Youssef, il primo docente musulmano anti-terrore che insegnerà agli agenti penitenziari di Manuela D’Angelo Corriere Fiorentino, 3 gennaio 2017 Sbai, 56 anni, ex vice Presidente nazionale dell’Ucoii e Imam della locale comunità islamica insegnerà agli agenti penitenziari come si riconoscono proselitismo e radicalizzazione. Conoscere il mondo arabo e la religione musulmana per estirpare la radicalizzazione e sconfiggere il terrorismo: un obiettivo che parte anche, e soprattutto, dalle carceri dove c’è estremo bisogno di personale penitenziario consapevole, formato e capace di riconoscere comportamenti devianti dei detenuti. Scelto dal ministero della Giustizia - Youssef Sbai, 56 anni, ex vice presidente nazionale dell’U.Co.I.I., l’Unione delle comunità islamiche in Italia, di cui è stato cofondatore, originario del Marocco, musulmano sunnita, in Italia da 34 anni, oggi a Massa Carrara, imprenditore del settore lapideo, è l’uomo scelto dal ministero della Giustizia per questo compito, primo esponente di fede musulmana diventato docente di islamologia nelle scuole italiane di Polizia penitenziaria. Profondo conoscitore del pensiero islamico, Sbai racconta quale sarà il suo compito, complesso e delicato: "L’esigenza è doppia - ci dice, intanto permettere ai detenuti di fede musulmana di praticare liberamente la loro religione, spiegando al personale di polizia i loro reali diritti; poi fornire ai secondini gli strumenti per capire quando la religione viene strumentalizzata. Un esempio: frequento molte carceri di tutta Italia, dove a volte vengo chiamato come Imam e ho incontrato molti detenuti furbi, che utilizzano l’ora di preghiera per sottrarsi ai propri doveri, agli incontri con i Pm, agli interrogatori. Non esiste un’ora precisa per la preghiera: si parla di archi temporali, che variano a seconda delle stagioni e che il personale penitenziario deve conoscere, per evitare di essere gabbato. Il mio compito è insegnare le basi della religione musulmana, per evitare che i detenuti possano raccontare ciò che vogliono". "Tantissimi campanelli d’allarme" - C’è poi la grande esigenza di capire nelle carceri comportamenti devianti, che possono sfociare nella radicalizzazione, nel proselitismo alla violenza, nella cultura dell’odio: "I campanelli d’allarme sono tantissimi - dice Sbai - e non si riconoscono con poche lezioni a tavolino. A volte sono sfumature, spesso sono segnali. Un detenuto che esulta, che si dimostra felice per l’avvenuto atto terroristico di cui sente parlare in tv va tenuto sotto controllo, perché il Corano vieta di gioire per la morte altrui e potremmo considerarlo un segnale di odio nei confronti della cultura occidentale. Il detenuto che si isola, che sfugge dal confronto con gli altri, oppure quello che diffonde i versetti del Corano estrapolandoli dal loro contesto, probabilmente cova rabbia e odio. Nelle carceri i sermoni del venerdì dovrebbero essere pretesi in lingua italiana; i problemi nascono quando i detenuti nominano un Imam interno, che è lui stesso un detenuto che vive la religione da una prospettiva di carcerazione. Un quadro che non definirei pericoloso, ma problematico. Questo insegno, a capire comportamenti e sfumature di pensiero. La conoscenza è la chiave non soltanto per l’integrazione ma anche per la pace". Dal cioccolato siciliano ai taralli pugliesi, i detenuti diventano artigiani del gusto di Licia Granello La Repubblica, 3 gennaio 2017 In sempre più prigioni italiane si realizzano eccellenze alimentari. E ora uno shop online permette a tutti di comprare i prodotti di chi, dietro le sbarre, è diventato pasticciere o fornaio. I nomi sono da Oscar del marketing. "Dolci Evasioni", "Libera Mensa", "Semi di Libertà", "Banda Biscotti", "Pezzi di Pane", ma anche "Buoni Dentro", "Sprigioniamo Sapori", "Dolci Libertà" e le Cene Galeotte nel ristorante "Mille Sbarre". Dietro i nomi, un elenco in crescita costante di carceri, dove la detenzione smette di essere pena fine a se stessa - con il suo carico di sofferenza buia, senza luce alla fine del tunnel - per aderire all’articolo 27 della Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Chiunque abbia mai varcato la soglia di una casa di reclusione, sa quanto entrambe le prescrizioni siano troppo spesso ignorate e calpestate. Eppure, i dati parlano da soli: su cento detenuti incarcerati a vario titolo, oltre il 70% una volta libero torna a delinquere, mentre tra quelli che hanno imparato un’attività la percentuale di recidiva precipita abbondantemente sotto il 20%. Così, negli anni, uomini e donne di buona volontà, con l’indispensabile ausilio dei direttori delle carceri, hanno attivato progetti di rieducazione e inclusione, che sempre più spesso passano dalla produzione di cibo. E se un tempo i manufatti degli ergastolani di Porto Azzurro o dell’Asinara erano testimonianze tristi di una condizione senza salvezza, oggi le produzioni dei laboratori interni alle case circondariali sono fucine di libertà creativa, con un debole per l’agroalimentare. Dicono che l’impegno sia inversamente proporzionale all’entità della pena. Quando Maria Grazia Giampiccolo, vulcanica direttrice del carcere di massima sicurezza di Volterra, ha dato il via alle bellissime cene nel suggestivo cortile della Fortezza Medicea, gli apprendisti cuochi e camerieri più entusiasti sono stati i condannati a vita, "l’unica possibilità di non impazzire". Ma la "seconda possibilità" allarga i suoi confini, anche perché lavorare significa guadagnare, contribuire al sostentamento della famiglia fuori dal carcere, essere perfino orgogliosi del proprio mestiere. La foto dei pasticceri del carcere di Padova - laboratorio "Giotto" - il cui panettone è considerato tra i migliori d’Italia, è una sequenza di sorrisi di speranza. Allo stesso modo, "Made in Carcere", nato recuperando e trasformando scarti di tessuti nella sezione femminile del carcere di Lecce, oggi si cimenta nella produzione di squisiti biscotti vegani su ricetta segreta della sua fondatrice, l’ex manager bancaria Luciana Delle Donne. Sono proprio gli attori più sensibili della società civile a supportare e istruire: cuochi e manager, fornai e mastri gelatieri, ma anche mulini e allevatori per le materie prime. Due i comandamenti: qualità alta e professionalità. Non devono esserci sconti, nella valutazione: si sta sul mercato perché si è bravi, non per carità pelosa. Pani da grani antichi e biologici, impastati con lievito madre, preziosi caffè torrefatti secondo la migliore tradizione italiana, formaggi lavorati con perizia certosina. Il livello è così alto e la competizione nel circuito carcerario così felicemente serrata che nel centro storico di Torino poche settimane fa è nato "Freedhome - creativi dentro", il primo concept-store con shop online dedicato alle eccellenze dell’economia carceraria italiana. Vi troverete le paste di mandorla del carcere di Siracusa e il tè verde Sencha delle detenute di Pozzuoli, i latticini della sezione femminile di Rebibbia e i taralli del carcere di Trani. E una capriola si portò via il giustizialismo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 gennaio 2017 La faccia, s’intende, è sempre feroce. Ferocissima, come quella dei prodi di re Franceschiello. Tuttavia la sostanza cambia, eccome, con il codice di comportamento che oggi i militanti Cinque Stelle voteranno via web: in pensione le tricoteuse. Nel mondo di Beppe Grillo l’avviso di garanzia non è più automatico sinonimo di morte politica. Non lo era già da un pezzo, in verità. La gestione asimmetrica dei casi di Filippo Nogarin a Livorno e Federico Pizzarotti a Parma mostrava da tempo come la discrezionalità del capo assoluto fosse il vero discrimine nel destino di un sindaco pentastellato. E come la seduzione della parolina "dipende" si fosse già insinuata nella purezza primigenia. Ma ancora ci si muoveva a tentoni, in un’oscurità normativa nella quale risuonavano solenni le parole del giovane Di Maio che, in rampa di lancio da premier (e prima di prendere lucciole per lanterne su Quarto in Campania e l’assessora Muraro a Roma), tuonava in un’intervista a Libero: "Non sono a favore della presunzione d’innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare. Glielo chiedono gli elettori!". Ancora un anno fa la pasionaria romana del movimento Roberta Lombardi invocava, per un avviso di garanzia, le dimissioni "immediate!" del sindaco Esterino Montino e dei consiglieri della maggioranza pd di Fiumicino. E il centauro Di Battista ammoniva che persino Nogarin si sarebbe dovuto dimettere a meno che l’avviso di garanzia non fosse "un atto dovuto" (lo è sempre, a date condizioni), rifugiandosi nella stessa tenebra giuridica che l’aveva spinto a dichiararsi difensore della Costituzione "approvata a suffragio universale nel 1948" (com’è noto, la Carta fu approvata dall’Assemblea costituente: quella, sì, votata da tutti gli italiani, due anni prima...). Ora, con una capriola rispetto all’intransigenza verbale delle origini così plateale da meritarsi il plauso di Cirino Pomicino ("benvenuto Grillo!"), Beppe e i suoi fedeli sembrano mettere nero su bianco l’addio al giustizialismo almeno di grana più grossa. Chi governa, talvolta, finisce per inzaccherarsi un po’ l’orlo della giacca, spesso suo malgrado e magari, chissà, persino per una buona causa: pare questa la scoperta straordinaria che sta dietro il "codice di comportamento" per gli amministratori grillini coinvolti in vicende giudiziarie; assieme a un lodevole tentativo di coerenza dopo mesi di doppiopesismo nei quali si invocavano dimissioni altrui (a gran voce, anche per avversari non inquisiti ma solo "toccati" da qualche intercettazione imbarazzante), sempre o quasi sempre cavillando giustificazioni per i propri guai e i propri scandali. Ci sono tuttavia due elementi politici che suggeriscono prudenza. Il primo è temporale. Il paragrafo sulla "presunzione di gravità" (e la sua esclusione, almeno in via automatica, in caso di avviso di garanzia) sembra scritto per Virginia Raggi e le prossime elezioni legislative forse anticipate a quest’anno. Nessuno, allo stato, può escludere il rischio che la sindaca di Roma finisca sul registro degli indagati per l’infelice gestione delle carriere e degli stipendi di Raffaele Marra (al momento in galera), di suo fratello Renato e di Salvatore Romeo, per i quali la Raggi ha deciso di esporsi in prima persona. Nell’ipotesi più infausta Grillo avrebbe dovuto condurre un’eventuale campagna politica scegliendo tra due opzioni ugualmente rovinose: mollare la sindaca certificando l’incapacità dei Cinque Stelle o sostenerla pur da indagata sotto il facile tiro degli avversari. La contraddizione è risolta perché il Garante (Grillo stesso) e i probiviri (nominati da Grillo e soltanto ratificati dal web) decideranno "in totale autonomia" il destino politico dell’indagato e solo alla condanna di primo grado scatterà la tagliola automatica. Opportunamente si sostiene che possono essere sanzionati anche comportamenti non oggetto di indagine (la famosa indipendenza della politica rispetto alle procure). Ma è difficile non vedere come - in assenza di parametri certi - si dilati a dismisura il potere del capo assoluto, che terrà in pugno persino più di prima i suoi eletti, essendo l’imperscrutabile scelta di sommersi e salvati addirittura norma del "codice penale" grillino: è questo il secondo elemento di perplessità, assai connesso al primo, soprattutto in un movimento che già presenta zone d’ombra nei suoi processi decisionali e nella selezione delle élite ("uno vale uno" è una tenera fola smentita dalla quotidianità). Sostenere che le disavventure di Virginia Raggi abbiano spinto i Cinque Stelle su sponde garantiste potrebbe rivelarsi alla fine un errore di prospettiva. Il cambiamento è notevole, ma la sua direzione andrà letta tra qualche tempo. Per chi non ha pazienza, resta la faccia feroce: quella, in fondo, non si nega a nessuno. L’Italia cambiata dall’avviso di garanzia di Piero Colaprico La Repubblica, 3 gennaio 2017 Il socialista Sergio Moroni, prima di uccidersi, scrisse una lunga lettera al presidente della Camera Napolitano. All’inizio fu lo scandalo Lockheed, nel 1976. Ma è con le inchieste milanesi del 1992, che portano a suicidi e dimissioni a catena, che parte la polemica sulla gogna giudiziaria. Il socialista Sergio Moroni, prima di uccidersi, voleva suscitare un intervento utile a "evitare" quello che i politici, ma anche i garantisti veri temevano, e cioè "processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna". Di fronte a quell’ambiguità pericolosa, scriveva Moroni nel settembre 1992, anno primo dell’Era di Tangentopoli, "quando la parola è flessibile, non resta che il gesto". Con parole diverse, e con bei altro tasso di tragedia, oggi è Beppe Grillo che, mentre sembra traballare il sindaco di Roma Virginia Raggi, ripete l’identico concetto del politico socialista. E, bisogna sottolinearlo, i concetti di Grillo sono più o meno gli stessi che costringevano al lamento Silvio Berlusconi, all’indomani dell’invito a comparire a mezzo stampa". L’aveva ricevuto a Napoli nel novembre 1994, durante la conferenza internazionale sulla criminalità organizzata, poco prima di perdere il sostegno della Lega di Umberto Bossi al suo governo. Ne sono diverse dalle proteste dello stesso Bossi quando, e siamo nel 2012, toccò a lui ritrovarsi nel fango dello scandalo dei milioni di euro dei rimborsi elettorali che passavano, tramite il tesoriere Francesco Belsito, dalle casse della Lega a quella della sua esosa, spendacciona e scolasticamente disastrosa famiglia. Si potrebbe continuare all’infinito, tali e tante sono le storie piccole e grandi degli avvisi di garanzia all’italiana, ma per raccapezzarci in un mare magnum di inchieste su corruzione, mafia e ruberie va doverosamente citato, almeno come spartiacque intellettuale, lo scandalo Lockheed. È il 1976 e anche l’Italia più distratta apprende l’esistenza, politicamente letale, delle "comunicazioni giudiziarie". Lo fa all’indomani di alcune perquisizioni avvenute a Roma, a proposito, si legge, della tangente che la multinazionale americana ha pagato al partito del ministro della Difesa (la De) per far acquistare all’Aeronautica una flotta di C 130; i ministri Luigi Gui e Mario Tanassi (Psdi) finiscono in quello che, decenni dopo, sarà chiamato "circuito mediatico giudiziario". "Non si processa un partito a mezzo stampa, non basta una comunicazione giudiziaria per essere colpevoli", viene detto già all’epoca, ma un dato di fatto che non può venire smentito è che il potere legislativo non riesce ad affrontare seriamente la questione della pubblicità delle comunicazioni da parte della magistratura. In principio fu, nel 1930, dunque in piena era fascista, con il Codice Rocco, "l’avviso di procedimento": nasceva per dire all’imputato che era arrivato il momento di trovarsi un difensore, ma che l’istruttoria era già stata m larga parte svolta, anzi si andava praticamente a processo. Questo "avviso" restò nel dopoguerra, ma mutò quando gli avvocati cominciarono a venire ammessi ai primi interrogatori, e cambiò ancora, diventando non più avviso ma "comunicazione giudiziaria". Per tornare, nel 1989, anno dell’ultimo codice, quello in vigore attualmente, all’avviso, sì, ma "di garanzia". Garanzia o gogna, in Italia dal caso Lockheed in poi, si sono susseguite decine e decine di inchieste sui "colletti bianchi", dalla ricostruzione del terremoto agli appalti per gli ospedali, si parla di "carceri d’oro", un labirinto di reati sino a un quarto di secolo fa, quando a Milano scoppia "Tangentopoli": e da questo istante storico che le comunicazioni giudizi arie, mai lette come quello che anche erano, e cioè indizi di un "sistema" di corruzione, diventano incandescenti. Il colossale fascicolo milanese, che raccoglie decine di filoni d’inchieste, poggia le sue fondamenta, che reggeranno sino alla Cassazione, su una catena di montaggio di confessioni e di verità incrociate ai conti correnti. Perciò, ogni avviso di garanzia, esplodendo con un fragore inedito, provoca dimissioni a catena da incarichi pubblici. Oppure conferenze stampa accorate, come quella dei due ex sindaci, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, che al Palazzo delle Stelline rivendicano di aver amministrato bene. O, come all’indomani dell’arresto di Primo Greganti, faccendiere legato al Pci, l’imbarazzo palpabile del procuratore Gerardo D’Ambrosio, che alzando gli occhi al cielo ammetteva che sì, anche al segretario amministrativo del Partito comunista, Marcello Stefanini, era arrivato l’avviso di garanzia: del tutto simile a quelli già spediti al democristiano Severino Citaristi e al socialista Vincenzo Balzamo. Per comprendere il clima di quel periodo, bisogna ricordare che mentre Milano lavora sulle tangenti, a Palermo si colpisce Cosa Nostra, responsabile delle stragi del 1992: e, l’anno dopo, ecco gli avvisi di garanzia per l’inchiesta che porterà all’incriminazione per mafia nientemeno che di Giulio Andreotti. È uno dei più influenti politici, non si negherà una battuta: "In un certo senso, meglio così che non con la lupara". Se politica e procure della Repubblica, sinora, ricordano le rette parallele, quelle che "non s’incontrano mai", dipende anche da una ragione tranchant, avanzata dal magistrato Piercamillo Davigo: "Se a casa mia ho un ospite, che mi ruba le posate d’argento, non ho bisogno di una sentenza definitiva per non invitarlo più. Lo stesso dovrebbero fare la politica, ma anche la società civile. Non ha senso dire: "Aspettiamo le sentenze". Forse in questo nuovo solco, quello di una politica che rispetta la magistratura, ma non se ne sente sotto tiro, s’è messo recentemente, e a sorpresa, un outsider, il sindaco di Milano Beppe Sala: dopo aver appreso di essere sotto indagine per l’Expo, il suo fiore all’occhiello, si è autosospeso. Ha chiesto informazioni alla Procura tramite il suo avvocato Salvatore Scuto. Alla fine, ha detto ai milanesi: "Non ho mente da temere, torno al lavoro". S’è comportato, in fondo, come stabilirebbe il nuovo dettato del blog di Grillo: i grillini lombardi, però, l’hanno attaccato lo stesso. L’ultimo obiettivo di Orlando: basta intercettazioni a strascico di Errico Novi Il Dubbio, 3 gennaio 2017 Ad Andrea Orlando avrebbe fatto comodo avere il campo sgombro almeno dal conflitto con i magistrati. E invece quello che il ministro della Giustizia ha definito, in un’intervista a Repubblica, come "l’ultimo miglio" della riforma penale dovrà scontare anche il clima teso tra governo e Anm. Il mancato inserimento nel mille proroghe delle norme chieste dai giudici su pensioni e trasferimenti offrirà un’arma in più a quella minoranza Pd irriducibilmente contraria al compromesso sulla prescrizione. Eppure Orlando proverà in tutti i modi a far indossare l’elmetto alla nuova responsabile per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro: fino a pochi giorni fa presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, la neoministra sarà indispensabile nell’ultima battaglia a Palazzo Madama sul ddl che modifica anche intercettazioni, impugnazioni e molto altro. Al ritorno in Aula, i senatori si cimenteranno subito nella difficile decisione sull’insindacabilità delle dichiarazioni di Gabriele Albertini nei confronti del pm Alfredo Robledo. Si tratterà di un banco di prova sullo stato di tensione nella maggioranza. Qualora fosse superato senza traumi, si potrebbe mettere la testa sul ddl penale, ora che il guardasigilli ha un motivo in più per spingere sull’acceleratore: il fronte da lui aperto contro "l’odio via web" e, in generale, ogni forma di gogna mediatica. Nella travagliata riforma del processo ci sono anche norme che traducono in qualche modo l’esortazione rivolta da Orlando sempre nell’intervista a Repubblica: "Pm e giudici vigilino sui cortocircuiti mediatici o sulle strumentalizzazioni politiche". Le limature sugli "ascolti" apportate dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama prevedono in effetti una precisa responsabilizzazione dei pubblici ministeri rispetto alla trascrizione delle telefonate. Saranno loro a doversi accertare che gli addetti di polizia giudiziaria materialmente preposti a compilare i brogliacci evitino di riportare le conversazioni tra persone non oggetto d’indagine e che non forniscono elementi di prova. Una premura da adottare soprattutto laddove il materiale trascritto dovesse violare indebitamente la privacy di chi è estraneo al procedimento. È una traduzione delle circolari diramate da diversi procuratori capo. Ed è soprattutto una previsione dotata di qualche efficacia considerato che, come fa notare proprio un senatore ex pm come Felice Casson, "quegli inquirenti che dovessero venir meno alla responsabilità di vigilare sulle trascrizioni potrebbero essere oggetto di procedimento disciplinare". Dietro la posizione sorprendentemente severa del senatore dem nei confronti delle Procure, c’è in realtà una preoccupazione diffusa tra i magistrati sugli effetti sempre meno controllabili del cosiddetto processo mediatico. Se andasse in porto la riforma con dentro la delega sulle intercettazioni, dunque, Orlando darebbe un segnale sul tema a lui caro della gogna giudiziaria, realizzerebbe in fondo una convergenza con la stragrande maggioranza degli stessi pm e porterebbe a segno un buon compromesso comodo a molti. Alle toghe persino più che all’avvocatura, visto che le prime incasserebbero norme comunque più restrittive sulla prescrizione e otterrebbero il sospirato intervento sulle loro pensioni. Riuscisse a condurre in porto anche la riforma del processo civile, pure bloccata in coda a Palazzo Madama ma assai meno controversa, il guardasigilli farebbe un insperato en plein. E cogliebbe dimostrato, oltretutto, che a rallentare il treno della giustizia erano anche le sottili ma decisive divergenze tra lui e l’ex inquilino di Palazzo Chigi Matteo Renzi. Deterrenza zero: il fallimento del reato di omicidio stradale di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 3 gennaio 2017 Dimostrato ancora una volta un assioma del diritto: inasprire le pene non fa diminuire i delitti. Mai l’aumento delle pene ha fatto diminuire i reati. Non sfugge a questa regola la legge sull’omicidio stradale, nuovo reato istituito dal Parlamento un anno fa in seguito a un’ondata travolgente di opinione pubblica che voleva punire chi aveva ucciso dopo essersi messo al volante ubriaco o alterato da sostanze psicotrope. Risultato? Un disastro. Prima di tutto perché l’effetto deterrenza è stato un nulla ( diminuzione degli incidenti di circa il 3% e aumento in estate) se paragonato a quel 20% prodotto dalla legge Lunardi sulla patente a punti. Il carcere dunque spaventa meno di qualche ritocco alla permesso di guida? Evidentemente no, ma nessuno che non sia un terrorista sale in macchina pensando di andare a uccidere. Si pensa sempre che comunque, anche se si va a forte velocità, se si fanno smargiassate, se si è alterati, comunque ce la si cava sempre. Soprattutto i giovani, che spesso si sentono onnipotenti e non pensano alle conseguenze dei loro comportamenti. Ma nessuno vuole uccidere, ovviamente. Infatti il reato ( la norma ha modificato tre codici, quello della strada, oltre al penale e al codice di procedura) continua a chiamarsi "colposo". Il secondo motivo del fallimento della legge entrata in vigore il 25 marzo 2016 - come risulta da una ricerca ricca di dati e fonti della Repubblica - è l’effetto prodotto, più che sui "pirati della strada", sui cittadini che nello stress della normalità quotidiana delle autostrade o delle città soffocate dal traffico, incappano in piccoli incidenti. Che cosa succede infatti se si tampona un’auto il cui guidatore subisce il classico colpo di frusta e ottiene dal medico ( magari per gonfiare un po’ il danno a fini assicurativi) una prognosi di 40 giorni? Succede che nei confronti del malcapitato tamponatore si apre un bel fascicolo penale, proprio come se il suo comportamento fosse assimilabile a quello dell’ubriaco che fa strage di cittadini piombando loro addosso alla fermata dell’autobus. Non dimentichiamo poi che viene anche tolta la patente per almeno cinque anni, al termine dei quali occorre rifare l’esame. Oltre a tutto, visto che i dati Istat piuttosto che di Polstrada o dei vigili urbani concordano sul fatto che quattro incidenti su cinque sono dovuti alla distrazione, e in particolare all’uso di smartphone, assurdamente il Parlamento ha eliminato l’aggravante per questo tipo di comportamento. Che invece è al centro della bella campagna di prevenzione realizzata dalla società Tbwa spa "Sulla buona strada", voluta dal ministero dei Trasporti e che ci accompagna quotidianamente in ogni trasmissione tv. Molto più utile di una legge sbagliata. Che ha creato un mostro giuridico contro il quale non si sono sentite le proteste di qualche "lucerna juris" né accesi scontri tra maggioranza e opposizione in Parlamento. Pochi hanno sottolineato che le norme adeguate c’erano già, anche se forse non erano applicate nel modo più punitivo, con il massimo della pena prevista dal codice, come avrebbero voluto i parenti delle vittime. Il che è comprensibile dal punto di vista emozionale, ma legiferare è altro. Ho sentito in una trasmissione radiofonica il presidente di una delle tante associazioni che hanno fortemente voluto questa legge dire che la cosa più importante è che la norma eserciti una pressione psicologica, una sorta di moral suasion, sui magistrati, per far loro capire la gravità di certi incidenti stradali. Il che è esattamente il contrario della laicità e della freddezza che sarebbero necessarie, sempre, nell’applicazione delle leggi. O qualcuno pensa che si faccia giustizia applicando sempre il massimo della pena? O trasformando l’omicidio colposo in doloso? C’è sempre una sorta di ricatto sotterraneo ( se fosse capitato a te non diresti così) nelle parole dei parenti delle vittime, di qualunque vittima. E siamo dalla loro parte. Ma non occorrono nuove leggi, la fattispecie penale esistente comprende già situazioni disparate tra loro. Mi piace sempre ricordare quel che diceva a noi studenti di Giurisprudenza il professor Giandomenico Pisapia, docente di Procedura penale: se in Inghilterra nevica si prende lo spazzaneve, in Italia si fa una legge speciale. Abbiamo rischiato di avere una normativa particolare per i sassi lanciati dai ponti in autostrada, ma non siamo stati risparmiati da quella sugli incidenti stradali. Che oltre a tutto, a dieci mesi dalla sua entrata in vigore, ha creato più danni che soluzioni. Legittimo impedimento: anche l’abbreviato si rinvia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 2 gennaio 2017 n. 8. Nel giudizio abbreviato di appello, soggetto al rito camerale, il legittimo impedimento del difensore impone il rinvio del procedimento. Se il difensore, dunque, non compare senza spiegare le ragioni dell’"assenza", il procedimento può essere celebrato senza che la mancata comparizione faccia scattare l’obbligo di nominare un altro difensore, come previsto dall’articolo 97 comma 4 del codice di rito. Ma se, come nel caso esaminato, il difensore "diserta" l’udienza documentando, tempestivamente, le ragioni della sua assenza, chiedendo un differimento, il giudice è tenuto a pronunciarsi sull’esistenza o meno del legittimo impedimento e ad assumere i provvedimenti di conseguenza. La Corte di cassazione, con la sentenza n.8/2017, accoglie il ricorso e annulla la sentenza di condanna per il reato di rapina, pronunciata malgrado il difensore di fiducia avesse in tempo utile, dimostrato di essere impegnato in ben altri quattro procedimenti penali, tutti davanti alla stessa autorità giudiziaria. Inoltre il legale aveva chiarito che si trovava nell’impossibilità di nominare dei sostituti processuali perché nello studio non c’erano collaboratori abilitati a presenziare innanzi alla Corte d’appello. La Corte territoriale però non aveva accolto la richiesta di differimento affermando che il rito camerale, per la sua forma improntata a criteri di speditezza e di concentrazione non prevede la partecipazione necessaria del pubblico ministero e del difensore. L’eventuale impedimento del legale quindi, non impone il rinvio a meno che non sia necessario rinnovare il dibattimento. I giudici di seconda istanza hanno dunque abbracciato a una tesi che, benché maggioritaria è già stata messa in discussione dalla Cassazione (sentenza 35576) che la contesta ancora. I giudici della Seconda sezione penale, precisano che al procedimento camerale di appello va applicato lo stesso criterio dell’udienza preliminare, per la quale l’articolo 420, comma 1 del codice di procedura penale, prevede, malgrado la natura camerale, la partecipazione necessaria del difensore dell’imputato. Una conclusione, non ostacolata dal disposto dell’articolo 127, comma 3 del Codice di rito richiamato dall’articolo 599, comma 1, secondo il quale i difensori sono sentiti solo se compaiono. La norma si limita, infatti, a lasciare al legale la scelta della strategia processuale. L’interesse all’impugnazione proposta dal pubblico ministero Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2017 Impugnazioni - Forma - Requisiti - Motivi - In genere - Appello del Pm contro la sentenza di assoluzione - Assenza di specificità - Conseguenze - Inammissibilità dell’impugnazione - Fattispecie. È inammissibile l’appello che si limiti alla mera riproposizione dei temi già valutati insufficienti o inidonei dal giudice di primo grado senza specifica confutazione del fondamento logico e fattuale degli argomenti svolti in sentenza, trattandosi di impugnazione inidonea a orientare il giudice di secondo grado verso la decisione di riforma. (In applicazione del principio, la Suprema corte ha annullato senza rinvio la sentenza di appello che aveva sovvertito il giudizio assolutorio di primo grado, sulla base dell’impugnazione del Pm, che invitava genericamente a contrapporre alla prima decisione una valutazione alternativa, plausibile, ma non sorretta inequivocabilmente da maggiore attendibilità). • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 giugno 2016 n. 25711. Impugnazioni - Interesse a impugnare - Concretezza e persistenza dell’interesse sino al momento della decisione - Necessità - Conseguenze in tema di impugnazione del Pm. L’interesse richiesto dall’art. 568, comma quarto, cod. proc. pen. come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere concreto, e cioè mirare a rimuovere l’effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato e deve, pertanto, persistere sino al momento della decisione. (Fattispecie in cui l’impugnazione del Pm - proposta avverso la sentenza di condanna di primo grado ed erroneamente dichiarata tardiva dal giudice di appello - era preordinata a ottenere una diversa qualificazione giuridica dei fatti; la Suprema corte ha ritenuto inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso del Pm, in quanto il giudice del rinvio, pur accogliendo le censure del Pm in ordine alla diversa qualificazione giuridica dei fatti, avrebbe, comunque, dovuto dichiarare estinti i reati per prescrizione, vanificando così la sentenza di condanna nei confronti dell’imputato). • Corte cassazione, sezione V penale, sentenza 15 febbraio 2016 n. 6166. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancanza della motivazione - Sentenza di assoluzione totalmente priva di motivazione - Ricorso "per saltum" - Interesse del Pm all’impugnazione - Sussistenza - Ragioni. È ammissibile il ricorso "per saltum" del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria graficamente priva di motivazione, atteso che, pur nell’obiettiva impossibilità di articolare specifici motivi di doglianza, è configurabile un concreto interesse della parte pubblica a rimuovere un provvedimento decisorio idoneo a passare in giudicato - qual è il dispositivo letto in udienza - che ha negato la pretesa punitiva azionata. • Corte cassazione, sezione V penale, sentenza 15 maggio 2015 n. 20344. Impugnazioni - Interesse a impugnare - Ordinanza del tribunale del riesame - Derubricazione del fatto - Interesse del Pm a ricorrere - Condizioni. Nel procedimento incidentale cautelare, sussiste l’interesse attuale del Pm a impugnare il provvedimento con il quale venga diversamente qualificato il reato addebitato (nella specie, derubricato da peculato a truffa aggravata), quando da tale decisione consegua la revoca della misura cautelare in corso o la riduzione dei termini di durata massima della medesima misura. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 marzo 2014 n. 10309. Impugnazioni - Interesse a impugnare - Ordinanza del tribunale del riesame - Derubricazione del reato - Ricorso per cassazione del Pm - Interesse - Sussistenza - Fattispecie. Sussiste l’interesse del Pm a ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame che abbia diversamente qualificato il reato oggetto della contestazione cautelare (nel caso di specie, derubricato da concussione a violenza privata), quando da tale decisione consegua la revoca, ovvero l’abbreviazione dei termini di durata massima della misura cautelare applicata. • Corte cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 dicembre 2014 n. 48764. Diario di un uomo ombra semilibero dopo un quarto di secolo di Carmelo Musumeci carmelomusumeci.com, 3 gennaio 2017 Ormai è un mese e mezzo che sono in regime di semilibertà: esco al mattino e rientro alla sera. Ho pensato di diffondere parzialmente questo diario che ho scritto per far conoscere le emozioni di chi esce dal carcere dopo un quarto di secolo. Vi auguro una buona lettura e un sorriso, questa volta fuori dalle sbarre… almeno fino a questa sera! Mi trovo nel "reparto semiliberi" del carcere di Perugia in attesa che mi preparino il programma di trattamento. Poi inizierò ad uscire al mattino e rientrerò in carcere alla sera. Sono stato assegnato in cella con un compagno che è in regime di articolo 21 O.P. (lavoro esterno). La stanza è confortevole. Ci sono le sbarre, ma non assomiglia proprio alle celle dove sono stato rinchiuso finora, per un quarto di secolo. La struttura è fuori dal muro di cinta e dalla finestra vedo in lontananza passare le macchine, scorgo gli alberi e i prati. I miei occhi guardano in tutte le direzioni e non mi stanco mai di guardare il nuovo mondo che mi circonda. Ce l’ho fatta. Sono libero, almeno fino a questa sera. Fuori dal carcere alzo la testa. Un vento freddo mi accarezza il viso. Il cuore mi batte all’impazzata e la testa mi scoppia di felicità. Assaporo l’odore della libertà, almeno fino a questa sera. È sera. Sono di nuovo dentro, ma il mio cuore è rimasto fuori. Spero di ritrovarlo domani mattina quando uscirò per una nuova giornata. Sto imparando di nuovo a vivere. Sono riuscito a entrare in un bar, a ordinare un caffè e a pagare, tutto da solo. Dentro il locale mi sembrava di avere tutti gli occhi addosso, specialmente quando giravo il cucchiaino nella tazzina, forse perché l’ho girato troppo a lungo. Ma mi piaceva il rumore che faceva. È incredibile come sia cambiato il mondo che ho lasciato 26 anni fa. Le persone camminano parlando o muovendo il dito a testa bassa concentrate sui loro telefonini. Per fortuna i bambini non sono cambiati e i loro sorrisi mi ricordano che sono tornato nel mondo dei vivi. Non mi sembra ancora vero che da alcuni giorni posso uscire al mattino e rientrare alla sera; mi sto dando dello scemo che per un quarto di secolo ho vissuto convinto che nella vita non avrei avuto più speranza. Quando esco dal carcere è ancora buio ed è bellissimo vedere nascere la prima luce del giorno senza sbarre e muri di cinta intorno. Mi sento in paradiso e, alla sera, quando con il buio rientro in carcere, l’inferno mi fa meno paura. Oggi mi sono fatto una lunga passeggiata tra gli alberi. È bellissimo camminare senza fare avanti e indietro dopo pochi passi e non trovare nessun muro davanti o dietro di me. Gli spazi aperti mi fanno girare la testa, forse perché sono stato circondato da quattro mura per troppi anni. E il mondo mi sembra troppo grande per i miei occhi e probabilmente anche per il mio cuore. Al mattino quando esco dal carcere, e prima di rientrare alla sera, parlo o mando dei messaggini ai miei nipotini. Penso con tristezza ai miei compagni in carcere che hanno una sola telefonata a settimana della durata di dieci minuti. Non capirò mai perché il carcere, oltre alla libertà, ti vuole togliere anche l’amore delle persone a cui vuoi bene. Ho deciso di continuare a scrivere questo diario anche da semilibero perché voglio che i "buoni" continuino a sapere cosa pensano, cosa sognano e come sopravvivono i prigionieri. E spero che alcuni di loro mettano in discussione le loro certezze. Oggi pensavo a quanti reati si evirerebbero dando delle opportunità di riscatto ai prigionieri, ma purtroppo rieducare i detenuti non interessa quasi a nessuno. Sì, è vero, qualcuno forse commetterebbe ancora altro male, ma sono sicuro che in molti diventerebbero persone migliori. Oggi riflettevo che, dopo un quarto di secolo scontato in carcere, conosco tutto delle nostre Patrie Galere, ma ben poco del mondo di fuori. Giorno dopo giorno mi sto accorgendo che non è facile ritornare a vivere, mi sento come un profugo in un paese straniero, perché mi mandano da un ufficio all’altro solo per avere una carta d’identità o una semplice tessera sanitaria. Le giornate fuori però volano, mentre in carcere invece non passavano mai. In un batter d’occhio, arriva sempre l’ora che devo rientrare in carcere. Per fortuna alla sera sono così stanco di emozioni e di felicità che mi addormento subito, con il sorriso sulle labbra. Mi sembra di vivere due vite diverse, una di giorno e l’altra di notte. E ogni mattina, quando esco dal carcere, sento il profumo dolce della libertà, mentre alla sera sento l’odore aspro dell’Assassino dei Sogni. Oggi, mentre osservavo il verde degli alberi e l’azzurro del cielo, pensavo che è stata dura in tutti questi anni rimanere vivi con una pena che non finisce mai. Eppure ce l’ho fatta. Sì, è vero, ho dovuto pagare un caro prezzo, ma adesso mi sento l’uomo più felice dell’universo. Il mio "Diavolo Custode" mi rimprovera spesso che quando sono a casa, ma anche fuori, faccio continuamente tre passi avanti e tre indietro. E mi urla che non sono più chiuso nella mia cella. Ha ragione, ma non è facile dimenticare le vecchie abitudini. Forse il mio cuore è rimasto ancora prigioniero dell’Assassino dei Sogni, ma sono sicuro che presto riuscirò a liberare anche lui. Oggi, per la prima volta, sono uscito dal carcere senza nessuno che mi attendesse fuori. Era ancora buio. C’era un freddo polare. Nessuna faccia amica. Per un attimo ho avuto un po’ di paura. Poi mi sono fatto coraggio. Sono andato alla fermata del pullman. Prima delle sette ho preso la corriera che mi ha portato alla stazione di Perugia. Ho fatto fatica a mettere nel verso giusto il biglietto della corsa dentro la macchinetta. E stavo andando nel panico perché mi sembrava che tutti osservassero me. Alla fine per fortuna ce l’ho fatta. Ho tirato un sospiro di sollievo. Poi ho preso l’altro pullman per Foligno. E alla fine sono arrivato alla Casa Famiglia di Bevagna della Comunità Papa Giovanni XXIII, orgoglioso di avere fatto il primo viaggio da solo dopo 26 anni di carcere. Nella Casa Famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII dove faccio volontariato ci sono alcuni bambini disabili e quando mi occupo di loro penso che questo sia il modo migliore per continuare a scontare la pena, per rimediare un po’ al male fatto, facendo del bene. I sorrisi di questi bambini fanno emergere in me il senso di colpa e mi fanno pensare a quanto nella mia vita sono stato cattivo. Oggi ho fatto una passeggiata a Bevagna con Paolo, un ragazzo non vedente di 13 anni. L’ho preso per mano, come facevo una vita fa con i miei figli, e siamo andati in giro per il piccolo paese. La cosa incredibile è che ad un certo punto io mi sono perso ed è stato lui che mi ha indicato la strada per ritornare alla macchina. Paolo è un ragazzo incredibile, di una intelligenza straordinaria e anche se non ha la vista, ha tutti gli altri sensi più sviluppati dei miei. E sto pensando che forse dopo tutti questi anni trascorsi in carcere sono più cieco io di lui. Calabria: Rita Bernardini in visita per tre giorni alle carceri reggine di Danilo Loria strettoweb.com, 3 gennaio 2017 Il 2017 si apre con la visita degli istituti penitenziari reggini da parte di una delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale e dell’Osservatorio carcere della Camera penale reggina. L’iniziativa si inserisce nella campagna nazionale radicale di visita alle 29 carceri italiane durante le festività natalizie promossa per ringraziare i 20.000 detenuti che hanno sostenuto, con due giorni di digiuno, la Marcia del 6 novembre per l’amnistia. La prima visita avrà inizio alla casa circondariale "G. Panzera" di Reggio Calabria il 3 gennaio, alle ore 11.00; quindi al nuovo istituto penitenziario reggino di Arghillà il 4 gennaio, ore 9.00; per concludersi alla casa circondariale di Palmi il 5 gennaio, sempre alle ore 9.00. La delegazione sarà guidata dall’on. Rita Bernardini coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale e vedrà la partecipazione di Gianpaolo Catanzariti (avvocato, referente territoriale Oss. Carcere Unione Camere Penali Italiane), Ilario Ammendolia (editorialista, già Sindaco di Caulonia), Santo Cambareri (psicologo) e degli avvocati Katia Siclari, Emilia Vera Giurato e Mario Siviglia. La presenza di alcuni avvocati, appartenenti alla Camera Penale di Reggio Calabria, assieme ai radicali segnala la perfetta sinergia che su scala nazionale accomuna gli esponenti ed i militanti del Partito Radicale Nonviolento ed i penalisti italiani sul tema "caldo" delle carceri e sulle condizioni della Giustizia italiana. Ancora una volta l’iniziativa nonviolenta, in linea con la mozione approvata durante il 40° Congresso del Partito Radicale tenutosi ai primi di settembre dello scorso anno all’interno del carcere di Rebibbia, si pone l’obiettivo di proseguire "la battaglia storica di Marco Pannella per l’amnistia e l’indulto quale riforma obbligata per l’immediato rientro dello Stato nella legalità costituzionale italiana ed europea, premessa indispensabile per una Giustizia giusta improntata al diritto penale minimo che sia resa in tempi equi e ragionevoli, da giudici terzi ed imparziali, equidistanti tra accusa e difesa". Le visite consentiranno inoltre di verificare e monitorare le condizioni strutturali ed operative degli istituti penitenziari reggini, monitoraggio tanto più necessario in una Regione come la Calabria a tutt’oggi priva dell’istituto del Garante Regionale per i detenuti e ciò nonostante il relativo progetto di legge sia stato presentato da più di un anno e mezzo senza approvazione. Crotone: i Radicali "carcere modello, ma penalizzato dalle carenze di organico" ilcrotonese.it, 3 gennaio 2017 Un carcere modello con tanti servizi che, però non possono essere utilizzati per una cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria. Il problema dell’organico di polizia penitenziaria è quello che penalizza il carcere di Crotone secondo la delegazione del Partito Radicale autorizzata dal Dap composta da Giuseppe Candido e Rocco Ruffa, che - con la presenza anche del senatore Francesco Molinari ed Emilio Quintieri (collaboratore di Molinari, lui in visita ispettiva da parlamentare) - hanno visitato il la casa circondariale di Crotone a Capodanno. La delegazione ha visitato la casa circondariale in località Passovecchio che ha riaperto a giugno 2015 dopo la completa ristrutturazione e rimodernata. La delegazione - accolta dai vice comandanti Tisci e Caligiuri - ha raccolto un’impressione positiva come si legge nel report pubblicato sul sito Almcalabria.org: dall’area verde per i colloqui "molto ben curata con giochi per i bimbi (nuovi e utilizzati)" al campo sportivo posizionato accanto l’area verde, alla sala della socialità. Come si ascolta anche nell’intervista a Radio Radicale di Giuseppe Candido (link) quello di Crotone è definito "un carcere modello". Vengono elencati delle dotazioni - come la saletta della socialità "con grande tv a schermo piatto ed una palestra meravigliosa" ma anche evidenziato che "tutto questo però non può essere usato per una cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria". detenuti2"La capienza del carcere - è scritto nel diario della visita pubblicato sul sito www.almcalabria.org - è di 120 posti e non ci sono celle inagibili. Ottantatré le persone detenute - tutte comuni del circuito di media sicurezza - al momento della visita, di cui 16 in attesa di giudizio, 33 sono stranieri, sei tossicodipendenti, di cui due trattati con metadone. Otto persone detenute sono affette da epatite C e venti detenuti hanno problemi di tipo psichiatrico. Sette le persone detenute di altre regioni e 32 detenuti sono senza fissa dimora e 30 non effettuano colloqui regolari con i parenti". I detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione sono 11 e due di questi son pagati con la cassa delle ammende. La sezione dei lavoranti ha celle in cui stavano ospitati, al momento della visita, due detenuti da circa 13 mq (3,6×3,6ml), con lavabo per i piatti e stanzetta bagno separata con doccia e lavandino. L’acqua calda - a causa dei ridotti fondi - viene aperta due ore la mattina e due il pomeriggio. Solo un detenuto semilibero lavora alle dipendenze di una cooperativa agricola esterna di Isola Capo Rizzuto. Tra le cose che non vanno i Radicali evidenziano la mancanza di un medico H24. "A seguito di un malore, raccontava il vice comandante Caligiuri, le guardie hanno dovuto accompagnare all’ospedale loro un detenuto, con la loro auto". E si arriva al punto degli agenti di polizia penitenziaria: "Gli agenti in pianta organica sono 33 ma assegnati, effettivamente in servizio sono 49 (di cui 7 impegnati nel nucleo traduzioni e P.). Il vice comandante Tisci ci fa notare che tale pianta organica è però riferita all’iniziale previsione di apertura come istituto a "Vigilanza Dinamica" e "a regime aperto", cosa che poi non si è verificata quando, a giungo 2015, la struttura ha riaperto come casa circondariale. Nelle sezioni di detenzione, sia al primo piano sia al secondo, le celle son più grandi (5,1×3,6ml = 18,36 mq oltre al bagno) ma ci stanno in tre o quattro. La cosa paradossale, ci spiegava il vice comandante, che in una struttura così nuova manchi - da quando ha riaperto nel giugno 2015 - l’impianto anti incendio". Per il lavoro in carcere - è scritto nel diario - ci sono "soltanto 11 posti a rotazione bimestrale, e due di questi vengono pagati con la cassa delle ammende". Tra le attività possibili: il laboratorio musicale dove si tiene il corso di chitarra e dove c’è persino una batteria; una sala di pittura. Sono attivi i corsi scolastici di alfabetizzazione e di scuola secondaria di II grado per il conseguimento del diploma del tecnico alberghiero e del agrario-ambientale. "I detenuti che non effettuano colloqui frequenti possono usare la lavanderia dove, oltre alle macchine per il lavaggio delle lenzuola e delle coperte c’è una lavatrice per gli indumenti dei detenuti". La cucina, "dove ci lavorano in tre, è molto ben tenuta, pulita, ed organizzata per rispettar la dieta anche delle persone detenute mussulmane". Per quanto riguarda la palestra "dove ci sono 5 macchine per il body building, un tavolo da ping-pong, canestri da basket" ed il campo sportivo, Caruso ha rilevato a Radio Radicale che non è possibile usarla perché manca un istruttore "che potrebbe e dovrebbe esser mandato da Coni". "Sempre per mancanza di personale - si legge invece nel report - i laboratori di falegnameria e di fabbro dove si facevano bei lavori e i detenuti potevano imparare una arte da spender dopo fuori, sono pure questi inutilizzati dal 2011 per mancanza di personale. Stessa sorte tocca alle serre dove pure c’è una officina che però è quasi sempre inutilizzata per mancanza di personale e di fondi per pagare i detenuti che vi lavorassero". Roma: visite in carcere a Cuffaro, 28 "finti" assistenti di deputati rischiano il processo antimafiaduemila.com, 3 gennaio 2017 Era il 22 gennaio 2011 quando l’ex Governatore della Sicilia, Totò Cuffaro finì rinchiuso a Rebibbia dopo che la Cassazione rese definitiva la condanna per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Da quel momento, in carcere, iniziarono diverse visite da parte di sottosegretari, ex ministri, parlamentari nazionali, europei e regionali siciliani. Ognuno, come consente la legge, si portava appresso un collaboratore. Solo che non si trattava di segretari o assistenti, ma di amici, in gran parte anche loro politici, dell’ex presidente della Regione Sicilia. In molti si sarebbero spacciati per collaboratori degli onorevoli in modo da evitare l’obbligo di presentare la richiesta di colloquio necessaria per incontrare un detenuto. I politici, infatti, godono di particolari diritti, tra cui quello di visitare i carcerati in qualsiasi momento evitando le lunghe file. Per questo motivo la Procura di Roma aveva avviato un’indagine per falso. All’inizio gli indagati erano 41, nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Michele Prestipino ed il sostituto Barbara Zuin hanno chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di 28 persone, ovvero l’ex ministro Calogero Mannino, la senatrice Anna Bonfrisco, l’ex sottosegretario Antonio Buonfiglio, il giornalista Renato Farina, l’avvocato dello Stato Filippo Maria Bucalo, gli ex deputati regionali Nunzio Cappadona, Giuseppe Scalia, Sebastiano Sanzarello e Pippo Gianni, l’ex assessore Gian Maria Sparma, gli ex senatori Vladimiro Crisafulli, Giuseppe Firrarello, Giuseppe Ruvolo, Cosimo Izzo e Maria Giuseppa Castiglione, Salvatore Cuffaro (cugino omonimo dell’ex presidente), Antonina Saitta (dipendente del Comune di Monreale), Attilio Tripodi (dirigente del ministero dell’Agricoltura), Giuseppe Castania (dirigente medico del Cannizzaro di Catania), Giuseppe Di Carlo (ex direttore della Asl di Agrigento), Davide Durante (ex presidente di Confindustria Trapani), Cataldo Salerno (ex presidente della Kore di Enna), Antonio Marino (collaboratore di studio dell’avvocatessa Grazia Volo), Stefano Ciccardini (il marito di Anna Bonfrisco), Francesco Di Chiara, Alessandro Di Paolo, Gaetano Mancuso e Salvatore Rinaldi. Il giudice Livio Sabatini ha già fissato l’udienza preliminare che si terrà il prossimo 14 marzo. Per altri 13 indagati, invece, si profila la richiesta di archiviazione. Potenza: l’On. Speranza (Pd) in visita alla Casa circondariale oltrefreepress.com, 3 gennaio 2017 Roberto Speranza, leader della sinistra Pd e candidato alla segreteria nazionale del Pd, ha visitato la Casa Circondariale di Potenza. Questo il testo integrale dell’iniziativa postato dallo stesso Speranza sulla pagina Facebook: "Articolo 27 della Costituzione: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Inizio il nuovo anno nella mia città, in uno dei luoghi in cui è più forte il bisogno di umanità: il carcere. Non è la mia prima visita, ma ogni volta, quando esco, ho un incredibile senso di vuoto dentro. Ho negli occhi i volti di alcuni detenuti. Uno di loro mi parla del dolore legato alla lontananza dalla sua famiglia e dalle persone care. Un altro mi prende la mano e mi racconta la sua storia, il suo volto si illumina ricordandomi le parole di Papa Francesco su indulto ed amnistia. Molti di loro sono in attesa di giudizio, non hanno ancora avuto una condanna definitiva. Certo, chi ha sbagliato deve pagare e non si può non pensare a chi ha subito il danno più alto dei loro errori, ma ho sempre pensato che la carcerazione preventiva vada usata solo in casi eccezionali e che si debba ricorrere di più a misure cautelari alternative. Questo, purtroppo, in Italia non sempre avviene. In carcere arriva anche Arisa. È una bella sorpresa per tutti. Il palco di X factor è lontano anni luce, eppure le sue canzoni sembrano scritte proprio per queste donne e questi uomini: "Stringo i pugni e rido ancora, che la vita è una sola". Arisa è lucana ed ha più o meno la mia età, è stato bello scoprire la sua spontaneità vedendola sorridere e scherzare con tutti. Esco pensando alla libertà, una parola potente ma abusata, di cui spesso non capiamo il vero significato. Quando visiti un carcere lo capisci meglio. Esco pensando ai morti di Istanbul ed alla scia infinita di dolore di un 2016 che sembra già proiettare le sue ombre sul 2017. Prima di tornare a casa, gli auguri di buon anno al parroco che mi abbraccia e mi dice "vai avanti e sii forte". Di forza ne servirà tanta nei prossimi mesi, a me e a tutti noi. Pesaro: ieri il primo tentativo di suicidio in carcere del 2017 polpen.it, 3 gennaio 2017 È stato probabilmente il primo tentativo di suicidio in carcere del 2017 ed ha avuto come teatro la struttura penitenziaria di Pesaro. Ieri un detenuto marocchino di 33 anni, intorno alle 22, ha tentato di togliersi la vita cercando di impiccarsi. S.A. è noto alla Polizia Penitenziaria per essere poco incline al rispetto di regole e regolamenti penitenziari, tanto che è stato trasferito a Pesaro dopo aver causato danni a oggetti dell’Amministrazione Penitenziaria nel carcere di Piacenza. Il tempestivo intervento del Personale di Polizia Penitenziaria ha scongiurato però il tentativo di suicidio, salvando così il detenuto da morte certa. Cosenza: avviato corso di scrittura creativa nel carcere di Paola cosenzapage.it, 3 gennaio 2017 Il valore terapeutico delle parole, la scrittura come esercizio, scoperta di sé, di un orizzonte nuovo capace di liberare energie. Sono sedici i detenuti della sezione attenuata del carcere di Paola in provincia di Cosenza, allievi del corso di scrittura creativa promosso dall’associazione LiberaMente nell’ambito del progetto "Liberi di leggere" finanziato dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Italiani e stranieri, giovani e adulti impegnati nella redazione di racconti. Lavori che saranno pubblicati in un libro al termine del percorso didattico. Le lezioni tenute dalla giornalista e scrittrice Rosalba Baldino, la quale sottolinea "L’Impegno e costanza degli allievi nel seguire le lezioni". "C’è curiosità e - aggiunge - voglia di far conoscere fuori, il mondo che hanno dentro". "Arrivano da realtà differenti, appartengono a generazioni diverse, alcuni hanno difficoltà con l’italiano." "la narrazione - conclude la giornalista- diventa il collante per esperienze lontane e per mondi impressi nella mente che attraverso l’inchiostro diventano visibili sul foglio bianco". Il progetto ricorda il presidente di LiberaMente Francesco Cosentini prevede la gestione di una biblioteca interna al carcere e la realizzazione di reading e incontri con l’autore" " Coinvolti nell’iniziativa le case circondariali di Paola e Cosenza, dove il corso di scrittura creativa sarà avviato prossimamente" A Paola preziosa la collaborazione dei volontari del Centro Pier Giorgio Frassati : Mariella Fornario, Daniela Pizzini e Ada Bonelli. L’iniziativa voluta dal direttore della casa circondariale dott. Caterina Arrotta ha ottenuto il riconoscimento del premio internazionale "Antonio Proviero". "Nel progetto - conclude il presidente Cosentini- saranno coinvolti i cittadini tramite la possibilità di lasciare un libro sospeso in libreria, destinandolo alla biblioteca del carcere". Attualmente, secondo i dati presenti sul sito del Ministero della Giustizia, i detenuti a Cosenza sono 216 e a Paola 189. In tutta la Calabria 2388. Bollate (Mi): a cena dietro le sbarre. Silvia Polleri: vi spiego il successo del mio ristorante di Cinzia Sasso La Repubblica, 3 gennaio 2017 Col freddo che fa, il piatto giusto eccolo sotto le zuppe: marubini in brodo di lambrusco. A seguire: sella di maiale con verza stufata e per chiudere tiramisù con salsa allo zafferano. Davide, 36 anni, lo chef che somiglia a Bruce Willis, lo spiega con grande orgoglio. Non serve essere esperti di alta cucina per capire che questo non è il menù di un ristorante ordinario. Nessuna concessione alla banalità. Né nei piatti né nella cantina. L’atmosfera è elegante, essenziale, niente affatto leccata. Pareti bianche, tende bianche, tavoli di legno chiaro, sedie bianche, lunghe tovaglie bianche, tre bicchieri col calice davanti a ogni coperto. Forse, la cosa che colpisce di più sono i manifesti alle pareti: il Sylvester Stallone di in "Fuga per la vittoria"; Clint Eastwood di "Fuga da Alcatraz"; Tom Hanks ne "Il miglio verde". Diciamo che quando passi la soglia ti sembra di entrare in un locale qualunque. Lindo, silenzioso, spazioso. La sorpresa è arrivata prima. Via Cascina Belgioioso 120, Bollate, cintura metropolitana di Milano, proprio accanto a quello che era l’ingresso Vip per Expo. L’edificio è un parallelepipedo di cemento bianco. Le finestre sono molto piccole, la rete di recinzione molto alta. Oggi nel grande parcheggio arriva uno scuolabus e tutti i ragazzi si mettono in fila. La sala d’attesa spesso è molto affollata: bambini intabarrati nei passeggini, donne che sembrano stanche, vecchi che si capisce che qui dentro hanno un figlio. Qui dentro è un carcere. E qui dentro, primo in Italia (ora c’è anche Liberamensa alle Vallette a Torino), ma non ce ne sono altri in Europa e nemmeno nel mondo, c’è un ristorante. Silvia Polleri, la signora che ha avuto l’idea, racconta che non è stato troppo difficile. "La cosa più complicata - dice - sembrava trovare il nome da dargli. Abbiamo chiesto a copy, creativi, pubblicitari. Poi ho avuto una folgorazione, le cose giuste sono quelle più ovvie. Così il ristorante che sta dentro il carcere lo abbiamo chiamato InGalera". E perfino il New York Times, che ha mandato qui un inviato a raccontarlo, ha concluso che, almeno una volta, in galera vale proprio la pena di entrare. A mezzogiorno c’è il pranzo veloce, piatto unico a 12 euro, tovagliette di carta che però sono oggetti di culto perché ognuna è la foto di una diversa prigione. Alcatraz, quello in pietra di Dorchester, lo Spielberg di Brno. E i nostri: L’Asinara, Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore. Per mangiare la sera bisogna prenotarsi con settimane di anticipo e si ordina à la charte. Racconta Polleri: "Ogni giorno cento persone entrano in carcere per venire a mangiare, ed è la prima volta che invitiamo il mondo a venire dentro. Di solito il carcere chiede qualcosa alla società. Noi, alla società, vogliamo dare qualcosa. E poi quest’idea di mostrare che i detenuti non hanno tre teste e che sono in grado di produrre il meglio è educativa per tutti. Per loro, che imparano la disciplina e la cultura del buono e del bello, e per noi". Da Kyoto, un professore universitario di criminologia, è venuto a studiare il modello. A Cardiff esiste qualcosa di simile, ma non è un’impresa, è una charity. Precisa Polleri: "Qui da noi invece i dipendenti sono detenuti e sono tutti pagati". Trent’anni dopo la Gozzini, la prima ad aprire in qualche modo le porte del carcere e a trasformare in legge la filosofia della Costituzione, cioè che la detenzione deve mirare al recupero, InGalera gioca una scommessa esaltante. Perché chi è in carcere, prima o poi esce. E quello che conterà, a quel punto, non è perché c’era entrato, ma com’è diventato. Se è ancora arrabbiato, se fuori trova il deserto, è più facile che torni a commettere reati. Le statistiche sulle recidiva non lasciano dubbi. L’asticella del 70 per cento crolla al 28 se i detenuti non hanno spezzato - o qui l’hanno trovato - un filo che li lega alla vita. E il lavoro è il filo più solido. Said, marocchino, 30 anni; Stephan, 27, rumeno; Carlito, che viene dall’Equador, servono ai tavoli con la camicia immacolata, i mocassini che fanno rumore sul parquet e il gilè nero. Con il lavoro, dice Polleri, vedi le persone trasformarsi. E racconta di Graziano, rapinatore seriale, tossico, insopportabile attaccabrighe, abbandonato per forza da tutti. "È venuto qui perché aveva deciso di smettere e ce l’ha fatta. Ha lavorato con noi ad Abc, la cooperativa di catering che ha spianato la strada al ristorante. Nei cinque anni della sua pena ha imparato la cultura del lavoro e adesso è un uomo rinato". Un bicchiere di passito chiude la cena. Dal guardaroba ritiri il cappotto e ti prepari ad uscire. Dal ristorante e dalla prigione. Davide, quello che somiglia a un Bruce Willis più giovane, rimane e torna nella sua cella. Ma un giorno - fra dieci, quindici anni - uscirà anche lui e sarà ancora uno chef. Napoli: i detenuti di Poggioreale e la nave salva-migranti nel presepe della speranza di Antonio Mattone Il Mattino, 3 gennaio 2017 Una grande barca che salva i migranti, realizzata con gli scarti di tutto quello che può transitare in un carcere. Una imbarcazione in navigazione sulle onde di cartapesta diretta verso la terraferma, dove spicca la grotta di Betlemme. È il suggestivo e originale presepe costruito dai detenuti del padiglione Roma della Casa Circondariale "Giuseppe Salvia - Poggioreale", dove sono reclusi i tossicodipendenti. Un’idea progettata alla fine dell’estate da un gruppetto di carcerati che hanno messo insieme tutte le loro diverse competenze. C’è Rosario che è di Bacoli ed ha la passione per il mare e le piccole barche di legno. Salvatore invece abita a San Gregorio Armeno e conosce tutti i segreti dell’arte presepiale, mentre Silvestro si dedica alla pittura, e dopo aver affrescato con alcuni murales le pareti del padiglione si è dedicato a dipingere la grande imbarcazione. A guidare la realizzazione di questa singolare "opera d’arte" l’ispettore di reparto con gli agenti della polizia penitenziaria. All’inizio il presepe doveva avere come protagonisti i detenuti stessi. "Gesù è stato scartato dagli uomini - spiega Salvatore che fa lo spesino - e anche noi carcerati siamo spesso considerati esclusi dalla società". Ma, in seguito ad un’ulteriore riflessione, si è deciso di cambiare soggetto perché tutto sommato "ci sono altri uomini che vengono scartati più di noi, come i migranti che muoiono in mezzo al mare". Dopo un primo tentativo fallito con il crollo della pesante struttura di legno, gli "artigiani galeotti" hanno deciso di utilizzare tecniche più raffinate. Allora con il cartone che contiene la spesa settimanale che arriva ai carcerati, unito a giornali bagnati con acqua e vinavil è stato costruito lo scafo della grande barca. Dalle mazze di scopa sono state realizzate le balaustre della nave, mentre con le strisce di vecchie lenzuola che passa l’amministrazione sono state fatte le vele, con il cotone a reggerle a mo’ di corde. La Natività è stata collocata a poppa accanto al timone costruito di stuzzicadenti, perché Gesù è la guida di tutti gli uomini e conduce al porto sicuro. Un fiore rosso rappresenta l’omaggio floreale che viene lanciato in mare per ricordare quanti perdono la vita negli abissi del Mediterraneo. Tuttavia non ci sono migranti tra le onde. È un segno di speranza, perché tutti si devono salvare. Ci sono invece le tante piccole imbarcazioni con cui si affrontano i viaggi impossibili, che convergono verso la grande barca. Esse rappresentano anche le altre religioni, i popoli non cristiani che vengono comunque accolti da Gesù perché lui, come recita una spiegazione dell’opera, "non giudica di che religione sei, di che colore è la tua pelle, se sei ricco o povero, onesto o disonesto, bello o brutto, ignorante o istruito, ma quanto hai amato il fratello". Alla realizzazione del presepe hanno contribuito anche le suore di Madre Teresa di Calcutta che hanno regalato i Re magi, mentre c’è stata una grande gara tra gli operatori penitenziari e i volontari per reperire i pastori. La nave si chiama "Royal free boat", ribattezzata "speranza e libertà" con una bandiera dell’Italia issata sull’albero maestro, a testimoniare il grande impegno italiano nelle operazioni di salvataggio dei profughi. Un gabbiano fatto con acqua e farina sta ritto a prua e sembra guardare fiducioso la terraferma che si avvicina, dove i "migranti potranno trovare finalmente un po’ di pace", dicono i ragazzi riuniti attorno al presepe. La stessa pace che cercano anche loro dopo anni consumati tra droga e galera. "Questo è un messaggio anche per noi", ribadiscono: "quando vogliamo ci sappiamo mettere in gioco e riusciamo a realizzare qualcosa di bello anche con gli scarti". Poi parlano dei loro fallimenti, dei crolli e del naufragio di tanti tentativi per uscire dal tunnel della droga. In fondo anche il carcere può essere un luogo in movimento dove tanti disperati scrutano la presenza di qualcuno che li conduca verso un nuovo orizzonte. I terroristi non sono folli ma soldati del terrore di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 3 gennaio 2017 Le semplificazioni non aiutano e non dobbiamo negare il ruolo che la religione ha nell’arruolamento dei militanti per la guerra che l’Isis ci ha dichiarato. Dopo ogni attentato dei jihadisti in Europa (forse accadrà anche ora, dopo la strage di Capodanno a Istanbul), riappare sempre la stessa divisione: fra quelli che dicono che "la religione non c’entra", sono solo gli "interessi" (materiali) a spiegare tutto, e quelli che sostengono che la religione sia la vera causa. Semplificare va bene, serve per capire situazioni complesse, ma se si semplifica troppo si finisce per non capire niente. Quando è in gioco la vita di tante persone non capire niente è pericoloso, sbagliare diagnosi è il modo più sicuro per restare indifesi. Perché, a dispetto di ogni evidenza, a dispetto dei Santi (è il caso di dirlo), tante persone negano che quella dichiarata, non solo contro altri musulmani ma anche contro gli occidentali, sia una guerra religiosamente motivata? Due sono le ragioni principali. La prima è che ammettere che l’Islam c’entri significa doversi porre - e porre anche ai musulmani (la maggioranza) che si tengono lontani dal jihad - domande scomode, fastidiose, sugli atteggiamenti del mondo islamico nei confronti della società aperta occidentale e sugli aspetti della loro tradizione che hanno generato la sfida jihadista. È più rassicurante prendere per buono quanto i rappresentanti delle comunità musulmane sostengono dopo ogni attentato, ossia che "l’Islam non c’entra", nulla ha a che spartire con quei quattro (solo quattro?) esaltati. Per negare l’evidenza si ricorre a una serie di rassicuranti affermazioni. Per esempio, si definisce "folle" l’attentato. Ma non c’è niente di folle: l’attentatore è un soldato, combatte una guerra dichiarata da qualche organizzazione (ieri Al Qaeda, oggi l’Isis, domani un’altra). Quel soldato è la versione contemporanea dei combattenti per la causa islamica dell’età medievale e della prima età moderna. Un altro modo per rassicurarsi collettivamente sul fatto che l’Islam non c’entra consiste nell’evidenziare che l’attentatore, prima di convertirsi all’islamismo radicale, era spesso un piccolo delinquente con precedenti penali. Quei precedenti, non la religione, spiegherebbero la sua azione. Si dimentica che anche molti dei protestanti e dei cattolici che nel Cinquecento commettevano le violenze più efferate contro persone della fede opposta, erano dei malvissuti. Criminali e spostati di ogni tipo sono sempre stati la bassa manovalanza nelle guerre religiose, etniche o di altro genere. Né possiede alcun significato il fatto, come si è talvolta accertato, che quegli attentatori conoscano poco della religione in nome della quale combattono. Vale sempre l’esempio dei sopra citati protestanti e cattolici. Capi a parte, molti dei più esagitati e violenti erano, dal punto di vista religioso, degli sprovveduti, la loro "competenza" era racchiusa in pochi slogan. Ma nessuno si sognerebbe di negare la natura religiosa di quel conflitto. La seconda ragione per la quale in tanti rifiutano di riconoscere il carattere religioso della guerra dichiarata dall’islamismo radicale è forse più importante. Ed è anche il motivo per il quale i capi jihadisti, come risulta dalle loro dichiarazioni, pensano che l’Europa sia il ventre molle dell’Occidente, un insieme di Paesi che - non importa quanti anni o decenni di lotta saranno necessari per raggiungere lo scopo - dovrà prima o poi arrendersi, sottomettersi. La ragione ha a che fare con la scristianizzazione. Fra tutte le aree del mondo l’Europa è quella in cui il processo di secolarizzazione (la scomparsa del sacro dalla vita individuale e collettiva) ha raggiunto i massimi livelli: nella sua parte protestante come in quella cattolica (e il fatto non è contraddetto dalla popolarità di cui gode anche fra i non credenti, anche fra tanti atei dichiarati, l’attuale Pontefice). Contrariamente a quanto immaginavano gli illuministi (quelli francesi, non quelli anglosassoni), la scristianizzazione non ha eliminato la "superstizione", non ha reso gli europei "più razionali". Ha invece aperto la strada a varie forme di regressione culturale. Per citare solo la più impressionante: sono ormai legioni coloro che pensano seriamente che non ci siano differenze fra uomini e animali (domestici e non). È arduo, per una società siffatta, accettare l’idea che ci sia gente disposta a uccidere e a farsi uccidere in nome di un credo religioso. La secolarizzazione/scristianizzazione porta con sé l’impossibilità di capire un fenomeno del genere. Si noti che la secolarizzazione - quando si parla di estremismo islamico - sembra talvolta lambire le stesse autorità religiose cristiane mettendole in contraddizione con se stesse. Se si nega alla lotta armata dei jihadisti carattere religioso, se si sostiene che in quel caso la religione è un pretesto (che nasconde gli interessi materiali in gioco), una specie di "sovrastruttura", di "oppio dei popoli", non ci si avvede che un simile ragionamento potrebbe essere esteso logicamente fino a ricomprendere le scelte religiose di chiunque, cristiani inclusi. E gli interessi? Non ci sono interessi in gioco? Politici, economici, eccetera? Ma certo che ci sono. Anche nei conflitti religiosi pesano, eccome, gli interessi. Nella Germania del Cinquecento diversi principi tedeschi scelsero di appoggiare la causa protestante o quella cattolica per convenienza politica. E tanti nobili, mercanti e contadini badavano, oltre che alla salvezza dell’anima, ai benefici terreni. Le grandi potenze, i loro sovrani, si schieravano da una parte o dall’altra sulla base di calcoli dettati dalla ragion di Stato (tenevano conto sia dei rapporti di forza internazionali che degli interessi commerciali in gioco, nonché dei sentimenti religiosi dei propri sudditi). Il gioco degli interessi era così complicato che potevano persino realizzarsi alleanze temporanee fra potenze protestanti e potenze cattoliche. Proprio come accade nel Medio Oriente attuale, dove divisioni religiose (ad esempio, fra sunniti e sciiti), divisioni nazionali (ad esempio, fra turchi e curdi), logica di potenza e interessi economici (petrolio e altro), interagiscono, dando luogo a un intricatissimo mosaico. Religione e "interessi" non si escludono mai a vicenda. Gli essere umani sono complicati. Anche quando pensano "all’Al di là" non smettono, per lo più, di ricercare vantaggi nell’al di qua. Migranti. Più difficile richiedere l’asilo: espulsione dopo il primo diniego di Sara Menafra Il Messaggero, 3 gennaio 2017 Verso nuove regole: unico grado di giudizio, niente appello. Obiettivo espulsioni più rapide. Per i migranti sarà più difficile ottenere l’asilo. Il progetto è quello di snellire le procedure, prevedendo un unico grado di giudizio in tribunale, senza appello. L’udienza sarebbe solo scritta, con rare udienze in teleconferenza. Il progetto di legge dovrebbe essere inserito nel pacchetto di norme sul tema immigrazione che sarà approvato nei prossimi consigli dei ministri. Snellire le procedure per valutare le richieste di asilo, eliminando l’ultimo ostacolo che impedisce espulsioni rapide per i migranti che vengono considerati "economici" e quindi che non possono accedere a nessuna protezione internazionale. La proposta, che oltre alla valutazione delle commissioni prefettizie prevede un unico grado di giudizio in tribunale con iter super stringato, dovrebbe essere inserita nel pacchetto di norme sul tema immigrazione che sarà approvato nei prossimi consigli dei ministri, coordinato dal ministro degli Interni Marco Minniti. Ad occuparsi di proporre un testo per accorciare la valutazione delle richieste di asilo, però, è stato il Guardasigilli Andrea Orlando che, in realtà, spinge da tempo su questo punto. Attualmente, la richiesta di asilo viene valutata nel corso di almeno tre gradi di giudizio se non quattro: prima ad occuparsene è una commissione costituita in tutte le prefetture e i cui ranghi sono stati recentemente rimpolpati, sempre su indicazione del Viminale. Quindi, chi si vede rigettare la domanda di asilo o protezione internazionale può fare ricorso al Tribunale civile per poi rivolgersi all’Appello e almeno teoricamente alla Cassazione. Un problema dalle dimensioni crescenti, ha scritto recentemente Orlando alla commissione Schengen: "L’incremento delle domande di asilo - si legge - si è tradotto inevitabilmente in un altrettanto esponenziale aumento del numero delle impugnazioni in sede giurisdizionale. Durante i primi 5 mesi del 2016, nei tribunali sono stati iscritti ben 15.008 ricorsi in materia di protezione internazionale con un flusso in decisa crescita, con circa 3.500 nuovi ricorsi al mese. Non appare altrettanto elevato il numero delle definizioni che, nello stesso periodo, sono 985. Quanto alla durata dei procedimenti, la media nel 2016 si attesta sui 167 giorni". Il disegno di legge che sarebbe recuperato nel pacchetto in via di approvazione taglia drasticamente le procedure prevedendo un primo grado di giudizio con tribunali specializzati che si occupano di tutte le controversie in materia di protezione internazionale, compresa la convalida del trattenimento del richiedente asilo nei Cie (il cui numero è destinato ad aumentare) e l’applicazione di tutti i trattati sula circolazione dei cittadini comunitari. E poi tutta la procedura giudiziaria a cambiare: l’attuale "rito sommario di cognizione" viene sostituito con un "procedimento camerale, di regola senza udienza - e dunque solo per iscritto - che consente l’acquisizione da parte dell’autorità giudiziaria della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione". Il ricorrente partecipa all’udienza "attraverso un collegamento audiovisivo tra i centri di trattenimento e gli uffici giudiziari competenti", dunque senza più magistrati, quasi sempre "onorari", ad amministrare la giustizia nei Cie. Infine, ed è qui un ulteriore elemento destinato a far discutere, viene prevista la soppressione dell’appello. Un iter molto stringato, insomma, anche se Orlando nel sostenere la proposta sottolinea come questa si accordi agli standard europei. Nei prossimi giorni dovrebbe prendere il via il piano del Viminale che prevede la riapertura dei Centri di identificazione ed espulsione in buona parte oggi chiusi o inattivi, in modo che in tempi brevi ce ne sia uno in ogni regione, oltre a nuovi accordi di cooperazione con paesi terzi e la definitiva abolizione del reato di clandestinità. Al momento sono 10 i Cie esistenti ma solo 4 in funzione; dunque, l’idea del ministro Minniti è quella di completare rapidamente la ristrutturazione di quelli in cui è stata avviata e utilizzare caserme in caso di mancanza di strutture adeguate. I Comuni per il momento stanno a guardare: "È giusto allontanare dal territorio chi delinque, è bene ci sia una netta divisione tra chi è irregolare e chi ha diritto a rimanere; ove necessario è quindi giusto aprire i Cie", dice Matteo Biffoni, delegato Anci alle politiche per l’immigrazione e sindaco di Prato. Sono in arrivo per i Comuni i 100 milioni di euro previsti per le amministrazioni che accoglieranno i migranti secondo l’accordo siglato in ottobre da Viminale ed Anci sul potenziamento della rete di accoglienza gestita dai Comuni. Dopo la circolare emanata da Alfano ai prefetti, che definiva la cosiddetta clausola di salvaguardia - ovvero ordina ai prefetti di esentare da nuovi arrivi non condivisi col territorio quei Comuni che aderiscono al sistema Sprar - un’altra analoga è stata redatta pochi giorni fa dal Viminale. Migranti. L’errore dei Cie, lettera aperta al ministro Minniti di Francesca Chiavacci (Presidente nazionale Arci) Il Manifesto, 3 gennaio 2017 Caro ministro Minniti, se il buongiorno si vede dal mattino, la proposta di affidare ancora una volta le politiche sull’immigrazione ai Centri di Identificazione ed Espulsione (Cie), è vecchia e stantia ancor prima di essere avviata. Ci hanno già provato - sapendo che si tratta solo di un’uscita propagandistica, che alimenta odio e razzismo e favorisce i predicatori d’odio - ministri e governi precedenti, senza ottenere alcun risultato concreto. Nel suo messaggio di fine anno, il presidente Sergio Mattarella è intervenuto con autorevolezza per lanciare un monito contro il collegamento sbagliato tra immigrazione e terrorismo. Che invece è proprio quello che sottostà alla proposta di aumentare il numero dei Cie e quindi delle espulsioni. La storia recente, d’altra parte, dimostra come sia impossibile aumentare il numero dei rimpatri degli irregolari attraverso i Centri d’identificazione e di espulsione. Basterebbe andarsi a rileggere le conclusioni della Commissione De Mistura, voluta dall’allora ministro dell’Interno Amato e alla quale anche l’Arci partecipò, per sapere che si tratta di uno strumento ingiusto perché introduce un percorso differenziato per gli stranieri, meno garanzie e meno diritti, negando la nostra Costituzione e il principio di uguaglianza davanti alla legge. Uno strumento sbagliato perché non è di sanzioni per chi non rispetta le regole che c’è bisogno in un Paese che ha una legislazione concretamente impraticabile, ma di canali d’accesso regolari, sia per ricerca di lavoro sia per richiesta di protezione internazionale (canali da sempre chiusi, in particolare negli ultimi anni, nei quali non è stato emanato il decreto flussi, se non per gli stagionali, favorendo gli ingressi irregolari). Uno strumento inutile. Dati alla mano, un rimpatrio reale, e non fittizio come quelli a cui si riferiscono i giornali in questi giorni, attraverso i Cie, costa cifre esorbitanti, colpisce quasi esclusivamente persone che hanno perso il lavoro, riguardando comunque, anche quando i Cie erano 14, poche migliaia di persone. Se non si vuole consegnare questo Paese ai Salvini e alle destre xenofobe, bisogna mettere in campo una politica che punti a impedire le morti da frontiera, lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, le diseguaglianze crescenti, la povertà diffusa, fermare l’odio contrastando gli argomenti di cui si nutre e raccontando la verità. È sulla base della nostra esperienza concreta di questi anni, dei dati concreti che sono in possesso del suo Ministero e del fallimento di esperienze simili attuate in altri Paesi dell’Ue che le chiediamo, signor ministro, di congelare ogni iniziativa volta ad aumentare il numero dei Cie e di aprire un confronto con le organizzazioni sociali, laiche e religiose, con i sindacati e le organizzazioni di categoria, riaprendo quel Tavolo Immigrazione Nazionale che da anni è stato bloccato, per mettere in campo iniziative concrete nel campo dell’immigrazione e dell’asilo, a partire dall’esperienza dei soggetti del Terzo settore e delle organizzazioni sociali che quotidianamente, nei territori, si confrontano con le persone, con le loro storie e i loro diritti. In attesa di un cortese riscontro, cordiali saluti. Biffoni (Anci): "i Cie? Solo per chi commette dei reati" di Carlo Lania Il Manifesto, 3 gennaio 2017 Il sindaco di Prato Matteo Biffoni è il responsabile Immigrazione per l’Anci. Il governo vuole riaprire i Cie, che ne pensa? Nessuno crede che i Cie siano la panacea di tutti i mali. Possono servire se utilizzati per quello che dovrebbero davvero essere, cioè dei luoghi in cui vengono reclusi in attesa di espulsione i cittadini non comunitari che hanno commesso dei reati. In questo senso sì, oggi possono servire, naturalmente rispettando i diritti costituzionali dei migranti, anche per quanto concerne il tempo di permanenza. Il rischio è che si generalizzi e che vengano richiusi tutti gli irregolari solo per facilitare le espulsioni. Dai numeri che sembra fare il ministro Minniti non pare essere così. Minniti parla di 10mila persone, numero che potrebbe effettivamente riguardare quanti hanno commesso un reato. Se parlassimo degli irregolari la cifra sarebbe per forza di cose molto più ampia. Su questi ultimi dobbiamo fare un ragionamento e decidere cosa fare perché stanno arrivando a compimento i percorsi di quanti hanno fatto richiesta di asilo, hanno avuto una risposta negativa dalla commissione territoriale e hanno concluso anche il ricorso con una risposta negativa. Penso che vada fatta una scelta, perché se la legge prevede l’allontanamento, l’allontanamento va fatto. Si tratta però di una decisione del governo alla quale noi come amministratori, che dobbiamo gestire l’impatto sul territorio, ci adegueremo, certo partecipando al confronto sul tema che immagino ci sarà. In passato i Cie si sono dimostrati un fallimento. Un’esperienza negativa che ora potrebbe ripetersi. E infatti non devono essere strutture che replicano quella esperienza negativa. Devono essere quello per cui teoricamente sono nati: ripeto, punti di appoggio per coloro che hanno commesso dei reati in attesa di essere allontanati dal territorio. Però attenzione. Noi dobbiamo ragionare su che impostazione diamo a queste persone che fanno richiesta di asilo e se la vedono respingere. Che cosa ne facciamo? Tecnicamente anche queste vanno allontanate, perché l’impatto sul territorio è forte. Altrimenti bisogna avere gli strumenti per gestirle: vanno potenziati i servizi sociali, i servizi di interpretariato, l’educazione civica, perché non possiamo lasciarle in mezzo a una strada, né possiamo indebolire le forme di tutela che eroghiamo al momento. Stiamo parlando di persone fragili, che in larga parte non possono farcela da sole. Si parla di rimpatri, ma mancano gli accordi per poterli mettere in atto. E questo è infatti un altro pezzo del ragionamento legato all’allontanamento. Chiaramente bisogna essere conseguenti, quindi fare a monte gli accordi con i paesi di origine diventa un altro tassello fondamentale. Ma lei accetterebbe un Cie nel suo territorio? Se esistessero le condizioni logistiche e a patto che sia una struttura destinata a chi ha commesso dei reati e deve essere rimpatriato in tempi rapidi. Se lo Stato trasforma i migranti lavoratori in clandestini da espellere di Gabriele Martini La Stampa, 3 gennaio 2017 Sei richieste di asilo su 10 vengono respinte e sono seguite da fogli di via. Intanto però molti trovano un’occupazione e si mimetizzano per restare. Jimi fa l’aiuto cuoco in un locale torinese. "Abbiamo scritto al giudice del tribunale spiegando che lui per noi è una risorsa fondamentale. Ma la risposta è stata negativa", raccontano i proprietari del ristorante. Lo Stato prima li accoglie, poi li forma, in alcuni casi li aiuta a trovare un lavoro, infine li trasforma in fantasmi condannandoli alla clandestinità. Dietro la stretta sugli irregolari annunciata dal Viminale si nasconde un cortocircuito che impedisce a migliaia di profughi di costruirsi una vita in Italia. Anche se ci sono aziende pronte ad assumerli. Conviene partire da una domanda: perché i migranti non lavorano? La risposta è: perché non glielo permettiamo. Oggi, di fatto, gli stranieri possono mettersi in regola solo dopo essere entrati illegalmente. Le strade sono due. La prima è aderire al decreto flussi. Pensato per fare arrivare dall’estero un numero di lavoratori adeguato alle esigenze dell’economia, nel 2016 erano previsti 13.000 ingressi per lavoratori stagionali, 3600 per non stagionali e 14.250 conversioni di permessi di soggiorno. Ma è ardito pensare che un’azienda assuma una persona da un Paese straniero, magari senza averla mai incontrata. Risultato: il decreto flussi è una sorta di sanatoria mascherata per chi si trova già in Italia. La seconda strada è, invece, quella di fare richiesta di asilo. Ma non tutti scappano dalle guerre. E allora si pone il problema: che fare con chi non lo ottiene? Su oltre 180mila cittadini stranieri sbarcati in Italia nel 2016 circa 23mila vengono gestiti attraverso la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) degli enti locali, mentre gli altri finiscono nel calderone dei Centri di accoglienza straordinaria di competenza prefettizia. I primi sono i più fortunati: per loro sono previsti progetti di formazione e d’inserimento lavorativo. Di solito si comincia con un tirocinio di sei mesi pagato con fondi statali. Se l’azienda è soddisfatta può richiedere di prolungare l’apprendistato, stavolta facendosi carico dell’indennità versata al richiedente asilo. Nei percorsi più virtuosi il tirocinio potrebbe trasformarsi in un vero e proprio contratto di lavoro. Ristoratori, imprese agricole, cooperative, artigiani, commercianti: in tanti vorrebbero assumere i ragazzi arrivati dall’Africa. Ma qui sorgono i problemi: sul futuro dei migranti pende infatti il verdetto alle loro richieste di asilo. Per sei su dieci la risposta è negativa. Le commissioni territoriali e i tribunali chiamati a valutare le domande di protezione seguono infatti altri criteri, senza prendere in considerazione il percorso svolto dal richiedente asilo e la sua situazione lavorativa. "Ben venga chi arriva in Italia per lavorare, fuori i delinquenti", è il ritornello bipartisan che ripetono i politici. Peccato che anche a chi un’occupazione l’avrebbe trovata, spesso vengano negati i documenti. Il paradosso è tutto qui: l’Italia sta trasformando potenziali lavoratori in clandestini. Si stima che sul territorio nazionale ci siano almeno 50mila migranti fantasma e altrettanti potrebbero diventarlo nei prossimi mesi. In gergo li chiamano "diniegati": stranieri che hanno fatto richiesta di asilo, ma per i quali è stata respinta. A loro viene consegnato un foglio di via che intima di lasciare autonomamente il territorio nazionale entro sette giorni. Cosa che non accade quasi mai: i migranti restano in Italia e spariscono in una zona grigia senza diritti né doveri, esposti a sfruttamento e illegalità. Ecco perché il Viminale vuole rafforzare i controlli e accelerare sui rimpatri. Il capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli, ha diramato una circolare che invita i prefetti a rintracciare gli irregolari. L’obiettivo è fare in modo che le espulsioni non restino sulla carta. Ma gli operatori dell’accoglienza sono convinti che per prosciugare questa zona grigia esistano anche altre strade. Come regolarizzare chi ha un contratto di lavoro. Nei giorni scorsi le cooperative e le associazioni dei progetti Sprar di Torino che gestiscono i richiedenti asilo e le aziende che ospitano i tirocinanti hanno creato la rete "Senza Asilo" nel tentativo di dare la sveglia alle istituzioni: "Non possiamo far finta che il problema non esista, serve una revisione delle regole", è la richiesta che intendono sottoporre a governo e Parlamento. "Chi valuta le domande d’asilo deve prendere in considerazione anche la situazione lavorativa dei singoli migranti". In pochi giorni sono arrivate adesioni da tutta Italia. Tra le proposte sul tavolo una sanatoria e l’introduzione di forme di regolarizzazione su base individuale degli stranieri. Perché trasformare i migranti lavoratori in fantasmi non conviene a nessuno. Ibrahim, dal Gambia: "ho un posto da lavapiatti, ma sogno di diventare chef" Ventidue anni e un sorriso disarmante. Ibrahim è uno spilungone cresciuto in Gambia e sbarcato in Sicilia nell’estate del 2014. Oggi lavora come lavapiatti al ristorante "Centenario", tappa obbligata per i palati torinesi sedotti dalla cucina messicana. Dopo due tirocini, ha un contratto part-time che scade il 31 gennaio 2017, ma il datore di lavoro è pronto ad assumerlo a tempo indeterminato. "Ringrazio l’Italia per avermi accolto e aiutato. Adesso chiedo solo che non mi venga tolta la possibilità di lavorare, per il resto so cavarmela da solo". Ibrahim racconta la sua storia seduto sui divani di velluto rosso del locale che per lui è diventato una seconda casa: "Ho fatto il muratore in Libia, ma lì non c’era futuro. Non vedo mia madre da quattro anni, mi manca. Ogni mese cerco di mandarle cento euro per i miei fratelli più piccoli". La paura è quella che il sogno svanisca: ha chiesto asilo e dopo due dinieghi è in attesa della sentenza d’appello. All’altro capo del tavolo siede Stefano Cavallero, proprietario del ristorante e di altri tre locali in città. "Ho 45 dipendenti. Sono pronto ad assumere Ibrahim, ma senza i documenti non posso farlo". Ma perché un imprenditore vuole a tutti i costi puntare su questo ragazzone arrivato dal Sud del mondo che parla un italiano zoppicante? "Perché lui è educato, puntuale, umile, affidabile. Mi spiace ammetterlo, ma sono qualità che non è semplice trovare nei giovani italiani". Nell’ultimo anno Ibrahim si è dato da fare: "Ha voglia di imparare, nelle ultime settimane gli sto facendo seguire un corso da aiuto cuoco", racconta Cavallero. "Il mio sogno? Mi piacerebbe diventare chef", dice Ibrahim ridendo. Poi si fa serio: "No, ho sbagliato a rispondere. Il mio sogno è un altro: riabbracciare mia madre e portarla in Italia. Ha sofferto troppo, se lo merita". Luis, dal Congo: "La mia famiglia è perseguitata, nessuno mi crede" "La mia vita è un tunnel senza luce. Io non ho più diritto al futuro". Singhiozza e piange Luis, seduto nel bar di un ipermercato della periferia di Torino. E le sue lacrime stridono con la stazza imponente di questo uomo congolese di 33 anni, arrivato in Italia nel 2012 come studente alla facoltà d’informatica del Politecnico. Figlio di insegnanti, parla un italiano impeccabile. Ha chiesto asilo perché i suoi familiari "sono perseguitati politici". Nel suo passato c’è anche lo strazio per un fratello sparito in circostanze misteriose, il corpo non è mai stato trovato. Luis ha raccontato tutto questo e molto altro alla commissione territoriale chiamata ad esaminare la sua richiesta di asilo. "Ma non mi hanno creduto", racconta. Attraverso lo Sprar sta svolgendo un tirocinio presso un’azienda che crea reti digitali. Perché Luis è un talento. Ha un diploma universitario in informatica e certificazioni internazionali che testimoniano la sua professionalità. Se solo potesse, non avrebbe problemi a trovare un lavoro. Ma Luis ha ricevuto un doppio diniego. Niente protezione, niente futuro. Ora aspetta la sentenza definitiva che deciderà la sua sorte. "Questa attesa mi devasta". Ringrazia l’Italia per averlo accolto: "Mi spiace solo che la gente abbia paura. Quando mi siedo sul pullman, c’è chi si alza per non starmi vicino". Luis sogna la normalità: una casa, una moglie, dei figli. "Ma ormai ho perso fiducia. Spesso evito di uscire a pranzo con i miei colleghi e resto in ufficio perché ho paura di essere fermato dalla polizia". Luis sospira, poi guarda l’orologio. La pausa pranzo è finita, si torna in ufficio. Si strofina gli occhi e le lacrime tornano a scendere lungo le guance: "Nella mia testa passano tanti brutti pensieri. La cosa che mi fa più male è che non sono più la stessa persona, questa storia mi ha cambiato per sempre". George, dal Gambia: "Quando esco dal cantiere ho il terrore di finire al Cie" Davide Dan è un elettricista torinese. Due settimane fa ha deciso di prendere carta e penna per scrivere una lettera. L’ha indirizzata al tribunale d’appello che, dopo il doppio diniego, dovrà riesaminare la richiesta d’asilo del ragazzo che lavora per lui: "È molto disponibile e puntuale. È cresciuto sotto l’aspetto professionale dall’inizio del tirocinio ad oggi grazie alla sua costante attenzione, applicazione ed interesse. In questo momento sono disponibile ed interessato per un’assunzione a tempo indeterminato del ragazzo. Distinti saluti". Il ragazzo si chiama George, ha 26 anni e arriva dal Gambia. Indossa guanti da lavoro e si sfrega le mani per combattere il freddo di un’umida mattina di dicembre: "Sono scappato dal mio Paese perché laggiù c’è una dittatura - racconta-. Per alcuni mesi ho lavorato in Libia, ma era troppo pericoloso. Sono stato rapinato più volte. Sono arrivato nel luglio del 2014, la mia vita ormai è in Italia". Per attraversare il Mediterraneo ha pagato 900 dollari agli scafisti. Sulla barca con lui c’erano altri 700 migranti, in 150 non ce l’hanno fatta. "Ci avevano ammassati nella stiva. I più deboli sono morti asfissiati dai vapori della benzina o per le ustioni sulla pelle dovute alle perdite di carburante". George si muove agile tra cavi elettrici e corrugati: "Davide mi sta insegnando tutto, mi piace creare la luce. Ma quando torno a casa ho paura di essere fermato dalla polizia e di finire al Cie". Fuori dal cantiere scorre la vita. "Mi alleno con una squadra di calcio che milita in prima categoria, ma non posso giocare le partite ufficiali perché non ho il permesso di soggiorno". Per Davide Dan questo ragazzo non è solo un dipendente: "George è speciale perché capisce il mio umore. Ho avuto vari apprendisti, ma con nessuno mi ero trovato così bene. Spero che lo Stato gli dia i documenti per restare". Gimi, dal Gambia: "Amo preparare i ravioli e vorrei studiare Economia" Nel cuore della movida torinese c’è una coppia di ristoratori che con spirito battagliero sfida le leggi italiane. La disobbedienza civile di questi due cinquantenni brizzolati è un atto d’amore per Gimi, aiuto cuoco gambiano di 27 anni. Dopo due tirocini, il proprietario del locale ha deciso di assumerlo a tempo indeterminato. Il problema è che Gimi, nel mentre, è diventato clandestino. La sua corsa verso il futuro si è fermata davanti al doppio diniego alla sua domanda d’asilo. Ha tentato un ultimo ricorso, ma le speranze sono minime. Il ristoratore lo sa: "Di fatto lui lavora da noi senza documenti. Avevamo anche inviato una lettera al giudice del tribunale spiegando che lui per noi è una risorsa fondamentale. Ma la risposta è stata negativa". Gimi è serio e affidabile, in cucina non sgarra mai. Ma per la coppia che gestisce questo ristorante c’è di più. "È un ragazzo straordinario, ormai è diventato uno di famiglia, ha le chiavi di casa nostra. È frustrante non poterlo aiutare". E così questi due ristoratori hanno deciso di forzare le regole, ben consapevoli dei rischi: "Abbiamo chiesto al nostro consulente del lavoro di attivare comunque un contratto a tempo indeterminato, anche se non ha il permesso di soggiorno". Gimi lavora in cucina: "Mi piace preparare i ravioli, sono il mio piatto preferito", racconta quasi spaesato di fronte a tanto affetto. Sogna di iscriversi all’università: "Vorrei studiare economia". Ma per ora resta qui, a sfornare prelibatezze per i suoi coetanei. Se arriva qualcuno per un controllo, Gimi sparisce dalla porta del retro. "Gli abbiamo chiesto di essere pronto a scappare", raccontano i ristoratori. "Gimi oggi non può aprire un conto corrente. Se sta male, non può curarsi. Non è giusto. Ma se lo Stato è miope, qualcuno deve pur fare qualcosa". Migranti. Muore una ragazza, rivolta nel Centro di accoglienza di Cona di Andrea Priante e Davide Tamiello Corriere della Sera, 3 gennaio 2017 Un’ivoriana muore nella doccia nell’ex base missilistica in provincia di Venezia. La rabbia dei profughi per i soccorsi in ritardo. Alcuni dei migranti che hanno guidato la rivolta del centro di accoglienza di Cona e, nel riquadro, Sandrine Bakayoko, la 25enne trovata morta. La rivolta è scoppiata lunedì pomeriggio e ha trasformato in una polveriera il campo profughi di Cona, l’ex base missilistica del Veneziano che tra molte polemiche ospita mille richiedenti asilo. All’interno, prigionieri fino a notte fonda, 25 operatori che sono stati lasciati uscire solo intorno alle 1.40 della notte. Si tratta di ragazzi (ma ci sono anche due medici e un’infermiera), in buona parte italiani, che durante il giorno si occupano della struttura distribuendo i pasti e organizzando le attività dei richiedenti asilo. Quando è iniziata la protesta si sono dovuti barricare nei container e negli uffici che costituiscono l’area amministrativa di quella che in pochi mesi è diventata una piccola città dell’accoglienza, gestita da Ecofficina, cooperativa che a furia di vincere appalti per la gestione dei profughi in Veneto è arrivata a fatturare oltre 10 milioni di euro l’anno. Il ritrovamento del corpo - Intorno alle 17, i migranti si sono presi l’intera base, hanno spento le luci e dato fuoco a dei bancali. Roghi organizzati per protestare contro le condizioni in cui si trovano a vivere all’interno della struttura. A scatenare la rabbia, la morte di una di loro: un’ivoriana di 25 anni, Sandrine Bakayoko, arrivata a Cona quattro mesi fa con il fidanzato, dopo un viaggio in gommone che dalla Libia l’ha portata sulle coste della Sicilia. Da lì il trasferimento nel Veneziano. All’alba di ieri si è sentita male, in bagno, ma il compagno l’ha trovata priva di sensi soltanto intorno a mezzogiorno. "Ho sfondato la porta e l’ho trovata lì, distesa a terra", racconta. "Stava male da giorni, tossiva, aveva la febbre. Questo non è un posto dove ospitare delle donne". I profughi dicono che i soccorsi sono arrivati troppo tardi. Ricostruzione smentita dagli operatori del 118, anche se la procura di Venezia ha aperto un fascicolo e oggi ci sarà l’autopsia per chiarire le cause del decesso. I roghi e la protesta - La morte della ragazza ha innescato la reazione rabbiosa degli altri ospiti della struttura. I migranti hanno occupato l’ex base militare, accendendo i falò. Quando alcuni operatori hanno cercato di mediare sono stati respinti e la tensione è salita ulteriormente dopo che alcuni profughi hanno trovato il modo di accedere ai locali in cui si trova la centralina elettrica. Luci spente, e solo il bagliore dei fuochi a illuminare il centro di accoglienza. La testimonianza - "Per un po’ ha funzionato il sistema elettrico di emergenza - raccontava ieri sera uno degli operatori - ma da qualche ora siamo rimasti al freddo e al buio. Se tentassimo di riavviare l’impianto di illuminazione esterno rischieremmo di essere aggrediti. Ogni tanto qualcuno prende a pugni la porta, siamo terrorizzati. Urlano e alcuni di loro hanno in mano delle spranghe. Ci hanno detto: "Stanotte dormirete qui". Non abbiamo scelta...". Le forze dell’ordine hanno avviato una mediazione. "Per ora è più sicuro che restino lì dentro", ha spiegato nella notte uno dei carabinieri intervenuti. "La protesta - ha aggiunto - sta scemando, appena ci saranno le condizioni per farli uscire senza pericoli, li accompagneremo fuori". A tarda notte poi la liberazione: gli operatori sono stati fatti uscire con delle auto che sono state colpite dai migranti. "Martedì non ci presenteremo a lavoro" hanno detto alcuni di loro. Gioco d’azzardo, business record da 95 miliardi. In Italia un milione di ludopatici di Marco Menduni La Stampa, 3 gennaio 2017 Nel 2016 giro d’affari cresciuto del 7 per cento. Un milione i ludopatici, non c’è intesa per la regolamentazione più severa del settore. Nemmeno il Pil della Cina cresce così. Il 7 per cento in un anno è un incremento record e la cifra di 95 miliardi rappresenta il 4,4 del nostro prodotto interno lordo, più di quanto lo Stato investa sull’istruzione (poco più del 4%) e poco meno di quanto gli italiani, tutti, spendano per mangiare. Il cardinale Angelo Bagnasco ha appena tuonato contro il gioco d’azzardo "legale" ("una nuova droga, un cancro che lo Stato non solo non contiene, ma favorisce e ci lucra"), che i bilanci di fine anno superano le cifre record che ha appena enunciato. Dice Bagnasco: "L’affare azzardo rende più di 88 miliardi di euro all’anno: è stato studiato per far perdere, produce povertà e malattia". Quel dato si riferisce al 2015. Poche ore dopo arrivano i risultati del 2016 appena concluso e i miliardi sono diventati 95: ovvero, il 7% in più. Giocano tutti. Le stime dicono che il 54,4 per cento degli italiani, quasi 30 milioni, si concede ogni anno almeno una volta il gusto dell’azzardo legale; se si fa il calcolo solo sulla popolazione adulta, si sfiora il 70 per cento. Quasi un milione di loro appartiene alla schiera dei patologici: da curare. In mezzo c’è un’area grigia di chi trascorre ore nei bar, nelle tabaccherie, tra slot, gratta e vinci e lotto istantaneo. Due milioni e mezzo di giocatori che, pur non compulsivi, investono cifre consistenti di denaro nella speranza del colpo di fortuna che possa cambiare la loro vita. La fotografia di un’Italia ancora in crisi vede un comparto in continua crescita. Quello del 2016 è un nuovo record (persino sorprendente, se si considera la lotta all’azzardo intrapresa ormai da decine di amministrazioni locali) e l’altro dato monstre è rappresentato dal paragone con il non lontano 2008: in questi otto anni, la spesa per i giochi è raddoppiata. Le slot machine e le nipotine video-lottery di nuova generazione fanno ancora la parte del leone, anche se l’incremento è modesto e il maggior gettito per lo Stato è stato determinato solo dall’aumento delle imposte. Ma crescono vorticosamente, analizza l’agenzia specializzata Agipro, tutti i giochi di scommesse e quelli online. Risfodera appeal persino il SuperEnalotto, che viaggia al 52% in più sul 2015 grazie alla lunga caccia al 6, finita il 27 ottobre scorso con la maxi vincita di Vibo Valentia (163 milioni), e il restyling che ha garantito un jackpot ancora più ricco e la possibilità di vincere anche con il 2. S’impennano Poker e casinò online di quasi il 20 per cento rispetto all’anno precedente. "Di fronte a questi dati - commenta il parlamentare Lorenzo Basso - davvero non si capisce la ritrosia degli operatori ad accettare le nostre proposte: divieto assoluto di pubblicità e riduzione drastica, se non l’abolizione, degli apparecchi da gioco dai bar, dalle tabaccherie, da tutti i luoghi non dedicati". Basso, deputato Pd, area cattolica, da anni combatte una battaglia per la regolamentazione severa del settore, insieme a una pattuglia di colleghi bipartisan. Un riordino del settore atteso da anni, da mesi in attesa di un accordo nella conferenza Stato-Regioni, mai giunto all’approdo definitivo. Dopo decine di rinvii, è di nuovo in calendario alla fine di gennaio. Contiene anche, quel provvedimento, la riduzione di un terzo delle slot machine presenti sul territorio che era stata annunciata dall’ex premier Renzi. Risultato: per ora non pervenuto, mentre Comuni e Regioni vanno avanti in ordine sparso. Le accuse di non voler arrivare a un accordo sono respinte al mittente dal vice presidente di Confindustria Sistema Gioco, che rappresenta gli operatori del settore. Attacca il vicepresidente Massimiliano Pucci: "Non siamo noi a non voler chiudere, ogni volta che siamo a un passo, gli enti locali aggiungono un tassello in più. Allora diciamo pure che l’azzardo legale in Italia è del tutto vietato, che noi dobbiamo essere esposti alla pubblica gogna e che tutto deve tornare a com’era prima di queste leggi, quando il comparto era tutto nelle mani della criminalità. Proviamo, sperimentiamo quel che succede". Libia. Il generale Haftar: "L’Italia si è schierata dalla parte sbagliata" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 gennaio 2017 "L’uomo forte" di Bengasi: "Consiglierei ai Paesi stranieri e al vostro di non interferire nei nostri affari interni. Lasciate che siano i libici a occuparsi della Libia". Dalla guerra contro l’Isis e il suo grande rispetto per il rapporto con Mosca, passando per la questione migranti, sino alle difficoltà nelle relazioni con l’Italia e con il governo di Fayez Serraj a Tripoli: per quattro ore il nuovo uomo forte della Cirenaica ha accettato di incontrarci nel suo ufficio in una base super protetta vicino all’aeroporto di Bengasi. "Gli italiani da noi sono sempre benvenuti. Peccato che alcuni abbiano scelto di stare con i nostri nemici", esordisce il generale Khalifa Haftar. Nato il 7 novembre 1943 nella regione di Bengasi, sostenitore della prima ora di Gheddafi, diventato suo generale fidato, poi però passato tra i ranghi dell’opposizione, esiliato negli Stati Uniti e tornato con la speranza di guidare da militare di professione la rivoluzione del 2011, Haftar replica offeso a coloro che lo paragonano al Colonnello per il suo piano di ricostruire l’esercito partendo dalla Libia orientale, mirando a sconfiggere le milizie e scacciare i jihadisti da tutto il Paese. "Io come Gheddafi? Una menzogna ridicola e senza fondamento! Chi lo dice ignora la mia lunga e sofferta lotta contro di lui", sbotta brusco. Generale, tre anni fa l’accusarono di golpe quando annunciò la sua intenzione di usare il vecchio esercito contro il terrorismo dell’Isis. Oggi i suoi fedelissimi sono alla periferia di Tripoli e la regione di Bengasi appare molto più sicura. Dove porta la sua battaglia? "Per comprendere i nostri successi occorre ricordare che nascono dalle delusioni dopo la caduta di Gheddafi. I libici si attendevano pace, sicurezza e democrazia. Ma da subito sono cresciute le forze del radicalismo legate ai Fratelli musulmani. I libici già nel 2012 vennero chiamati al voto. Però dopo decenni di dittatura non avevano alcuna idea di cosa volesse dire democrazia. Semplicemente non erano pronti. Così dal Consiglio di transizione e dal primo Parlamento di Tripoli sono emerse le forze del terrorismo. Il popolo ha eletto le persone sbagliate, che ne hanno approfittato per promuovere Al Qaeda e persino il nuovo Isis assieme a una visione pericolosa dell’Islam". Lei quando è sceso in campo? "Voi europei non sapete con quanta rapidità l’Isis e i movimenti islamici locali come Ansar al Sharia abbiano cominciato a minacciare, sequestrare, assassinare tutti coloro che consideravano nemici. È iniziato specialmente nell’Est, ma si è sparso a macchia d’olio. Dal 2012 sino all’inizio della mia Operazione Karama (Dignità, ndr) nel maggio 2014 sono stati uccisi oltre 700 militari e almeno altrettanti civili tra Bengasi e la Cirenaica: per lo più giornalisti, intellettuali, cristiani, avvocati, professori, giudici, imam moderati, difensori dei diritti delle donne, esponenti della società civile. Chiunque protestasse, anche solo su Internet, veniva eliminato brutalmente e le foto dei cadaveri diffuse per incutere paura, obbligare al silenzio". Come si è organizzato? "A Tripoli ho provato a lanciare appelli, a chiedere aiuto ai vecchi militari. Ma il governo voleva arrestarmi. Allora sono venuto a Bengasi. Ho raccolto 300 volontari tra i soldati più fedeli assieme a 25 ufficiali armati e dotati di 75 veicoli di vario genere. Il 16 maggio 2014 abbiamo attaccato in forze Rafallah Sati, la base dell’Isis e Al Qaeda nel centro di Bengasi. Loro controllavano 7.000 uomini. Ma non si aspettavano il nostro assalto e abbiamo ucciso 250 dei loro capi. Il giorno dopo davanti alla mia caserma c’erano 2.000 nuovi volontari, tanti con i loro fucili e negli zaini cibo per un mese. Poi il nostro numero non ha fatto che crescere. Ora conto di una forza di 50.000 uomini, che controlla circa l’80 per cento del Paese. Pattugliamo i pozzi petroliferi e i terminali qui nell’Est a Ras Lanuf, Brega, Al Sidr. Nessuno ruba gas o greggio. Vige la legalità. Anche i berberi delle montagne di Nafusah, a sud di Tripoli, sono nostri alleati". In quella zona si trova prigioniero Saif al Islam, il figlio più noto di Gheddafi. Ha un futuro politico? "Non lo credo proprio, è politicamente bruciato". Quante perdite ci sono state? "L’Isis e i jihadisti hanno subito circa 7.000 morti. Ma hanno ricevuto nuovi volontari dall’estero. Oggi ne restano 150 a combattere accerchiati in due quartieri di Bengasi. Noi abbiamo perso circa 5.000 soldati. Purtroppo i jihadisti vengono aiutati anche da alcune tra le milizie di Misurata, che sono radicali e combattono il nostro progetto di smantellarle in nome della supremazia dell’esercito". Misurata ha perso 1.000 uomini contro l’Isis negli ultimi mesi a Sirte, perché dovrebbe aiutare le colonne jihadiste a Bengasi? "Senza l’aiuto americano Misurata non avrebbe mai preso Sirte. Loro si sono mossi solo quando hanno visto che i miei soldati stavano per accerchiarla. E comunque alcune delle loro brigate, come la Faruq, sono alleate dell’Isis, ne condividono fanatismo e credo religioso". Ultimamente lei è stato a Mosca. Una visita che coincide con la crescita dell’influenza russa in Medio Oriente, specie dopo la ritirata dei ribelli siriani da Aleppo. Ha ricevuto aiuti da Putin? "La Libia ha una lunga storia di ottime relazioni con la Russia. Io mi sono recato a Mosca anche perché volevo rimettere in vita alcuni contratti interrotti nel 2011. Ho molto apprezzato la politica di Putin e i suoi sforzi nella lotta contro il terrorismo in Medio Oriente". Le ha promesso armi? "Mosca fa parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che ha votato l’embargo militare nei nostri confronti. Si muove in modo serio, rispettando le convenzioni internazionali. Ci è stato detto che le armi possono arrivare solo dopo la fine dell’embargo e Putin si impegna per cancellarlo. Comunque noi ci aspettiamo aiuti da tutti per combattere l’Isis. Saremmo ben contenti di cooperare con la Gran Bretagna, la Francia o la Germania. Italia compresa, purtroppo sino a ora il governo di Roma ha scelto di aiutare soltanto l’altra parte della Libia. Avete mandato 250 uomini tra soldati e personale medico per gestire l’ospedale di Misurata. A noi nulla. Negli ultimi giorni ci era stato promesso l’invio di due aerei per trasportare negli ospedali italiani alcuni dei nostri feriti gravi. Ma sino a ora non sono arrivati, forse per il brutto tempo. Ci saremmo aspettati maggior cooperazione. Non abbiamo apprezzato il discorso di fine d’anno del vostro capo di Stato maggiore in visita a Misurata". Cosa intende? "Ha detto che l’Italia sostiene le milizie di Misurata, cosa che va oltre una pura missione medica di pace. Conosco le tematiche del vostro ospedale. Il numero due della vostra intelligence è un mio caro amico, viene spesso a trovarmi e ne abbiamo parlato più volte. Però consiglierei ai Paesi stranieri e al vostro di non interferire nei nostri affari interni. Lasciate che siano i libici a occuparsi della Libia". I migranti in arrivo dalla Libia rappresentano un grave problema europeo. Siamo tutti coinvolti, non crede? "Noi siamo un Paese di transito. Se il nostro esercito controllerà i nostri confini meridionali il problema si ridurrà per tutti. E ciò vale anche per la questione degli impianti energetici tanto cari all’Italia. Sarei ben contento di parlarne con i dirigenti dell’Eni". L’Italia come gran parte dell’Europa e l’Onu sostengono il governo di unità nazionale del premier Serraj. Lei è pronto a cooperare con lui? "Siamo in una situazione di guerra, dominano le questioni legate alla sicurezza. Le circostanze non sono favorevoli ai tempi della politica. Occorre combattere per salvare il Paese dagli estremisti islamici. Io comunque ho cominciato a dialogare con Serraj ben due anni e mezzo fa. Senza alcun risultato concreto. Battuti gli estremisti potremo tornare a parlare di democrazia ed elezioni. Ma non ora". Lo stesso Serraj chiede di negoziare. La stampa algerina scrive che state per incontrarvi. Conferma? "No. Non so niente di questo. Personalmente non ho nulla contro Serraj. L’ultima volta ci siamo parlati direttamente il 16 gennaio 2016. Il problema non è lui, bensì le persone che gli stanno attorno. Se intende davvero lottare per pacificare il Paese, impugni il fucile e si unisca ai nostri ranghi. Sarà sempre benvenuto". Turchia. Social bloccati e veline, la scure di Erdogan sui media di Marta Serafini Corriere della Sera, 3 gennaio 2017 Dopo l’attacco il NYTimes sceglie di non firmare gli articoli per proteggere i reporter. Il sistema di censura è come un enorme antivirus che agisce su comando del governo. "Firmato: un dipendente del New York Times". Sempre più difficile - e pericoloso - per i reporter fare il loro lavoro in Turchia. Blocchi dei social, arresti, veline e margini di manovra ridottissimi: raccontare la verità ai tempi del Sultano può costare caro. Tanto che media importanti come il New York Times, domenica, hanno deciso "di proteggere le identità dei loro reporter locali, come in Siria e in Afghanistan", evitando di firmare gli articoli sull’attacco al Reina. Parlare di media blackout in Turchia, paradossalmente, non fa più notizia. Come di consueto in caso di terrorismo, pochi minuti dopo la strage del Bosforo l’authority per le comunicazioni del governo turco (Btk) ha imposto il blocco dei social. Un copione già visto in numerose occasioni, dal golpe di luglio passando dall’attentato all’aeroporto Ataturk fino all’uccisione dell’ambasciatore russo. Ma questa volta Erdogan ha affilato la scure della censura. Pochissime le informazioni diffuse. Alla stampa sono state passate solo le fotografie segnaletiche dei sospettati (che in un caso si sono rivelate sbagliate). Nessun aggiornamento regolare sullo stato delle indagini, nonostante un terrorista sia in fuga. "Le azioni che elogiano il terrorismo sono reati e avranno conseguenze penali", ha scritto - su Twitter - il premier Binali Yildirim. Più comodo infatti usare il terrorismo per fare piazza pulita dei giornalisti sgraditi. Il risultato è che ad oggi sono 3.700 le persone sottoposte a custodia cautelare per "commenti sui social", mentre altre 10 mila risultano indagate. Un record angosciante che va di pari passo "con il numero di giornalisti incarcerati che nel solo 2016 hanno toccato la vetta di 81 superando quelli di Iran e Cina", come sottolineano dalla Committee to Protect Journalist. Ed è in questo clima che tre giorni fa è finito in cella Ahmet Sik, noto giornalista investigativo e contributor di testate importanti come Cumhuriyet e Reuters, accusato di propaganda terroristica per le sue posizioni filo curde. Non va meglio per i giornalisti stranieri. Dion Nissenbaum del Wall Street Journal è stato tenuto in cella per due giorni senza poter contattare la moglie o un avvocato per aver postato un video dell’Isis. Al di là dei proclami sulla sicurezza, l’escalation della censura turca da tre anni a questa parte riguarda soprattutto la Rete e ricorda molto da vicino quella iraniana. Secondo Yaman Akdeniz, professore di diritto alla Istanbul Bilgi University, il sistema di controllo del Sultano è equiparabile "a un gigantesco antivirus che riceve regolari aggiornamenti da un server centrale e che agisce con la complicità dei provider disponibili a bloccare i siti su indicazione del governo". Aggirare l’ostacolo dunque si fa sempre più difficile. Come fanno notare gli attivisti di Turkey Block, anche i sistemi di navigazione protetta, Vpn e Tor, sono stati bloccati. Addio quindi all’uso di server stranieri. E per chiudere un sito al governo basta invocare l’accusa di oscenità. Una tecnica usata, nel solo 2015, ben 71 mila volte. Perché se il Sultano ordina, in Turchia così deve essere. Brasile. Oltre 60 morti nel carcere di Manaus. Scontri tra bande nelle prigioni sovraffollate di Geraldina Colotti Il Manifesto, 3 gennaio 2017 Almeno 60 persone sono morte in uno scontro fra bande rivali nel penitenziario di Manaus, capitale dello stato brasiliano di Amazonia. Secondo l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) si è trattato di uno dei peggiori massacri avvenuti nelle carceri del paese, considerate un vero e proprio inferno. Durante gli scontri, iniziati domenica, vi sono state numerose decapitazioni, alcuni detenuti sono stati mutilati e bruciati. Circa 90 carcerati sono riusciti a fuggire, ma 40 sono stati ripresi. All’origine del massacro, la lotta per il controllo del penitenziario e degli affari che vi prosperano tra la banda denominata Primo comando della capitale, basata a San Paolo, e quella della Famiglia del Nord, che predomina nelle carceri dell’Amazonia ed è alleata del potente gruppo mafioso Comando Vermelho, che agisce a Rio de Janeiro. Inasprimento delle pene, incremento dei delitti più gravi, durata dei processi giudiziari, abuso del carcere preventivo, assenza di misure alternative e di interventi strutturali su povertà e disuguaglianze, hanno elevato la popolazione carceraria a 548.000 persone: la quarta più numerosa al mondo, dietro Stati uniti, Russia e Cina. I reclusi vivono in condizioni sub-umane nelle strutture adatte a contenere solo 319.000 persone. Negli ultimi mesi, vi sono state altre rivolte sanguinose, negli stati del Rio Grande do Sul, Roraima, Rondonia e Acre. Una situazione destinata a peggiorare, visto il cambio di indirizzo nelle politiche sociali deciso dal governo di Michel Temer dopo l’impeachment contro Dilma Rousseff. Secondo dati ufficiali, tra settembre e novembre del 2016, il numero dei disoccupati ha raggiunto la cifra record di 12,1 milioni di persone, pari all’1,9% della popolazione economicamente attiva. La principale economia latinoamericana si è contratta l’anno scorso del 3,8%, il peggior risultato degli ultimi 25 anni. Dati che sono serviti alle destre e ai loro terminali internazionali per portare avanti la campagna contro Dilma e il Partito dei lavoratori e per preparare il terreno ai piani di aggiustamento strutturali voluti dall’Fmi e subito messi in atto da Temer. Anche quest’anno, gli indicatori dicono però che il Pil diminuirà di un altro 3,5%, ovviamente a scapito dei settori popolari su cui si è abbattuta la scure dei tagli alla spesa sociale. In compenso, il governo ha stanziato 1.200 milioni di reales (circa 366 milioni di dollari) per costruire nuove carceri e "modernizzare" quelle esistenti. Secondo il portavoce del governo, Alexandre Parola, si tratta del maggior investimento fin qui erogato, che il Fondo penitenziario nazionale (Funpen) distribuirà ai 27 stati federali del paese. Fondi che, per come si presenta la situazione in Brasile e visto il profilo dei governanti (gran parte dei quali inquisiti per corruzione), finiranno per alimentare il sistema clientelare che regge i meccanismi di potere di quella "vecchia oligarchia del denaro e del privilegio che - nelle parole di Frei Betto - non ha mai accettato che, dai piani bassi, qualcuno sia arrivato a essere presidente del Brasile e abbia incluso socialmente milioni di figli e figlie della povertà". E, dalle carceri brasiliane, arriva un’accorata denuncia della moglie dell’ex sindacalista Enrique Pizzolato, vessata dalle guardie per l’ultimo dell’anno.