Cara Amministrazione penitenziaria, ti scrivo… di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 31 gennaio 2017 Scrivo in generale all’Amministrazione perché non so, in questo momento, chi è il nostro interlocutore: Santi Consolo, magistrato, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che si è pronunciato in modo chiaro contro l’ergastolo ostativo, e quindi immagino voglia anche rendere meno penose le condizioni di detenzione delle persone condannate a quella pena; Roberto Piscitello, magistrato, che dirige la Direzione Generale Detenuti e Trattamento, da cui ci aspettavamo tante risposte il 20 gennaio, alla Giornata di dialogo Contro la pena di morte viva, risposte che non abbiamo ancora avuto per una urgenza che lo ha costretto a tornare a Roma; Carlo Villani, magistrato, che è il nuovo responsabile dell’Alta Sicurezza. A loro vogliamo segnalare, come abbiamo sempre fatto, in modo preciso, equilibrato, non urlato, alcune pesanti contraddizioni che riguardano i circuiti di Alta Sicurezza: - Che cosa resta delle sezioni di Alta Sicurezza a Padova? 18 detenuti, "sopravvissuti" al tentativo di chiusura, che poi è finito con alcune declassificazioni, alcuni rigetti di declassificazioni, molti trasferimenti e una promessa di non chiudere più l’Alta Sicurezza 1 di Padova. - Questa promessa però sta diventando molto poco concreta. La sezione è ferma, con ben 32 celle disponibili, mentre le altre sezioni AS 1 in giro per l’Italia sono sovraffollate, e tanti detenuti, a Parma, a Opera, a Voghera accumulano rapporti disciplinari e isolamento perché non sono più capaci di sopportare di condividere la cella con qualcuno. Allora, gli spazi a Padova ci sono, e non deve assolutamente finire che non siano utilizzati e che ci teniamo il sovraffollamento, ci teniamo le sofferenze di chi, condannato all’ergastolo o a lunghe pene, non ha neppure diritto a un piccolo spazio di intimità. Il miglior segnale che l’Amministrazione può dare è di far tornare a Padova quei detenuti che a Padova avevano intrapreso un percorso importante di crescita e di cambiamento, bruscamente interrotto nel 2015 per l’annunciata chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza del Due Palazzi. - Perché allora l’Amministrazione penitenziaria non decide di fare dell’AS 1 di Padova una sezione sperimentale, dove si lavori all’ipotesi, sostenuta dal Tavolo 2 degli Stati Generali dell’esecuzione penale, di un graduale superamento dei circuiti, e nel frattempo si promuovano iniziative di confronto e di dialogo tra detenuti di Media e di Alta Sicurezza, e poi con la società esterna, come avviene per chi partecipa alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti? - E a proposito della redazione di Ristretti Orizzonti, ci sono 5 detenuti AS 1 che ci lavorano a tempo pieno, che incontrano le scuole, che hanno preso le distanze dal loro passato, che si sono esposti e hanno coinvolto le loro famiglie in questo percorso di assunzione di responsabilità. Si chiamano Agostino Lentini, Antonio Papalia, Aurelio Quattroluni, Tommaso Romeo, Giovanni Zito. Roberto Piscitello li ha invitati a ripresentare la richiesta di declassificazione, ma qualcuno al DAP è intenzionato davvero a dare valore al cambiamento delle persone, cominciando con il declassificarle, o preferisce fare questo "regalo" alla mafia (perché di questo si tratta, in fondo) di continuare a credere che i "cattivi" non cambiano mai? - Nella relazione del DAP per l’apertura dell’anno giudiziario 2017 si legge: "In questo processo di riordino si è inteso dare impulso al potenziamento delle procedure di declassificazione per l’eventuale estromissione di detenuti dal circuito Alta Sicurezza e il loro inserimento nelle sezioni dedicate ai soggetti comuni". Ma questo "potenziamento delle procedure di declassificazione" in cosa concretamente si traduce? Perché l’unico potenziamento possibile è che la Direzione Generale Detenuti e Trattamento metta finalmente in discussione le informative delle Direzioni Antimafia, che sono nella stragrande maggioranza dei casi non una fonte di informazioni sul presente ma una fotografia del passato. - Per far fronte in modo organizzato a queste situazioni, e perché le persone detenute abbiano più ascolto e più attenzione, noi proveremo a dar vita a un Osservatorio che faccia lavorare insieme tutti i soggetti coinvolti su questi temi, per mettere sotto controllo le continue limitazioni ai percorsi rieducativi che avvengono nelle sezioni AS; per monitorare la concessione delle declassificazioni; per accogliere le testimonianze e le segnalazioni dei famigliari; per rendere tutto il sistema dei circuiti di Alta Sicurezza e del regime del 41 bis davvero TRASPARENTE. - Roberto Piscitello, che dirige la Direzione Generale Detenuti e Trattamento, ha promesso di tornare nei prossimi giorni nella nostra redazione. L’abbiamo incontrato già due volte in redazione a Padova, e una volta a Parma. Abbiamo apprezzato la sua capacità di ascolto, l’interesse con cui si è informato sulle condizioni di vita e sulle storie personali dei detenuti. Da lui ora aspettiamo delle risposte, e anche dei cambiamenti veri, profondi della qualità della vita detentiva. - Per finire, se parliamo di cambiamento, di rieducazione, di responsabilità del detenuto, fa pensare il fatto che il Dipartimento che dovrebbe occuparsi di questi percorsi abbia ai livelli più alti solo magistrati, spesso provenienti dall’Antimafia, e nessun esperto di pedagogia, di processi educativi, di RIEDUCAZIONE. Francesco Cascini, magistrato che è ai vertici del Dipartimento che si occupa delle misure di Comunità, di recente ha affermato: "I giudici della cognizione, i pubblici ministeri si occupano esclusivamente del fatto, mentre è necessario modulare l’esecuzione penale a partire da una valutazione del fatto, che è importante e determinante, ma che si deve combinare con una valutazione della persona, che è indispensabile per individuare la sanzione più adatta per raggiungere l’obiettivo costituzionale". Cominciamo allora a parlarne, di questa anomalia per cui "i giudici del fatto" sono chiamati a occuparsi di realtà che meno conoscono, cioè dei percorsi rieducativi, del reinserimento delle PERSONE che stanno scontando una pena. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Intervista ad Andrea Orlando. "La protesta dell’Anm sulle pensioni è solo corporativa" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 gennaio 2017 Qui si stanno scomodando i massimi sistemi, la separazione dei poteri dello Stato, per rivendicazioni corporative. Ma quando il governo Berlusconi aumentò da 70 a 75 anni l’età massima per il trattenimento in servizio delle toghe non mi sembra che ci siano state simili reazioni". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando replica al presidente dell’Anm Piercamillo Davigo che solo due giorni fa lo aveva accusato di essere "nemico" dei magistrati. Davigo aveva inoltre attaccato governo e guardasigilli perché colpevoli di utilizzare l’intervento sull’età pensionabile per minare l’autonomia e l’indipendenza delle toghe e "scegliersi i propri giudici". Ma Orlando non ci sta: "Il governo e il sottoscritto - dice al Dubbio - non hanno alcun potere nella scelta dei capi degli uffici. Lo sanno tutti che questo è un compito esclusivo, come scritto in Costituzione, del Consiglio superiore della magistratura. Ed io non ha mai interferito in questi anni sulle scelte effettuate dall’Organo di autogoverno". "Consapevole della funzione sociale della classe forense e della sua importanza nei rapporti tra cittadino e Giustizia, è interlocutore attento e sensibile degli Avvocati, capace di ascoltare le questioni poste e di riconoscere i valori della professione". Con questa motivazione, al ministro della Giustizia Andrea Orlando è stato conferito, dal presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano Remo Danovi, il "Sigillo di San Gerolamo", massima onorificenza dell’Avvocatura milanese intitolata al patrono dei giureconsulti. La cerimonia di consegna si è svolta sabato scorso nel capoluogo lombardo durante la cena di gala organizzata dall’Ordine di Milano per celebrare l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Oltre al ministro, erano presenti il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio e tutti i vertici degli uffici giudiziari milanesi. La manifestazione è stata anche l’occasione per fare il punto con il ministro Orlando sullo stato della giustizia e su alcune recenti polemiche con la magistratura. Il mese scorso è stato celebrato a Milano il decennale del Processo civile telematico, per ricordare la data dell’11 dicembre 2006, quando venne effettuato, proprio da qui, il primo deposito telematico di un atto di parte con pieno valore legale. L’avvocatura ha giocato in questi anni un ruolo importante nello sviluppo del Pct, contribuendo in maniera significativa affinché questo progetto si realizzasse. Concorda? Certo, la collaborazione dell’avvocatura, in particolar modo quella milanese, per quanto attiene lo sviluppo del Pct è sotto gli occhi di tutti. Se Milano è in questo ambito, ma non solo, all’avanguardia, grandi meriti sono proprio dell’avvocatura. Milano può essere considerata un modello di riferimento nazionale? Milano si conferma un modello di riferimento anche europeo per quanto attiene le prassi innovative nel settore della giustizia. Ed è per questo che rimango alquanto sorpreso quando alcuni usano toni catastrofistici descrivendo una situazione allo sfascio. I magistrati l’hanno accusata di essere un loro "nemico". Cosa risponde? Premesso che io non sono nemico dei magistrati, vorrei poter essere ricordato per altre questioni. Ad esempio, per aver portato a compimento lo sviluppo del Pct. O per essere stato il primo ministro che, dopo molti decenni, ha rideterminato le piante organiche di tutti gli uffici di primo grado con un parere positivo e unanime del Csm. O ancora, per essere stato il ministro della Giustizia che, dopo venti anni, ha bandito un concorso, attivato mobilità da altre amministrazioni e scorrimenti di graduatorie che porteranno negli uffici 5100 nuove unità di personale. Nel corso del suo intervento nell’Aula magna del palazzo di giustizia di Milano, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo ha però accusato il governo, a proposito dell’intervento sull’età pensionabile, di minare l’autonomia e l’indipendenza delle toghe. Si sente chiamato in causa? Sul punto vorrei innanzitutto dire che è singolare che si contesti l’utilizzo del decreto per modificare l’età pensionabile e poi, contemporaneamente, si contesti di non averlo utilizzato per correggere quel presunto sbaglio. Il tema dell’età pensionabile rientra nella normale dialettica fra governo e magistratura. Per quanto attiene alla proroga concessa ad alcuni magistrati, questa riguardava la dimensione organizzativa della Cassazione ed era per far fronte a delle scoperture. E la ventilata minaccia all’autonomia e all’indipendenza della magistratura? Ripeto, qui si stanno scomodando i massimi sistemi, la separazione dei poteri dello Stato, per rivendicazioni corporative. Vorrei dire una cosa: quando il governo Berlusconi aumentò da 70 a 75 anni l’età massima per il trattenimento in servizio delle toghe non mi sembra che ci siano state simili reazioni. L’Anm dice che con questo provvedimento il governo si sta, di fatto, scegliendo i propri giudici. Questa è una classica fake news. Una "post verità", come si dice ora? Certo. Il governo, ed il sottoscritto, non hanno alcun potere nella scelta dei capi degli uffici. Lo sanno tutti che questo è un compito esclusivo, come scritto in Costituzione, del Consiglio superiore della magistratura. Ed io non ha mai interferito in questi anni sulle scelte effettuate dall’Organo di autogoverno. A proposito di Csm, la riforma del Consiglio era un punto del programma di governo. La commissione di studio da lei nominata e presieduta da Luigi Scotti aveva elaborato la revisione del sistema per eleggerne la componente togata, ritenuto fondamentale strumento, almeno negli auspici, per attenuare l’eccessivo potere delle correnti. Non ci sono più speranze affinché questa riforma vada in porto? Abbiamo fatto un lavoro importante. Al Csm si è anche avviata una seria riflessione su questo argomento con un dibattito in plenum. Ma bisogna tenere conto del fatto che la legislatura è ormai alle battute finali e non ci sarà tempo per presentare un disegno di legge organico sulla riforma del Consiglio superiore. Spero comunque che questo lavoro non vada perso e serva come base di partenza per chi verrà dopo. Proposta di legge sulla "sicurezza urbana": carcere per chi imbratta i muri di Valentina Conti Il Tempi, 31 gennaio 2017 Arriva in Parlamento la proposta di legge per i reati contro la "sicurezza urbana". Il giudice di pace penale potrà decidere il fermo fino a dieci giorni. Una proposta di legge per contrastare i comportamenti lesivi della sicurezza e del decoro urbano. Che, se approvata, stravolgerà la situazione normativa vigente. Col Giudice di Pace Penale che potrà decidere su tutti quegli illeciti costituiti da comportamenti lesivi in tal senso, riconoscendogli accanto alla facoltà di irrogare le sanzioni in essere (pena pecuniaria, permanenza domiciliare, lavori di pubblica utilità), una quarta forma di sanzione costituita dalla "permanenza presso la polizia giudiziaria fino ad un massimo di 10 giorni". E poi le amministrazioni comunali che dovrebbero farsi carico di mettere a disposizione della polizia giudiziaria appositi locali idoneamente attrezzati per assicurare l’applicazione della nuova forma sanzionatoria, oltre che a provvedere alle spese per la loro gestione. E l’ipotesi che per alcuni reati che rientrano nel concetto generale di "sicurezza urbana", come lo spaccio di modesta entità o il furto aggravato ai danni di turisti e cittadini, anche a bordo dei mezzi pubblici, possa essere introdotta la possibilità di rendere obbligatoria, nel caso dell’individuazione dei responsabili in flagranza di reato (o di quasi flagranza), la celebrazione dei processi per direttissima di fronte il giudice monocratico, nonché la permanenza degli imputati presso la polizia giudiziaria fino all’emissione della sentenza di primo grado. Porta la firma del deputato di Area Popolare Andrea Causin e sarà presentata domani a Montecitorio insieme al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Prostituzione di strada con i connessi atti osceni in luogo pubblico, accattonaggio molesto o attuato con metodologie degradanti, ovvero con impiego di minori o disabili o con l’utilizzo di animali, abuso di assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti manifeste o che generino comportamenti molesti o violenti, il danneggiamento di edifici pubblici e privati, l’occupazione di suolo pubblico o l’invasione di edifici abbandonati per realizzare in modo precario la propria dimora anche temporanea, l’assunzione di sostanze stupefacenti in luogo pubblico, il commercio abusivo su suolo pubblico, gli atti contrari alla pubblica decenza, la reiterata occupazione del suolo pubblico: questi in dettaglio i comportamenti che, in tal caso, passerebbero alla competenza sanzionatoria del Giudice di Pace Penale. "La proposta di legge nasce da un episodio di qualche mese fa: un ubriaco si è lanciato dal ponte di Rialto e ha centrato un motoscafo. Dopo alcuni mesi di coma è morto. E per fortuna nella barca non c’era nessuno. Il Sindaco Brugnaro me ne ha parlato. Quella persona era stata fermata più volte dalla polizia municipale senza poter fare nulla. 24 o 48 ore in cella di sicurezza gli avrebbero salvato la vita, e non avrebbe messo in pericolo quella di altri. Così, abbiamo pensato di dare qualche strumento anche ai sindaci, alle forze dell’ordine e alla polizia municipale che si trovano di fronte a tanti casi simili ogni giorno", spiega Causin ali Tempo. "Pensiamo a quante persone sono state fermate e subito rilasciate perché non c’erano spazi e strumenti, salvo poi macchiarsi di crimini più gravi". Nelle grandi città, i fenomeni di criminalità e microcriminalità sono mediamente in diminuzione del 5%, come ha riferito qualche giorno fa il Capo della polizia Franco Gabrielli. Ma questo non coincide, come noto, con la percezione della sicurezza dei cittadini. "Forse - rimarca Causin - perché si sono depenalizzati troppi reati minori, o perché la gente è scoraggiata e non denuncia nemmeno più. Anche le ultime visite fatte nelle periferie della Capitale dalla dedicata Commissione lo dimostrano". "La depenalizzazione - prosegue il deputato di Ap - non può essere giustificata solo dall’intasamento delle carceri e delle aule dei tribunali. Togliere la sanzione non ha avuto il significato in Italia di eliminare il reato. Quando il diritto dei cittadini alla libertà e alla sicurezza viene messo in discussione è sempre un fallimento dello Stato. Dunque, la risposta va ricercata in futuro in altra direzione". Cyberbullismo solo per minori. Le novità oggi al Senato: un referente in ogni scuola di Emanuela Micucci Italia Oggi, 31 gennaio 2017 Via gli elementi repressivi penali. Via gli elementi relativi al bullismo in generale. Ritorno al fenomeno scolastico educativo limitato ai minori e al cyberbullismo. Ritorna alle origini il disegno di legge su bullismo e il cyberbullismo, in discussione al senato. Il relatore del Ddl Francesco Palermo (Aut-Psi) annuncia la necessità di "tornare sostanzialmente allo spirito e, in buona parte, anche al testo di quel provvedimento originario approvato dal Senato nel maggio 2015", cancellando gran parte delle modifiche approvate a settembre dalla Camera. Una decisone maturata in Commissione Affari Costituzionali che incontra il consenso dei senatori che domani voteranno definitivamente il ddl. Salvati solo "gli elementi migliorativi" introdotti dalla Camera, osserva Palermo, "soprattutto per quanto concerne le campagne informative", per le quali si stanziano 50milioni annui dal 2017, "e i referenti scolastici che devono essere presenti in ogni scuola". Un docente che, precisa il ddl, individuato da ogni istituto "nell’ambito della propria autonomia", coordinerà le iniziative di prevenzione e di contrasto del cyberbullismo, avvalendosi anche della collaborazione della polizia, delle associazioni e dei centri di aggregazione giovanile del territorio. In conformità con la legge 107, le scuole di ogni ordine e grado promuoveranno "quale elemento trasversale alle diverse discipline curricolari" l’educazione all’uso consapevole del web e ai diritti e doveri connessi all’utilizzo delle tecnologie informatiche. Anche attraverso appositi progetti che abbiano "carattere di continuità tra i diversi gradi di istruzione" o che siano elaborati da reti di scuole "in collaborazione con enti locali, servizi territoriali, organi di polizia, associazioni ed enti". Attività di formazione a scuola e sul territorio per le quali si stanziano 203mila euro annui per il triennio 2017-2019. Il dirigente scolastico che venga a conoscenza di atti di cyberbullismo ne informerà tempestivamente i genitori degli studenti coinvolti e attiverà adeguate azioni educative. Mentre sia i regolamenti delle scuole sia il Patto educativo di corresponsabilità verranno integrati con specifici riferimenti a condotte di cyberbullismo e relative sanzioni disciplinari. Al Miur il compito di adottare, entro 30 dall’entrata in vigore della legge, sentito il ministero di giustizia e a costo zero per lo Stato, "linee di orientamento per la prevenzione il contrasto del cyberbullismo nelle scuole, anche avvalendosi della collaborazione delle forze di polizia, e di aggiornarle ogni due anni. Sono quelle previste dalla Buona Scuola, con precise misure per il triennio 2017-2019. Le brigatiste irriducibili che non vogliono uscire dal carcere di Massimo Lugli e Clemente Pistilli La Repubblica, 31 gennaio 2017 Sono cinque, recluse da quasi trent’anni a Latina. Rifiutano di avere qualsiasi rapporto con quello che continuano a definire "lo Stato borghese". Irriducibili. Chiuse nel loro passato di sangue, si aggrappano con tutte le forze a ideali ormai frantumati, usano il linguaggio degli anni di piombo, si chiamano "compagne" tra loro e rifiutano, con ostinazione incrollabile, qualsiasi rapporto con le istituzioni e con quello che continuano a definire "lo Stato borghese". Potrebbero uscire dal carcere, in semilibertà o ottenere facilmente benefici di legge o permessi temporanei con una semplice domanda ma nessuna di loro lo fa. Vagheggiano la lotta armata, inneggiano alla rivoluzione, si trincerano dietro slogan ormai sbiaditi dal tempo nonostante la stragrande maggioranza dei loro ex compagni, quelli che avevano imbracciato le armi come tanti altri di una generazione perduta, siano ormai liberi, tra pentiti, dissociati, graziati, collaboratori di giustizia. È un mondo a parte, un mondo in bianco e nero quello della sezione di Alta Sicurezza del carcere di Latina, tetro istituto di pena costruito nel 1934, un rettangolo di mattoni color rosa spento, circondato da una barriera di metallo, dove, dalla fine degli anni 80, sono detenute le ultime cinque brigatiste ancora votate allo scontro senza quartiere. Si chiamano Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo e Vincenza Vaccaro, hanno tutte una condanna all’ergastolo sulle spalle e un curriculum fatto di arresti, sparatorie, omicidi e rivendicazioni. Sono sulla sessantina, non parlano con nessuno che rappresenti, in qualche modo, un’istituzione e, a guardarle, sembrano tranquille signore che si avviano alla terza età e che, in qualche modo, cercano di curare aspetto e forma fisica (qualcuna non rinuncia a truccarsi). Per il resto, chiusura totale. Negli ultimi mesi, al gruppo si sono unite altre due detenute politiche, Anna Beniamino e Valentina Speziale, provenienti dalle file del terrorismo anarchico. La stessa sezione di Alta Sicurezza, una versione un po’ ammorbidita del carcere duro, è divisa in due piani: quella delle ex terroriste e quella delle donne condannate per mafia o narcotraffico. Nessun rapporto tra i due gruppi. Una sorta di gineceo blindato all’interno di un carcere maschile dove tutto sembra immobile da anni, il computer (ovviamente non collegato in rete) è arrivato soltanto di recente e poche delle detenute hanno mai usato un bancomat o un telefono cellulare. Su questa piccola isola, unica nel suo genere nell’arcipelago carcerario, gravano alcune ombre, specialmente in un periodo in cui l’incubo del terrorismo nazionale e internazionale torna ad affacciarsi. Una sorveglianza a scartamento ridotto denunciata dal sindacato Ugl della polizia penitenziaria. "In tutta la sezione di alta sicurezza ci sono 35 detenute ma, per sorvegliarle, soltanto 13 agenti donne. Ne servirebbero almeno 4 o 5 per turno ma in servizio ce n’è soltanto una", denuncia il segretario nazionale Alessandro De Pasquale, che si è rivolto al prefetto di Latina e al Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. "In queste condizioni, garantire la vigilanza è praticamente impossibile". Nadia Fontana, la direttrice del carcere, rifiuta educatamente, ma fermamente, qualunque colloquio con i cronisti. Eppure le sette recluse "politiche", almeno ideologicamente, non hanno mai deposto le armi e sono ancora un pericolo: nel corso delle indagini sull’omicidio di Massimo D’Antona, il giuslavorista assassinato a Roma, in via Salaria, il 20 maggio del 1999 (un omicidio che fu l’esordio di sangue delle Nuove Brigate Rosse), nelle celle delle irriducibili, a Latina, vennero trovate le bozze di un volantino di rivendicazione, scritte in parte a mano e in parte a macchina, nascoste tra le pagine di libri e riviste. L’inchiesta si concentrò soprattutto su Maria Cappello, una figura emblematica del gruppo. Coinvolta nell’assassinio del sindaco di Firenze, Lando Conti, ucciso con 17 colpi di pistola il 10 febbraio 1986, è rinchiusa nella sezione di Alta Sicurezza da quando aveva 34 anni. Oggi ne ha 63. Ogni anno viene accompagnata con un mezzo blindato a Trani, per incontrare il marito, Fabio Ravalli, che sta scontando l’ergastolo per gli stessi reati, arrestato nell’88 in un covo di via della Marranella a Roma. "Anna", questo il suo nome di battaglia, aveva inventato una sorta di codice segreto, basato sul gioco degli scacchi, per sfuggire alla censura. A trovarla in carcere va, regolarmente, il figlio che abbandonò quando aveva 8 anni per entrare in clandestinità. Costrette ad accettare i pochi incarichi remunerati disponibili, come la pulizia interna, le brigatiste, nel 2010, protestarono per la riduzione di queste opportunità: prima guadagnavano circa 400 euro e in seguito la paga si ridusse a 30. Ultimamente, grazie all’associazione Solidarte, si sono dedicate a lavori di artigianato in cuoio creando un piccolo marchio, "Pig" che ha un doppio significato: la pelle del maiale che usano per creare alcuni oggetti e la sigla "Pellacce in gioco". Per far passare le interminabili giornate nelle celle singole e negli spazi riservati alla socialità, le ex terroriste hanno aderito per qualche tempo a un progetto dell’associazione "Centro Yoga e Shiatsu Shiayur". "Si sono consultate tra di loro e hanno detto sì" spiega il direttore, Rosario Romano. "Le ricordo intelligenti, educate, collaborative. A un certo punto però decisero di smettere: continuare a seguire il corso voleva dire accettare le istituzioni che loro rifiutano". Irriducibili. Processo Stato-mafia. Totò Riina per la prima volta risponderà ai pm di Lara Sirignano Il Messaggero, 31 gennaio 2017 Disteso sulla barella nella saletta delle videoconferenze del carcere di Parma in cui sconta un numero di ergastoli che nemmeno ricorda, sussurra al telefono un sì che nessuno si aspetta. "Avvocato, se lei mi dice che devo rispondere, io rispondo". Sarà l’età, saranno le precarie condizioni fisiche, ma di certo la grinta di un tempo non c’è più. E dalle parole bisbigliate nel 2013 a un compagno di detenzione, piene di livore e odio per magistrati e istituzioni, sembra passato molto tempo. "Sì, secondo me farebbe bene a sottoporsi all’esame", dice l’avvocato di una vita, Giovanni Anania. E Totò Riina, sanguinario capo di Cosa nostra, acconsente. Il colpo di scena - sarebbe la prima volta in assoluto che il boss stragista non si avvale della facoltà di non rispondere - passa quasi inosservato. Al termine di una delle tante udienze del processo sulla cosiddetta trattativa tra la mafia e pezzi delle istituzioni in corso a Palermo, in cui il padrino di Corleone, ormai alla soglia degli 87 anni, è imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. È il presidente della corte d’assise, Alfredo Montalto, a porre il problema dell’esame degli imputati, dieci in tutto compreso Riina. Terminata l’istruttoria chiesta dalla Procura, deve organizzare il calendario e programmare gli interrogatori. I legali, uno a uno, "respingono" l’invito. Alcuni, come il generale dei carabinieri Mario Mori e l’ex ministro Nicola Mancino, preferiscono affidare le loro difese alle dichiarazioni spontanee. L’ex vicecomandante del Ros ne ha fatte diverse. A Mancino toccherà il 10 febbraio. Gli altri - boss, pentiti, ex politici come Marcello Dell’Utri ed ex vertici dell’Arma - scelgono di non rispondere. Finora si era sottoposto all’esame solo Massimo Ciancimino, testimone e imputato al tempo stesso, spettatore privilegiato del dialogo che i carabinieri, tramite suo padre, avrebbero avviato proprio con il capomafia di Corleone. Il superteste da una settimana è in cella per scontare due condanne definitive a 4 anni e 5 mesi. Ora la parola passa a Riina che, secondo l’accusa, alla proposta di dialogo avviata dal Ros dopo gli attentati mafiosi del 1992 avrebbe risposto col "papello", l’elenco con i diktat di Cosa nostra allo Stato. Un pezzo di carta di dubbia autenticità portato ai pm da Ciancimino che proverebbe che la trattativa ci fu e coinvolse l’ala stragista della mafia. "Gli ho detto di rispondere, perché questo è un processo vuoto, una bufala montata ad arte per liquidare Mori e Subranni (ex capo del Ros ndr). E per toglierli di torno era necessario metterci in mezzo qualche mafioso", spiega il legale del boss, certo che il suo cliente possa dare un contributo di chiarezza. Ma, e ne sono convinti anche gli investigatori, chi si aspetta rivelazioni a sorpresa, colpi di scena o ammissioni dall’interrogatorio di Riina rischia di rimanere deluso. "Non c’è nulla da ammettere, so già cosa dirà - anticipa il legale. Dirà "ma quale trattativa se in quel periodo mi cercavano per arrestarmi". Maltrattamenti in famiglia, obbligo di motivare il rigetto dell’appello di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 gennaio 2017 n. 4186. Nell’ipotesi di condanna del convivente per il reato di "maltrattamenti in famiglia" sulla base delle sole dichiarazioni del partner, l’obbligo di motivazione nel giudizio di appello non può ritenersi assolto attraverso il semplice richiamo alla sentenza di primo grado senza dunque chiarire nel merito le ragioni che hanno portato a disattendere le doglianze sollevate dall’imputato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 30 gennaio 2017 n. 4186, accogliendo il ricorso di un uomo di origine ecuadoregna. Il Tribunale di Genova aveva condannato l’extracomunitario a sei anni e sei mesi di reclusione ritenendolo responsabile di una serie di reati per aver sottoposto la convivente "ad un regime di vessazioni fisiche e psichiche consistenti in ripetuti, abituali atti di violenza, minatori ed offensivi dell’onorabilità", unificati dalla continuazione, ed assorbiti nella fattispecie prevista dall’articolo 572 del codice penale. Proposto ricorso, la Corte di appello di Genova confermò la condanna. L’uomo però si è rivolto alla Cassazione lamentando che il giudice di secondo grado non avrebbe assunto alcuna prova decisiva sul suo conto, appiattendosi sulla ricostruzione adottata dal Tribunale senza considerare alcuna delle specifiche doglianza sollevate, ed in particolare la scarsa attendibilità della donna che cambiando continuamente versione, era caduta più volte in contraddizione, confondendo luoghi e date. Una contestazione accolta dalla Suprema corte che ha ritenuto integrato il vizio di motivazione previsto dall’articolo 606, comma 1, lettera e), del Cpp. Secondo i giudici, infatti, in un giudizio di impugnazione "l’obbligo di motivazione non può ritenersi soddisfatto dal mero richiamo alla sentenza in verifica, essendo il giudice del gravame tenuto ad esaminare le censure mosse dal ricorrente e ad esplicitare le ragioni per le quali abbia ritenuto di rigettarle ovvero di farle proprie". "Né - prosegue - l’onere di motivazione può ritenersi assolto dalla pura e semplice affermazione di condivisione delle valutazioni espresse dal giudice nel provvedimento impugnato, senza alcun reale vaglio critico dei motivi di censura e senza una risposta puntuale in merito ad essi". Per cui, la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado deve ritenersi "viziata per carenza di motivazione, e si pone dunque fuori dal pur legittimo ambito del ricorso alla motivazione per relationem, ove si limiti a riprodurre la decisione confermata, dichiarando in termini apodittici e stereotipati di aderirvi, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione che censurino in modo puntuale le soluzioni adottate dal giudice di primo grado, e senza argomentare sull’inconsistenza o sulla non pertinenza di detti motivi". E così è stato nel caso specifico dove i giudici genovesi si sono "limitati ad aderire ai contenuti della decisione di prime cure, senza dare conto degli specifici motivi di impugnazione". E, soprattutto, "senza argomentare sull’inconsistenza o sulla non pertinenza dei motivi stessi, in specie con riferimento al mancato esperimento di un vaglio particolarmente attento delle dichiarazioni della persona offesa". Ciò è accaduto anche con riguardo al più grave delitto di violenza sessuale, "rispetto al quale, sostanzialmente, la sentenza rinvia, peraltro in maniera estremamente rapida, al racconto della persona offesa". E ciò nonostante i motivi sollevati non potessero ritenersi "né generici o palesemente inconsistenti". Legittimo il sequestro dell’azienda se serve solo a mascherare i beni dell’imputato di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 gennaio 2017 n. 4195. Il sequestro preventivo per equivalente non può essere disposto su beni appartenenti a terzi ma, diventa legittimo, su beni concettualmente autonomi rispetto al patrimonio aziendale, e che poi in realtà (grazie a un’interposizione fittizia) fanno capo all’imputato. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 4195/2017. Il soggetto, imputato di diversi reati tributari, ha eccepito come fosse illegittima la misura ablatoria non solo nei suoi confronti ma anche nei confronti di altre due società in cui aveva delle partecipazioni. La richiesta del ricorrente. Il ricorrente ha chiesto, pertanto, che il quantum della misura cautelare fosse diminuito proprio in funzione dell’estraneità delle altre due aziende con i capi d’accusa nei suoi confronti. L’imputato ha presentato così ricorso per il valore dei beni colpiti dal vincolo cautelare di gran lunga superiore alla somma di 72 milioni di euro risultante dalla consulenza di parte e la somma sarebbe stata così molto più elevata rispetto all’ipotizzato profitto dei reati. Circostanza questa - si legge nella sentenza - ammessa dallo stesso tribunale del Riesame il quale avrebbe ritenuto auspicabile "un approfondimento del valore del compendio oggetto del sequestro e una rivalutazione globale dei sequestri complessivi". Sul punto - precisano i Supremi giudici - per la valutazione degli immobili non deve farsi riferimento al valore catastale, ma soltanto a elementi certi e sicuri con i quali procedere a una diversa e più effettiva valutazione. Quest’ultima, deve essere condotta "sulla base dei beni in sequestro e l’entità del profitto del reato prendendo spunto dai dati disponibili". Nella specie ciò non è avvenuto avendo il tribunale del Riesame escluso di poter arrivare a una stima attendibile dei capannoni sequestrati (considerando la data di costruzione, la presenza di probabili irregolarità sotto il profilo edilizio-urbanistico e altro). Ma gli adempimenti estimatori non spettano al Riesame ma sono rimessi alla fase esecutiva della confisca, visto che lo stesso tribunale, tranne i casi di manifesta sproporzione tra il valore dei beni e l’ammontare del sequestro corrispondente al profitto del reato, non è titolare del potere di compiere accertamenti per verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Superato con questa motivazione il motivo di ricorso, la Corte ha ricordato un principio decisamente importante. I confini del sequestro per equivalente. Ossia è vero che la misura cautelare non si può estendere indiscriminatamente su beni giuridicamente di terzi. È il classico esempio del sequestro eseguito su beni afferenti al patrimonio della società, eventualità questa non consentita e che dunque renderebbe effettivamente illegittimo il sequestro dell’azienda non riferibile a un’impresa individuale dell’indagato. Deve fare eccezione, però, il caso in cui il soggetto giuridico, formalmente esistente, costituisca dal punto di vista eminentemente penalistico, un mero schermo per la commissione di reati, atteso che, in tale caso, la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia come trasferimento vero e proprio di valori, ma quale espediente fraudolento simile all’interposizione fittizia con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in "apparente" vantaggio dell’ente ma, nella sostanza nel suo esclusivo interesse. Rigettato l’appello, con condanna del ricorrente alle spese. Mandato di arresto europeo: nuova facoltà ex Dlgs 184/2016 ed eccezioni processuali Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017 Mandato di arresto europeo - Reato di furto con scasso - D.Lgs. n. 184/2016 di attuazione della Direttiva UE 2016/1919 - Duplice difesa dell’imputato nello Stato di esecuzione e in quello di emissione. La consegna della persona ricercata presuppone che il mandato di arresto europeo sia fondato su un compendio indiziario ritenuto - dall’autorità giudiziaria che lo ha emesso - seriamente evocativo di una fattispecie concreta di reato posta in essere dal soggetto di cui viene richiesta la consegna. Deve dunque trattarsi di una valutazione delle fonti di prova (relative all’attività criminosa e al coinvolgimento della persona richiesta) che sia almeno astrattamente idonea a dare fondamento alla gravità indiziaria del quadro fattuale rilevato. In tale quadro probatorio, si inserisce la previsione contenuta nel recente D. Lgs. n. 184/2016, il quale, recependo la Direttiva UE n. 1919/2016, impone alla polizia giudiziaria di informare la persona da consegnare della propria facoltà di nominare un difensore nello Stato membro che ha emesso il MAE: l’omessa informazione determina una nullità di ordine generale a regime intermedio ma non assoluta, riguardando la sfera dell’assistenza all’imputato e non quella dell’iniziativa del PM o dell’omessa citazione dell’imputato o dell’assenza del difensore nei casi in cui per legge ne è obbligatoria la presenza. Pertanto, essa va tempestivamente eccepita prima della decisione di primo grado e non nel giudizio in Cassazione. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 27 gennaio 2017 n. 4128. Mandato di arresto Europeo - Consegna per l’estero - Articolo 9, Legge n. 69 del 2005 - Articolo 4, D.Lgs 184 del 2016 - Avviso al consegnando della facoltà di nominare un difensore - Norma processuale - Effetto retroattivo esclusione - Provvedimento restrittivo interno reso in forma solo verbale - Validità del M.A.E. - Sussistenza - Condizioni. L’eccezione di nullità del procedimento - nel cui ambito è stato emesso un MAE (Mandato di arresto europeo) - per mancato avviso al consegnando della facoltà di nominare un proprio difensore nello Stato richiedente fa fronte all’obbligo previsto a carico dell’ufficiale o dell’agente di polizia giudiziaria previsto dalla Legge n. 69/2005, articolo 9, comma 5-bis, come novellato dal D.Lgs. 15 settembre 2016, n. 184, articolo 4, in attuazione della direttiva 2013/48/UE del 22.10.2013. Ancorché successiva all’arresto del consegnando, tale obbligo è esplicazione del generale diritto all’equo processo. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 16 novembre 2016 n. 48567. Mandato d’arresto europeo - Processo in contumacia. La consegna di un condannato, in esecuzione di un mandato d’arresto europeo, non può essere subordinata alla revisione di un processo condotto in contumacia. La norma della decisione quadro (articolo 4-bis, paragrafo 1, lettere a e b)- che impedisce alle autorità giudiziarie di rifiutare l’esecuzione del mandato di esecuzione di una pena nel caso in cui l’interessato non sia comparso personalmente al processo quando, essendo informato della fissazione del processo, abbia conferito mandato a un difensore e sia stato effettivamente difeso - è compatibile con il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva e a un processo equo, nonché con i diritti della difesa garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sebbene il diritto dell’imputato a comparire personalmente al processo costituisca un elemento essenziale del diritto a un equo giudizio, tale diritto non è assoluto, in quanto l’imputato, con alcune garanzie, può rinunciarvi. Inoltre, non rileva neppure la circostanza che il diritto processuale italiano non prevede la possibilità di impugnare le sentenze di condanna pronunciate in contumacia, e che pertanto il mandato d’arresto avrebbe dovuto essere subordinato, se del caso, alla condizione che l’Italia garantisse la possibilità di impugnare la sentenza. • Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 febbraio 2013, n. 399/11. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Termine minimo di ventiquattro ore previsto dall’art. 10, comma secondo, l. n. 69 del 2005 - Violazione - Conseguenze. In tema di mandato di arresto europeo, l’inosservanza del termine minimo di ventiquattro ore previsto dall’art. 10, comma 2, Legge n. 69/2005, per l’avviso al difensore della data fissata per l’audizione del consegnando, integra una nullità a regime intermedio che deve essere eccepita al momento dell’audizione, a norma dell’art. 182, comma 2, c.p.p. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 16 febbraio 2012 n. 6255. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Decisione pronunciata "in absentia" - Possibilità di ottenere un nuovo giudizio - Sufficienza - Fattispecie. In tema di mandato di arresto europeo, è legittima la consegna disposta ai fini dell’esecuzione di una pena comminata mediante decisione pronunciata "in absentia", quando nello Stato membro di emissione sia consentito alla persona richiesta di ottenere un nuovo giudizio, una volta venuta a conoscenza della decisione di condanna pronunciata nei suoi confronti. (Fattispecie relativa ad un m.a.e. emesso dalle autorità rumene, in cui la S.C. ha escluso l’incompatibilità con l’articolo 6, C.E.D.U. dell’articolo 171 c.p.p. rumeno - che prevede l’obbligatorietà dell’intervento di un difensore per reati le cui pene siano superiori nel massimo a cinque anni di reclusione - sul presupposto che la persona richiesta in consegna era a conoscenza del procedimento penale a suo carico ed aveva già ammesso l’addebito). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 26 giugno 2012 n. 25303. L’indipendenza da sola non fa un magistrato di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 31 gennaio 2017 È preferibile un giudice indipendente o preparato? Indipendente o umano? Indipendente o dotato di buon senso? Domande retoriche fino a un certo punto. Infatti, va da sé che la risposta non potrebbe che riguardare sempre e in ogni caso entrambe le caratteristiche. Tuttavia, come è possibile che da anni e come un ritornello, tutte le volte che si parli di riforme o di qualche argomento relativo alla amministrazione della giustizia, immediatamente il politico, il magistrato, il sindacalista agitano lo spauracchio del possibile vulnus alla indipendenza della magistratura? Questa reazione avrebbe un senso se davvero, concettualmente, l’indipendenza della magistratura si lasciasse cogliere come il valore più alto fra quelli in esame. Tuttavia, così non è, come è facilissimo comprendere. Infatti, anche un bambino comprende che nessuno saprebbe che farsene di un giudice indipendente, vale a dire immune da pressioni o condizionamenti esterni, e tuttavia asino, disumano o del tutto privo di buon senso. Eppure, queste caratteristiche che pur sono fondamentali per ogni giudice degno di questo nome non sembrano attirare l’attenzione di nessuno. Come se fosse secondario o comunque meno importante della indipendenza di giudizio, il requisito della preparazione, della umanità o del semplice (per modo di dire, s’intende) buon senso. Il vero è invece che della indipendenza della magistratura oggi si è fatto una sorta di feticcio ideologico, strumentalmente adoperato e adoperabile allo scopo di opporsi a qualunque proposta di riforma non gradita all’Associazione nazionale magistrati o agli esponenti delle singole correnti. Non appena si propone qualunque riforma protesa a diminuire il potere dei pm o a controllarne l’operato, allora scatta immediatamente la geremiade sui pericoli per la indipendenza e tutto si blocca. Si tratta, come si vede, di una scusa perfino patetica e del tutto non credibile in sede politica e istituzionale. Se per esempio si stabilisse che il pm non può essere arbitro assoluto nell’iscrivere nell’apposito registro il nome dell’indagato, ma che invece su di lui incombe l’obbligo di farlo non appena tale nome gli possa esser noto, non si vede perché e in che modo tale previsione normativa potrebbe mettere in discussione l’indipendenza di quel pm. Anzi, i pubblici ministeri dovrebbero essere lieti di una tale riforma, in quanto li metterebbe al riparo da eventuali indebiti sospetti da parte di qualche mal pensante. E invece no. Sembra quasi si offendano. Sembra quasi di consumare un delitto di lesa maestà. E invece si tratta soltanto di normalissimo buon senso. Merce, oggi, rara. Torino: Sel e Radicali "nel carcere delle Vallette condizioni di vita umilianti" di Jacopo Ricca La Repubblica, 31 gennaio 2017 La denuncia dei Consiglieri regionali di Sel, assieme ai Radicali. Ma diminuiscono i suicidi e gli episodi di autolesionismo. Condizioni di vita umilianti e malsane nella sezione A del carcere delle Vallette. Lo denunciano i capigruppo in Regione e Comune di Sel, Marco Grimaldi ed Eleonora Artesio, che questa mattina sono stati in visita nella casa circondariale Lorusso e Cotugno assieme ai Radicali, Igor Boni e Silvja Manzi. "Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi che la sezione A in particolare è un vero disastro - racconta Grimaldi. I bagni a vista, uniti all’odore di muffa e alle infiltrazioni, rendono indecorosa la vita degli uomini che ci vivono. Docce sporche, ascensori fermi ormai da anni e cascate di acqua dai cavedi aggravano ulteriormente il quadro". Le condizioni strutturali precarie di uno degli edifici più vecchi del carcere, più volte finito nel mirino delle associazioni che si occupano dei detenuti, erano state più volte denunciate dallo stesso direttore Domenico Minervini. In questa sezione sono ospitati il presidio sanitario e il Sestante, cioè lo spazio dedicato ai detenuti che hanno problemi psicologici e si trovano però a vivere in spazi fatiscenti. "Ho parlato con alcuni detenuti mentre fumavano che mi hanno chiesto di fare qualcosa - aggiunge il consigliere regionale - Mi appello alle autorità competenti perché non vanifichino solo per inedia il buono che cresce in questo carcere. Il ministero della Giustizia deve provvedere ai finanziamenti per sostituire gli ascensori guasti, rifare il cappotto esterno dove vi sono le infiltrazioni e consentire la presenza di un numero equo di educatori". Uno dei problemi delle Vallette resta infatti il personale, per gli oltre mille detenuti (in questi mesi le presenze si assestano tra le 1280 e i 1350 persone) ci sono 14 educatori e anche la polizia penitenziaria, tramite i suoi sindacati, ha denunciato di essere sotto organico: "Il Carcere di Torino per la sua dimensione e il suo funzionamento potrebbe essere una struttura modello: a una gestione competente e intelligente, che ha abbassato le tensioni e diminuito le problematicità, si accompagna una fattiva interazione con la popolazione detenuta che però sta di nuovo, purtroppo, raggiungendo un livello ai limiti di guardia - commentano Manzi e Boni - La struttura obsoleta, però, non consente un pieno ottimismo: questo carcere è ormai strutturalmente fatiscente, basti pensare alle barriere architettoniche presenti che lo rendono, di fatto, fuori legge. E vivere in una struttura degradata, per i detenuti come per chi ci lavora, non può che essere umanamente degradante. Si tratta di investimenti non più rinviabili". Ombre, ma anche luci: secondo i dati forniti dalla direzione sembrano essere in diminuzione i tentativi di suicidio e gli episodi di autolesionismo: "Rispetto a un tempo poi la prima accoglienza per i nuovi detenuti sta funzionando - dice ancora Grimaldi - Con la fornitura di un kit di intimo all’ingresso, i colloqui di primo ingresso con gli educatori si sono fatti grandi passi avanti. A questo si aggiunge l’attivazione di circa 230-240 posti di lavoro con enti pubblici e non solo che dovrebbero crescere ancora". Anche per Artesio bisogna continuare così: "Il Comune intrattiene molte collaborazioni con i programmi dell’istituto penitenziario, dalla promozione di attività occupazionali alla qualificazione del ‘tempo’ con investimenti culturali alla nomina del Garante dei diritti. Abbiamo non solo la sensibilità, ma tutto l’interesse a che la dimensione carceraria sia, come dice la Costituzione, una fase di presa di coscienza e di riorientamento delle persone detenute". Ivrea (To): "chiudete le celle lisce"… il Dap interviene sul carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2017 Dopo le ispezioni del Garante dei detenuti e del Provveditorato, Santi Consolo scrive alla direttrice. "Si prega di inibire l’uso della stanza detentiva denominata "cella liscia" posta al reparto isolamento". Così il capo del Dap Santi Consolo scrive nella lettera indirizzata alla direttrice del carcere di Ivrea. Ma non solo. Ordina anche la chiusura della sala d’attesa per le visite mediche che veniva utilizzata come una seconda "cella liscia". Infatti ha disposto di "interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche fino al ripristino delle necessarie dotazioni, e di assicurare, terminati gli interventi di adeguamento, che il suo uso sia limitato a brevissimi archi temporali e per le sole esigenze per le quali è stata prevista". Il provvedimento del Dap dà atto dell’esattezza del rapporto sul carcere di Ivrea del Garante nazionale dei detenuti, dopo le denunce, anticipate da Il Dubbio, degli episodi di violenza. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Questi episodi sono stati riscontrati non solo dalla delegazione del Garante nazionale, ma anche dalla visita ispettiva da parte del provveditorato regionale effettuata il 16 dicembre scorso. Sempre Santi Consolo, con riferimento del rapporto del provveditorato, scrive che "ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria, la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni detenuti coinvolti nei disordini - alcuni dei quali erano visibilmente atroci - possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria volto a contenere le resistenze durante il tragitto di accompagnamento degli stessi dalla sezione del quarto piano, ove erano collocati, al piano terra". Intanto, per ordine del Dap, le due stanze utilizzate come celle di isolamento vengono chiuse. Nel frattempo la direzione del carcere, nel caso della cella liscia chiamata dai detenuti "l’acquario", ha assicurato di provvedere al rifacimento del bagno, eliminando la cosiddetta turca, al risanamento della finestra volta ad areare il locale, nonché alla tinteggiatura della stanza liscia e all’inserimento dei suppellettili. Quanto alla sala d’attesa dell’infermeria utilizzata come seconda "celle liscia", la direzione del carcere ha promesso che farà riaprire il finestrotto per far circolare l’aria e ripristinerà il termosifone. Tale stanza - come ha stabilito il Dap, una volta ristrutturata, verrà utilizzata per tempi assolutamente brevi e strettamente funzionali alle esigenze per le quali è stata prevista. Santi Consolo evidenza nella lettera indirizzata al ministero della Giustizia che "sarà cura del provveditorato regionale - che già nel mese di luglio 2016 aveva sensibilizzato le direzioni del suo distretto di competenza ad assicurare che la sanzione dell’isolamento avvenga in luoghi idonei, decorosi e non, come talvolta accade, privati di ogni minima suppellettile, fatto che pone o rischia di aggravare uno stato di reattività o peggio depressivo - programmare, con i fondi del 2017, la ristrutturazione dei locali segnalati". Catanzaro: il Garante per l’infanzia della Regione in visita al carcere di Siano giornaledicalabria.it, 31 gennaio 2017 Il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione, Antonio Marziale, è stato ricevuto lunedì dalla direttrice dell’istituto penitenziario "Ugo Caridi" di Siano, a Catanzaro, Angela Paravati, ed insieme hanno visitato i locali destinati all’accoglienza dei figli dei detenuti, ideati con l’obiettivo di renderli meno traumatici. "In effetti - afferma Marziale - la sala soggiorno risponde a questa finalità, dando l’impressione, con i murales realizzati dagli stessi ospiti della struttura, di essere un ambiente adeguato per soggetti delicati quali i bambini che vivono questa triste situazione familiare. Purtroppo, però, ciò non basta: servono altri interventi strutturali perché il disagio del bambino possa essere alleviato in modo serio ed efficace e serve, soprattutto, una presa di coscienza collettiva di fronte ad un fenomeno finora largamente sottovalutato, che ha forti risvolti sociali, culturali e psicologici, tenendo conto, per esempio, che il solo fatto di essere figli di detenuti, di per sé rappresenta, per chi lo vive, un fattore di isolamento e di esclusione sociale". "La comunità, infatti - continua Marziale - è distante da questo dramma rispetto al quale anche il volontariato, così prezioso nelle corsie ospedaliere, ha fatto un passo indietro dentro le carceri. Pertanto, nel mio ruolo di cerniera con le istituzioni, seguirò, insieme con la direttrice, questo percorso che deve sfociare in un salto culturale e in iniziative che lascino il segno. Ringrazio il Garante per la sensibilità dimostrata e per la piena adesione al nostro sforzo di sensibilizzare la società verso bambini che si trovano senza difese. Ovviamente, necessitano alcune cose e le idee che si possono mettere in campo sono tante. Tra queste, certamente creare altre sale soggiorno, un’area verde attrezzata all’aperto, e avvicinare i bambini ai genitori detenuti anche attraverso la realizzazione di fiabe da condividere insieme". Palermo: detenuti e donne in difficoltà ripartono dalla "Sartoria sociale" di Roberto Vitellaro palermotoday.it, 31 gennaio 2017 È stato presentato ieri a Palermo il progetto "Sartoria Sociale 3D" realizzato dalla cooperativa sociale Al Revés con il contributo economico di UniCredit. La cooperativa ha acquistato una stampante 3D, un computer e alcuni arredi d’ufficio al fine di poter sviluppare il settore della graphic design e poter realizzare elementi tridimensionali. "La donazione della banca - ha sottolineato Roberto Cassata, responsabile Sviluppo del Territorio Sicilia di UniCredit - è finanziata da una carta di credito, la UniCreditCard Flexia Classic E, che raccoglie il 2 per mille di ogni spesa effettuata dai clienti, alimentando così un fondo che la Banca destina a iniziative di solidarietà nel territorio. Dal 2011 a oggi in Sicilia, attraverso questo normale prodotto bancario, la banca ha assegnato oltre un milione centomila euro a 109 Onlus che operano nell’isola. Per UniCredit essere banca del territorio significa anche fornire un contributo concreto alle necessità delle comunità nelle quali la Banca opera supportando il mondo del sociale e del volontariato. E in Sicilia questo mondo è fatto di tante realtà di assoluto livello". La cooperativa Al Revés ha la missione di sviluppare impresa sociale per favorire l’inclusione socio-lavorativa di persone svantaggiate. Ha al suo attivo la Sartoria Sociale, una start-up d’impresa nel campo del riciclo tessile e sartoriale, oggi impegnata nell’implementazione delle attività di comunicazione e marketing dei propri prodotti e servizi e nella progettazione di uno spazio vendita di e-commerce. La Cooperativa ha accolto, formato e seguito oltre 70 utenti, tra cui detenuti immigrati, donne in difficoltà, tossicodipendenti e persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria. "Il disagio delle persone, oggi, - ha dichiarato Rosalba Romano, responsabile del progetto Sartoria sociale 3D - ha bisogno di esprimersi in spazi di incontro che costruiscano un fare condiviso, una reciprocità ed una proiezione verso il futuro. Grazie al contributo di UniCredit e alla rete con altre realtà locali, abbiamo potuto proiettarci verso la sperimentazione di un artigianato digitale che sosterrà la formazione di alcuni giovani svantaggiati verso competenze spendibili concretamente". Airola (Bn): "LiberaRete", dalla detenzione alla libertà con un progetto di riciclo ntr24.tv, 31 gennaio 2017 Da due anni circa è in corso un laboratorio di riciclo e riuso delle apparecchiature elettroniche attivato dalla cooperativa Social Lab 76 per reintegrare detenuti nella società. Promuovere il reinserimento sociale e lavorativo di giovani detenuti offrendo loro opportunità formative e occupazionali è l’obiettivo del progetto LiberaRete, in corso da circa due anni all’Istituto Penitenziario Minorile di Airola. L’iniziativa, finanziata con fondi del Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile, è stata attivata dalla cooperativa Social Lab 76 in partnership con l’Ufficio Esecuzioni penali Esterne di Benevento, l’istituto penitenziario e la Fondazione italiana Charlemagne che ha sostenuto l’avvio delle borse lavoro per i giovani beneficiari del progetto. In particolare, i giovani coinvolti hanno appreso e messo in pratica, dopo una fase di formazione, le tecniche del riciclo e del recupero di apparecchiature elettroniche che potranno poi essere reimmesse sul mercato. Una metafora concreta del percorso di vita dei detenuti dell’IPM di Airola: abbiamo incontrato due di loro che stanno portando a termine il progetto: Roberto, 22 anni, proveniente dal rione Sanità di Napoli e da otto anni nell’istituto, che vede positivamente il progetto in cui è stato coinvolto, consapevole che senza il sostegno delle istituzioni diventa difficile da praticare concretamente la svolta dell’inclusione. Francesco, invece, ha 24 anni, proviene dall’hinterland partenopeo e da un anno si trova all’IPM di Airola: mostra più timidezza ma anche tanta voglia di ricominciare. Il suo pensiero quotidiano più forte - ci ha detto - è quello di scendere in laboratorio per imparare. In linea con gli obiettivi più ampi di rieducazione e di reinserimento sociale delle persone che scontano una pena e di creazione delle condizioni utili a prevenire e ridurre il rischio di recidive, il progetto soddisfa le aspettative del direttore dell’istituto penitenziario minorile, Antonio Di Lauro, che ha sottolineato quanto sia fondamentale l’accompagnamento post detenzione per un vero e proficuo reinserimento. Padova: guardie carcerarie costrette a pagare l’affitto degli alloggi di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 31 gennaio 2017 Manifestazione davanti al carcere Due Palazzi per le guardie carcerarie che vivono nelle stanze attrezzate all’interno della casa di reclusione. Alla cronica carenza di organico, ai diversi problemi che affrontano quotidianamente, ora si aggiunge il problema dell’alloggio. Assistite dall’avvocato Fabio Targa, le guardie protestano contro l’amministrazione carceraria che intende far pagare loro l’affitto della stanza che occupano, con camere e bagni utilizzati anche da altri 150 colleghi come spogliatoi. "L’amministrazione si fa forza di un decreto del 2006 che riguarda gli appartamenti ad affitto agevolato, anche questi interni al carcere, riservati alle famiglie - spiega il portavoce Ignazio Guglielmi - i nostri sono alloggi collettivi, cioè presìdi istituzionali. Siamo praticamente in servizio 24 ore su 24, pronti ad intervenire per ogni emergenza. Se non ci presentiamo subito incorriamo in sanzioni. Lo Stato per reperire denaro ora pretende anche il pagamento delle stanze". Le guardie dovranno entro oggi decidere se pagare l’affitto delle stanze, circa 80 euro al mese, autorizzando il prelievo dallo stipendio, oltre alle spese cui contribuiscono, oppure riconsegnare le chiavi entro 15 giorni e trovarsi una casa. "Noi facciamo servizio non solo dentro il carcere ma anche le scorte a qualsiasi ora della notte per poi tornare in servizio al mattino. Siamo pesantemente sotto organico e spesso facciamo doppi turni di 12 ore, sempre sotto tensione - continua Guglielmi - è anche una questione logistica. Per essere sempre disponibili che dobbiamo fare? Dormire in auto?". Le guardie protestano per il degrado degli alloggi mai sottoposti a lavori di manutenzione. "Il riscaldamento non funziona in metà delle stanze, l’acqua calda è a disposizione solo in alcune ore. Qualsiasi riparazione la facciamo da soli - aggiunge Giovanni Vona - le brande e i materassi sono quelli utilizzati per i detenuti e risalgono al 1984". "Lo Stato in tema di spending review punta anche a poche decine di euro delle guardie - dice il legale - domattina (oggi) presentiamo al giudice del lavoro un ricorso puntando alla sospensione del provvedimento per salvaguardare il diritto ad un’equa valutazione del dovuto sui consumi, attualmente forfettario e calcolato sui metri quadri, in violazione della norma cui si da un’interpretazione estensiva". Roma: detenuto tenta evasione dall’ospedale di Civitavecchia romatoday.it, 31 gennaio 2017 Ha tentato di evadere dall’Ospedale San Paolo di Civitavecchia dove era ricoverato dopo avere avuto un infarto ma è stato acciuffato dai poliziotti penitenziari dopo un inseguimento. È accaduto questa mattina, protagonista un detenuto di nazionalità italiana, ristretto per il reato di rapina aggravata. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Racconta Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio: "L’uomo era stato portato in Ospedale dopo un infarto ed era ricoverato in attesa di essere portato in altro Nosocomio attrezzato. Civitavecchia non ha infatti il Reparto detentivo in Ospedale. L’uomo improvvisamente, si è gettato dal secondo piano del Reparto per tentata la fuga. Ha dunque tentato una rocambolesca fuga ma è stato fermato dagli Agenti di Polizia Penitenziaria subito allertati e posti al suo inseguimento. Bravo il personale che è riuscito a sventare un tentativo di fuga, dimostrando capacità e competenze lavorative. Il detenuto è ora ristretto nuovamente in carcere". "La tentata evasione di un detenuto dall’Ospedale di Civitavecchia" aggiunge da Roma, il Segretario Generale del Sappe Donato Capece "è l’ennesimo grave evento critico che si verifica in un carcere italiano. "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’Amministrazione Penitenziaria. Ogni 9 giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e 3 suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. Come si può dunque sostenere che è terminata l’emergenza nelle carceri italiane?". "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere. Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto", prosegue Capece. "Nell’anno 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti. E spesso i poliziotti penitenziari subiscono le conseguenze di queste sconsiderate violenze", aggiunge il leader nazionale dei Baschi Azzurri. Che sollecita un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando su un fatto specifico: "Mancano più di 8mila Agenti di Polizia Penitenziaria in organico e il Decreto Mille Proroghe ha previsto l’assunzione di 887 nuovi Agenti, circa il 10% dell’effettivo bisogno. Ma l’Amministrazione Penitenziaria ancora non ha assunto alcun provvedimento per assumere i nuovi Agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a partire per i corsi di formazione. Chiediamo dunque al Guardasigilli un suo autorevole intervento per affrontare la questione penitenziaria, che è e rimane una emergenza, a cominciare dalla rapida assunzione dei nuovi Agenti". Torino: l’economia carceraria di Freedhome va in streaming con Ted di Cristina Rosso Ristretti Orizzonti, 31 gennaio 2017 Per risolvere un problema a volte basta guardare le cose con un occhio diverso. Lo stesso dovremmo fare con il carcere, rifondandolo per migliorare la vita di tutti: quelli che stanno dentro e quelli che stanno fuori. Ce lo ha spiegato Gian Luca Boggia domenica 29 gennaio al Lingotto di Torino, invitato da Ted, il celebre format internazionale indipendente il cui obiettivo è diffondere idee di valore attraverso il motto "Ideas Worth Spreading". Boggia, che da quasi dieci anni gestisce una cooperativa sociale nel carcere delle Vallette, è Presidente di Freedhome, la rete che promuove e valorizza l’economia carceraria e che a Torino ha aperto il suo primo store tutto dedicato alle eccellenze produttive degli istituti penitenziari nazionali. Cambiare il carcere a partire dal lavoro è una grande sfida, difficile. Ma se colta, può diventare il modo per garantire più sicurezza nelle città, più risorse umane a disposizione della società facendo girare l’economia con meno sprechi. Le imprese sociali che danno lavoro ai detenuti sono presenti in tutta Italia, sviluppando progetti e sinergie positive con i territori, riscoprendo le tradizioni artigianali di cui è ricco il nostro Paese, e valorizzandone le eccellenze eno-gastronomiche - anche patrocinate da Slowfood - con lo scopo di consentire alle persone di individuare traiettorie positive per il loro futuro. Le cooperative vogliono insomma ripensare il carcere, come un luogo da cui si esce migliori di come si entra. Un progetto ambizioso questo, che si deve confrontare con il mercato, le istituzioni e la società civile. Ma che può regalare a tutti un futuro diverso, anche risparmiando una buona quota di quei 3 miliardi euro all’anno che costa oggi il sistema penitenziario in Italia. Sarebbe sì un buon affare. Per tanti motivi quindi il lavoro in carcere è una grande idea, vincente e rivoluzionaria. E Ted non poteva che darle ossigeno. Trento: storie dal carcere fra scuola e teatro, incontro con Amedeo Savoia museodiocesanotridentino.it, 31 gennaio 2017 Giovedì 16 febbraio alle ore 17.30 il Museo Diocesano Tridentino ospiterà in sala arazzi un incontro con Amedeo Savoia per parlare di scuola e attività teatrali all’interno del carcere. Di carcere si parla poco e, quando se ne parla, gli aspetti che conquistano l’attenzione dell’opinione pubblica sono quelli che fanno notizia, come i suicidi o le fughe. Poco si sa, ad esempio, dell’istruzione in carcere, che è un diritto previsto dalla normativa penitenziaria e al contempo un elemento fondamentale del percorso rieducativo della persona condannata. Amedeo Savoia, docente di Lettere al Liceo Leonardo da Vinci di Trento, insegna da tempo nella Casa Circondariale di Trento. Nella sua pluriennale esperienza Savoia ha anche organizzato dal 1996 al 2014 laboratori di teatro in carcere, in collaborazione con associazioni di volontariato e Iprase. Ingresso libero e gratuito fino ad esaurimento posti disponibili. Ai docenti che ne faranno richiesta sarà rilasciato un attestato di partecipazione. Amedeo Savoia insegna Lettere nei licei dal 1989, attualmente al Liceo "L. da Vinci" e alla Casa Circondariale di Trento. È ideatore e curatore di eventi culturali e artistici. Ha collaborato con l’Istituto per la ricerca e la sperimentazione educativa del Trentino (Iprase) dal 2008 al 2013. Ha curato la drammaturgia e regia di numerosi spettacoli teatrali multimediali con studenti di liceo, facendo esperienze anche presso il Carcere di Trento (1996-2014). È stato consulente per le attività di formazione del pubblico della prosa al Centro Servizi Culturali S. Chiara di Trento (1998-2000). Per l’Istituto Trentino di Cultura (oggi Fondazione Bruno Kessler) ha ideato "Mesi d’autore", un progetto di letteratura, musica e video ispirato agli affreschi del Ciclo dei Mesi di Torre Aquila nel Castello del Buonconsiglio di Trento. Tra gli scrittori coinvolti: Erri De Luca, Dario Voltolini, Giulio Mozzi, Helena Janeczek, Michele Mari e Wu Ming, Edoardo Sanguineti, Maurizio Maggiani, Mauro Covacich (2002-2004). Con Nicola Straffelini ha realizzato la rassegna di letteratura musica e video "Vociferazioni" per l’Associazione di musica contemporanea Quadrivium di Riva del Garda (2005-2016). Attivo spesso in recital letterari e musicali, nel 2012 ha curato la regia e dato la voce con Michele Mari a "Ballata triste di una tromba" alla rassegna letteraria Pordenone legge. Nel 2008 ha curato la drammaturgia di "Mia memoria", recital sui diari di uomini e donne trentini alla prima guerra mondiale in collaborazione con l’etnomusicologo Renato Morelli. Nel 2016 ha scritto il testo "Ulisse sulla banchisa. L’avventura di Shackleton" messo in scena da Finisterrae Teatri di Trento e ha curato per Vociferazioni la regia de "Quel fragoroso silenzio. Gli ultimi quarant’anni di Gioachino Rossini" su testo di Giulio Mozzi. Pavia: carcere di Torre del Gallo, attori senza barriere per salvare la memoria di Simona Rapparelli Avvenire, 31 gennaio 2017 Dopo l’ultimo spettacolo teatrale "Libertà obbligatoria", venerdì scorso per la Giornata della Memoria nell’auditorium-teatro del carcere di Torre del Gallo a Pavia, la compagnia teatrale U.S.B. - Uomini Senza Barriere è diventata stabile. Un passo importante per un gruppo di attori misti, detenuti della sezione "protetti" e persone esterne. Perché sul palco, alla fine, si è tutti uguali: "La compagnia è stata avviata nel 2014 - racconta la regista Stefania Grossi - per dare ai detenuti la possibilità di affrontare il peso e il dolore della colpa provando a sperimentare la libertà del palcoscenico. I detenuti di U.S.B. devono scontare condanne particolarmente gravi: il teatro, nell’ottica della giustizia riparativa, è una specie di guarigione dell’anima". La scelta di organizzare la rappresentazione nella Giornata della Memoria non è stata casuale: "Ricordare per non dimenticare, rivivere i dolori provati e le ferite inferte significa confrontarsi con la capacità di passare dall’essere vittime a diventare carnefici. Volevamo ricordare al pubblico e a tutti noi che possiamo scegliere e fermarci un passo prima della vendetta, e perdonare, interrompendo il circolo del male che ci spinge a dividere tra buoni e cattivi". Allo spettacolo hanno partecipato anche il sindaco di Pavia Massimo Depaoli e l’assessore ai Servizi Sociali Alice Moggi, che ha commentato: "Entrare in carcere ci aiuta a non inseguire i mostri ma a guardare negli occhi le persone, che hanno commesso errori gravissimi, immensi a volte, ma che, forse, un giorno, mi auguro possano avere una seconda possibilità. E che non la buttino via dipende anche da noi, tutti". Roma: i pennelli tirano giù i muri. Del carcere di Paolo Foschi Corriere della Sera, 31 gennaio 2017 Tre artiste hanno coinvolto una ventina di detenuti di Regina Coeli a Roma per realizzare un murale, "Fuori di giugno", e la decorazione della sala cinema. Ora l’impegno a rendere visibili le opere a tutti i cittadini. A Roma c’è chi fugge dal carcere calandosi dalle finestre con le lenzuola annodate, dopo aver lasciato un manichino sotto le coperte per ingannare i secondini, come hanno fatto tre detenuti di Rebibbia a ottobre. Immagini che richiamano alla memoria Il conte di Montecristo e Papillon. Ma c’è anche chi evade solo con il cuore, gettando lo sguardo oltre la cella attraverso una finestra dipinta su un muro, come succede a Regina Coeli, ex convento trasformato in istituto di pena nel XIX secolo. Tre artiste e una ventina di reclusi hanno infatti lavorato insieme per mesi, a titolo gratuito, per realizzare delle opere d’arte permanenti fra le larghe mura che racchiudono l’orizzonte a un migliaio di detenuti, spesso in condizioni che nel 2013 furono definite da Laura Boldrini, presidente della Camera, di "inaccettabile disumanità" al termine di una visita ufficiale. "Abbiamo portato il mondo esterno dentro il carcere, ma è stato anche un modo per far emergere la creatività, i sentimenti e le esperienze di chi vive rinchiuso" racconta a "la Lettura" Laura Federici, architetto, pittrice e videomaker, una delle tre performer, insieme alla street artist Pax Paloscia e alla poliedrica Camelia Mirescu, che hanno sposato il progetto Outside/Inside/Out, organizzato dalle associazioni VoReCo (Volontari Regina Coeli) e Shakespeare & Company2. Un modo per opporre la bellezza dell’arte alla coercizione del carcere ma anche un tentativo di regalare momenti di libertà virtuale ai detenuti perché - come scriveva Goethe - "non c’è via più sicura dell’arte per evadere dal mondo" e forse anche dalla cella. "All’inizio - ricorda Federici - ero spaventata, il primo giorno avevo sicuramente dei pregiudizi che sono scomparsi lavorando insieme. La mia idea era cercare di rendere più aperto uno spazio chiuso. Ogni giorno, arrivando a piedi a Regina Coeli, scattavo fotografie, prendevo appunti e raccoglievo le sensazioni suscitate da ciò che vedevo fuori e poi portavo tutto dentro il carcere. Nelle prime settimane, parlando con i detenuti, ho illustrato che tipo di lavoro avrei voluto fare nell’androne di passaggio che ci è stato assegnato. Molti mi hanno raccontato le loro storie, forse alcuni hanno anche inventato qualche particolare per impressionarmi e io ho cercato di capire non solo come è la vita in cella, ma anche come immaginano il mondo fuori. Poi abbiamo cominciato a dipingere, a mettere insieme foto, a lavorare sulle immagini. E la risposta è stata stupenda, alcuni pur di partecipare hanno rinunciato alle attività retribuite e alle ore di svago". Il risultato è un coloratissimo murale, "una grande finestra aperta sull’orto botanico che costeggia il carcere", spiega Claudio Crescentini, responsabile dell’organizzazione eventi del Macro, il Museo di arte contemporanea che ha promosso il progetto insieme a Roma Capitale. E ancora: "Ci sono alberi raffigurati con lo stile, il linguaggio e le tecniche espressive di Laura Federici ma arricchite dalla partecipazione attiva dei detenuti. Il progetto infatti non voleva essere un’attività didattica o ricreativa all’interno del carcere, come già se ne fanno tante, ma voleva andare oltre e si è posto come momento creativo sullo sviluppo della multifunzionalità dell’arte contemporanea e della sua apertura concettuale in spazi generalmente intesi come chiusi ma che tendono ad accogliere mondi infiniti interiori dei suoi abitanti". Non sono mancate le difficoltà, a cominciare dai problemi burocratici per portare dentro attrezzature e materiali: "Ogni volta c’era da attendere settimane per avere i permessi - dice Federici - ma quando ti avventuri in un progetto del genere molte necessità le scopri giorno per giorno andando avanti con la realizzazione. Però ce l’abbiamo fatta, anche se ho un rammarico: nella nostra opera, intitolata Fuori di giugno, mancheranno due firme, quelle di Roberto e Claudio, che sono stati trasferiti in altri istituti prima della fine del lavoro". Non è stato facile nemmeno convincere il personale del carcere della validità dell’iniziativa: qualcuno infatti vedeva nell’apertura al mondo esterno un’attenuazione della pena ma, con il passare delle settimane, l’entusiasmo ha contagiato gli agenti e la diffidenza è stata sconfitta, grazie anche all’impegno della direzione dell’istituto. Inizialmente i detenuti che hanno deciso di partecipare erano stati divisi in tre gruppi, ciascuno assegnato a un’artista. "A un certo punto però ci siamo rese conto che era cominciata una sorta di gara fra loro e non era questo lo spirito - racconta ancora Federici - e allora abbiamo deciso di alternarli con ciascuna di noi e c’è stato un ulteriore scambio di esperienze". "Un giorno - sottolinea divertita Pax Paloscia, autrice di opere anche a New York - ci siamo ritrovati a lavorare tutti insieme al ritmo della musica di Rihanna, scherzando e ridendo. C’era un’atmosfera bella, non sembrava di stare in un carcere". La street artist in particolare ha progettato e realizzato un intervento di decorazione su tutte le pareti della sala del cinema, raffigurando personaggi famosi del mondo della cultura e dello spettacolo. "Mi sono presentata - aggiunge - con una mia idea. Volevo rendere omaggio ai grandi nomi ma la cosa divertente è che ognuno aveva da proporre un personaggio: dai divi di Bollywood che io nemmeno avevo mai sentito nominare a Pasolini, perché c’era un detenuto che voleva assolutamente che ci fosse. Un altro ragazzo mi ha chiesto di raffigurare il rapper Tupac. È venuta quindi fuori una vera opera collettiva, intitolata Rebirth, "rinascita", e molti detenuti si sono rivelati più bravi degli iscritti di certe scuole di disegno che ho avuto modo di frequentare". Camelia Mirescu, artista di origini romene trapiantata a Roma dal 1990, ha invece realizzato insieme ai detenuti un lavoro multi-visuale raccogliendo immagini del patrimonio artistico italiano in un collage trattato con materiale translucido, giocando sulla contrapposizione fra la tradizione dei contenuti e l’innovazione della forma. "Anche in questo caso è stata un’opera corale, con alcuni detenuti che scoprivano stupefatti i capolavori di Raffaello o del Caravaggio che non avevano mai visto prima", conclude Claudio Crescentini. Adesso "cercheremo di trovare il modo di rendere visitabili al pubblico gli spazi che ospitano le opere". "Controindicazione". La follia della società proiettata sui muri di una prigione di Vladan Petkovic cineuropa.org, 31 gennaio 2017 Il secondo lungometraggio documentario della regista serba Tamara von Steiner entra nell’ultimo ospedale giudiziario per pazzi criminali. È rimasto un solo ospedale giudiziario per pazzi criminali in Europa, e si trova a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Secondo la legge penale italiana, le persone che hanno commesso un atto criminale in stato di incapacità (a causa di un disturbo mentale o per intossicazione) e rappresentano una minaccia per la società, sono detenuti in questo istituto. Qui sono condannati alla pena minima prescritta dalla legge, ovvero due anni, dopo di che la sentenza può essere riapplicata più di 30 volte. Il secondo lungometraggio documentario della regista serba Tamara von Steiner, Controindicazione, presentato in prima internazionale al Trieste Film Festival, è un documentario d’osservazione ambientato in questo ospedale giudiziario. Dopo un’introduzione narrativa e una breve scena in cui il direttore si lamenta con un paio di funzionari del fatto che su 150 detenuti, solo 50 sono effettivamente pericolosi, e che gli altri sono (ancora) lì a causa dell’inerzia, la burocrazia e il disinteresse della società nei loro confronti, von Steiner entra nella prigione e ci mostra i suoi abitanti. Una delle prime immagini è scioccante e volutamente forte: la regista punta il suo obiettivo su uno dei detenuti, che sembra avere un attacco epilettico. Ma qualcosa non quadra. La camera si sofferma su di lui forse troppo a lungo, fino a quando non ci rendiamo conto che in realtà l’uomo sta fingendo, e il nostro istinto di gridare allo scandalo svanisce. Il suo comportamento è solo un goffo tentativo di richiamare l’attenzione. E quando vediamo il medico che prescrive le medicine ai suoi pazienti, capiamo il perché. Questo burocrate, gli uomini presenti nel suo ufficio non li guarda nemmeno. Sa solo minacciarli di un parere negativo prima della loro prossima sentenza, se si rifiutano di prendere i farmaci. Oppure, quando loro chiedono quando finirà la loro pena, lui risponde di chiedere al direttore. Naturalmente, il direttore dirà loro che dipende dalla valutazione del medico. Si tratta di un circolo vizioso che nessuno dei detenuti può sfuggire, sia che siano effettivamente pericolosi e soffrano di disabilità mentali, sia che siano clinicamente normali, ma portati a uno stato prossimo alla follia da anni di assunzione di farmaci e dal fatto che alcuni di loro trascorrono decenni nell’istituto per colpa di una legge penale crudele. Aggiungete a questa situazione la convinzione delle autorità che una forma adeguata di intrattenimento per questa fetta della popolazione, in un paese dove il "delirio mistico" ha una presenza innegabile, sia un spettacolo teatrale pasquale che ruota attorno alla morte e alla risurrezione di Cristo, e avrete un quadro potente che condanna non solo questa particolare istituzione e la legge, ma anche la sedicente società "illuminata" che dimentica molto facilmente le sue decisioni più crudeli e disumane. "Controindicazion" è una coproduzione tra la serba Nin Film e Cinnamon Production. "I volti dell’alienazione". E gli Opg ancora non chiudono di Michele Anzaldi Vita, 31 gennaio 2017 Negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di Montelupo Fiorentino (Firenze) e Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) sono ancora rinchiuse 15 persone. Il 31 marzo del 2015, dopo tanti dibattiti e richiami - come quello dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che nel suo messaggio di fine anno del 2012 aveva definito quei luoghi "orrendi e non degni di un paese appena civile" - divenne la data stabilita per la chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. 906 persone internate negli Opg ritornavano alla vita. In tanti, anche l’Huffington Post, ne avevano raccontato il lungo percorso trovando e riproponendo una indimenticabile campagna dell’Espresso. Purtroppo come spesso accade non tutto è stato facile e scontato, anzi. Da quel lontano 31 marzo 2015, per dare attuazione al provvedimento che rischiava di cadere nel dimenticatoio, è stata necessaria, il 19 febbraio 2016, la nomina di Franco Corleone, Commissario da parte del Governo per l’applicazione della legge. Oggi, grazie al lavoro di Corleone, del Governo, delle Regioni e di tante associazioni e persone sensibili, sono stati chiusi 4 Opg, quelli di Castiglion dello Stiviere, Secondigliano, Reggio Emilia e Aversa. In campo culturale, nonostante la scandalosa assenza della Rai (servizio pubblico), ci sono state tante piccole ma pregevoli iniziative come quella che si è chiusa il 27 gennaio a Trieste, "I volti dell’alienazione, disegni di Roberto Sambonet", la mostra che precedentemente era stata ospitata alla Fabbrica del Vapore di Milano, al Teatro Chille de la balanza di Firenze, al Palazzo Municipale di Ferrara, al Museo in Trastevere di Roma, al Museo Ken Damy di Brescia, a Palazzo Lanfranchi di Matera e a Palazzo d’Accursio a Bologna. Una raccolta di ritratti che Roberto Sambonet ha realizzato tra il 1951 e il 1952 nel manicomio di Juqueri, a cinquanta chilometri da San Paolo in Brasile, in cui racconta e indaga il complesso fenomeno del disagio mentale. Si tratta di 40 disegni e 70 studi tratti dall’Archivio pittorico Roberto Sambonet, che con la collaborazione di StopOpg, a cura di Franco Corleone e Ivan Novelli, ha dato vita ad un catalogo illustrato, pubblicato da Palombi Editori. "Belle dentro". Le detenute di Verziano ritratte da un fotografo di Alessandra Troncana Corriere della Sera, 31 gennaio 2017 Sono state truccate, pettinate e messe in posa: gli scatti finiranno in un volume. La sigaretta incollata alla bocca, le brandine sfatte, le foto dei bambini alle pareti. Le mani sulle sbarre. Via i piercing, i tacchi, la borsa, e niente crema per il viso: quando sono entrate in carcere, la prima cosa che hanno dovuto fare è spogliarsi. L’ultima foto delle detenute di Verziano, il carcere femminile di Brescia, è quella segnaletica: profilo destro, profilo sinistro, una coda spettinata. Sono tornate donne con un po’ di cipria e la luce giusta: Renato Corsini le ha fotografate nelle loro celle. La femminilità dietro le sbarre diventerà un libro, "Belle dentro": ogni pagina una storia, qualche riga scritta da Carlo Alberto Romano, criminologo, e scatti in bianco e nero. "Quando perdono la libertà - dice Corsini - perdono anche la femminilità: gliela abbiamo restituita con delle foto e le mani delle sorelle Cò: le hanno truccate e pettinate". Aveva già sbattuto il mostro in prima pagina tre anni fa: 140 scatti a Canton Mombello, tra assassini e ladri davanti a poster di Santi e modelle in lingerie. Corsini ha fatto evaporare la malinconia delle detenute con una spruzzata di lacca: "Sono partito dalle loro foto segnaletiche. Poi ho scattato dentro alle celle, in lavanderia, nei corridoi, prima che venissero truccate". Ci sono anche le immagini del backstage: le parrucchiere con il pettine tra i denti e le detenute che aspettano il loro turno appoggiate alla porta. Dietro un telo grigio, i primi piani dopo la seduta: rossetto, occhi bistrati di nero, i capelli in piega. Qualche riga dalla prefazione di Romano: "La carcerazione femminile, fra le tante forzature che presuppone, ne lascia emergere una in modo più evidente, ed è proprio il tentativo di compressione della femminilità, agito in modo più o meno palese dal carcere, che ha come conseguenza l’indebolimento delle risorse emotive su cui la donna costruisce la propria identità. Eppure nessun testo normativo autorizza il sistema carcere a limitare lo sviluppo della personalità umana, declinata al femminile". Corsini ha incontrato le sue muse nell’ora di colloquio, "convincerle non è stato facile. Verziano è un carcere dove si vive con dignità: non più di due brandine per cella, ore d’aria, la biblioteca, i corsi di arte. Ma nel momento in cui queste donne ci entrano, è come se non fossero più femmine: abbiamo dato loro 15 minuti di celebrità". E una copia delle foto da spedire ai parenti. Il piano della Ue per i migranti. "La Libia farà i respingimenti" di Marco Bresolin La Stampa, 31 gennaio 2017 La bozza del vertice sui flussi: niente navi europee nei pattugliamenti. I 28 divisi su rimpatri e campi. L’ambasciata tedesca in Niger: sono lager. "Stiamo camminando sul filo del rasoio". Tra i diplomatici al lavoro sul documento finale del prossimo summit Ue, in programma venerdì a Malta, c’è questa convinzione. Il vertice dei capi di Stato e di governo sarà dedicato ai flussi migratori nella rotta centro-mediterranea, con un focus sulla Libia. "L’urgenza della situazione - si legge nell’ultima bozza circolata ieri tra gli sherpa - richiede ulteriori misure operative". Per questo bisogna agire "rapidamente e in modo determinato". Con un dettaglio da non sottovalutare: l’Ue darà il suo "sostegno agli sforzi e alle iniziative dei singoli Stati membri che si stanno impegnando in Libia". Il riferimento è al piano del governo italiano promosso dal ministro Marco Minniti: l’Italia è stata il primo Paese occidentale ad aver riaperto la sua ambasciata. Ieri anche la Turchia ha seguito la stessa strada. Ma il dossier su Libia e migranti si gioca su due diversi terreni, altrettanto scivolosi: quello legato al rispetto dei diritti umani - per le condizioni in cui vivono i migranti nei centri sulla terraferma - e quello, più geopolitico, che ha a che fare con i rapporti con la Russia di Vladimir Putin, sostenitrice del generale Haftar. Per questo, si legge nel documento di tre pagine diviso in 7 punti, "gli sforzi per stabilizzare la Libia sono ora più importanti che mai". Giovedì la visita ufficiale di Fayez al-Sarraj a Bruxelles sarà un momento-chiave in questo percorso. Salvo colpi di mano dell’ultimo minuto (qualche delegazione ci sta provando), i governi ribadiranno il "pieno supporto" al Governo di Accordo Nazionale di Tripoli. Nella "dichiarazione" che sarà approvata venerdì dai leader non verrà nemmeno menzionata l’ipotesi di far entrare le navi europee nelle acque libiche (la fase 2B dell’Operazione Sophia). Non ci sono le condizioni. L’Ue continuerà ad affidare il pattugliamento delle acque libiche alla Guardia Costiera di Tripoli, che intensificherà la sua attività. In cambio di addestramento, forniture e interventi economici per favorire lo "sviluppo socio-economico delle comunità locali". I libici avranno il compito di intercettare tutte le navi e riportare a terra i migranti. Tecnicamente non si potrebbe parlare di respingimenti, ma nella pratica lo sono. Qui però sorge il problema a cui i 28 non hanno ancora trovato una soluzione: che fine faranno quei migranti? Commissione e governi sono d’accordo nel "promuovere i rimpatri volontari" per i migranti economici. La proposta firmata da Mogherini e Avramopoulos parla anche di reinsediare in Europa chi ha diritto all’asilo e fa un appello agli Stati. Ma il fatto che di questa ipotesi non ci sia traccia nella bozza del Consiglio la dice lunga sulla volontà delle Capitali di collaborare. E poi c’è il problema delle condizioni di "detenzione". Ieri la Guardia Costiera libica ha fatto sapere di aver intercettato due imbarcazioni al largo di Sabratha. A bordo c’erano 700 persone, che poi sono state trasferite in un centro per migranti. Per la Commissione le condizioni in quei centri sono "inaccettabili e lontani dagli standard di rispetto dei diritti umani". Un documento riservato dell’ambasciata tedesca in Niger parla addirittura di "condizioni peggiori di quelle dei campi di concentramento", con "esecuzioni, torture e stupri". L’obiettivo è di garantire l’accesso alle agenzie dell’Onu, ma il problema è che la stragrande maggioranza dei centri è fuori dalle aree controllate da Sarraj. Che per ora resta l’unico interlocutore. A questo si aggiunge il rischio che, nel caso in cui i pattugliamenti dovessero funzionare, i trafficanti potrebbero spostarsi ad Est. Alcune cancellerie temono che i flussi possano finire sotto il controllo del generale Haftar e del suo principale sponsor Putin. Migranti. La Casa bianca si ispira ai muri europei di Ignazio Masulli Il Manifesto, 31 gennaio 2017 L’inizio della presidenza Trump si può considerare come l’ultima ed estrema affermazione di una destra ultranazionalista e xenofoba che da alcuni anni sta montando nei maggiori paesi europei. Pur tra le differenze, che non si possono trascurare, v’è un elemento comune e fortemente caratterizzante di queste espressioni politiche: la decisa avversione all’immigrazione. È stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. È questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei. Il fatto, poi, che governi di centro-sinistra o persino socialisti inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginare i loro guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica. Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste. Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile. In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa. Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nella status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. È in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno, avvertito come pericoloso. Un sentimento sul quale è facile far leva per le destre come per tutti i ceti dirigenti incapaci di autentica azione di governo e orientamento politico, ma solo di amministrazione dell’esistente al servizio degli interessi dominanti. In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione. Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, "civiltà". L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia. L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni. Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria. La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e nel secondo dopoguerra, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno. Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Significa cominciare a far valere una verità elementare. E cioè che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità. Migranti. Le Associazioni: "approvare subito la riforma della cittadinanza" di Carlo Lania Il Manifesto, 31 gennaio 2017 L’impressione è che per l’ennesima volta si stia perdendo un’occasione. Il solo parlare di elezioni anticipate fa sì che venga accantonata la riforma della cittadinanza che potrebbe cambiare la vita di circa un milione di ragazzi figli di immigrati nel nostro paese. Il testo è fermo da un anno in un cassetto della Commissione Affari Costituzionali del Senato, bloccato dall’ostruzionismo della Lega ma soprattutto dalla poca volontà del Pd che dopo aver fatto della riforma un suo cavallo di battaglia sembra averla scaricata senza pensarci troppo una volta che l’ipotesi delle urne si è fatta più concreta. "Non ci sono più scuse. La legge può andare direttamente in aula ed essere approvata" dice Filippo Miraglia dell’Arci. "I motivi per cui non si fa sono tutti politici" gli fa eco Loredana De Petris, capogruppo di Sinistra italiana al Senato che annuncia un’iniziativa per chiedere, come previsto dal regolamento di Palazzo Madama, di far votare subito il provvedimento dall’aula. Sono state le associazioni che danno vita al cartello "L’Italia sono anch’io" (Acli, Arci, Caritas italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Legambiente, Libera, Migrantes, Tavola per la pace, Ugl e Uil) a dar voce in una conferenza stampa al Senato alle preoccupazioni per il futuro della riforma. Approvato un anno fa dalla Camera, del testo non si è più avuta notizia una volta arrivato in Commissione Affari costituzionali nonostante l’impegno della relatrice, la senatrice dem Doris Lo Moro. Il Pd aveva assicurato di velocizzare i lavori una volta superato l’ostacolo del referendum costituzionale, ma l’esito delle urne ha spinto per l’ennesima volta il provvedimento in secondo piano. "Ora la riforma è stata calendarizzata, ma specificando che si potrà discutere solo se sarà terminato l’esame della commissione. È un espediente per evitare di discutere la legge" prosegue De Petris. Da qui la decisione di portare l’esame del testo direttamente in aula. "Per chi come me è stato eletto nelle liste del Pd lo stallo in cui si trova la legge è ancora più amaro" spiega il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani del Senato. La mancata approvazione del testo, prosegue Manconi, "è un atto di autolesionismo che, attraverso la classe politica, la società realizza ai propri danni mantenendo ai margini quegli italiani non cittadini". Cosa questo significhi lo spiega Paula Baudet Vivanco, di "Italiani senza cittadinanza". "Non c’è vita finché non hai la cittadinanza. Noi creiamo in Italia, studiamo in Italia, facciamo democrazia ma non possiamo neanche votare". Per spingere il Senato, dalla prossima settimana sono stati programmati del flashmob ogni mercoledì in piazza del Pantheon per poi finire il 28 febbraio con una mobilitazione nazionale "con tante famiglie straniere, ragazzi e militanti antirazzisti". Islam e occidente, una via italiana di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 gennaio 2017 Non abbiamo ancora banlieue ma una rete capillare in piccoli centri. Il "patto nazionale" tra governo e alcuni rappresentati della comunità è un primo passo. Una via diversa. Dove i luoghi di culto siano protetti dall’odio. Dove le porte delle frontiere si aprano davanti ai profughi ma quelle delle galere si serrino alle spalle dei jihadisti. Dove a più regole corrisponda più dignità. È stretto il sentiero lungo il quale prova a muoversi l’Italia nel rapporto con l’Islam. Dunque va percorso a piccoli passi, con cautela. E tuttavia ogni passo delinea un modello peculiare, più che mai prezioso per la nostra convivenza in questi giorni infiammati dagli ordini esecutivi di Donald Trump e dalla strage nella moschea di Quebec City. Domani una dozzina di organizzazioni musulmane andranno dal ministro Minniti, secondo incontro in due settimane per arrivare alla firma di un "patto nazionale" assai simile ai patti di cittadinanza già siglati a Firenze e Torino: trasparenza nelle moschee e uso dell’italiano nei sermoni, le linee guida. Non è ancora il riconoscimento della seconda religione del nostro Paese (con un milione e 600 mila fedeli) ma è un memorandum con il quale comunità e governo si impegnano a passare dal livello del mero confronto al livello politico: l’emersione delle moschee dagli scantinati e la formazione di guide religiose non improvvisate è interesse di entrambe le parti. Così in queste stesse ore tredici imam, selezionati dall’Ucoii (l’Unione delle comunità islamiche italiane) e approvati dal ministero degli Interni, si prepareranno ad entrare nelle carceri più a rischio per sostenere la deradicalizzazione dei detenuti. È la prima volta dai tempi di Giuliano Amato (tra il 2006 e il 2008) che il Viminale lancia un programma così vasto per ridisegnare le relazioni con l’Islam: e forse non è privo di significato che, di nuovo, l’iniziativa venga da un laico di ispirazione socialista come Marco Minniti. Il ministro appare giustamente convinto che il terrorismo si vinca "solo se c’è una grande alleanza"; dunque l’apertura alle comunità è l’altra faccia necessaria di una stretta su espulsioni e procedure che verrà illustrata organicamente tra qualche giorno. Sarebbe miope non cogliere le risposte che dalle comunità stanno venendo. In un’intervista al Corriere, Izzedin Elzir, imam di Firenze e capo dell’Ucoii, la più forte delle organizzazioni islamiche sul nostro territorio (con 164 moschee nel suo circuito) ha ammesso che i terroristi jihadisti appartengono "all’album di famiglia" dell’Islam (cioè sono mossi dalla fede e non dalla follia), mutuando la forte immagine con cui Rossana Rossanda delineò negli anni Settanta la storia identitaria del terrorismo rosso. La sortita di Elzir, la prima da una guida religiosa di questo livello, ha ottenuto l’appoggio di un centinaio di imam e l’attenzione del ministro. Naturalmente l’Ucoii è una realtà assai complessa (come lo è, ancora oggi, l’intera galassia islamica in Italia): accusata in passato di essere sotto l’influenza dei Fratelli musulmani e ancora segnata, appena pochi mesi fa, da esternazioni gravi come quella di un suo esponente storico, Hamza Piccardo, in favore della poligamia. E però le parole pesano tutte, certi sentieri ne sono lastricati. Se pesano (e pesano) quelle degli xenofobi nostrani che spargono panico per qualche voto in più, non possono non pesare parole di pace e verità specie quando vengono, così nette, da soggetti cui non manchiamo giustamente di chiederle a ogni strage jihadista. L’Italia è un unicum in Europa. Non abbiamo (ancora) banlieue ma una presenza diffusa di cittadini di fede islamica in piccoli borghi e paesini che nonostante tutto favoriscono l’integrazione (il sociologo Stefano Allievi parla, non a torto, di "Islam dialettale"). Non abbiamo seconde generazioni rancorose verso lo Stato (le avremo, se continueremo a rinviare la sacrosanta legge sulle nuove cittadinanze). In questa unicità fatta di contingenze e tradizione si colloca dunque la nostra comunità islamica. Non è casuale che l’imam di Firenze pensi che proprio da noi possa prendere slancio un movimento verso quell’assai auspicabile riforma nella lettura del Corano che stroncherebbe infine interpretazioni radicali e antistoriche. Un passo lungo, che postula libertà e democrazia: il nostro vero tesoro, da preservare a ogni costo. Cooperazione allo sviluppo: 80 euro su 100 bruciati in stipendi e corruzione di Sandro Cappelletto La Stampa, 31 gennaio 2017 L’Italia ha donato 3 miliardi per la cooperazione tra il 2008 e il 2013. "La vostra urina vale oro!" assicura un cartello arrugginito piantato in un parco di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso; accanto, una latrina in cemento armato ormai crollata su se stessa e ricoperta da un rampicante. Era questo l’imperativo slogan di un progetto destinato al riuso dell’urina come fertilizzante agricolo. Finanziato anche dall’Unione Europea, è morto prima ancora di nascere, dopo aver inghiottito risorse e arricchito gli ideatori. Soltanto loro. Accade troppo spesso nel mondo della cooperazione. Le cifre destinate all’aiuto ai "paesi in via di sviluppo" impressionano: 135 miliardi di dollari all’anno. Nel periodo 1960-2010 la Cooperazione internazionale ha potuto disporre di 1 trilione di dollari. Come se, per mezzo secolo, ogni cittadino dei paesi donatori abbia contributo per 100 dollari ogni anno. Dal 2008 al 2013 l’Italia ha stanziato per la cooperazione 2,9 miliardi di euro e figura al quarto posto, dopo Germania, Francia e Regno Unito, tra i paesi donatori europei. Tuttavia, mentre la quota stabilita dall’Ocse per gli aiuti allo sviluppo è lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo, noi ci fermiamo allo 0,16%. Il problema non è la quantità di denaro disponibile, ma l’utilità della spesa, se negli ultimi trent’anni i paesi più dipendenti dagli aiuti hanno registrato tassi di crescita negativi: -0,2%. Secondo lo Human development report dell’Onu l’Africa subsahariana, dove si concentra la gran parte dei paesi beneficiari dei progetti di cooperazione, rappresenta oggi un terzo della povertà mondiale rispetto a un quinto del 1990. Circa l’80% delle somme stanziate finanzia il funzionamento delle strutture, o si perde per strada per quella che i professionisti del settore chiamano, con un eufemismo, la "volatilità": la corruzione, o la non disponibilità ad abbassare il proprio tenore di vita. Quattrocentomila euro l’anno era l’affitto pagato a Roma per una villa sull’Appia Antica dal nigeriano Kanayo Nwanze, presidente dell’Ifad, l’agenzia dell’Onu che ha come missione quella di sradicare la povertà. Ma in un mondo in cui aumentano, contestualmente, diseguaglianze, conflitti e profughi - 60 milioni solo nel 2016, la cifra più alta mai registrata - esistono alternative alla cooperazione? Le storie qui raccontate si svolgono tutte in Burkina Faso, una nazione di 17 milioni di abitanti, grande poco meno dell’Italia, che gli indicatori economici collocano ai primi posti nella graduatoria della povertà mondiale. La vita media non supera i 45 anni, la fertilità è di 6,9 figli per donna. Il Burkina, nel mondo della cooperazione, è considerato un importante laboratorio di tolleranza e di dialogo: qui convivono 60 diverse etnie, altrettante lingue, e tre religioni, la cristiana, la musulmana e l’animista. I conflitti interetnici e interreligiosi erano sconosciuti, almeno fino ai sanguinosi attentati del gennaio 2016, compiuti nella capitale. Ora, nel Nord del Paese è attivo un gruppo jihadista composto da circa 200 militanti. Nonostante la povertà, la vita culturale è vivacissima: in Burkina Faso si tiene il più importante festival del cinema africano e gli spettacoli prodotti dalla scuola di teatro Gambidi vincono spesso riconoscimenti internazionali. La visita al Museo etnografico è indispensabile per entrare in colloquio con il pensiero animista e il Museo della Musica, da poco restaurato, ricorda la fondamentale, e ancora vivissima, funzione rituale della musica e della danza. I fagiolini di Kongoussi - "Possiamo mandarvene anche mille tonnellate" dice l’agricoltore Sylvain Sawadogo, mentre osserva le contadine raccogliere i fagiolini da terra. Nei supermercati italiani ne arriveranno in questi giorni cento tonnellate e sarà già un risultato notevole. Il progetto nasce nel 2007 per soddisfare la richiesta di una cooperativa che nel villaggio di Kongoussi, raggruppa 1500 famiglie: ampliare il mercato senza danneggiare i colleghi europei, facendo arrivare i fagiolini "contro-stagione", quando da noi non se ne producono. Valter Ulivieri, agronomo attivo nel mondo della cooperazione, perfeziona l’iniziativa, che piace al punto da attirare l’interesse dell’Unido, l’Agenzia delle nazioni unite per lo sviluppo industriale. "È stato l’inizio del disastro", ricorda Ulivieri. Il progetto è premiato come modello di cooperazione a New Delhi nel 2009, nel 2010 a Ouagadougou una conferenza internazionale ne celebra il successo, mentre viene creata un’apposita struttura organizzativa affittando uffici, automezzi, assumendo personale. Ma nel frattempo tutto si è fermato: l’Unido compra sementi sbagliate, i fagiolini sono invendibili, nessuno paga i contadini. "Un fiume di danaro si era perso nei meandri ministeriali e agli agricoltori di Kongoussi non arrivò neanche una goccia. È la dimostrazione che nella cooperazione il rapporto tra grandi organismi governativi o istituzionali spesso non funziona", dice Ulivieri. "C’è voluto del tempo per riprenderci dallo sconforto, ora siamo ripartiti". Il pane di Loumbila - Il pane migliore del Burkina si sforna a Loumbila, un villaggio a circa venti chilometri dalla capitale. Il forno e il ristorante sono stati avviati nel 2003 con un investimento di 70.000 euro offerto dalla cooperazione italiana, che ha provveduto anche alla formazione professionale di panettieri e cuochi. Pane ai semi di sesamo, pizza, gelati e piatti locali: l’attività produce reddito e assieme alla vendita della spirulina, un integratore alimentare indicato soprattutto per i bambini che qui di proteine ne mangiano poche, consente al forno di Loumbila di pagare una decina di stipendi e di contribuire alle spese dell’orfanotrofio confinante con il ristorante. Un esempio virtuoso. I bimbi di Gorom Gorom - Il progetto dell’orfanotrofio "Casa Matteo" di Gorom Gorom, nel Nord del Burkina, lungo il confine con il Mali, nasce nel 2001 e si rafforza in quindici anni di lavoro che hanno visto collaborare la Coop Firenze e il Movimento Shalom. L’obiettivo dell’ autosufficienza era stato raggiunto grazie alla costruzione dell’Hotel des Dunes, pensato per i turisti attratti dal fascino del paesaggio del Sahel. Ma la guerra in Mali, l’arrivo di 30.000 profughi tuareg, le misure di sicurezza richieste da una compagnia mineraria canadese, le azioni terroriste, hanno fatto crollare gli arrivi. Le suore cattoliche di "Casa Matteo" accudiscono 20 bambini, sostenuti anche grazie al meccanismo delle adozioni a distanza. "Molti sono figli di famiglie musulmane. Accogliamo tutti, facciamo assistenza, non catechesi", dice suor Céline. Nell’edificio adibito a magazzino sembra essersi dato appuntamento il mondo intero: il latte in polvere proviene dalla Svizzera e dal Nord Irlanda; soia, miglio e arachidi dalla Thailandia; il riso dal Nord Carolina; lo zucchero dal Brasile; l’olio di palma dalla Costa d’Avorio; i letti d’ospedale da Massa Marittima; un kit di pronta assistenza per neonati è stato inviato dal Lutheran World Relief; dei condizionatori d’aria coreani LG, portati da cooperanti francesi, restano inutilizzati perché troppo ingombranti. Ora c’è necessità di un mulino per produrre farina e di un nuovo ecografo: quello vecchio è fuori uso da un anno e non si trovano pezzi di ricambio. Serviranno almeno 20.000 euro. La Coop ha garantito il proprio sostegno per altri quattro anni. Poi? L’aiuto che uccide l’aiuto - Un gruppo di animalisti inglesi si batte per mettere fine ai maltrattamenti degli asini; il sindacato tedesco degli insegnanti ha avviato un progetto contro lo sfruttamento del lavoro minorile e l’altissima evasione scolastica; una associazione di Lucca organizza un corso di rianimazione neo-natale; l’ostetrica Lia Burgalassi visita in tre giorni, senza l’aiuto di alcuna strumentazione medica, 165 donne incinte per stabilire lo stato di avanzamento della gravidanza e alla fine viene ringraziata con canti e balli al femminile e offerte di cibo. Una Ong di Torino costruisce un invaso per trattenere l’acqua piovana grazie ad un finanziamento di 1,2 milioni di euro della Conferenza Episcopale Italiana; un’altra crede nel micro-credito affidato alle donne come molla dello sviluppo, c’è chi punta sui semi di jatropha per produrre biocombustibili. "Il solo aiuto che serve è l’aiuto che aiuta ad uccidere l’aiuto", disse Thomas Sankara, il "Fidel Castro africano", il presidente del Burkina assassinato nel 1987: un delitto rimasto senza colpevoli ufficiali. Quanti progetti di cooperazione vanno nella direzione indicata da Sankara, l’unica davvero utile? Quanti, invece, servono soprattutto a lenire il senso di colpa di noi occidentali verso territori e popoli che abbiamo a lungo sfruttato e massacrato, quanti sono funzionali ad ingrassare i poderosi ingranaggi della cooperazione corrotta? "Una macchina che se bene indirizzata può creare lavoro e ricchezza e fermare l’esodo di milioni di persone verso un’Europa che fatica ad accoglierle", riflette don Andrea Cristiani, fondatore del movimento Shalom, mentre osserva i 100 ragazzi che frequentano il Liceo Politecnico Shalom di Ouagadougou entrare a scuola. "Offriamo ai giovani la possibilità di una formazione professionale e poi, speriamo, di un lavoro qui. Non ci sono alternative, la strada è questa". I Radicali rilanciano la battaglia antiproibizionista: "un seme di cannabis in regalo" di Monica Rubino La Repubblica, 31 gennaio 2017 Nasce il "Radical cannabis club", la nuova iniziativa per spingere il Parlamento a discutere la legge di iniziativa popolare per la legalizzazione delle droghe leggere presentata alla Camera a novembre scorso. Nasce il "Radical Cannabis Club", la nuova campagna antiproibizionista di Radicali Italiani per la cannabis legale. Aderire costa dieci euro e la tessera riservata agli iscritti contiene una sorpresa: un seme di cannabis. "Regaliamo un seme di libertà, con l’auspicio che tra un anno piantarlo non sia più reato", spiega il segretario Riccardo Magi. Oggi infatti possedere, regalare, cedere, spedire e vendere semi di cannabis non è illegale. Mettere un seme in un vaso, innaffiarlo e coltivare una pianta invece è punibile con pena della reclusione da due a sei anni e con una multa da 5.164 a 77.468 euro. Una provocazione, quella dei Radicali, che punta a "fare pressione sul Parlamento affinché riprenda e porti avanti velocemente la discussione sulla cannabis legale" continua Magi. A novembre i Radicali hanno infatti presentato alla Camera la loro legge di iniziativa popolare per legalizzare la cannabis e decriminalizzare l’uso di tutte le altre sostanze. "Ora dobbiamo lavorare perché quella proposta diventi legge", ribadisce. I Radicali ricordano poi che mentre dagli Stati uniti arrivano notizie sulla diminuzione dei consumi di cannabis tra i giovani dopo la legalizzazione, in Italia si confermano tutti i danni delle politiche proibizioniste. "Politiche che non hanno minimamente scalfito un mercato di dimensioni abnormi, circa 6,1 milioni di consumatori, che hanno arricchito le narcomafie, criminalizzato i cittadini, riempito le carceri, intasato i tribunali e, soprattutto, hanno esposto i minori ai pericoli del contatto con la malavita", spiega la presidente Antonella Soldo, ricordando che "anche i minori possono diventare soci del Radical Cannabis Club: la tessera junior costa 5 euro". E proprio alle scuole guardano gli eredi di Marco Pannella, che per primo inaugurò la lotta antiproibizionista 40 anni fa. "Sempre più spesso i ragazzi ci invitano a parlare di antiproibizionismo - conclude Magi - sulle droghe, come sull’immigrazione, girano un sacco di bufale. Si tratta di questioni sociali enormi, che non vanno date in pasto ai populismi, ma governate con politiche ragionevoli ed efficaci. Legalizzare la cannabis, oggi è soltanto una scelta di buon senso". Grecia. Rifugiati al gelo, Amnesty International invia una missione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 gennaio 2017 Nell’ondata di gelo che ha investito l’Europa meridionale e che tanti danni e morti ha fatto anche in Italia, i migranti e i richiedenti asilo intrappolati sulla terraferma e nelle isole della Grecia sono stati abbandonati a se stessi, senza potersi difendere adeguatamente dal freddo (come mostra la foto di Medici senza frontiere). Questa situazione inumana è la conseguenza diretta delle pressioni che l’Unione europea e i governi degli stati membri hanno esercitato perché venisse chiusa la cosiddetta rotta dei Balcani, in cui rimangono intrappolate migliaia di persone, a loro volta al gelo. Conviene a tutti che la Grecia resti un precario parcheggio per vite umane. Non sono neanche stati rispettati gli impegni presi nel 2015 per la ricollocazione dei migranti e dei rifugiati arrivati a quella frontiera. L’accordo tra Unione europea e Turchia fa la sua parte, costringendo i richiedenti asilo a restare in Grecia per poter poi essere inviati in Turchia. Per questo motivi, dal 1° all’8 febbraio una missione di Amnesty International si recherà in Grecia per visitare i campi per rifugiati nella regione dell’Attica, nel nord e nell’isola di Lesbo. Stati Uniti. Trump licenzia il ministro della Giustizia. Rifiutava il divieto sui rifugiati di Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017 Esplode la ribellione nel governo americano contro Donald Trump, i suoi ordini anti-rifugiati e la deriva autoritaria dei primi giorni della sua presidenza: il Segretario della Giustizia a interim Sally Yates - magistrato rimasto in carica dall’amministrazione Obama in attesa della conferma del prescelto da Trump, Jeff Session - ha istruito apertamente i legali del Ministero di non difendere in tribunale l’ordine esecutivo contro i profughi e i visti da sette nazioni islamiche del Medio Oriente e del Nord Africa. L’ha definito, dopo un esame, "illegale oltre che "ingiusto". Trump l’ha immediatamente licenziata. E si è spinto più in là: l’ha accusata di "tradimento". Al suo posto è stato nominato Dana Boente, procuratore del Distretto orientale della Virginia, che si è impegnato a difendere il provvedimento di Trump. Nelle stesse ore il procuratore generale dello Stato di Washington è diventata la prima autorità americana a presentare ricorso contro la costituzionalità dell’ordine di Trump, denunciando anche danni per l’economia hi-tech dello Stato. La cacciata di Yates e i toni da crociata di Trump potrebbero tuttavia alzare la posta in gioco nella conferma al Senato di Sessions, già sospettato di razzismo, che numerosi democratici ora si sono impegnati a cercare di bloccare. Al Dipartimento di Stato la rivolta ha coinvolto oltre cento funzionari, un numero da record, che per criticare le iniziative di Trump hanno firmato un Dissent Cable, la tradizionale forma di critica interna considerata una istituzione essenziale per il dibattito nella diplomazia. La sua risposta è stata brutale quanto quella contro Yates: "Se questi burocrati non intendono adeguarsi, faranno meglio ad andarsene", ha detto il portavoce Sean Spicer a proposito di funzionari spesso di carriera e con meriti diplomatici conquistati sul campo e in anni di servizio. L’escalation della crisi, con Trump nella bufera per sprezzo e abuso della Costituzione e della storia americana di accoglienza, è scattata al termine di una giornata nella quale l’ex presidente Barack Obama aveva rivendicato nuovamente la leadership morale e politica di una nazione divisa: è sceso in campo per la prima volta da quando ha lasciato la Casa Bianca, dieci giorni or sono, schierandosi a fianco delle proteste che dilagano e scuotono l’America. "Sono incoraggiato dalla partecipazione dei cittadini", ha fatto sapere, denunciando qualunque discriminazione per fede e religione. A colpire i commentatori americani è stata l’arroganza dei toni di Trump, oltre alla sostanza. Davanti al dramma di padri, madri e figli che venivano detenuti e rischiavano di non rivedere più i familiari; al cospetto della scienziata iraniana che veniva rispedita a forza indietro e salvata solo in extremis, quando l’aereo già rullava sulla pista, dall’ordine di un giudice; in presenza di studenti, docenti, dipendenti di aziende il cui futuro è stato cancellato o messo in dubbio da un tratto di penna; davanti a tutto questo Trump e i suoi portavoce hanno minimizzato, dichiarato che "il disturbo causato a poche persone" ben vale le nuove misure di sicurezza. Diritti e obblighi politici e morali sono stati trattati come "inconveniences", disturbi appunto. Di più: Trump ha detto che i disagi sono stati in realtà causati dalle proteste e da problemi ai computer della Delta Airlines. Non concordano le grandi aziende americane: dai colossi dell’hi-tech alla Ford, da Coca-Cola a Goldman Sachs. Hanno sottolineato la loro opposizione al provvedimento e l’impegno a una forza lavoro diversa, che, ha affermato il chief executive Lloyd Blankfin, "è una necessità". Starbucks sta studiando sfide legali e ha promesso di assumere diecimila rifugiati. A rialzare il capo è l’America di Obama. Stati Uniti. Onu e Ue contro lo stop ai visti di Trump di Beda Romano e Marco Valsania Il Sole 24 Ore, 31 gennaio 2017 Condanna globale e proteste negli Usa per il decreto che vieta l’ingresso ai cittadini di sette Paesi. Dura presa di posizione dell’Onu sulla politica migratoria del presidente Usa. "Il bando verso i cittadini di 7 Paesi islamici imposto da Trump è stato definito illegale e meschino". Dissenso da decine di diplomatici del Dipartimento di Stato pronte a firmare un memorandum. La Ue ha chiarito che non preferirà mai isolamento e ineguaglianza ad apertura e parità sociali. Sulla "cortina di ferro" fatta calare da Donald Trump sui rifugiati e i cittadini di sette Paesi islamici si è abbattuta ieri una bufera di polemiche: negli Stati Uniti, la condanna dilaga dal mondo delle imprese a quello delle università, dalla politica allo sport. All’estero, dagli alleati alle organizzazioni internazionali. Azioni "proibite e crudeli", ha twittato l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Zeid bin Ràad Zeid al-Hussein. L’Unione Europea ha chiarito che non preferirà mai isolamento e ineguaglianza ad apertura e parità sociali, mentre l’Unione africana ha ricordato che l’America che chiude le frontiere ad alcune nazioni africane è il Paese che un tempo, dal Continente, prelevava a forza gli schiavi. Tra tutte, si è risentita - per la prima volta dall’insediamento di Trump - anche la voce di Barack Obama. Un centinaio di alti funzionari del Dipartimento di Stato hanno preparato un comunicato, diretto al presidente, nel quale criticano senza mezzi termini le decisioni di Trump su viaggi, rifugiati e migranti, definendole "controproducenti" nella lotta al terrorismo. Le istituzioni comunitarie hanno criticato l’ordine esecutivo di Trump in modo cauto, in parte per evitare nuove tensioni con Washington e in parte perché l’argomento delicatissimo è probabilmente fonte di divisioni tra e nei i Ventotto. "L’Unione è contro le discriminazioni sulla base della nazionalità, della razza o della religione, e non solo quando si parla di asilo, ma di tutte le altre nostre politiche", ha detto il portavoce comunitario Margaritis Schinas. La Commissione e lo stesso presidente Jean-Claude Juncker "hanno spesso ribadito la propria fedeltà a tale principio. Anche nel discorso sullo Stato dell’Unione, in settembre, il presidente ha detto che quando si parla di rifugiati non si discute di religione, credo o filosofia". Riguardo ai rischi per i cittadini europei o quelli con doppia nazionalità, la Commissione deciderà eventuali contromisure una volta chiarito anche da un punto di vista legale il possibile impatto delle decisioni americane sui cittadini europei, ha detto lo stesso Schinas. La reazione europea denota fastidio per la scelta americana. A colpire in particolare è stata la scelta di bloccare l’accesso al territorio americano per 120 giorni a tutti i rifugiati, indipendentemente dalla loro origine. In risposta alle critiche americane rivolte alla libera circolazione nell’Area Schengen, l’Al- to rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini, ha suggerito a Trump di "concentrarsi più sulle divisioni nel suo stesso Paese, invece di prendersi tanta cura delle politiche nell’Unione Europea". A Bruxelles molti diplomatici notano in alcuni governi prudenza nel criticare gli Stati Uniti su un tema - l’immigrazione - che crea tensioni in Paesi quali l’Olanda o la Francia. In America le conseguenze dell’editto di Trump hanno preoccupato anche numerosi senatori repubblicani ed esponenti conservatori, mentre cresce la protesta della Corporate America. John McCain e Lindsey Graham hanno detto che l’ordine è "controproducente" e aiuta "il reclutamento di terroristi più che migliorare la sicurezza"; lo stesso ultra-cauto leader del Senato Mitch McConnell ha detto che occorre stare "attenti" a non creare test religiosi all’ingresso e auspicato che i tribunali dirimano qualunque incertezza; altri ancora hanno chiesto modifiche da parte della Casa Bianca per superare il caos, errori e discriminazioni. Anche il network conservatore dei fratelli Koch ha preso netta posizione contro i divieti. E l’opposizione democratica, guidata dal senatore Chuck Schumer, ha promesso che chiederà al Congresso un immediato voto per ribaltarlo. Le aziende americane hanno alzato i toni contro Trump: l’hi-tech soprattutto, da Google a Microsoft, da Apple a Uber, ma anche General Electric. Dal fronte dell’auto, la Ford è diventata la prima compagnia a prendere posizione contro l’ordine di Trump: "Il rispetto per tutte le persone è un valore chiave per il gruppo", ha detto il Ceo Mark Fields. E gli stessi vertici dell’immigrazione americana, in un segno che la scelta è stata molto politica e poco tecnica e di sicurezza, hanno nel frattempo fatto sapere di non esser stati consultati sul contenuto dell’ordine. Le associazioni musulmane in America hanno annunciato una causa federale contro il bando. Trump ha contrattaccato: ha affermato che McCain e Graham sono "deboli sull’immigrazione". Ha sostenuto che il suo ordine è necessario a proteggere gli americani e i confini. Dopo aver garantito che il provvedimento è un "enorme successo" ha aggiunto che "come presidente troverò il modo di aiutare tutti quelli che soffrono". E ha insistito: "Questo non è un divieto ai musulmani, come i media riportano falsamente. Non riguarda la religione, riguarda terrorismo e sicurezza. Ci sono oltre 40 Paesi al mondo a maggioranza islamica che non sono colpiti". Ma la dimostrazione della confusione creata dalle decisioni è arrivata dall’interno della stessa amministrazione: il Department of Homeland Securities aveva indicato che il divieto riguardava anche i residenti permanenti con la Green Card. Poi la Casa Bianca, su questo, ha fatto marcia indietro. Egitto. Caso Regeni. Al Sisi ai giudici egiziani: "voglio i colpevoli" Il Messaggero, 31 gennaio 2017 L’Egitto dice di voler arrivare a scoprire chi ha torturato a morte Giulio Regeni. Questa volta a chiederlo sono il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi in persona, e la dirigenza politica egiziana, con il sostegno del parlamento del Cairo. Visti gli antichi e stretti rapporti anche economici tra Italia ed Egitto, un insabbiamento delle indagini sarebbe inammissibile. A sostenerlo è il vicepresidente della Commissione Esteri del parlamento Tarek El Khouly. Rispondendo alla domanda "chi ha ucciso Regeni?", il 3lenne deputato già capo del Comitato giovanile della campagna elettorale di Sisi, tre anni fa ha sostenuto che "in qualsiasi posto del mondo errori vengono commessi da apparati di sicurezza", e il caso Regeni "forse è un crimine riguardante un apparato di sicurezza egiziano, o forse no". Il caso di Giulio ha influito negativamente sugli antichi legami di Italia ed Egitto: "Dunque abbiamo bisogno" di svelare il responsabile di questo crimine - continua EI Khouly - "per poter chiudere il dossier". Già avviati i primi segni tangibili della volontà di collaborare concretamente: "l’Egitto ha cominciato a fare passi importanti" attraverso l’azione del Procuratore generale Nabil Ahmed Sadeq (tra l’altro l’interrogatorio dei funzionari incaricati di seguire Regeni). "E penso - conclude il numero due della Commissione Esteri del Cairo - che ci sia un ordine della dirigenza politica egiziana, del presidente in persona, indirizzato al Procuratore generale, di scoprire l’autore dell’uccisione di Regeni, chiunque egli sia". Yemen. Il primo raid anti-terrore finisce in tragedia di Guido Olimpio Corriere della Sera, 31 gennaio 2017 Nello Yemen muore un soldato americano, strage di civili fra cui molte donne e bambini. Lo Yemen è un terreno di caccia americano. Sotto Obama lo hanno "marcato" con i missili. Tanti i terroristi e i civili uccisi. Ora c’è un nuovo sceriffo in città - Trump, che si pone ancora meno limiti. Un’incursione di forze speciali statunitensi a Yakla, regione centrale, in un rifugio di Al Qaeda si è chiusa con un bilancio serio. Un soldato americano morto e tre feriti. Un velivolo Osprey distrutto. Quattordici militanti eliminati, non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più. Tra loro ci sarebbe Nora, la figlia di 8 anni dell’imam Anwar Al Awlaki, ispiratore della jihad globale, riferimento per numerosi attentatori occidentali, anche lui fatto fuori nel 2011 da un drone. Numeri non definitivi. La prima missione nel segno di The Donald e con il primo caduto sotto la sua amministrazione ha avuto le caratteristiche di una battaglia. Una task force, forse partita da una base in Eritrea o da una nave d’assalto anfibio, si è mossa a bordo di elicotteri e velivoli speciali Osprey. Al loro fianco i droni e gli Apaches. Testimoni hanno riferito di un primo bombardamento che ha centrato la casa di Abdul Raouf al Dahab, dirigente di al Qaeda. Quindi sono sbarcati i Navy Seal 6 che hanno aperto il fuoco sui sopravvissuti e hanno ingaggiato il combattimento con i mujaheddin. Le fonti ufficiali parlano di un’ora di scontri, altre ricostruzioni parlano di due. Nel conflitto a fuoco alcuni commando sono rimasti feriti. In loro soccorso è intervenuto un Osprey, ma che è rimasto danneggiato in un atterraggio duro. I soldati lo hanno allora distrutto con l’esplosivo. Quindi il reparto ha lasciato il campo portandosi via - come segnala il Comando centrale - materiale per l’intelligence utile per future missioni. Nello stesso comunicato si sottolinea che il blitz fa parte di una serie di mosse "aggressive" nello Yemen e su scala globale. La decisione di colpire al Dahab era stata presa ancora sotto Obama, ma il piano - per motivi tecnici - non era stato completato. Che abbiano scelto la penisola arabica per lanciare il primo messaggio è in linea con quanto è avvenuto in passato. Nel solo 2016 i velivoli senza pilota statunitensi hanno effettuato nello Yemen 38 strikes, un record. Una componente di un’offensiva che ha visto il ricorso a caccia e unità scelte. Attività militari che si sono svolte in parallelo al conflitto civile, dove la coalizione a guida saudita è impegnata contro gli sciiti houti e gli alleati locali. Guerra dove la popolazione è falciata da bombe e missili. Molti osservatori si aspettano che il Pentagono avrà maggiori spazi di manovra e meno paletti. Nell’ordine esecutivo per la lotta all’Isis firmato da Trump si specifica che i generali non saranno più tenuti alle vecchie regole di ingaggio e leggi internazionali. In alcune regioni, Obama, pur autorizzando l’eliminazione di quadri Isis e al Qaeda, aveva fissato dei limiti per non creare contrasti con i governi locali - è il caso dell’Afghanistan - e ridurre le conseguenze per i civili. Più volte dagli ambienti militari erano trapelati malumori nei confronti della Casa Bianca che avrebbe rallentato o bloccato operazioni quando non c’erano sufficienti garanzie di successo. Ora Trump renderà la catena di comando più agile, con tutto quello che ne consegue per i teatri dove corpi d’élite e militanti si affrontano.