Carcere, etica e diritto alla salute di Grazia Zuffa Il Manifesto, 4 gennaio 2017 L’inizio d’anno, lontano dalla fretta quotidiana, invita a riflettere su alcune questioni fondanti del vivere civile. Così è per un tema "eticamente sensibile" come la salute delle persone private della libertà. Gli organismi internazionali, in specifico l’Organizzazione Mondiale della Sanità, da tempo attirano l’attenzione sul problema ribadendo il principio dell’uguaglianza del diritto alla salute per tutti i cittadini: si veda la dettagliata guida Health in Prisons del 2007. Sulla base dello stesso principio, il Comitato Nazionale di Bioetica, nel 2013, ha stilato un parere, "La salute dentro le mura", ricco anche di indicazioni operative. Se l’idea non è più controversa, lo stesso non si può dire per la sua applicazione. In Italia, il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale ha rappresentato un passo avanti decisivo nella parità di trattamento, ma non ha sciolto tutti i nodi della gestione della salute: che risiedono nella tensione, e nel potenziale conflitto, fra istanze di sicurezza e diritti della persona. Un esempio è il rapporto col medico curante, che per i cittadini "fuori le mura" inizia con la libera scelta del professionista di fiducia. E per i cittadini "dentro le mura"? La scelta non è data e il rapporto col medico di fiducia (per chi l’aveva) quasi sempre si interrompe con l’ingresso in carcere. Da segnalare nuove interessanti pratiche: come quella nel carcere di Massa, dove il detenuto ha la facoltà di scegliere il medico di riferimento fra i sanitari presenti nell’istituto. È un passo in avanti sulla giusta via. Anche se la libertà di scelta non riguarda solo la medicina generale in senso stretto: si pensi alla delicata funzione dei servizi delle dipendenze, a cavallo fra prestazioni di base e specialistiche. Collegata alla libertà di scelta, è la questione del rapporto fiduciario del detenuto col sanitario, da tutelarsi a ogni costo. Sempre la Oms evidenzia un conflitto di ruoli, quando il medico curante è chiamato a giudicare le condizioni di salute del detenuto in relazione a provvedimenti che deve prendere l’autorità giudiziaria o penitenziaria: si veda la situazione in cui il medico sia chiamato a pronunciarsi sulla incompatibilità del detenuto con lo stato carcerario. Per non incrinare la relazione terapeutica, si raccomanda che il giudizio sia demandato ad altro professionista. Non è il solo caso di possibile conflitto di ruolo del sanitario, terapeutico da un lato, di supporto all’autorità giudiziaria dall’altro. Si pensi all’accertamento dello stato di dipendenza, quando il procedimento diagnostico non è finalizzato alla scelta del trattamento più appropriato, bensì a permettere - o negare- l’accesso a misure alternative. Per i Servizi Dipendenze, il conflitto si è acuito nel 2011, quando il Dipartimento Nazionale Antidroga (Dpa) decise di "uniformare" le procedure diagnostiche al fine di distinguere i detenuti con problemi di droga, fra "assuntori" e "dipendenti". Molto ci sarebbe da dire sulla validità scientifica di tali categorie, specie dopo le novità introdotte dal Dsm V. Per il momento, basti segnalare che in questo quadro la diagnosi non ha tanto valore clinico quanto di "classificazione" dei detenuti in relazione ai benefici giudiziari, facendo una prima cernita fra soggetti - abilitati e non - ad accedere a misure alternative terapeutiche. Si attiva così quella commistione di ruoli da cui si dovrebbe prendere le distanze. Di questo risvolto etico poco si è discusso ai tempi della decisione del Dpa. È tempo di colmare la lacuna, restituendogli il posto che gli spetta nel dibattito sul rinnovamento del carcere. Terrorismo, 300 monitorati nelle carceri italiane di Salvo Catalano meridionews.it, 4 gennaio 2017 "No a isolamento, servono gli imam negli istituti". Lo psicologo Marco Cannavicci fa parte della commissione che domani consegnerà al premier una relazione su come prevenire l’estremismo jihadista, che prolifera "sul web e nelle prigioni". Come dimostra il caso di Anis Amri, per quattro anni in Sicilia. Per combattere il fenomeno, gli strumenti sin qui utilizzati non bastano. "Per i soggetti radicalizzati e a rischio terrorismo il carcere duro e l’isolamento non servono, piuttosto bisogna fare entrare nelle prigioni imam e guide religiose islamiche moderate, così come sono accettati preti e frati". Marco Cannavicci, psicologo e criminologo, è uno dei 19 componenti della speciale commissione che domani consegnerà al premier Paolo Gentiloni una prima relazione su come prevenire l’estremismo jihadista. Insieme a lui professori universitari, giornalisti, esperti di sicurezza per quattro mesi hanno ascoltato i referenti delle comunità islamiche, il Ros dei carabinieri, la polizia, gli imam, i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. "Il radicalismo in Italia fiorisce grazie a due principali fonti di interazione: le carceri e il web", spiega Canovacci che cita i numeri forniti proprio dal Dap. "Su 54mila detenuti nelle nostre prigioni, 18mila sono stranieri; di questi 11mila sono musulmani e 300 sono quelli monitorati con attenzione perché vicini a posizioni radicali". Anis Amri, l’attentatore di Berlino, era uno di questi: dal 2011 al 2015 ha scontato la sua pena tra gli istituti di Catania, Enna, Sciacca, Agrigento e Palermo. E da Catania sarebbe partita anche un’informativa per segnalare la pericolosità del soggetto. "Probabilmente - sottolinea Cannavicci - in Germania e in Francia non hanno prestato la stessa attenzione che Amri ha avuto in Italia. Non è un mistero che le nostre capacità investigative, perfezionate nella lotta alle criminalità organizzate, possano contare su strutture efficientissime, come il Ros dei carabinieri, che in altri Paesi d’Europa non esistono". Come si riconosce un soggetto a rischio radicalizzazione in un carcere? In diverse occasioni e in più istituti penitenziari, all’indomani degli attentati in Europa, sono stati registrati festeggiamenti da parte di detenuti di fede islamica. "Ma questo, da solo, non significa niente - precisa lo psicologo - può trattarsi semplicemente di una manifestazione di ribellione, di protesta, di rivincita. Quello che va monitorato attentamente è il cambiamento dell’atteggiamento religioso, se da blando diventa attento, formale, rigoroso. A cui si deve sommare una disponibilità alla violenza". I motivi per cui alcuni detenuti imboccano questa strada sono molteplici. "Perché si cerca un cambiamento di vita, un’identità che manca, un percorso per espiare peccati o una vita precedente, o semplicemente per cameratismo, per sentirsi accettati in un gruppo". Finora, di fronte a soggetti radicalizzati o a rischio radicalizzazione, il sistema penitenziario italiano si è interrogato su quale tra due strade percorrere: l’isolamento e il concentramento di questi soggetti in carceri speciali o la divisione in diversi istituti. "Nel primo caso - spiega il criminologo - si cerca di evitare il contagio della radicalizzazione che però inevitabilmente si rafforzerà in queste persone, le cui intenzioni, una volta usciti, saranno ancora più portenti. Nel secondo caso non si incontrano tra loro, ma il rischio è che vengano radicalizzate nuove persone, compresi italiani, come già successo". Al momento in Italia è prevalsa la prima tesi, come dimostra la creazione di quella che è stata definita la Guantánamo calabra, nel carcere di Rossano. "Ma non è l’unico istituto speciale per presunti terroristi - precisa Cannavicci - anche se il Dap non si dilunga su questo aspetto". In ogni caso, per lo psicologo, che si fa portavoce di una prospettiva ormai salda tra i colleghi che si occupano di terrorismo, entrambe le vie - isolamento e divisione in diversi istituti - non servono. "L’unica soluzione potrebbe essere far entrare nelle carceri guide religiose islamiche moderate. Solo gli imam, che rappresentano un’autorità, sono in grado di intervenire e smontare convinzioni profonde, attraverso il dialogo e una presenza costante". Al momento, però, non esiste alcun accordo tra il sistema penitenziario italiano e gli organismi di riferimento dei musulmani, come l’Unione delle comunità islamiche. "È urgente creare un elenco di guide formate e monitorate". Anche perché il problema rischia di accentuarsi ulteriormente nei prossimi mesi. "L’Isis è in difficoltà sul campo di battaglia di Siria e Iraq - continua il criminologo - molti foreign fighters torneranno in Europa, anche in Italia. E al primo reato saranno chiusi in carcere. Queste persone vanno recuperate lì dentro, reimmetterli nella società è un pericolo per la convivenza civile, anche perché la stessa società non è minimamente in grado di cambiarli, di integrarli. Non succede per i carcerati comuni, figuriamoci per i radicalizzati". Se così non fosse, di fronte a nuova ostilità e nuova emarginazione, "il rancore per l’Occidente si trasformerà in volontà di colpire, alla vendetta personale si sommerà quella più generale per i fratelli musulmani uccisi in tante parti del mondo, una miscela non più controllabile. A quel punto non serve una rete di persone per agire, basta anche un input, un’informazione data attraverso il web e il tempo necessario a procurarsi delle armi. Così un radicalizzato sarà diventato un terrorista". La relazione che oggi viene consegnata al presidente del Consiglio verrà sottoposta al vaglio del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) e successivamente dovrebbe essere trasmessa al Parlamento, nell’ambito della discussione sulle proposte di legge di prevenzione del radicalismo. Un testo, a firma dei deputati Stefano Dambruoso (Scelta Civica) e Andrea Manciulli (Pd), è fermo alla Camera da un anno. Falanga (Ala-SC): riflettere su condizioni penitenziari italiani Adnkronos, 4 gennaio 2017 "La rivolta nel carcere brasiliano, causata dal sovraffollamento, dovrebbe far riflettere il ministro Orlando sulla condizione di emergenza, già denunciata, in cui versano i penitenziari italiani. Il provvedimento di amnistia riposa nei cassetti del Senato". Così, in una nota, il senatore Ciro Falanga del gruppo Ala-Scelta Civica. "Una percentuale altissima di detenuti - aggiunge - è in custodia cautelare, ovvero senza una sentenza di condanna anche solo di primo grado. E tutti tacciono. Tace il premier Gentiloni. Tace il ministro Orlando. Tace l’Europa che, dopo la denuncia e l’avvertimento al nostro Paese per le condizioni disumane dei penitenziari italiani, ha ritenuto sufficiente un risarcimento del danno di appena 8 euro al giorno". "Tace anche il Presidente della Repubblica Mattarella che nel suo messaggio di fine anno ha ricordato un po’ tutte le fasce della popolazione che vivono in condizioni di disagio e sofferenza. Neanche una parola è stata però spesa per i detenuti ristretti nelle carceri italiane in spregio alla nostra Costituzione che vuole una detenzione finalizzata alla rieducazione ed al reinserimento. Per non parlare poi di quelli che dopo l’esperienza carceraria vengono assolti. Parleranno tutti, ne sono certo, quando si verificherà un episodio simile a quello brasiliano", conclude Falanga. Finta svolta M5S. L’autoritarismo spazza via la parentesi garantista di Sebastiano Maffettone Il Messaggero, 4 gennaio 2017 Tutto avrei pensato nella vita tranne che scrivendo un articolo come questo corressi rischi giudiziari. Ma da domani in poi potrebbe succedere. Perlomeno, è - da quanto si comprende - quanto chiede oggi il cittadino Grillo a gran voce dal suo potente blog. Il giudizio di assoluzione o condanna non solo sul mio articolo ma su tutto quanto appare sui media dovrebbe essere emanato da un non meglio identificato "tribunale del popolo". Ancora una volta è il cittadino Grillo a sostenerlo, questa volta recitando la parte di Robespierre (o se preferite di Pol Pot o delle Brigate Rosse) dal sito abituale per giunta chiamato Rousseau. Il clima è insomma quello del Terrore da Rivoluzione Francese, oppure più banalmente il cittadino Grillo la spara grossa per "fare ammuina" come si dice dalle parti di casa mia. Decidete voi. Solo che un elementare senso di giustizia deve farci rabbrividire a sentire parole come queste, in specie se pronunciate da chi controlla un terzo dei voti del paese. Ma, come è opportuno, viene prima la grammatica e poi la poesia. Prima quindi di saltare sulle sedie inorriditi, è bene che pensiamo un po’ sul senso della proposta. Cominciamo dal retroterra, che è facile da comprendere: tutti, a cominciare dal pacato Presidente Mattarella, se la prendono con chi la spara grossa sui media e nel web, e vorrebbero punire in qualche modo i produttori consapevoli di balle mediatiche o di bufale che dir si voglia. Nessuno sa bene però come farlo. A questo punto della disputa, il cittadino Grillo dice la sua, e si inventa il tribunale del popolo (senza badare troppo ai precedenti non esaltanti di istituzioni con questo nome). Tale tribunale - se capiamo bene - dovrebbe essere nominato a sorteggio, scegliendo i giudici tra tutti i cittadini italiani si suppone maggiorenni. Immaginate un po’ - una volta istituito il tribunale in questione - quale sarebbe la libertà di espressione lasciata a chi opera sui media. Chiunque si trovasse in questa scomoda posizione parlerebbe nel timore permanente di essere condannato. Per giunta la condanna eventuale avverrebbe senza una legge che chiarisca da prima quale reato si sia commesso. C’è poi da scommettere che, in un tribunale di questa fatta, si formerebbero maggioranze e minoranze, ottenendo quel risultato che si dovrebbe invece evitare a ogni costo sarebbe a dire di politicizzare un organo giudiziario. Insomma, proprio il trionfo della società liberale! La proposta del tribunale del popolo non viene fuori però da sola. Fa il paio con quella del giorno prima - sempre Grillo dixit - sul codice di comportamento per i portavoce del movimento 5 stelle in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie. Come abbiamo letto, visto e sentito sui media di ieri (per ancora un po’ liberi di esprimersi a piacimento nei limiti di legge), questo codice lascia aperta la porta - possono restare in carica - a quei rappresentanti del Movimento che avessero ricevuto un avviso di garanzia o simili. Gli stessi poco tempo fa avrebbero dovuto invece dimettersi o essere espulsi. Finalmente, avranno pensato in molti, anche il leader maximo del Movimento fa i conti con la realtà. E diventa più garantista. Un Movimento, o un partito se preferite, che governa una grande città come Roma qui il riferimento alla sindaca Raggi non può essere solo casuale - non può essere troppo puritano e deve fare i conti con la complessità del potere. Come avrebbe detto il grande Sigmund Freud, talvolta il principio del piacere deve cedere il passo al principio di realtà. E quest’ultimo obbliga Grillo e i suoi a essere più garantisti, e diciamolo pure normali. Il che, per la verità, potrebbe anche essere un bene per i 5 Stelle e il Paese tutto. Se si guarda un po’ più a fondo, però, ci si accorge che non è tutto così semplice. Perché a decidere sulla questione sarà, guarda caso, ancora una volta il leader maximo nell’ovattata sede di Casaleggio & Associati. Cosicché quella che prima facie sembrava una riduzione del controllo - "continuate pure se ricevete avvisi di garanzia!" - non lo è. Un diverso e più personale controllo sostituisce gli automatismi del meccanismo precedente, finendo con il dare più potere al Capo. Ma, al solito, quello che stupisce è la noncuranza per la civiltà liberale (d’altronde se ti piace il Terrore…).Una regola, un insieme di regole come quelle del codice di comportamento, richiedono una procedura sana per essere applicabili con profitto. Non è questo il caso, ameno che per procedura sana non si intenda l’occhio del Padrone. Ps: Ma insomma cosa fa il cittadino Grillo, oscilla tra la severità giacobina del martedì e il garantismo (discutibile) del lunedì? Forse, però, la storia è più semplice. Se si fa tanto rumore per nulla, lo si fa per distrarre e dirottare l’attenzione da ciò che non riesce qui e ora. E per dimenticare. Un po’come quando a Capodanno si sparano i botti! La Cassazione: "I siti sono responsabili per i commenti dei lettori" di Alessandro Longo La Repubblica, 4 gennaio 2017 Il gestore di un sito condannato per il commento diffamatorio di un lettore ai danni di Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio. È la prima volta che la Cassazione si esprime in merito, andando contro una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Il gestore di un sito, anche non professionale, è responsabile dei commenti dei lettori, anche di quelli non anonimi, e rischia quindi una condanna per diffamazione. È quanto stabilito, per la prima volta, da una sentenza pubblicata nei giorni scorsi dalla Corte di Cassazione. Il diffamato è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (Federazione italiana gioco calcio), per un commento pubblicato nel 2009 sul sito Agenziacalcio.it, che per questa vicenda è stato anche oscurato. L’autore del commento, inserito autonomamente, definiva Tavecchio "emerito farabutto" e "pregiudicato doc", allegando il certificato penale. In primo grado il gestore è stato assolto, in secondo grado condannato e ora la Cassazione conferma: dovrà pagare 60 mila euro a Tavecchio, per "concorso in diffamazione". Per la Cassazione c’è concorso perché il gestore doveva sapere dell’esistenza di quel commento, poiché il suo autore gli aveva mandato una mail contenente il certificato penale di Tavecchio. L’imputato invece sostiene di aver saputo del commento diffamatorio solo quando la polizia gli ha notificato il sequestro del sito. "Adesso, con questo orientamento che per la prima volta arriva in Cassazione, rischia di essere molto difficile gestire un sito web che abbia commenti", dice Fulvio Sarzana, avvocato penalista specializzato in diritto su internet. "I gestori dovrebbero controllare ogni commento, chiedersi se può essere o no diffamatorio. Anche di quelli non anonimi", aggiunge. La questione rischia di avere ricadute notevoli sul sistema dell’informazione web. È facile riscontrare che molti siti, anche testate giornalistiche, o collegati a gruppi politici (si pensi a quello di Beppe Grillo) contengono commenti con una forte carica diffamatoria. "Il gestore sarà costretto a scegliere tra il minore dei mali. Rischiare una condanna, scegliere di censurare preventivamente commenti o togliere questa possibilità agli utenti, con grave danno alla libertà di espressione", continua Sarzana. Bisognerà vedere inoltre se, per lo stesso principio, bisognerà doversi preoccupare anche dei commenti che gli utenti mettono sotto un nostro post Facebook (o se piuttosto non ne sia responsabile Facebook). La sentenza colpisce anche perché la giurisprudenza sembrava finora orientarsi in modo diverso: la Corte di Giustizia europea ritiene non responsabili i gestori anche per commenti anonimi. A novembre scorso è stato assolto in appello Massimiliano Tonelli, fondatore del sito Cartellopoli (sul degrado di Roma). In primo grado era stato condannato a nove mesi di carcere per istigazione a delinquere in merito ad alcuni commenti anonimi. Sembrava ormai tramontata la precedente linea interpretativa, che aveva invece portato alla condanna nel 2014 al gestore di Nuovocadore.it. Invece adesso la Cassazione entra nel merito per la prima volta e sentenzia. I gestori di siti sono avvisati. Ma non solo loro, tutti gli utenti. Considerando che chiunque sul web può gestire un sito o un altro spazio web, con i suoi (a volte pericolosi) commenti. Detenuto con gravi problemi psichici, dal 41bis all’isolamento totale per altri sei anni da Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2017 L’ultimo Rapporto del Garante nazionale denuncia una storia di tortura, segnalata dalla nostra Associazione all’ufficio del Garante, perpetrata per anni sulla pelle di C.T., detenuto siciliano di 56 anni che fino al 15 ottobre si trovava nel carcere di Voghera, in uno dei braccetti "speciali", quelli dell’isolamento totale. E proveniva da un altro isolamento totale, quello del 41bis dove, probabilmente, avrà cominciato ad avere i primi sintomi di instabilità psichica. Poi altri 5 lunghissimi anni, dal 2011 al 2016, in cui ha vissuto in isolamento totale, affetto da gravissime patologie psichiche, in condizioni di assoluto degrado, senza assistenza sanitaria adeguata e senza incontrare anima viva al di fuori degli agenti e (forse) qualche medico, ma ne dubitiamo. La descrizione data di quest’uomo, e delle condizioni in cui era tenuto, lasciavano immaginare un uomo delle caverne: nudo, barba lunghissima, sporco, con gravi problemi psichici e privo di contatti umani. Chi ci avvisò ci mise anche in guardia: "attenti perché se vi mettete su questa storia vi tirerete addosso i servizi". Con la massima discrezione abbiamo contattato il Garante ed anche un parlamentare perché questa storia doveva essere verificata e denunciata. Purtroppo il parlamentare volle far fare "opportune verifiche" trattandosi di una persona incriminata per mafia, come se ci fosse una legge che legittimi la tortura a seconda del titolo del reato, appellandosi alla "legalità"! Il parlamentare non intervenne in compenso, probabilmente facendo qualche ricerca, mise la pulce nell’orecchio all’amministrazione penitenziaria permettendogli di "correre ai ripari" onde evitare che le condizioni di C.T. venissero riscontrate oggettivamente da qualche altro parlamentare o dal garante stesso. Il garante invece, per come si evince anche dalla relazione, è arrivato "tardi", C.T. era stato trasferito, guarda caso il giorno prima, per "osservazione psichiatrica, fino a miglioramento del quadro clinico" presso il Lorusso-Cutugno di Torino. Detenuto C.T. trasferito e cartella clinica penitenziaria magicamente cancellata dal personale di Voghera il giorno stesso del trasferimento, quasi a voler cancellare ogni traccia della sua permanenza. Inoltre, l’autorità del garante è stata completamente ignorata, quasi Voghera avesse un regolamento e delle norme a se rispetto al resto del territorio italiano. Ma non ci meravigliamo, nei mesi scorsi abbiamo supportato i detenuti che hanno denunciato le violazioni delle norme costituzionali e dei diritti minimi dei detenuti, confermate dalla Garante Provinciale, appellandosi alle massime cariche dello Stato affinché cessasse questo stato di cose. Ora una ulteriore conferma. Noi ci chiediamo il perché. Non è normale che l’amministrazione penitenziaria violi persino i suoi stessi regolamenti, l’isolamento per motivi disciplinari infatti è ammesso per non più di sei mesi, rinnovabile ma non all’infinito. E allora ci chiediamo quali sono le motivazioni reali che spingono lo Stato a rischiare così tanto? Quali gli interessi? A chi o cosa questa persona può fare male? Forse che una simile situazione confermerebbe che il regime di 41bis e di isolamento è tortura che può portare anche alla pazzia? Quello che si è operato a Voghera è stato un maldestro tentativo di cancellare il "corpo del reato" perché tenere un uomo in queste condizioni è tortura e, probabilmente, non è l’unico caso in Italia. Ma in Italia se chiedi l’elemosina sei perseguibile penalmente, se invece torturi un uomo, chiunque esso sia, ti promuovono perché questo reato semplicemente non esiste, però si pratica e si pratica nelle strutture "legali" dello Stato, quelle atte a rieducare le persone che hanno sbagliato ed a risarcire le vittime! L’unica speranza è che questa persona possa essere adeguatamente curata, magari anche con una sospensione della pena perché incompatibile col regime detentivo. Ma anche di questo ne dubitiamo perché C.T. è uno di quei detenuti cattivi e colpevoli per sempre, un ergastolano ostativo, che non può sperare in nessuna clemenza, neanche in queste condizioni e neanche dopo aver subito per anni torture che, purtroppo, non potranno essere cancellate come la sua cartella clinica. Abruzzo: Di Nanna "ora per i 5 Stelle Rita Bernardini può essere Garante dei detenuti?" cityrumors.it, 4 gennaio 2017 "Bene la svolta garantista del Movimento 5 Stelle: ora voteranno Rita Bernardini Garante dei detenuti o è solo una norma per salvare il sindaco di Roma Virginia Raggi?", chiede Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "Il Movimento 5 Stelle è chiamato oggi a votare il "Codice di comportamento nel caso di vicende giudiziarie", nel cui testo è previsto tra l’altro che l’incompatibilità con una carica elettiva in caso di condanna esclude "fatti commessi pubblicamente per motivi di particolare valore politico, morale o sociale". Sembra quasi vogliano far riferimento alle condanne per disobbedienza civile che i grillini hanno usato finora per giustificare l’assurdo veto contro la nomina di Rita Bernardini a Garante dei detenuti abruzzesi. Tanto che alla deputata radicale fu riconosciuta, nelle due sentenze di condanna, la circostanza attenuante comune di aver agito proprio per motivi di particolare valore morale o sociale", spiega Di Nanna. "Se il Movimento 5 Stelle attraversa un autentico percorso di riflessione, che non si può non rispettare, alla prossima votazione non esiterà a esprimersi a favore della nomina della Bernardini a Garante dei Detenuti. In caso contrario, i consiglieri grillini abruzzesi confermeranno agli occhi del paese i peggiori sospetti, ovvero che la svolta garantista del Movimento non sia che un escamotage per salvare Virginia Raggi: lo scopriremo al prossimo Consiglio regionale", conclude il segretario di agl. Taranto: progetto "UPPark!", i detenuti diventano falegnami tarantosette.it, 4 gennaio 2017 Quattro detenuti partecipano al progetto dell’associazione "La Mediana". Gli arredi il serviranno per il Centro visite del Parco Terra delle Gravine. Con il progetto "UPPark!" i detenuti del carcere di Taranto diventano falegnami. Il progetto è dell’associazione "La Mediana" che da due mesi ha allestito un attrezzato laboratorio di falegnameria all’interno della Casa Circondariale "Carmelo Magli". Due giorni a settimana, nel pomeriggio del giovedì e del venerdì quattro detenuti partecipano ad un corso di formazione di falegnameria orientato alla costruzione di arredi in legno grazie anche alla collaborazione di professionisti esterni: il dottor Giuseppe Frisino e gli architetti Michele Loiacono e Mariangela Bruno. Di fatto il laboratorio rappresenta un’officina solidale che permette ai detenuti di apprendere saperi e conoscenze legate ai mestieri artigianali, utili per il loro futuro reinserimento nella società; in questa prima fase, inoltre, nel laboratorio si sta cercando di instaurare un rapporto di cooperazione, basato sull’empatia e la fiducia, fra detenuti, formatori e volontari. Il laboratorio di falegnameria de "La Meridiana" è una delle azioni del Progetto "UPPark" che, sostenuto da Fondazione con il Sud nell’ambito del Bando Ambiente 2015, dallo scorso aprile vede tredici organizzazioni e istituzioni, riunite in un partenariato con capofila il WWF "Trulli e Gravine", impegnate in azioni per la valorizzazione del Parco Naturale Regionale "Terra delle Gravine" e la salvaguardia del suo ecosistema. Gli arredi costruiti dai detenuti nel laboratorio della Casa Circondariale, infatti, saranno poi utilizzati per arredare e allestire il Centro visite del Parco Terra delle Gravine che, nell’ambito dello stesso Progetto "UPPark", sarà realizzato presso l’Oasi Monte Sant’Elia in una antica masseria oggetto di un ampio restauro conservativo. Nei locali saranno accolti tutti coloro che, cittadini o turisti, vorranno visitare la zona percorrendone i sentieri, a piedi o in bici; nella struttura, inoltre, saranno organizzate ed ospitate iniziative e manifestazioni di sensibilizzazione e promozione dei corretti stili di vita a contatto con la natura. L’Associazione "La Mediana", nata nel 2007 dall’unione di professionisti con diverse competenze psicosociologiche e pedagogiche, è proiettata verso la diffusione della cultura dell’intervento sociale sul territorio, assicurando risposte ad alcuni problemi attuali attraverso modalità di intervento che mirano a migliorare l’ambiente educativo, le condizioni sociosanitarie, nonché la qualità della vita dei destinatari e promuovendo maggiore benessere psicofisico nell’individuo, nei gruppi e nelle comunità locali. "La Mediana" ha già operato all’interno della Casa Circondariale di Taranto, anche con il progetto "Giochiamoci…. Su" che l’ha vista allestire il cosiddetto "corner ludico", uno spazio dedicato ad attività ludiche e ricreative a favore dei piccoli ospiti durante gli orari di visita ai loro parenti detenuti. Firenze: le Consigliere regionali del Pd in visita alla sezione femminile di Sollicciano gonews.it, 4 gennaio 2017 "È tempo di interventi e progetti. Torneremo per verificare quello che si è fatto" sollicciano2 La condizione carceraria, in particolare quella delle donne, sono state al centro della prima iniziativa dell’anno del gruppo Pd in Regione. Sei consiglieri regionali - la vicecapogruppo Monia Monni, le consigliere Ilaria Giovanetti, Alessandra Nardini, Serena Spinelli, Valentina Vadi, ed il consigliere Francesco Gazzetti - si sono recati questa mattina alla sezione femminile del carcere fiorentino di Sollicciano, portando un piccolo dono a tutte le detenute. La visita rientra nel progetto "Il Posto delle Donne" promosso proprio dal gruppo del Pd e varata nel 2016 in occasione del 70° anniversario del voto delle donne in Italia. La delegazione Pd si è incontrata con l’attuale direttrice del carcere, Loredana Stefanelli. "Eravamo già state a Sollicciano a maggio - spiegano le consigliere regionali del Pd - ed in quella occasione avevamo preso un impegno, tornare e così abbiamo fatto. Siamo tornate sia per portare un piccolo dono alle detenute (dei dolci natalizi ndr) e soprattutto per conoscere la nuova direttrice. È stato anche il modo per fare il punto sulle condizioni della struttura. Purtroppo abbiamo appreso che i lavori sono fermi - aggiungono le consigliere Pd - e questo nonostante ci siano 3 milioni di euro stanziati proprio per lavori urgenti, fra cui il rifacimento delle coperture delle sezioni e della facciate degli edifici che per portare le docce con acqua calda dentro le celle. Abbiamo comunque apprezzato - sottolineano le consigliere Pd - la grande attenzione della dottoressa Stefanelli e in generale del personale, che hanno in piedi tanti progetti e che s’impegnano facendo fronte alle molte necessità e problematiche che derivano anche da una struttura che necessità di interventi indifferibili". Ma l’attenzione delle consigliere del Pd non si è concentrata soltanto sugli aspetti strutturali. "Ci sembra importante - hanno infatti dichiarato uscendo dal carcere di Sollicciano - impegnarci per favorire attività e progetti che puntino al reinserimento lavorativo. Per questo - hanno annunciato - cercheremo strumenti e modalità per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro rivolto al reinserimento delle detenute". "L’obiettivo generale - hanno concluso le consigliere che hanno anche visitato la sezione femminile incontrando alcune detenute - rimane quello della battaglia per rendere la condizione di vita carceraria una condizione di vita dignitosa e, in questo senso, anche lo sviluppo di occasioni di lavoro per i detenuti può rappresentare una chiave di volta per il presente e per il futuro". Durante l’incontro con la direttrice Stefanelli, oltre ai problemi esposti dai consiglieri all’uscita, è stato inoltre reso noto che è in procinto di partire una sezione femminile per la tutela della salute mentale ed è stata posta la necessita di avere mediatori culturali stabili all’interno della struttura. Attualmente, infatti, le prestazioni sono lodevolmente finanziate dalla "Tavola Valdese". Il numero delle richieste sono però in costante aumento e dunque servono interventi per implementare e strutturare questo servizio. "Torneremo ancora a Sollicciano - annunciano le consigliere del Pd - anche questo è un impegno che prendiamo con la direzione, il personale e le detenute. Le cose da fare sono, infatti, molte e sarà importante seguirne l’evoluzione". Rimini: al carcere dei "Casetti" detenuto si cuce la bocca per protesta La Repubblica, 4 gennaio 2017 Ago e filo per attirare l’attenzione sulle condizioni carcerarie. Un 39enne algerino, detenuto nel carcere dei "Casetti" di Rimini, oggi pomeriggio si è cucito la bocca con ago e filo per protestare contro le condizioni carcerarie. L’uomo, che si è procurato il necessario allo spaccio del carcere, è stato soccorso dagli agenti della Polizia penitenziaria che lo hanno portato in infermeria, dove il medico gli ha messo i punti di sutura e lo ha medicato. Il delegato regionale del Sappe Massimiliano Vitale spiega che si è trattato di "un atto di protesta". I problemi affrontati in carcere, come il sovraffollamento e la carenza di organico, sono stati sollevati anche recentemente in occasione di una visita del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale. Catanzaro: il Sappe "difficile garantire sicurezza nel carcere di Rossano" giornaledicalabria.it, 4 gennaio 2017 "Nel carcere di Rossano è sempre più difficile garantire la sicurezza, a causa della carenza di personale e della complessità dell’istituto. Basta poco, infatti, per mettere in crisi l’intera organizzazione, proprio a causa della mancanza di personale". Lo affermano, in un comunicato, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale dello stesso sindacato di categoria. "Oggi - spiegano - un agente addetto alla sorveglianza sul muro di cinta dopo aver notato una persona che camminava lungo i binari della ferrovia, posta nelle vicinanze dello stesso muro di cinta del carcere, ha allertato i colleghi che, insieme ad una pattuglia della Polizia di Stato, sono intervenuti ed hanno fermato l’uomo che è stato successivamente condotto negli uffici ed identificato. Ciò dimostra come sia necessaria la presenza della polizia sul territorio e nei siti sensibili, ma per poterli presidiare in maniera adeguata è necessario il personale. Nel carcere di Rossano sono presenti poco più di 120 agenti e di questi 36 dovrebbero essere impiegati solo per garantire il servizio di sicurezza sul muro di cinta e nel perimetro esterno. Tale servizio veniva prima garantito dall’esercito e per un altro periodo è stato effettuato in collaborazione con le altre forze di polizia. Adesso, invece, è solo la polizia penitenziaria ad effettuare questi compiti, tant’è che è stato richiamato in servizio anche il personale che era in ferie. Non è però possibile che vengano compressi i diritti del personale per garantire i turni di servizio. Ricordiamo che nel corso del 2016 - concludono - non è stato assunto nessun agente della polizia penitenziaria, mentre ne sono andati in pensione più di mille". Parma: corso di cucina vegana in carcere con l’Associazione "Parma Etica" Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2017 L’associazione Parma Etica è riuscita ad organizzare un laboratorio di cucina vegana nel carcere di massima sicurezza della città emiliana. L’iniziativa è una preziosa novità che pone l’istituto di pena parmigiano all’avanguardia nel panorama penitenziario europeo e mondiale. La proposta del laboratorio di cucina Cruelty Free è stata accolta con grande entusiasmo dai detenuti e partirà a Novembre di quest’anno. Crediamo sia una notizia molto importante che offre molti spunti di riflessione e dimostra come, a fronte di una larga maggioranza di persone che continua a vivere e mangiare meccanicamente ed inconsapevolmente, guidati da vecchie abitudini e vetuste, deleterie, tradizioni, esiste anche un numero sempre crescente di persone che Sentono l’urgenza di fare scelte alternative: sempre più consapevoli e solidali, basate su quei criteri etici, salutistici ed ecologici che sono il fondamento della nuova Coscienza Biosferica" individuata da Jeremy Rifkin quale unica via di salvezza verso un’auspicata "Civiltà dell’Empatia". Assai interessante notare come tale nuova consapevolezza sia più frequentemente percepita ed accolta come un’opportunità proprio da molte di quelle persone che stanno soffrendo, vivendo l’esperienza dolorosa della reclusione. Da ciò risulterebbe assai logico immaginare che il carcere possa e debba essere sempre più un luogo di Cura e Rieducazione all’Empatia invece che un’esperienza punitiva sterile, per poterlo fare occorrono però progetti che abbiano requisiti di elevata Congruenza e Coerenza comunicativa e relazionale e non cadano in palesi contraddizioni interne. Così da poter scongiurare il rischio di esporre i detenuti al pericolo di quel doppio vincolo, doppio messaggio contraddittorio, che tanto spesso tutti incontriamo nella quotidianità relazionale della cosiddetta vita civile e che Gregory Bateson aveva individuato come una delle cause patogene in particolare della schizofrenia e del disagio psichico in generale. Un lampante esempio di tale pericolo lo troviamo nel Progetto Gorgona: l’ultima isola carcere italiana dove da molti anni si permette a vari gruppi di detenuti di lavorare all’aperto, immersi nello splendido contesto naturale dell’isola, prendendosi cura di molti animali tristemente definiti da reddito, attività che naturalmente e spontaneamente allena, educa e sviluppa sentimenti di profonda fiducia, affetto e rispetto tra gli uomini e gli animali o meglio tra animali umani e non umani; proprio quei sentimenti che tutti ci si auspica possano essere alla base del concetto stesso di Umanità; sentimenti preziosi e propizi che emergono e poi però finiscono per naufragare nel macello emotivo della macellazione da reddito. Anche in questa cornice si insiste infatti a voler rieducare uccidendo (macellando). Si costringe i carcerati ad uccidere i loro Amici. Ciò è ovviamente tutt’altro che propedeutico all’educazione dell’empatia: è al contrario totalmente destabilizzante e folle. Purtroppo è una follia a cui siamo collettivamente abituati, assuefatti da millenni. Speriamo di cuore che il laboratorio di cucina vegana di Parma possa fare da volano per sbloccare la situazione di Gorgona e che insieme possano essere due dei molti sintomi di una grande guarigione planetaria: di un davvero grande cambiamento in atto". Sito dell’associazione parmetica.com. Napoli: per il Partito Radicale l’addio al 2016 nel carcere di Secondigliano vocedinapoli.it, 4 gennaio 2017 Il Partito Radicale, con l’associazione napoletana Pennabianca, ha fatto visita ai detenuti reclusi presso il carcere di Secondigliano. Il Partito Radicale continua a tenere in vita la "tradizione" inaugurata e portata avanti dall’infaticabile Marco Pannella. Così il 30 dicembre scorso una delegazione del partito e dell’associazione radicale Pennabianca, hanno fatto visita ai detenuti reclusi presso il carcere di Secondigliano a Napoli. Dopo la visita fatta alla casa circondariale femminile di Pozzuoli, il Partito Radicale e la sua associazione Pennabianca si sono recati presso il carcere di Secondigliano. Quest’ultima struttura ha già ospitato qualche tempo fa la proiezione del docufilm Spes contra Spem. Questo dimostra che la prigione è una delle più all’avanguardia nel rispetto dei diritti umani e civili dei detenuti. Qui non solo il sovraffollamento è contenuto, ma ci sono anche dei laboratori che consentono ai prigionieri di poter lavorare. Così è possibile iniziare dei percorsi rieducativi e utili per un probabile e futuro reinserimento in società dei carcerati stessi. Amnistia per la Repubblica - "Abbiamo ringraziato i detenuti per il loro impegno di sostegno alle nostre iniziative. Abbiamo ringraziato tutta la comunità penitenziaria che permette il regolare svolgimento della vita in carcere. Noi ribadiamo il nostro impegno per portare a termine la battaglia per l’Amnistia, passaggio fondamentale per riportare l’Italia in uno stato di legalità", queste le dichiarazioni di Antonio Cerrone, membro della Presidenza del Partito Radicale. E conoscendo la scuola pannelliana siamo sicuri che davvero i radicali non molleranno e non smetteranno mai di lottare per la difesa e l’affermazione del diritto: "per la vita del diritto e il diritto alla vita", affermava Pannella e l’augurio è che il 2017 sia davvero l’anno della Spes contra Spem, cioè dell’essere speranza. Nel mondo di oggi c’è ne davvero bisogno. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il sottosegretario Migliore a pranzo con i detenuti di Biagio Salvati Il Mattino, 4 gennaio 2017 Pranzo di Natale nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per 100 detenuti privi di sostegni familiari e mezzi economici. Grazie alla Comunità di Sant’Egidio - che organizza nel periodo delle festività decine di eventi in tutti i penitenziari italiani - anche i reclusi più bisognosi del carcere sammaritano, gli stranieri o quelli che non ricevono visite, hanno potuto assaporare un momento di calore umano e "libertà" pranzando tutti assieme nel teatro della Casa circondariale guidata dalla direttrice Carlotta Giaquinto. Oggi, tra gli invitati - e presente all’ottavo evento di questo tipo organizzato in Campania - c’era anche il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, il quale ha mostrato apprezzamento per questo di tipo di iniziative di socialità messe in atto da volontari che prestano parte del loro tempo nelle attività legate al mondo carcerario. Una giornata diversa caratterizzata, a fine pranzo, anche da un mini spettacolo di un attore o cantante che si esibisce per allietare i reclusi a chiusura dell’evento. Campobasso: detenuti a lezione di cucina in carcere, il corso finanziato dalla Regione Ansa, 4 gennaio 2017 Migliorare le competenze lavorative e professionali. La Giunta regionale ha approvato il progetto proposto dal "Centro servizi formazione e occupazione" e dalla direzione della Casa circondariale di Campobasso per la formazione di 16 detenuti che, alla fine di un percorso di 600 ore, acquisiranno la qualifica di "aiuto cuoco". L’iniziativa rientra nell’ambito dei percorsi di reinserimento sociale e nel mondo del lavoro previsti dal Piano sociale regionale ed è stata finanziata dalla Regione con 100 mila euro. Una quota di cofinanziamento, 18 mila euro, sarà a carico della struttura carceraria. "Noi avvocati, cottimisti del diritto" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 gennaio 2017 "La crisi dell’avvocatura e le future opportunità" (104 pagine, 13,00 euro, Historica Edizioni) è un interessante saggio di Valerio Toninelli. Classe 1938, avvocato specializzato nel Diritto delle assicurazioni, l’autore ha sempre esercitato la professione presso il foro di Lodi. Procuratore legale dal 1963, Toninelli in questi anni ha visto, come molti colleghi della sua generazione, cambiare radicalmente il volto dell’avvocatura. Remo Danovi, presidente del Consiglio dell’Ordine di Milano, nella prefazione ben descrive il contenuto del libro: "Una sintesi delle riflessioni che gli avvocati si pongono, da quando è iniziata la crisi economica, sul futuro della professione". Riflessioni che, come vedremo, fanno emergere un disagio profondo. Toninelli svolge una indagine sul "microcosmo" dei legali che hanno uno studio collocato in una provincia del Nord Italia. Tralasciando la crisi del 2008 che ha cambiato il mondo, l’osservazione di Toninelli è, in primis, legata a una constatazione numerica: attualmente in Italia ci sono 240mila avvocati e 9000 magistrati; in pochi anni il numero dei legali è quintuplicato: erano 50mila nel 1990; e il rapporto fra cittadini e avvocati è il più alto in Europa. A fronte di un ristretto numero di avvocati con condizioni economiche medio alte, la maggior parte vive situazioni difficili. È sufficiente osservare l’andamento del reddito medio: calato, nel 2014, a 37.500 euro, mentre nel 2007, prima che iniziasse la crisi, era attestato a 57.500 euro. Il lavoro è, quindi, poco e mal pagato. Sul punto, Toninelli concentra l’attenzione su banche e assicurazioni che fanno a gara per azzerare i compensi dei legali. Poi analizza la "bulimia legislativa", questa legislazione sovrabbondante, confusa e contraddittoria che obbliga ad aggiornamenti impossibili gli avvocati. Se per Danovi il rimedio è privilegiare l’attività stragiudiziale ("il contenzioso è proprio dei paesi poveri"), per Toninelli è fondamentale aumentare le piante organiche della magistratura per rispondere alla pressante richiesta di giustizia. Sia Toninelli che Danovi concordano invece nella specializzazione forense, nel coordinarsi con altre professioni e nel ripristino di compensi adeguati. Ma andiamo con ordine. L’analisi dei rapporto con le grandi aziende, in particolare banche e assicurazioni, merita in questa sede un approfondimento. Perché ben rappresenta il mutamento del rapporto fra "cliente" e avvocato. Un tempo, infatti, i migliori clienti erano proprio le banche e le assicurazioni. Sia per i compensi adeguati sia per il prestigio che derivava da queste difese. Dopo le modifiche introdotte nel "decreto Bersani" del 2006, in particolare riguardo i minimi tariffari, lo scenario è mutato in modo radicale. Attualmente, in queste difese, il pagamento avviene solo a conclusione dell’incarico, cioè quando viene emessa la sentenza o si perfeziona la transazione. Non esistono acconti. E il compenso è quasi sempre di tipo "forfettario", prescinde dalla durata della causa e dalla sua conclusione ed è comprensivo di tutte le spese sostenute. Il legale, al termine, non emette una fattura ma una richiesta di compenso. Che il cliente assicurazione/banca provvede poi a tagliare ulteriormente. Tale sistema genera dei cottimisti della difesa. A discapito della qualità della professione, come Toninelli descrive con amarezza. Un capitolo riguarda il penale. Le difese d’ufficio sono "un apprendistato indispensabile per un giovane professionista che intenda svolgere le funzioni di penalista". Nelle difese di fiducia, invece, è rara la clientela disposta a pagare bene per un professionista preparato ed affermato. La maggior non intende pagare, affidandosi al primo che capita. La mancanza di clienti, la crisi, l’aumento del numero degli avvocati hanno determinato un ridimensionamento degli studi legali, con la necessità di prevedere servizi in comune. Non di rado si assiste ad avvocati che hanno lo studio presso la propria abitazione. Inoltre, oggi, gli avvocati svolgono personalmente compiti che un tempo erano delegati alle segretarie. Il duro confronto con la realtà arriva verso i 35-40 anni. Quando l’avvocato capisce che il lavoro è ridotto ma è tardi per poter svolgere altre attività. Come si accennava prima, Toninelli, in questo quadro a tinte fosche, fornisce però delle possibili soluzioni. In particolare, oltre alla difesa, l’assistenza alla clientela. Poi la specializzazione e la necessaria collaborazione fra professionisti. Anche le pubbliche relazioni possono essere d’aiuto per aumentare il numero dei clienti. Ed infine, il ripristino dell’equo compenso. Punto fondamentale per ridare dignità alla professione Migranti. Due indagini sulla cooperativa che gestisce il Cpa di Venezia di Valentina Furlanetto Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2017 Si chiamava Sandrine Bakayoko, aveva 25 anni ed era della Costa d’Avorio, la giovane morta ieri nel centro prima accoglienza di Conetta (frazione di Cona in provincia di Venezia) dove, a causa di presunti ritardi nei soccorsi, è scattala la reazione rabbiosa degli altri ospiti della struttura. I migranti hanno occupato l’ex base militare, accendendo falò e bloccato per qualche ora all’interno della struttura 25 operatori. Secondo i migranti la giovane si è sentita male nella doccia alle 7 del mattino e non è stata soccorsa subito dagli operatori, che avrebbero chiamato l’ambulanza quasi 6 ore dopo. Non è la prima volta che questo hub e la cooperativa che lo gestisce si trovano al centro di proteste e polemiche. Ma meno nota è la storia che sta dietro questo centro, gestito dalla cooperativa Ecofficina Educational Onlus di Battaglia Terme i cui vertici (Gaetano Battocchio, Sara Felpati, Sergio Enzini) sono al centro di due indagini parallele condotte dalla procura di Padova e da quella di Rovigo, la prima per presunti documenti falsi presentati nel corso di una gara e l’altra per maltrattamenti nei confronti proprio dei migranti da loro accolti. Le indagini sono state aperte la primavera scorsa. A luglio il legale dei tre africani ospitati nei centri gestiti dalla cooperativa, l’avvocato Aurora D’Agostino, ha messo a disposizione del Gazzettino un video di 15 minuti girato da un profugo con il suo telefono cellulare all’interno dell’ufficio di Sara Felpati, la presidente, che chiama i profughi "macachi". A settembre anche Confcooperative ha sospeso Ecoofficina. Secondo il presidente di Confcooperative Veneto Ugo Campanaro, intervistato dal Corriere del Veneto a settembre, quello di Ecofficina "è un modello che guarda al business non all’accoglienza. Non esiste una legge che impedisce di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. E, per tutte queste ragioni, vogliamo prendere le distanze da questo soggetto e dalla maniera in cui opera". Il record di 200mila migranti accolti - Le indagini e le critiche che si sollevano nei confronti di questa cooperativa non hanno però impedito al prefetto di Padova Patrizia Impresa di continuare ad affidare i centri di accoglienza migranti a Ecofficina, tanto che la coop ormai gestisce circa 2000 su 3000 migranti ospitati in Veneto, tra cui le ex basi militari di Bagnoli di Sopra (Padova), Cona (Venezia) e Oderzo (Treviso). A furia di vincere appalti per la gestione dei profughi in Veneto Ecofficina è arrivata a fatturare oltre 10 milioni di euro l’anno. Tuttavia il 7 dicembre 2016 in un’intervista al Mattino di Padova il prefetto della città veneta Patrizia Impresa, difende la sua scelta. "Ecofficina - dice il prefetto - ha partecipato ai bandi e ha vinto perché aveva i requisiti previsti per legge con un numero alto di posti messi a disposizione e il miglior prezzo offerto si è aggiudicata il bando". Nonostante i problemi emersi a partire dalla scorsa primavera e l’apertura di un’indagine nei confronti dei suoi vertici per il prefetto ancora oggi "non ci sono impedimenti per cui Ecofficina non possa partecipare al nuovo bando". Nell’indagine per truffa è indagata anche una funzionaria della prefettura di Padova, Tiziana Quintario. L’accusa è di turbata libertà degli incanti e falsa moralità commessa da pubblico ufficiale. Un nome che torna ossessivamente nelle inchieste che coinvolgono Ecofficina è quello di Simone Borile, marito di Sara Felpati, che per Ecofficina cura i rapporti con la prefettura. Borile da ex direttore di Padova Tre srl si occupava fino a tre anni fa di gestione di rifiuti, poi ha lascito. Ora si occupa di migranti. A Padova Tre Srl ha lasciato buco di 30 milioni di euro su cui indaga la procura di Padova. Migranti. Ammucchiati al gelo come bestie mentre altri ci guadagnano milioni di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 gennaio 2017 La testimonianza di un giornalista del Corriere nel Veneto "infiltrato" nella struttura di Cona: "Uomini di Paesi, culture e religioni diverse, stipati come polli dentro stanze disadorne, possono trasformare quel posto in una bomba a orologeria". "Tutti i richiedenti asilo ospitati nella struttura di Cona devono essere espulsi subito. È inconcepibile che nessuno di loro sia stato fermato o denunciato dopo i gravissimi fatti di questa notte", ha tuonato Roberto Calderoli invocando il pugno durissimo contro quella "gentaglia" (copyright Matteo Salvini) "che stiamo mantenendo, ospitando e viziando?". "L’infiltrato" - "Viziando"... Basta andare sulla pagina Facebook di Officiel Italie immigration per vedere quanto viziati e coccolati siano gli uomini e le donne alloggiati in realtà come Cona. "Visitandole, oltre all’odore di marijuana si scopre che è possibile infilare otto letti a castello in uno stanzino, venti se la sala è un po’ più grande, quaranta se tra un letto e l’altro si lasciano pochi centimetri", scriveva pochi mesi fa sul Corriere del Veneto il nostro Andrea Priante, che era riuscito a infiltrarsi ("lavorerò sei giorni su sette, dalle 9 del mattino alle 7 di sera. Il pagamento sarà in voucher: 200 euro alla settimana, che togliendo la pausa pranzo fanno 3 euro e 70 centesimi l’ora") nella cooperativa "Ecofficina" che gestisce il centro di Cona. "Il" problema - E spiegava: "Mi diventa subito lampante quale sia il problema più grande: uomini di Paesi, culture e religioni diverse, stipati come polli dentro stanze disadorne, possono trasformare quel posto in una bomba a orologeria. E se finora la situazione non è precipitata, il merito è proprio di chi lavora lì dentro. Eppure le forze in campo sono sproporzionate: durante il giorno, per supportare 530 profughi ci sono tra gli otto e i dieci dipendenti della coop, quasi tutti giovani". L’assistenza - Un medico un giorno la settimana, un infermiere ogni tanto. "A ricevere decine di profughi doloranti siamo in due e nessuno di noi è un dottore e neppure un farmacista. I casi più gravi vengono dirottati nell’ospedale cittadino ma per il resto ci si affida alla nostra (poca, almeno nel mio caso) esperienza. Distribuiamo Buscopan, Ibuprofene, Maalox...". Due medici, dopo il reportage, adesso ci sono. Ma la situazione resta esplosiva. "Come sistemazione per i primi mesi sarebbe ottima", sospira in una intervista su YouTube di aprile il presidente di Ecofficina Gaetano Battocchio, "Ma può andar bene per cento persone, forse duecento... Cinquecento sono troppi. Se c’è una rivolta a Cona sciopa tuto. Scoppia tutto". E l’altra sera erano quasi il triplo, rispetto ai troppi... Si gioca con il fuoco - Se poi si ammassano tanti immigrati appesi al nulla (non un lavoro, non un riferimento, non un obiettivo raggiungibile, non una data cui aggrapparsi...) in una contrada di 190 abitanti a sua volta parte di un paese sparso che non arriva a tremila, si gioca davvero col fuoco. Basta una scintilla... Colpa del governo, accusano Luca Zaia e tanti sindaci (non solo leghisti) segnalando come "emergano tutte le debolezze di questo sistema di accoglienza" e sostenendo che "se la verifica dei requisiti avvenisse in Africa anche i cittadini sarebbero più tranquilli rispetto all’ospitalità". Colpa di chi per bottega politica cavalca le paure, rispondono il prefetto Mario Morcone e il ministero dell’Interno, ricordando di come insistano da mesi, osteggiati, sulla necessità di "sparpagliare i richiedenti asilo in piccoli gruppi in piccole realtà" e che comunque non ha senso invocare filtri in Libia con la Libia messa così. Le polemiche sui soldi - Fatto sta che il conflitto, duro, finisce per essere incendiato dalle polemiche sui soldi. Un titolo per tutti: "Ai disabili 12 euro al giorno / Ai clandestini 47 + vitto e alloggio. Questo è il peggiore dei razzismi!". È falso perché agli immigranti vanno solo due euro e 50 cent e tutti gli altri vanno a quanti si sono gettati nel business dei profughi, come quel Salvatore Buzzi di Mafia Capitale che intercettato esulta perché "quest’anno, coi profughi e gli zingari, abbiamo chiuso con 40 milioni di fatturato"? Chi se ne importa... I voti non puzzano. Decuplicato il fatturato - Prendete la stessa cooperativa di Cona: decuplicato in pochi anni il fatturato passando dai rifiuti ai profughi, inquisita dai giudici per il sospetto di avere "ritoccato" delle carte, accusata di pagare pochissimo gli operatori, espulsa da Confcooperative secondo la quale come onlus bada "un po’ poco al sociale è un po’ troppo al business", la "Ecofficina" ha oggi in pugno le ex basi militari di Bagnoli di Sopra (Padova), Cona (Venezia) e Oderzo (Treviso), dove sono alloggiati circa duemilacinquecento migranti. Un affarone, ma può fare fronte a un problema così grosso? Dubbi legittimi - I dubbi sono legittimi. Tanto più che, come racconta nel libro "Profugopoli" lo stesso Mario Giordano, che certo "buonista" e sinistrorso non è, una montagna di soldi sta finendo a "intrallazzatori professionisti, truffatori patentati, trafficanti di immigrati, semplici furbetti di paese, opportunisti dell’ultima ora". Spinti non proprio da carità cristiana. Come Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: "I turisti erano sempre meno. Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico. In questo modo ho già incassato 700-800.000 euro...". O Elio Nave, titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto, leghista della prima ora: "Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Se non ci fossero i profughi avrei dovuto chiudere l’albergo". Per non dire dei titolari della società McMulticons che, specializzati in "pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione...", hanno vinto un appalto per ospitare un po’ di immigrati rinchiusi, dice la denuncia, in "un casolare diroccato in aperta campagna a cinque chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato" con le "pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia"... Anche quello un hotel a cinque stelle? L’ex presidente della Consulta: cacciare i rifugiati non si può di Errico Novi Il Dubbio, 4 gennaio 2017 Cesare Mirabelli: "l’ipotesi del Governo violerebbe l’articolo 3 della Costituzione". Tra le ipotesi allo studio del governo per rendere più restrittive le norme sull’immigrazione "irregolare" c’è l’abolizione dei ricorsi in appello per i richiedenti asilo. "Certo, i tempi lunghi in questo tipo di contenziosi equivalgono a risolvere di fatto la situazione con il possibile dileguarsi del ricorrente", riconosce il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. Che però considera "difficilmente percorribile" l’idea di "eliminare del tutto il giudizio di secondo grado". C’è da dubitare, sostiene l’ex vertice della Corte costituzionale, che "l’onerosità e i tempi richiesti da questo tipo di giudizi siano ragioni sufficienti per derogare al principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 3 della nostra Costituzione". Si tratta di una bocciatura di notevole peso, per un progetto che il ministero della Giustizia in particolare esamina da mesi. Già lo scorso 3 agosto infatti il guardasigilli Andrea Orlando prefigurò davanti alla commissione Schengen, nel corso di un’audizione, la possibilità di eliminare del tutto il secondo grado di giudizio per quegli immigrati che si vedevano respinta la richiesta di asilo politico. "Abbiamo 3500 impugnazioni al mese, impossibile definirle tutte", spiegò Orlando. Ma i profili di incostituzionalità indicati da Mirabelli lasciano intravedere un percorso assai problematico, per la proposta di legge su cui sono al lavoro lo stesso Orlando e il ministro dell’Interno Marco Minniti. Presidente emerito della Consulta, tra le voci più autorevoli nel campo del diritto costituzionale, Cesare Mirabelli offre il suo giudizio sulla possibile "stretta" in materia di immigrazione dopo averlo ponderato con il massimo scrupolo, ma arrivato al punto afferma: "È difficilmente percorribile l’ipotesi di eliminare del tutto il ricorso in appello per chi chiede protezione internazionale: una norma del genere può urtare contro il principio di eguaglianza". Sembra una bocciatura di non poco conto rispetto a una soluzione che il ministero della Giustizia studia da mesi. Partiamo dal reato di clandestinità: abolirlo è opportuno? Credo vada fatta innanzitutto una distinzione tra chi viene tratto in salvo da un naufragio e chi si trattiene clandestinamente. Applicare la fattispecie di reato anche nel primo caso ha intasato i tribunali dei luoghi d’arrivo. Il più delle volte l’accertamento dell’identità è difficilissimo. Un primo passo avanti consisterebbe proprio nel liberarsi dal peso di questo spreco di giurisdizione. Ciò detto, andrebbe ricordato che l’affermazione del diritto d’asilo è un elemento di civiltà dall’alto significato e va mantenuto. Lo vede messo in discussione? Intendo dire che si deve partire dall’articolo 10 della Costituzione, che garantisce l’asilo allo straniero al quale fosse negato l’esercizio delle libertà democratiche nel Paese d’origine. È un principio ispirato a una visione di solidarietà culturale, che riconosce il diritto alla libertà come uno dei diritti umani fondamentali. A questo aggiungo che l’immigrazione economica è sì un fatto distinguibile, ma non in modo così drastico. Perché? È un fenomeno connesso a esigenze di vita basilari: va affrontato e risolto sul piano internazionale. Parliamo del diritto di vivere, che è evidentemente un diritto umano fondamentale: dietro l’immigrazione economica ci sono esigenze alimentari basilari. Anche alla luce di una sfumatura così sottile, crede che abolire l’appello nei procedimenti sulle richieste d’asilo sia costituzionalmente legittimo? Il punto di riferimento è l’articolo 24 della Costituzione, che riconosce la possibilità di agire in giudizio, per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, a tutti. Attenzione: non a tutti i cittadini ma semplicemente a ogni individuo. Di nuovo, ci troviamo davanti a una garanzia che è sancita anche dalla Convenzione dei diritti umani e che non può essere negata a chi entra nel territorio dello Stato. La tutela in giudizio deve essere dunque assicurata con forme identiche a tutti, stranieri compresi? Tutti, stranieri compresi, hanno diritto a un giudice terzo e imparziale. Ma aggiungo: come rispondere a questa esigenza, attraverso quali procedure, come attrezzare la giurisdizione allo scopo, non può voler dire predisporre una maglia così larga da compromettere l’efficacia di un diniego del diritto d’asilo. La proposta di legge allo studio del Viminale e del ministero della Giustizia punta proprio a stringere questa maglia: fino a che punto può farlo? Intanto può esserci senz’altro un procedimento speciale. La Costituzione consente che vi sia un giudice specializzato per particolari materie, una semplificazione del rito e una specifica rapidità degli atti. Tutto legittimo anche nella prospettiva di assicurare, appunto, efficacia alla decisione. Così come è legittimo che il principio di oralità nel processo sia visto nella sua massima semplificazione: mi riferisco all’ipotesi prospettata dal governo di sentire l’interessato in teleconferenza. E ancora: è sostenibile l’idea di una decisione motivata succintamente. Ma la soppressione dell’appello è cosa diversa. Perché è diversa? Qui ho l’impressione che si tocchi un altro aspetto, e in ultima analisi l’articolo 3 che sancisce l’uguaglianza davanti alla legge: come escluderla solo per questi individui, ovvero gli immigrati, e solo per questa materia? Il governo punta su questo anche considerato l’enorme numero di appelli proposti, circa 3500 al mese. Eliminare del tutto il ricorso in appello è un’ipotesi difficilmente percorribile. È dubbio che l’onerosità e i tempi richiesti dai giudizi siano ragioni sufficienti per derogare al principio di eguaglianza. Si tratta, va ricordato, di procedimenti civili. Ma restano altri margini da poter utilizzare. A cosa si riferisce precisamente? A un appello con rito speciale che preveda, come già ipotizzato dal governo, una procedura in camera di consiglio, e che sia definito con decisione succintamente motivata. E soprattutto, sarebbe utile prevedere termini ristretti per proporre appello: la rapidità finirebbe per scoraggiare impugnazioni infondate. Mi pare un aspetto che risponde in parte all’esigenza di deflazionare il contenzioso. I tempi lunghi equivalgono a risolvere di fatto la situazione con il possibile dileguarsi del ricorrente. Espellere prima della condanna definitiva gli immigrati anche regolari che commettono reati: questa ipotesi, avanzata anche dal componente dell’Anm Antonio Sangermano, è plausibile? Se ne può discutere. Come si può mettere in discussione l’attribuzione del diritto d’asilo per chi ha precedenti penali nel Paese d’origine. L’apertura non può riguardare ogni soggetto a prescindere da una sua concreta pericolosità. Migranti. Manconi: "Attenzione a criminalizzazioni pericolose" di Leo Lancari Il Manifesto, 4 gennaio 2017 Luigi Manconi, presidente commissione Diritti umani del Senato. "La quasi totalità dei migranti che arriva in Italia viene registrata. Non stiamo parlando quindi di un esercito di clandestini senza nome e senza volto". "Che senso ha la parola d’ordine "un Cie in ogni regione"? Si sta rilanciando l’equazione sciagurata irregolare uguale terrorista, spingendo così alla clandestinità quanti invece vorrebbero emergere alla legalità della regolarizzazione". Il presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi non è per niente convinto delle misure contro gli immigrati irregolari annunciate dal ministro degli Interni Marco Minniti. L’attentato di Berlino ha provocato una svolta repressiva nella gestione dei migranti irregolari. Credo che la discussione pubblica sia profondamente deformata da tre paradossi. Il primo riguarda la questione dei rimpatri. Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ha trascorso quattro anni in un carcere italiano, poi è stato trasferito nel Cie di Caltanissetta per essere rimpatriato ma le autorità consolari tunisine, nonostante vi sia un accordo di riammissione, si rifiutano di riconoscerlo come loro concittadino. Dunque gli viene notificato l’ordine di lasciare l’Italia. La sua storia giudiziaria - comprese le notizie riguardanti una sua possibile radicalizzazione - viene registrata nel database comune a tutti gli stati europei. Parliamo quindi di uno straniero identificato, passato attraverso tutte le procedure della legge, i cui movimenti sono stati monitorati e comunicati tra le forze di polizia dei diversi paesi. Nonostante ciò, non è stato possibile impedire l’attacco di Berlino. Questo significa che bisogna arrendersi? No, piuttosto che non esistono soluzioni miracolose. E il secondo paradosso? Il secondo paradosso riguarda il reato di clandestinità: norma inutile, meramente simbolica e schiettamente reazionaria che punisce non un atto ma una condizione esistenziale. Per giunta lenta perché, in ragione di quanto previsto dal nostro ordinamento, esige un lungo iter processuale (tre gradi di giudizio). Per questo e per la violazione del fondamentale diritto umano alla libertà di movimento, andava abrogata. Ma così non si è fatto per sudditanza psicologica nei confronti delle destre. Ora, finalmente, si rivela un arnese arruginito. E poi c’è il terzo paradosso che riguarda l’identificazione degli stranieri. Di oltre il 90% delle 180.000 persone sbarcate nel 2016 in Italia conosciamo dati anagrafici e impronte digitali grazie al foto-segnalamento che avviene appena giunti sulle nostre coste. Dunque la quasi totalità dei migranti sbarcati viene registrata e i dati vengono acquisiti all’interno di una banca-dati europea. Perciò non stiamo parlando di un esercito di clandestini senza volto e senza nome. Resta il problema di una scarsa collaborazione e scambio di informazione tra le varie polizie europee. La vera questione sicurezza è rappresentata proprio dalla debolezza dell’attività di intelligence, controllo del territorio e cooperazione a livello europeo. Come dimostra in maniera lampante la vicenda di Amri, il problema è rappresentato dalla scarsa efficienza dell’attività di prevenzione nei confronti di coloro che operano a fini terroristici. Si tratta, dunque, di concentrare l’attenzione, focalizzare gli interventi e selezionare con intelligenza gli obiettivi. E, invece, si fa l’esatto contrario: si rilancia l’equazione "irregolare uguale clandestino uguale terrorista". É un’assimilazione sciagurata, che ha l’effetto di criminalizzare chi è irregolare esclusivamente per necessità e di spingere verso la clandestinità criminale quanti, al contrario, vorrebbero emergere alla legalità della regolarizzazione. Nella stragrande maggioranza dei casi chi è chiamato clandestino è, in realtà, uno straniero che non ha un titolo valido per vivere nel nostro paese per una serie di ragioni, prima tra tutte una normativa estremamente rigida ed escludente, con requisiti sempre più discriminatori. E clandestine, va ricordato, sono le migliaia di persone impiegate "in nero" nell’agricoltura e nell’edilizia. Verso le quali come bisogna agire? Si tratta di persone da regolarizzare e non da chiudere in un Centro di identificazione ed espulsione. Del resto, la popolazione trattenuta in quei centri ne è la dimostrazione: ex-detenuti, stranieri residenti in Italia da anni ma che hanno perso il lavoro, vittime di tratta, persone apolidi, diciottenni nati e cresciuti in Italia ma privi di cittadinanza. E parliamo di strutture dove i diritti fondamentali vengono costantemente violati, i cui costi sono enormi e che presentano un bilancio disastroso: nella migliore delle ipotesi appena la metà dei trattenuti viene rimpatriata. Qual è il senso, dunque di una parola d’ordine come "un Cie in ogni regione"? Pena di morte. Tre esecuzioni in Nigeria, mentre in Iran mozzano le dita La Repubblica, 4 gennaio 2017 Il rapporto periodico sulle esecuzioni capitali di Nessuno Tocchi Caino. In Pakistan hanno ripreso le impiccagioni dopo tre mesi di pausa: alla forca un uomo di 70 anni, per un reato compiuto 20 anni fa. In Arabia Saudita invece basta pagare per salvarsi. In Tailandia liberati molti detenuti per buona condotta. Il 23 dicembre scorso - si apprende dal rapporto periodico sulle esecuzioni capitali di Nessuno Tocchi Caino - tre detenuti sono stati giustiziati nello stato nigeriano del Sud di Edo, dopo essere stati condannati a morte da tribunali militari ai sensi del Decreto 1971 sulle Rapine e Armi da Fuoco (Provvedimenti Speciali) e successivi emendamenti, ha riportato il quotidiano The Nation. Il governo di Edo aveva annunciato l’intenzione di giustiziare tre prigionieri nella prigione di Oko, a Benin City, capitale dello stato di Edo. I tre detenuti sono stati identificati come Ogbomoro Omoregie, Apostle Igene e Mark Omosowhota, le cui esecuzioni sono state effettuate intorno alle sei di mattina. Il direttore del gruppo per i diritti "Legal Defence and Assistance Project" (Ledap), Chino Obiagwu, aveva presentato una petizione al governatore di Edo, Godwin Obaseki, affinché fermasse le esecuzioni, che tuttavia sono avvenute lo stesso. "Avevamo inoltrato appello alla Corte di Lagos affinché riconoscesse a questi prigionieri il diritto di appello in base alla Costituzione del 1999", ha aggiunto l’avvocato. Pakistan, riprendono le esecuzioni dopo 3 mesi di pausa. Il 24 dicembre scorso, un condannato a morte di 70 anni è stato impiccato nel carcere Adiala di Rawalpindi, in Pakistan, per un omicidio commesso 20 anni fa. L’impiccagione di Khan Iqbal è giunta a quasi tre mesi di distanza dall’ultima esecuzione praticata nel Paese, ha reso noto un funzionario carcerario. Il 15 aprile 2015, Khan Iqbal era fuggito dal carcere di Bannu durante l’attacco dei Talebani, in seguito era tornato a Gojar Khan, svolgendo il mestiere di calzolaio. Fu riconosciuto da un parente della sua vittima, Muhammad Shakeel, e nuovamente arrestato il 21 ottobre 2015. La sua richiesta di grazia era stata respinta dal Presidente il 13 dicembre 2016. Iran, amputate le dita a due prigionieri. Nel giorno di Natale sono state eseguite due condanne all’amputazione delle dita nel carcere di Urmia, nell’Iran nord-occidentale. Secondo fonti attendibili, i due prigionieri - i fratelli Faramarz e Majid Bigham - erano stati condannati ad una pena detentiva e all’amputazione di quattro dita della mano destra, in relazione ad una rapina che avrebbero commesso nel 2011. Il taglio delle dita è stato praticato nel cortile della prigione di Urmia. Secondo le stesse fonti, le autorità del carcere hanno invitato altri detenuti ad assistere alle amputazioni. Sempre in Iran, alcune settimane fa, in un carcere nei pressi di Teheran sono stati cavati gli occhi ad un detenuto. Arabia Saudita, un indiano s’è salvato grazie a prezzo del sangue. Il 28 dicembre scorso, un cittadino indiano si è salvato dall’esecuzione dopo aver trascorso otto anni nel braccio della morte in un penitenziario dell’Arabia Saudita. L’indiano - identificato come Limbadri, impiegato presso una fattoria a Najran - era stato condannato per l’omicidio di un saudita, commesso nel corso di una lite. Con l’avvicinarsi dell’esecuzione, l’uomo d’affari saudita Awad bin Guraiah Al-Yami ha offerto alla famiglia della vittima 1,3 milioni di rial come "prezzo del sangue" affinché perdonasse l’assassino. I familiari della vittima hanno accettato l’offerta, per cui il tribunale ha disposto il rilascio dalla prigione di Limbadri. Thailandia, primi rilasci dal carcere di Phuket. Il 25 dicembre scorso, il primo gruppo di prigionieri è stato rilasciato di mattina dal carcere di Phuket, a seguito dell’annuncio questo mese di una grazia reale per commemorare l’inizio del regno di Rama X. Il comandante del carcere di Phuket, Somkit Kammang, ha diretto il rilascio mentre una folla di parenti si trovava al di fuori delle mura della prigione, in attesa di accogliere i 147 detenuti liberati. "Questi prigionieri, tra cui 21 donne, hanno tenuto una buona condotta durante la detenzione e avevano già completato un terzo delle loro condanne", ha detto Somkit. La maggior parte di loro erano stati incarcerati per reati sessuali, reati legati alla droga e danni alla proprietà. Circa l’80 per cento del totale di 1.590 prigionieri in procinto di essere rilasciati sono stati accusati di reati legati alla droga. Iran. Attivista al 71° giorno di sciopero della fame in carcere di Tiziana Ciavardini Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2017 Se esiste una storia d’amore tristissima, di quelle che sembrano uscire dai romanzi d’altri tempi e fanno commuovere fino alle lacrime, è di sicuro quella tra i due studenti attivisti iraniani Arash Sadeghi e Golrokh Iraee. Lui è un prigioniero politico e in queste ore rischia di morire per amore. Oggi è al suo 71° giorno di sciopero della fame, per protesta nei confronti della detenzione ingiusta di sua moglie, la scrittrice e attivista per i diritti umani Golrokh Ebrahimi Iraee. Sua moglie viene condannata lo scorso ottobre, a sei anni di detenzione, unicamente per aver scritto un racconto sulla lapidazione, peraltro mai pubblicato. La storia narrata da Golrokh ha come protagonista una donna che brucia una copia del Corano come segno di ribellione e rabbia, colpita dalla visione del film "La lapidazione di Soraya M". La Magistratura iraniana ha giudicato la trama così sovversiva da doverne non solo impedire la pubblicazione, ma anche punire l’autrice. Le accuse mosse alla giovane attivista sono di "offesa ai sacri valori dell’Islam" e "diffusione e propaganda contro il sistema". Dall’arresto di sua moglie Arash Sadeghi ha iniziato uno sciopero della fame. Arash ha una lunga storia in Iran; è entrato e uscito dal carcere di Evin varie volte. È stato membro della campagna elettorale di Mir Hossein Mousavi nel 2009 e dell’Associazione degli studenti islamici della Allameh University. Da quest’ultima università è stato espulso, per ragioni politiche, mentre stava studiando per la sua laurea specialistica in filosofia. Il primo arresto di Arash Sadeghi è avvenuto dopo le contestate elezioni presidenziali del giugno 2009. Da allora è stato arrestato diverse volte tra il 2009 e il 2014. Ora si trova nel carcere di Evin condannato a 19 anni di reclusione con l’accusa di "propaganda contro lo Stato, associazione e collusione contro la sicurezza nazionale". In tutti questi anni Arash ha sempre combattuto per la libertà in Iran. Alcuni amici dicono che la sua fine purtroppo non è lontana. Sono 71 giorni che è in sciopero della fame ed ha perso 19 kg. Si trova nella sezione 8 del carcere di Evin e più volte è stato trasferito in infermeria perché sofferente di ipotensione, palpitazioni cardiache, asma e fuoriuscita di sangue dalla bocca. Gli hanno messo la maschera a ossigeno e lo hanno riportato nella sua sezione. Il pericolo che sopraggiunga un ictus e quindi il coma è imminente. Le autorità iraniane hanno più volte minacciato Sadeghi che ha interrotto le cure mediche da quando gli sono state vietate le visite di sua moglie. In questa drammatica vicenda, consapevole che le autorità iraniane non avranno pietà per la sua vicenda, Arash ha già preparato un testamento dedicato alla sua tanto amata moglie. In questa lettera si legge: "Pensa a un domani, quando la felicità sarà un diritto di tutti gli esseri umani…Sono nato nel tuo primo sguardo, il tuo abbraccio è il posto più sicuro al mondo, il tuo amore è il simbolo della vittoria che mi accompagna in questa battaglia contro il destino. Ti hanno condannato pesantemente per dare una lezione agli altri, ma noi passeremo questo triste periodo e ci ritroveremo di nuovo tra la felicità e la tenerezza". Al momento sono tante le associazioni per i diritti umani che stanno portando avanti campagne per la salvezza di Arash e la liberazione di sua moglie. Su Twitter l’hashtag #saveArash imperversa su molti siti e una grande campagna di mobilitazione è in atto per scongiurare il deterioramento delle condizioni di questo giovane studente iraniano. Molti personaggi conosciuti si sono spesi per la salvezza di Arash come il deputato parlamentare riformista Elias Hazrati il quale ha scritto al capo della magistratura Sadeq Larijani sulle condizioni del giovane, dichiarando che la sua morte potrebbe comportare conseguenze politiche. Proprio ieri si è svolta a Teheran una silente manifestazione davanti al carcere di Evin per sostenere la causa di Arash. Anche suo padre, Hossein Sadeghi ha iniziato il tre dicembre scorso uno sciopero della fame in sostegno delle richieste di suo figlio. Al momento non ci sono state risposte da parte delle autorità, ma si teme che la morte di un prigioniero politico potrebbe comportare gravi problemi in un Iran, a pochi mesi dal voto Presidenziale, che ha cercato di mostrarsi più tollerante da qualche tempo. Ma un Paese in cui viene negato il diritto a un prigioniero politico in fin di vita, di poter vedere la propria moglie, è un paese in cui la comunità internazionale non può rimanere silente, ma anzi dovrebbe al più presto intervenire, per garantire la difesa dei Diritti Umani. Stati Uniti. Da Trump linea dura su Guantánamo: "basta scarcerazioni" Reuters, 4 gennaio 2017 I tweet del presidente eletto: "Detenuti sono pericolosi, potrebbero tornare a combattere". Attacchi a Pyongyang e Pechino: "Missile di Kim Jong-Un non ci raggiungerà". Linea dura su Guantánamo e sfida alle potenze orientali, dalla Cina alla Nord Corea, con la garanzia che mai un missile nordcoreano potrà colpire gli Stati Uniti. Il presidente eletto degli Usa, Donald Trump, affida a Twitter i proclami che irrompono alla vigilia dell’insediamento del nuovo Congresso, chiamato oggi a riunirsi per la prima volta nel nuovo mandato che prevede una chiara maggioranza repubblicana. È un passo significativo della marcia di avvicinamento alla data del 20 gennaio, giorno in cui il nuovo presidente si insedierà alla Casa Bianca. "Non dovranno esserci altre scarcerazioni da Guantánamo. Sono persone estremamente pericolose e non si deve consentire che tornino sul campo di battaglia", tuona Trump, congelando di fatto il piano di liberazioni e di trasferimenti all’estero dei detenuti reclusi con l’accusa di terrorismo. Uno di loro sarebbe dovuto arrivare anche in Italia, dove già era presente un’altra persona proveniente dalla struttura di massima sicurezza. Il monito contro Pyongyang del presidente eletto arriva invece in risposta al leader nordcoreano Kim Jong-un che ha annunciato il lancio imminente di un missile balistico intercontinentale. "La Corea del Nord ha appena affermato di essere nelle fasi finali dello sviluppo di un’arma nucleare in grado di raggiungere il territorio degli Stati Uniti - scrive Trump - Non succederà mai!". In un altro tweet, il presidente eletto si scaglia contro Pechino: "Porta via agli Stati Uniti enormi somme di denaro e ricchezze in un commercio totalmente a senso a unico e non ci aiuterà sulla Corea del Nord. Bello". Già durante la campagna elettorale, Trump aveva chiamato Kim "maniaco", pur senza mai dire se questa definizione fosse del tutto negativa, perché, subito dopo, aveva precisato di dover dare "credito" al leader della Corea del Nord. Tunisia. Rimpatrio terroristi, un problema per radicalizzazione dei "detenuti comuni" Nova, 4 gennaio 2017 La questione del rimpatrio dei terroristi tunisini che hanno combattuto all’estero rappresenta un problema anche per le carceri del paese nordafricano. A denunciarlo oggi il segretario generale del sindacato delle carceri e del recupero dei detenuti, Badreddine Rajhi. Il sindacalista ha confermato l’esistenza di casi di indottrinamento da parte dei detenuti accusati di reati di terrorismo ai detenuti "comuni". Alla base di questi episodi, secondo Rajhi, vi è la situazione degli istituti detentivi tunisini, dove "tra i tre ed i cinque carcerati accusati di reati di terrorismo condividono la cella con i detenuti comuni". La costruzione di un carcere speciale, destinato ai terroristi, annunciata dalle autorità, rappresenta una soluzione sul lungo periodo, "che non risolve il problema attuale", ha aggiunto Rajhi. Le prigioni tunisine non sono in grado di accogliere tutti i terroristi che ritornano dalle zone di conflitto, ha aggiunto il sindacalista. Rajhi ha evidenziato la necessità di adottare misure specifiche nei confronti di questo tipo di detenuti, accusati di reati legati al terrorismo. Per limitare l’affollamento delle carceri da detenuti accusati di "reati minori", il consigliere del ministro della Giustizia responsabile per le prigioni, Kamel Eddine Ben Hsan, ha detto che sono state fatte delle proposte per modificare la Legge 52 sul consumo di droga e dei reati connessi. In particolare, le istituzioni stanno lavorando per prevenire la tossicodipendenza e creare dei centri di riabilitazione per consentire di limitare la presenza negli istituti di pena di questo tipo di detenuti. Parlando delle condizioni di vita dei detenuti, Rajhi ha fatto sapere che attualmente i carcerati hanno a disposizione circa 1,6 metri quadrati di spazio ciascuno. Inoltre, il sindacalista ha detto che il capo dello Stato, Beji Caid Essebsi, concederà l’amnistia ad alcuni detenuti e sconti di pena per altri. Da parte sua, Ben Hsan ha "giustificato" le cattive condizioni in cui vivono i detenuti dipende da alcuni fattori, come per esempio la mancanza di un’infrastruttura adeguata. Il funzionario ha ricordato anche gli episodi di vandalismo avvenuti durante la rivoluzione dei gelsomini ed il menefreghismo dei governi precedenti tra le cause delle condizioni attuali delle carceri tunisine. Secondo Hsan, a marzo di quest’anno lo spazio vitale destinato ad ogni detenuto aumenterà fino a raggiungere i 2 metri quadrati. Il consigliere del ministro della Giustizia responsabile per le prigioni ha annunciato inoltre che nel carcere di Sfax verranno costruite 200 nuove celle entro il prossimo mese, mentre negli istituti detentivi di Mahdia, Sousse (Susa), Monastir e Gabes verranno create rispettivamente 300, 500, 480 e 500 nuove celle. Parlando dell’annuncio fatto dal ministro della Giustizia Ghazi Jeribi sulla costruzione di un carcere destinato ad ospitare soltanto i terroristi, Hsan ha spiegato che l’obiettivo dell’opera è non far mescolare i diversi detenuti ed evitare così la possibilità di indottrinamento da parte di alcuni detenuti nei confronti di altri. Ieri, 2 gennaio, il ministro della Giustizia ha parlato dell’affollamento nelle carceri tunisine, annunciando che ci saranno delle riforme. Secondo i dati diffusi dal ministero, nel carcere di Mornaguia, il tasso di sovraffollamento è del 10,6 per cento, mentre in quello di Borj El Amri, raggiunge il 4,4 per cento. La popolazione carceraria dell’istituto di Mornag eccede del 66 per cento, in quello di Rabta dell’82 per cento, mentre in quello di al Saouaf tocca il 21 per cento. Il carcere di Borj El Roumi registra un sovraffollamento del 33 per cento, quello di Ennadhour a Bizerte del 47 per cento, mentre quello di Beja del 50 per cento. Infine, le carceri di Kef, Jendouba, Le Sers, Seliana, Sousse, Monastir, Mahdia, Kairouan, Houareb, Sidi Bouzid, Kasserine, Gafsa, Sfax, Harboub e Kebili sono sovraffollate rispettivamente al 43, 42, 2, 42, 65, 92, 47, 117, 116, 30, 40, 94, 2,5, 18,4 e 34,5 per cento. A proposito del rimpatrio dei "foreign fighters", il ministro dell’Interno, Hedi Majdoub, ha detto che sono 800 quelli tunisini rientrati nel periodo compreso tra il 2012 ed il 2016, tra cui 30 donne. Nel corso di un’intervista diffusa oggi dal quotidiano "Al Maghreb", Majdoub ha detto che il numero di terroristi tunisini impegnati nelle zone di confine non supera i 2929, che hanno un’età compresa tra i 25 ed i 50 anni, precisando che il dicastero ha tutti i loro nomi. Il ministro ha spiegato che circa 1.500 si trovano in Siria, 500 in Libia, meno di 150 in Iraq e 400 altri in altri posti. Riguardo a questi ultimi, il ministro ha affermato che potrebbero trovarsi in Europa. Majdoub ha spiegato inoltre che vi è un coordinamento con gli altri paesi colpito dal terrorismo per lo scambio di informazioni sensibili. Infine, il ministro ha chiarito che il numero dei terroristi considerati "pericolosi" non supera le 300 unità. Egitto. Suicida in carcere magistrato arrestato con l’accusa di corruzione di Loula Lahham asianews.it, 4 gennaio 2017 Il giudice Wael Shalaby, segretario generale del Consiglio di Stato, si è impiccato con una sciarpa. Egli era stato da poco arrestato nel contesto dello scandalo milionario che ha coinvolto Gamaleddin Al-Labban. Il legale del giudice accusa le guardie carcerarie per la mancata sorveglianza. Disposta l’autopsia sul cadavere. Il giudice Wael Shalaby, magistrato egiziano già segretario generale del Consiglio di Stato, la più alta giurisdizione amministrativa del Paese incaricata di controllare il rispetto da parte del governo delle leggi in vigore, si è impiccato ieri mattina con una sciarpa. Egli è morto nella cella di un carcere, dove si trovava rinchiuso da qualche giorno con l’accusa di corruzione. Sayed Béheiri, legale del magistrato suicida, riferisce che "il mio cliente era in una situazione psicologica terrificante", in particolare "dopo l’interrogatorio della polizia". "È molto difficile per qualcuno che esercita una carica pubblica importante - ha aggiunto l’avvocato - perdere tutto perché accusato di corruzione da un agente di polizia". Proseguendo il racconto, il legale sottolinea che Wael Shalaby è andato in bagno, ha appeso la sciarpa all’impianto di riscaldamento dell’acqua e si è impiccato". Egli denuncia il comportamento - a suo dire - "negligente" da parte delle guardie del carcere in cui il magistrato era detenuto. A poche ore di distanza dall’impiccagione, il procuratore generale ha imposto la censura sui media impedendo la pubblicazione di informazioni o atti relativi all’inchiesta in corso. L’arresto del giudice Wael Shalaby è avvenuto all’indomani del gigantesco scandalo che ha coinvolto Gamaleddin Al-Labban, arrestato il 26 dicembre scorso; nella sua abitazione le forze di sicurezza hanno sequestrato milioni in lire egiziane e in valute straniere. Uno scandalo di enormi proporzioni, mai visto prima sulla scena politica e istituzionale del Paese. L’arresto di Labban aveva portato alle dimissioni di Shalaby dal Consiglio di Stato, organismo superiore rispetto al ministero di Giustizia, e poi al suo arresto. Osservatori ed esperti si aspettavano altre decine di arresti, ma la catena si è interrotta con questo suicidio. Da parte sua, il procuratore generale ha disposto l’autopsia sul corpo di Wael Shalaby, per determinare con certezza la causa della morte del magistrato. I risultati saranno diffusi nei prossimi giorni. Le autorità egiziane di recente hanno lanciato una campagna contro la corruzione, sottolineando che "nessuno può dirsi al di sopra della legge". Secondo il rapporto 2016 degli esperti dell’Ong internazionale Transparency International, l’Egitto si classifica all’88mo posto fra le nazioni più corrotte al mondo su un totale di 168 Paesi. Brasile. Caccia ai 144 detenuti evasi dai tunnel segreti a Manaus Askanews, 4 gennaio 2017 Sono ancora 144 i detenuti in fuga dopo la sommossa nel carcere di Anísio Jobim, a Manaus, in Brasile, che si è trasformata in una strage con 56 vittime accertate, la maggior parte decapitate e altre bruciate vive o picchiate con spranghe e bastoni. Intanto il ministero della Giustizia ha reso noto che gli istigatori della protesta che è sfociata nella sanguinosa sommossa saranno trasferiti in una prigione federale di massima sicurezza. La ribellione, andata avanti per 17 ore, è stata provocata da uno scontro tra detenuti di due organizzazioni criminali, il gruppo locale Fdn (Familia do Norte) e il Pcc (Primeiro Comando da Capital), con sede a San Paolo. In tutto 184 detenuti erano riusciti a fuggire ma 40 sono stati catturati poco dopo dalla polizia, mentre per gli altri, fuggiti attraverso tunnel segreti scoperti sotto il penitenziario brasiliano, è stata lanciata una potente caccia all’uomo. La Bbc riporta la curiosa notizia di uno dei fuggitivi, Brayan Bremer, che posta le sue foto su Facebook. In una si vede l’uomo, che scontava una condanna per rapina, con il pollice alzato in segno di vittoria, insieme a un altro detenuto che la polizia sostiene di aver catturato. I post di Bremer sono diventati virali sui social in Brasile. Dopo le 17 ore di disordini la polizia è riuscita a ristabilire la calma e ha liberato 12 agenti che erano stati presi in ostaggio. All’interno del carcere, però, la scena che si è presentata ai soccorritori è stata definita terrificante: "Molte (vittime) sono state decapitate e tutte hanno subito molta violenza", ha spiegato il ministro della Giustizia Fontes sottolineando che la crudeltà inflitta potrebbe essere un messaggio della Familia do Norte per i rivali del Primeiro Comando da Capital. Tailandia. Grazia reale per 1.590 prigionieri, primi rilasci dal carcere di Phuket agenziaradicale.com, 4 gennaio 2017 Il primo gruppo di prigionieri è stato rilasciato nella mattina del 25 dicembre dal carcere thailandese di Phuket, a seguito dell’annuncio di una grazia reale per commemorare l’inizio del regno di Rama X. Il comandante del carcere di Phuket, Somkit Kammang, ha diretto il rilascio mentre una folla di parenti si trovava al di fuori delle mura della prigione, in attesa di accogliere i 147 detenuti liberati. "Questi prigionieri, tra cui 21 donne, hanno tenuto una buona condotta durante la detenzione e avevano già completato un terzo delle loro condanne", ha detto Somkit. "La maggior parte di loro erano stati incarcerati per reati sessuali, reati legati alla droga e danni alla proprietà. "Circa l’80 per cento del totale di 1.590 prigionieri in procinto di essere rilasciati sono stati accusati di reati legati alla droga. Abbiamo istituito laboratori in modo da istruirli su come vivere una vita migliore e integrarsi come membri abili e contribuenti della società. Ci aspettiamo da loro che non commettano crimini mai più". Secondo la Royal Gazette, le prime liberazioni sono state concesse ai detenuti che svolgevano servizi pubblici, in libertà vigilata, e che avevano meno di un anno da scontare o che avevano scontato almeno un terzo di detenzione. Sono stati rilasciati anche detenuti non vedenti o gravemente malati, così come le donne che scontavano le loro prime condanne o che avevano già scontato più di metà della pena. Il perdono reale è stato concesso anche ai detenuti di età superiore ai 60 anni che avevano scontato non meno di cinque anni o almeno un terzo delle loro condanne, e ai detenuti sotto i 20 anni di età che avevano scontato più della metà della pena o che avevano meno di due anni da passare ancora in carcere. Inoltre, le condanne a morte saranno commutate in ergastolo, ha aggiunto la Royal Gazette. Filippine. Sospetti ribelli islamisti assaltano un carcere, oltre 150 detenuti in fuga La Stampa, 4 gennaio 2017 Più di 150 detenuti sono fuggiti da una prigione nel sud delle Filippine, preso di mira da decine di miliziani probabilmente islamisti. L’audace attacco è stato condotto intorno all’una di notte da un centinaio di uomini armati che hanno preso d’assalto la prigione di Kidapawan, 50 chilometri a ovest di Davao, La principale città dell’isola meridionale di Mindanao. I combattimenti sono infuriati per due ore nel centro di detenzione. L’attacco è stato compiuto da una fazione scissionista del Fronte di Liberazione Islamica Moro, ha riferito uno dei responsabili del carcere, Peter John Bonggat. Si tratta del più grande movimento armato islamico nel Paese, con il quale il governo ha lanciato negoziati di pace. Almeno 158 detenuti hanno approfittato del caos per darsi alla macchia; non è chiaro quanti di essi avessero legami con i combattenti islamisti che hanno attaccato la prigione.