causa di Dublino, com’è noto, molti richiedenti asilo non vogliono essere registrati in Italia. Si cerca di convincerli, è così che funziona nei nostri Hotspot. Ma quanto tempo possono essere trattenuti in questo tentativo di convincimento? Tre mesi o tre giorni? Non è specificato. Ecco come una decisione condivisibile dentro una logica emergenziale diventa non condivisibile. Ma lei, come Garante, come può intervenire? Il Garante può operare un controllo di regolarità, sia sulla vivibilità interna ai centri, sia sui ricorsi e i diritti dei soggetti, sia sulla gestione delle strutture. Direi che questi interventi possono essere rubricati come limitazione del danno. La questione di maggior rilievo è però aprire una interlocuzione con il Viminale e ora anche con l’Anci. E devo dire che finora il ministero appare più sensibile rispetto a certi Comuni. Non ci possono essere grandi concentrazioni come quella di Cona. Mettere 1.340 persone in un territorio fatto di piccoli borghi non funziona. Le grandi strutture soddisfano una funzione meramente contenitiva ma non sono controllabili all’interno né sicure, al contrario dei piccoli insediamenti diffusi, così un Paese grande come il nostro può largamente gestire il flusso attuale di profughi. Le sembra corretta la ripartizione tra migranti economici, da espellere sempre più in fretta, e rifugiati e profughi, da accogliere? Esiste una tripartizione: profugo di guerra - con asilo praticamente automatico, soggetto a rischio individuale, emblematico il caso di chi è perseguitato nel suo paese in quanto omosessuale, e il "migrante economico". Si può accettare che le tre tipologie abbiano trattamenti più e meno agevolati ma che il terzo gruppo sia l’unico trattato con totale intransigenza, destinatario di nessuna possibilità, no, non funziona. Arabia Saudita. Quattro mesi di carcere e 300 frustate per 49 immigrati in sciopero di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 gennaio 2017 Diritti negati e casse statali dissanguate dalle guerre perse in Yemen e Siria: a pagare lo scotto della crisi sono centinaia di migliaia di lavoratori, senza stipendio da mesi e puniti per aver protestato. Quattro mesi di prigione e 300 frustate: è la pena comminata a 49 lavoratori stranieri dalla corte della Mecca, in Arabia Saudita. La loro colpa è stata protestare alcuni mesi fa per il mancato versamento degli stipendi da parte del Bin Laden Group. La compagnia di costruzioni, colosso fondato 80 anni fa dal padre del leader di al Qaeda, aveva licenziato un anno fa 70mila dipendenti, dopo che il crollo del prezzo del greggio e le folli spese militari investite in Siria e Yemen hanno costretto il governo a sospendere i pagamenti dei servizi alle società private. A maggio i lavoratori sono scesi in piazza e alcuni di loro hanno dato fuoco a sette autobus del gruppo. Due giorni fa la sentenza: i crimini imputati ai 49 operai sono danneggiamento di proprietà privata e incitamento alla protesta. Il caso non è certo unico nel paese che più di altri incarna l’incontro distruttivo tra modernismo e conservatorismo, consumismo all’occidentale e soffocamento dei diritti fondamentali. Decine di migliaia di dipendenti della Saudi Oger, compagnia di costruzioni guidata dal premier libanese Hariri, sono in attesa degli stipendi da mesi. A settembre erano stati i lavoratori della United Seemac a compiere un atto rivoluzionario per gli standard sauditi: uno sciopero - reato a Riyadh come la più generale attività sindacale - perché senza stipendio per quasi due anni. Per fermare il sit-in, la società aveva offerto ai 215 lavoratori in mobilitazione 266 dollari. Poco più di un dollaro a testa quando il dovuto toccava quasi il milione di dollari. Dietro la protesta sta la disperazione dei lavoratori immigrati, che costituiscono buona parte della forza lavoro in Arabia Saudita, ripagata con stipendi miseri e semi-schiavitù. Milioni di immigrati (oltre 8 su una popolazione di 26, il 56% della forza lavoro e l’89% di quella impiegata nel settore privato) da India, Pakistan, Egitto, Yemen e Bangladesh, sono schiavi dell’arcaico sistema della kafala: è un saudita a "garantire" per l’immigrato, uno sponsor che si fa padrone, ne detiene il passaporto costringendo il lavoratore ad accettare ignobili condizioni di vita e lavoro, senza possibilità reali di cercare un altro impiego o lasciare il paese. Condizioni che vanno dalle violenze fisiche contro operai e collaboratrici domestiche a stipendi da fame saccheggiati dalle spese per l’alloggio, in stanze affollatissime e quasi prive di servizi igienici. E l’ultimo anno (con il crollo del prezzo del greggio solo ora in risalita dopo l’intesa all’Opec) ha visto un ulteriore peggioramento. Molte compagnie per quasi un anno non hanno pagato gli stipendi, impedendo ad almeno 150mila lavoratori di mandare denaro alle famiglie nei paesi di origine e in molti casi obbligandoli a mendicare cibo nelle rispettive ambasciate. Le grandi società di costruzioni sono arrivate sull’orlo del fallimento, con Riyadh incapace di pagare i debiti accumulati. Una crisi che i Saud tentano di mascherare ma che svela le contraddizioni intrinseche al paese terzo al mondo per spese militari con 87,2 miliardi di dollari l’anno. Un flusso ininterrotto che ha infiammato la guerra in Siria e intensificato l’operazione contro lo Yemen, due conflitti persi che hanno lasciato dietro di sé non solo l’isolamento politico dell’Arabia Saudita ma anche un deficit di quasi 100 miliardi di dollari, il 15% del Pil. Per frenare il dissanguamento delle casse statali, Riyadh ha ufficializzato a fine dicembre le riforme economi annunciate. L’obiettivo è limitare la dipendenza dal petrolio, diversificare l’economia e ridurre le spese. Non quelle militari, ma quelle civili attraverso introduzione dell’Iva, riduzione dei salari pubblici, taglio ai sussidi per elettricità e acqua, aumento del prezzo del carburante, non più calmierato ma legato alle fluttuazioni del mercato. Iran. Amnesty International: negato il trasferimento in ospedale all’attivista Sadeghi di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 5 gennaio 2017 Arash Sadeghi aveva terminato ieri, martedì 3 gennaio, 71 giorni di sciopero della fame per protestare contro l’arresto della moglie, la scrittrice Golrokh Ebrahimi Iraee, avvenuto il 24 ottobre scorso e rilasciata proprio in queste ore. Ma le sue condizioni sono critiche e le autorità iraniane rifiutano di trasferire il detenuto in ospedale. Lo ha denunciato oggi, 4 gennaio, Amnesty International. "Le autorità iraniane - si legge in un comunicato - devono immediatamente trasferire in ospedale un difensore dei diritti umani che ha appena finito lo sciopero della fame in modo che possa ricevere le cure urgenti di cui ha bisogno". L’attivista avrebbe dovuto essere portato in ospedale la scorsa notte ma, secondo Amnesty, le autorità penitenziarie hanno negato il permesso. "Il ritardo nel trasferimento di Arash Sadeghi in ospedale è crudele e degradante. La sua situazione è critica e deve ricevere cure specializzate senza alcun ritardo. In questo modo le autorità iraniane stanno giocando con la sua vita e mancano di osservare le norme del diritto internazionale" dice Philip Luther, direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Sadeghi, accusato di essere tra principali organizzatori delle proteste del 2009, è stato arrestato più volte nel corso degli ultimi anni e recentemente condannato a 15 anni di carcere. Il 24 ottobre aveva cominciato uno sciopero della fame dopo che la moglie era stata arrestata per aver scritto un romanzo sulla lapidazione e condannata a sei anni di carcere per "insulti ai valori islamici" e "propaganda contro il regime". In favore della liberazione della coppia si era creato un movimento internazionale. Su twitter sono stati lanciati circa 400 mila appelli per il suo rilascio. Nei giorni scorsi anche a Teheran c’era stata una manifestazione a sostegno dell’attivista e di sua moglie. La scrittrice è stata rilasciata ieri dietro il versamento di una cauzione di 5 miliardi di rial (128mila dollari). Durante il lungo sciopero della fame Sadeghi ha perso 20 chili di peso, i suoi reni sono sofferenti, il suo battito è irregolare e i polmoni sono infiammati. Stamattina temporaneamente è stato trasferito nell’infermeria dell’ospedale per nausea, tosse, dolori addominali e vomito con sangue. Dalla parte dell’attivista e di sua moglie si sono schierati molti deputati iraniani come i riformatori Mohamamd Reza Aref, Ali Motahari e Elias Hazrat.