Non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita Il Mattino di Padova, 30 gennaio 2017 "Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive": sono parole che Papa Francesco ha "regalato" ai detenuti di Padova, in occasione della Giornata di dialogo contro la pena di morte viva. Torniamo a parlare, a pochi giorni da quell’evento, del suo messaggio coraggioso per sottolineare che il Papa non ha paura di quella stragrande maggioranza di cittadini che ritiene l’ergastolo una pena accettabile, e invita con forza a rivoluzionare questa cultura di morte: "In questo senso mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita". A Papa Francesco offriamo allora due testimonianze di ergastolani, con la speranza che in tanti ascoltino il suo invito a fare in modo che "l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Dietro un criminale non c’è soltanto il crimine che ha commesso, ma anche una storia Cosa comporti per un uomo espiare la pena dell’ergastolo proverò a spiegarlo meglio proponendovi questa riflessione: immaginate di vivere dentro una stanza grande quanto uno sgabuzzino; una stanza che abbia il lettino rivolto verso l’entrata e sia chiusa da un cancello e da una porta di ferro, che lascia spazio alla luce solo attraverso una piccola feritoia. Immaginate, ora, di aprire ogni mattino gli occhi e di trovarvi a fissare questo cancello e questa porta, avendo dentro il cuore la speranza che prima o poi si aprirà e, subito poi, fulminea, vi sovvenga la consapevolezza che questa speranza è soltanto un espediente per allontanare da voi la verità: quella di essere destinati a invecchiare e a morire in carcere. Ecco, vivere l’ergastolo significa proprio questo: abitare dentro un presente che trascorre uguale un giorno dopo l’altro senza prospettive né promesse, solo in attesa che la tua vita, inutilmente, si esaurisca. Qualcuno di voi potrebbe magari obiettare che per meritare tutto questo avrò certo fatto delle cose tremende. Sì, è vero, le ho fatte, ma proprio per questa ragione credo debba esserci tra voi e me una differenza: quella differenza che il figlio di un condannato a morte non riconosce tra suo padre (che ha assassinato un altro essere umano) e quegli uomini (il governo del suo Paese) che, a loro volta, uccideranno "legalmente" quest’ultimo. Quella differenza cioè che rende una persona capace di non lasciarsi intrappolare dal pregiudizio della massa, che le permette di guardare oltre gli spazi definiti dal proprio ambito sociale e di scoprire, mentre si trova immersa dentro la sorprendente diversità delle esperienze umane, come possa risultare a volte incompleto il metro di giudizio al quale si ricorre abitualmente per valutare l’animo di una persona… Basterebbe allora riconoscere, per fare un esempio più concreto, che dietro un criminale non c’è soltanto il crimine che ha commesso, ma anche una storia - che lo ha formato e spinto a intraprendere un determinato percorso di vita - per riuscire a individuare e spiegare il perché di determinati comportamenti e azioni e pertanto a considerarli da una prospettiva diversa rispetto a quella strettamente giuridico - giustizialista della nostra attuale società: magari da quella prospettiva che si allarga e accoglie l’idea che offrire una possibilità di riscatto sia utile non solo al condannato, ma soprattutto a quella società che voglia continuare a migliorare se stessa. È chiaro: nessuno mette in dubbio che in uno Stato di diritto si ha il dovere di pretendere la punizione di chi infrange le regole democratiche, perché solo in questo modo si può effettivamente perseguire la giustizia; tuttavia, la domanda che mi pongo e sulla quale sarebbe bello rifletteste anche voi è la seguente: il concetto di giustizia può dilatarsi sino al punto di comprendere anche quello di vendetta, come la pena di morte e dell’ergastolo lascia supporre? Concludo questa lettera con una confessione: una delle lezioni che ho imparato nel corso di tutti questi anni è che non sempre si ha la possibilità di riparare al male che si è fatto, ma che si può, anzi si deve sempre tentare di recuperare l’uomo che lo ha commesso, perché rinunciare a questo tentativo equivale a dichiarare la propria incapacità di combattere il male con codici diversi da quelli che non siano del taglione e della vendetta: io, purtroppo, sono stato incapace di farlo… e voi? Ecco, in fondo, sta tutto in questo la differenza di cui vi dicevo. Salvatore Torre Ho ancora la forza per dimostrare che sono un uomo cambiato È sempre difficile scrivere del proprio passato, raccontare una vita perduta e mai vissuta come vive una persona perbene. Il peggio di me ormai è stato scritto con tutta la brutalità possibile e immaginabile, perché di cose brutte ne ho fatte nella mia lontana gioventù. L’orgoglio dei miei vent’anni mi ha portato a fare scelte senza più ritorno, dopo che mi hanno ucciso un famigliare mi sono buttato dentro ad una spirale che mi ha divorato giorno dopo giorno con conseguenze devastanti non solo per me stesso ma anche per la mia famiglia. È solo colpa mia se oggi mi ritrovo con una pena assurda da scontare e incredibile da vivere, dentro un cubo di cemento. Ignoravo le leggi e le istituzioni perché ero convinto di avere le mie ragioni per colpire in quel modo sconsiderato e senza senso. Quante cose stupide si fanno nella gioventù, quando nasci e vivi in alcune regioni del nostro paese è più facile sbandare ed essere affascinato da uno stile di vita che ti fa sentire più forte e migliore del tuo prossimo. La mia non vuole essere una giustificazione, perché non vi sono giustificazioni, qualsiasi fossero le mie ragioni io non dovevo agire il quel modo sconsiderato. Io che conoscevo solo la fatica della giornata, che lavoravo sodo per guadagnarmi la mia paga giornaliera, mi sono lasciato trasportare dalla bella vita, dai soldi facili e ci ho messo anche del mio per diventare quanto più cattivo possibile. Ricordo come è stato facile cadere e nel frattempo pensare "posso smettere quanto voglio, so di potercela fare", ma almeno nel mio caso non è andata così. Oggi dopo tantissimi anni di prigionia capisco i miei errori, ma ho ancora la forza per dimostrare che io sono un uomo cambiato, che mi sono serviti questi lunghi anni di detenzione, perché malgrado tutte le mie sofferenze passate in carcere ho incontrato persone meravigliose che mi hanno fatto capire il senso della vita, e anche che ci vuole più coraggio, se ti offensono, a voltarsi dall’altro parte e andarsene che restituire male con altro male. Ecco perché credo che le istituzioni dovrebbero adoperarsi a strappare dai circuiti dell’alta sicurezza persone come me e a dare a queste persone la possibilità di cambiare, certo una sola goccia non fa oceano ma provate a disinnescare questi circuiti e vedrete quante gocce andranno nella stessa direzione. Credo che sia la soluzione migliore per verificare e valutare il percorso di un detenuto che come me sta lavorando sodo, sentendosi responsabile con una detenzione costruttiva. Perché c’è modo e modo di fare il carcere, io sono stato anche fortunato di incappare in questo istituto di Padova che non è una meraviglia di carcere ma uno dei meno peggio che ci sia in Italia, questo è poco ma sicuro. Se oggi sono in grado di scrivere la mia testimonianza è grazie alle persone che mi stanno vicino e che mi seguono con costanza, che mi fanno imparare a comunicare e a sperare che possa anch’io avere un futuro. Devo ringraziare tutte quelle persone che mi tendono la mano malgrado i miei errori e che cercano di capire che forse la mia vita poteva andare diversamente se fossi nato non in Sicilia ma in qualche altra regione del mio paese, e se fossi stato più maturo in modo tale da rendermi conto che stavo distruggendo tutto per orgoglio. Giovanni Zito Ogni nove giorni un suicidio in carcere di Silvia Mancinelli Il Tempo, 30 gennaio 2017 La denuncia dell’Associazione Antigone: "Il governo nasconde la verità". "Aggressioni e risse sono all’ordine del giorno. E i detenuti aumentano". Il dodicesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione presentato a Roma a metà dello scorso anno aveva squarciato il velo di omertà sulle condizioni delle carceri in Italia. Meno detenuti, rispetto a qualche anno fa, nonostante un tasso di sovraffollamento fermo al 106 per cento. Quasi quattromila persone senza un letto regolamentare e ben novemila costrette in meno di quattro metri quadrati a testa. Ma è il Sappe, sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, a riaccendere i fari su una situazione drammatica. Dietro le sbarre del Bel Paese, in un solo anno, sono stati 1.011 i tentati suicidi di detenuti, 8.580 gli alti di autolesionismo, 6.552 le colluttazioni e 949 i ferimenti. "Conseguenza della vigilanza dinamica e del regime aperto" commentano. Al palo soluzioni come le lenzuola di carta, fondamentali anche per scongiurare evasioni in stile "Sing Sing" e, questo è il caso, impiccagioni in cella. "Contiamo ogni giorno gravi eventi critici nelle carceri italiane, episodi che vengono incomprensibilmente sottovalutati dall’amministrazione penitenziaria - spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. Ogni nove giorni un detenuto si uccide in cella mentre ogni 24 ore ci sono in media 23 atti di autolesionismo e. tre suicidi in cella sventati dalle donne e dagli uomini del Corpo dì Polizia Penitenziaria. Aggressioni risse, rivolte e incendi sono all’ordine del giorno e i dati sulle presenze in carcere ci dicono che il numero delle presenze di detenuti in carcere è in sensibile aumento. Come si può dunque sostenere che è terminata l’emergenza nelle carceri italiane?". Del resto, che il numero dei detenuti sia tornato a crescere, era stato già sottolineato dall’associazione Antigone, la prima a registrare una preoccupante inversione di rotta rispetto a un calo negli ultimi sei anni. Così come sono ancora troppo alti i dati sui detenuti in attesa di sentenza definitiva. Secondo quanto riporta lo studio, infatti, gli uomini e le donne condannati in via definitiva sono 34.580. mentre quelli inattesa di sentenza definitiva sono il 34,6 per cento del totale. Circa uno su tre. "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto sono aumentati gli eventi gli eventi critici in carcere - aggiungono dal Sindacato dei baschi azzurri. Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le otto e le dieci ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentato il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Nel 2016 ci sono infatti stati 39 suicidi di detenuti, 1.011 tentati suicidi, 8.586 atti di autolesionismo, 6.552 colluttazioni e 949 ferimenti. E spesso i poliziotti penitenziari subiscono le conseguenze di queste sconsiderate violenze", aggiunge Capece. Che sollecita un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Mancano più di 8mila agenti di Polizia Penitenziaria inorganico e il Decreto Mille Proroghe ha previsto l’assunzione di 887 nuovi agenti. Circa il 10% dell’effettivo bisogno. Ma l’amministrazione penitenziaria ancora non ha assunto alcun provvedimento per assumere i nuovi poliziotti, a partire dagli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a partire per i corsi di formazione. Chiediamo dunque al Guardasigilli un suo autorevole intervento per affrontare la questione penitenziaria, che è e rimane una emergenza". Carceri minorili, il maestro Mario Tagliani sul ruolo della scuola di Francesca Buonfiglioli lettera43.it, 30 gennaio 2017 I baby detenuti non hanno alcun sistema valoriale. Ignorano il concetto di responsabilità. E per la società sono una vergogna da dimenticare. L’insegnante racconta a Lettera43.it il suo lavoro dietro le sbarre. I riflettori sulla tragedia di Pontelangorino, nel Ferrarese, si sono spenti. Non per gli inquirenti, visto che le indagini proseguono e si cerca ancora un movente che sia credibile. I brutti voti a scuola, le litigate anche violente con i genitori, una vita passata tra videogame e spinelli, il legame morboso che legava Riccardo - il figlio 16enne delle vittime - e Manuel - il suo migliore amico, 17 anni, autore materiale del duplice omicidio - non sono sufficienti a spiegare la violenza e la freddezza con cui i due hanno agito. Al momento i ragazzi sono stati divisi. Il secondo resta a Bologna, nel carcere minorile del Pratello. Per il 16enne si profila un trasferimento in una struttura di Torino, città nella quale vive il fratellastro e dove si sono svolte le esequie della coppia. "Non si rendono conto". Manuel e Riccardo come Erika e Omar. Casi che rientrano in una sorta di galleria dell’orrore quotidiano, del male inaccettabile proprio perché prossimo. E che sbattono in faccia all’opinione pubblica quel nichilismo che Umberto Galimberti chiama "l’ospite inquietante" e cioè la perdita di ogni orizzonte di senso e del valore della vita stessa. "Questi ragazzi", spiega a Lettera43.it Mario Tagliani, da 30 anni insegnante nel carcere minorile Ferrante Aporti di Torino e autore di Il maestro dentro (Add Editore), "non si rendono nemmeno conto della gravità dei loro atti, non hanno l’idea di cosa sia la responsabilità". "Come in un videogame". Dietro a fatti di sangue del genere, continua Tagliani, difficilmente si può accertare "una verità diversa da quella processuale. Di solito non c’è una causa unica, ma una serie di fattori". Vivono come in un gioco della Playstation, aggiunge, "ce ne sono di violentissimi. Si uccidono un sacco di nemici e quando si viene eliminati basta schiacciare il tasto reset e si ricomincia come se nulla fosse accaduto". Questo non significa che un adolescente decida di organizzare un omicidio a causa di un videogame, certo. "Diciamo però certi giochi che non aiutano". All’interno del carcere, però, casi come questi sono l’eccezione. La quasi totalità dei 459 minori detenuti (dati del ministero della Giustizia aggiornati a dicembre 2016) è finita dietro le sbarre per reati legati alla micro criminalità e dopo che ogni altra misura di rieducazione si è rivelata fallimentare. Sono questi gli adolescenti di cui per tre ore al giorno si occupa Tagliani. "Chi pensa che all’interno di una struttura carceraria si faccia lezione come a scuola sbaglia", precisa il maestro. "In una situazione di massima eccezione, l’eccezione deve diventare la regola". Anche perché, allarga le braccia Tagliani, "è proprio la vita che conducevano all’esterno, compresa la scuola, che li ha fatti disinnamorare dello studio". E che non è stata in grado di evitare loro la strada e la galera. "Ascolto, la forma più alta di altruismo". Una scuola che, secondo il maestro, non è molto diversa da quella raccontata nel 1967 in Lettera a una professoressa, il libro scritto da alcuni alunni della scuola di Barbiana e don Milani. E cioè "un ospedale che cura i sani e respinge i malati". "I miei ragazzi", racconta Tagliani, "spesso mi dicono che a scuola non capivano nulla. Ma è necessario comprendere il perché. La scuola non deve solo trasmettere nozioni. Se fosse così allora basterebbe un insegnante connesso via internet e un pc in ogni classe italiana, come suggeriva Galimberti. La scuola invece deve accompagnare questi giovani nella crescita, è l’ultimo baluardo contro la perdita di valori. Scuola e famiglia", insiste il maestro, "sono le uniche due grandi agenzie formative su cui possiamo contare". E in entrambe l’elemento centrale è l’ascolto, "la forma più alta di altruismo". L’importanza del dialogo coi genitori. Senza dialogo non si va molto lontano. Ne è convinto Tagliani. Bisogna riuscire a trovare il tempo per entrare in contatto con gli adolescenti. Compito tutt’altro che facile. "Si può rubare un "come stai?" o un "come va con le ragazze?" mentre si accompagnano i figli a calcio, o in palestra", spiega. Ma il canale di comunicazione deve restare aperto. E i segnali, anche non verbali, devono essere riconosciuti e decifrati. Molti detenuti poi una famiglia alle spalle non ce l’hanno. Per esempio gli stranieri che rappresentano, sempre stando ai dati aggiornati al dicembre 2016, il 43% del totale. "Per loro la priorità è imparare a leggere e a rapportarsi con gli altri", spiega Tagliani. "Dobbiamo fare loro capire che se riescono a chiedere informazioni educatamente allora la gente sarà portata a dare loro una mano e a guardarli con un occhio diverso". Soldi da spedire alle famiglie. Vengono dalla Romania e dall’Albania. Ma anche dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Egitto, dal Gambia e dal Senegal. E soprattutto chi ha dovuto attraversare il Mediterraneo su un barcone ha un unico obiettivo in testa: "Fare tanti soldi e subito", mette in chiaro il docente. "Perché devono inviarli a casa e restituirli agli strozzini a cui si sono rivolti per pagarsi il viaggio e che minacciano sorelle e madri". Per questo in carcere la cosa che a loro pesa di più è non poter mandare denaro alle famiglie. Per il resto "è un welfare per poveracci", continua Tagliani. "Almeno, soprattutto d’inverno, non stanno in mezzo a una strada". Non li salva nemmeno la religione. L’inserimento nel mondo del lavoro è difficile. Soprattutto per giovani che concepiscono il denaro come fine e non come mezzo, mette in guardia Tagliani. "Si chiedono perché lavorare per 400 euro al mese quando possono mettere insieme la stessa cifra in una notte di spaccio". Il problema vero è che non hanno valori. "Non li trovano nemmeno nella religione, soprattutto musulmana, che molti usano solo per farsi scudo e lamentarsi del cibo durante il ramadan, per esempio". Un vuoto valoriale e culturale. Al vuoto valoriale corrisponde quello culturale. "I miei ragazzi mi chiedono il libro di Fabrizio Corona, lo considerano un idolo. Io rispondo che Corona al di là di tutto è nato in una famiglia di giornalisti, in un contesto che ha sfruttato e che loro nemmeno possono immaginare. Il fatto è che questi ragazzi pensano di trovare un borsone di soldi e sistemarsi. E quando vengono presi dalla polizia, ecco che sono "sfortunati". Oppure scambiano i cinque cerchi olimpici che Tagliani aveva recuperato e appeso in classe per il simbolo dell’Audi. "È quello il loro orizzonte di riferimento. Più la macchina è grossa più sei ricco o sei figo se riesci a rubarla". I detenuti nelle carceri minorili sono recuperabili? "La maggior parte lo è", assicura il "maestro dentro". "E per loro sarebbe più duro ed educativo vivere sorvegliati a casa, costretti a frequentare la scuola ogni giorno, senza uscire". Invece il rischio è che "entrino in carcere come ladri ed escano criminali professionisti". Stando al secondo rapporto sulla devianza minorile a cura del dipartimento per la Giustizia minorile relativo al 2013, il 69% dei minori non è recidivo, mentre il 31% dei ragazzi del campione preso in esame ha commesso altri reati dopo il primo: nel 12% dei casi da minorenne, nel 9% sia da minorenne sia da adulto e nel 10% solo da adulto. I detenuti costano 125 euro al giorno. La percentuale nel caso di ragazzi stranieri, in particolare se non accompagnati, di prima e di seconda generazione sale al 46% nel caso dei ragazzi e al 55% nel caso delle ragazze. Senza parlare dei costi della gestione del sistema penitenziario. "Ogni detenuto pesa sullo Stato per 125 euro al giorno, di cui 100 sono spesi per il personale di sorveglianza". Ai progetti educativi e di reinserimento vanno le briciole. "Le mura? Per non vedere la vergogna". Lo si vede anche nell’immagine che viene diffusa del mondo carcerario. Nei filmati di repertorio, per esempio, fa notare Tagliani, "la regia inquadra prima di tutto gli agenti di sicurezza, con la divisa e le chiavi in mano. Poi indugiano sul cancello che si apre e si chiude. E solo alla fine appaiono in lontananza i detenuti, magari davanti alla tivù. Così è facile pensare che in fondo non se la passano male". Invece, ripete il docente, non va dimenticato che il carcere minorile è un luogo di massima eccezione. "Le mura non servono tanto per rinchiudere i detenuti, ma per impedire al mondo esterno di vedere al suo interno, e cioè di vedere la vergogna, la propria colpa e la responsabilità". Frequenti casi di autolesionismo. Con il passare del tempo, i giovani detenuti si rendono conto di ciò che hanno commesso. "Se non altro perché vedono i compagni entrare e uscire, mentre loro restano lì, rinchiusi". Così cresce in loro una rabbia che è difficile da controllare. "Prima se la prendono con gli altri, poi con se stessi", racconta amaro Tagliani. "Non sono rari i casi di autolesionismo, basta guardare i tagli sulle loro braccia. Nemmeno io so ciò che accade al di fuori delle tre ore quotidiane di lezione in cui cerco di farli "evadere" e fare loro entrare in testa che sono giovani, che nella vita si può sbagliare e poi ricominciare". Condannati a essere fantasmi. In queste ore, i suoi studenti chiedono informazioni sui loro coetanei diventati "protagonisti" della nera. "Sono curiosi, provano quasi invidia", ammette il maestro. "E mi chiedono se le loro "gesta" hanno guadagnato un trafiletto nella pagina di cronaca. Poco importa se, come spiego, non sono riportati i nomi ma solo le iniziali. Molti di loro ormai esistono solo se qualcuno ne parla, altrimenti sono condannati a essere fantasmi". Più crimini dai minorenni, ma migliora l’integrazione di Massimo Gramellini Il Secolo XIX, 30 gennaio 2017 Preoccupazione dai magistrati per la possibile soppressione di una Procura dedicata. Il numero dei giovani stranieri resta elevato, i loro reati diminuiscono: "Segnale importante". Nulla di paragonabile con quello che accade al Sud, ma anche in Liguria il timore per l’abbassamento dell’età in cui si commettono i primi reati è reale. A valle di un incremento generalizzato dei numeri, tuttavia, restano anche segnali confortanti, che ancora il procuratore generale Valeria Fazio prova a mettere in fila: "I dati trasmessi dalla Procura dei minori - spiega - registrano un aumento dei procedimenti penali, come sintomo d’una crescita del disagio minorile ; la percentuale degli indagati stranieri e la loro tendenziale diminuzione sono invece elementi che evidenziano una microcriminalità soprattutto nazionale. E suggerisce che stia intervenendo per gli immigrati, in particolare per quelli di origine sudamericana, molto numerosi a Genova, un positivo fenomeno d’integrazione". Certo si tratta sostanzialmente d’una deduzione, ma tutt’altro che peregrina alla luce dei passi avanti compiuti in più direzioni su questo fronte: "Un trend positivo - rilancia quindi il Pg - è rappresentato dall’aumentata sensibilità delle diverse agenzie educative, della polizia giudiziaria e di altri soggetti coinvolti nella gestione del disagio minorile. E a una più diffusa capacità d’iniziativa e d’impulso della Procura stessa, che va molto apprezzata". Partendo da questo si può focalizzare tuttavia uno degli elementi non troppo confortanti per il futuro. La premessa: "Sempre alla Procura minorile - le seguenti parole di Valeria Fazio - sono riservati compiti estremamente specializzati, anche nel settore penale: sia la tutela del minore venuto a trovarsi in situazioni di disagio e fragilità, sia quando è vittima delle condotte inadeguate o disfunzionali dei genitori". La conclusione: "È alla luce di queste considerazioni che esprimo la preoccupazione per un progetto di riforma in discussione, che prevede la trasformazione delle medesime Procure per i minori in un segmento, per quanto specializzato, di quelle ordinarie. Un passaggio del genere potrebbe determinare una perdita di ruolo e di forza, avendo proprio la Procura minorile una sua specifica e irrinunciabile cultura". Sul punto si crea una sinergia con l’Unione delle camere penali (la branca che rappresenta gli avvocati impegnati, appunto, nei processi penali), che nelle scorse settimane ha prodotto un documento autonomo, per richiamare sulla necessità di tenere in vita le Procure minorili. Fra i dati che riguardano i meccanismi di protezione dei minorenni, in precedenza, era invece stato segnalato dalla Corte d’appello il calo delle adozioni, 20% in meno nel periodo 1 luglio 2015 - 30 giugno 2016 rispetto all’anno precedente. Droni per controllare le carceri: studio di fattibilità da parte del Dap di Federico Olivo blastingnews.com, 30 gennaio 2017 Avviato studio di fattibilità per nuove forme di controllo perimetrale e delle aree interne degli istituti penitenziari con l’aiuto di droni. Il controllo perimetrale delle carceri italiane, ma anche quello degli spazi più interni, presto potrebbe essere affidato ai droni. È quanto trapela da una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), redatta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017. L’intendimento dell’amministrazione penitenziaria è quello di utilizzare i droni per adottare nuove forme di controllo perimetrale delle aree interne al muro di cinta delle carceri e anche all’area più interna (inter-cinta) di ogni Istituto penitenziario. Studio di fattibilità e sperimentazione - Già dall’anno scorso, infatti, è stato avviato uno studio di fattibilità che ha visto coinvolte alcune sedi periferiche (Provveditorati e Istituti penitenziari). Il progetto attinge dai fondi del Pon Sicurezza, e prevede la sperimentazione iniziale in almeno uno o due istituti entro ogni Provveditorato regionale. La gestione dei droni dovrà essere affidata al personale del Corpo di Polizia Penitenziaria che garantisce la sicurezza negli istituti penitenziari, ma ancora non è trapelato nulla riguardo la formazione del personale. Drone utilizzato per evadere dal carcere di Londra - All’estero, i droni rappresentano per lo più un problema inverso, in quanto sono un pericolo per la sicurezza. Ne sanno qualcosa i poliziotti di Londra dove, nel novembre scorso, si è verificata la prima evasione al mondo attraverso l’utilizzo di droni. Due pericolosi detenuti sono riusciti a fuggire dal carcere di Pentonville, una delle prigioni della capitale, situata in una delle zone più frequentate della metropoli. I controlli non sono riusciti ad accorgersi della presenza di un drone, che è riuscito a recapitare, all’interno del cortile del penitenziario, una lama in grado di tagliare le sbarre delle celle. I due pregiudicati, così, hanno potuto utilizzare la lama per segare la finestra della cella che condividevano e per darsi alla fuga. La Svizzera installa impianti radar anti-droni - Piccoli, rapidi e difficilmente identificabili, i droni sono il veicolo ideale per contrabbandare telefonini o droga all’interno delle mura penitenziarie. Per questo motivo il penitenziario di Lenzburg (Canton Argovia), ha deciso di installare un sistema d’allarme contro i droni ed altri apparecchi volanti. L’impianto dovrebbe entrare in funzione in primavera. Si tratta di un sistema che utilizza la videosorveglianza e un radar in grado di identificare apparecchi volanti di una lunghezza di almeno 7 centimetri. Il Dipartimento ha inoltre deciso di non installare apparecchiature di disturbo o altri strumenti attivi, ritenuti "troppo costosi". Pisapia: "innocenti in cella e magistrati in politica, la gente non ha più fiducia nella giustizia" di Pietro Senaldi Libero, 30 gennaio 2017 Intervista all’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Troppi innocenti in cella, magistrati che fanno i moralizzatori e processi strumentalizzati a fini politici: così la gente ha perso fiducia nella giustizia". "Che rimpatriata, per anni i giornali non della mia parte politica mi hanno chiesto interviste". Argomento giustizia? "Sì, soprattutto sulla giustizia e spesso, il mattino dopo, la mia intervista era in prima pagina. Il rispetto delle garanzie non può valere solo per chi è della tua parte politica. Deve valere per tutti. Sono sempre stato contrario alla strumentalizzazione della Giustizia per finalità politica. Ho sempre creduto nell’autonomia e indipendenza della magistratura; ma anche nell’autonomia e indipendenza della politica". È cambiata la percezione che gli italiani hanno dei giudici, un tempo erano mezze divinità... "Anche se è ancora superiore a quello dei partiti politici, oggi la fiducia nella giustizia è diminuita. Responsabilità anche di chi ha commesso errori privando della libertà personale troppe persone rivelatesi poi innocenti. Non bisogna generalizzare, ma vi è stato un periodo in cui singoli magistrati, che hanno il delicato compito di amministrare la giustizia, si sono attribuiti il ruolo di moralizzatori. Così come, non di rado, la politica ha delegato alla magistratura compiti di sua competenza". Il presidente dell’Anm, Davigo, ha dichiarato che la politica deve star fuori dalla magistratura... "Giusto. Ma è vero anche il contrario, l’autonomia dev’essere reciproca". L’Anm attacca il governo perché ha abbassato l’età della pensione per la categoria: sostiene che la politica vuol scegliersi i giudici. La pensa così anche lei? "In questi anni ci sono stati molti interventi legislativi sulle pensioni, sarebbe stato sbagliato non intervenire anche su quelle dei magistrati. L’errore è stato intervenire con un provvedimento che ha prepensionato magistrati esperti creando gravi disagi nei tribunali. Bastava più gradualità e si sarebbe trovata una soluzione equa evitando quelle difficoltà che hanno inciso negativamente sull’amministrazione e l’efficienza della giustizia". Il presidente della Cassazione si è scagliato contro i processi mediatici: sono colpa dei giornalisti o di chi passa loro le carte e poi magari ci costruisce sopra una carriera, talvolta anche politica? "Ognuno ha la sua parte di colpa. La responsabilità maggiore certamente è di chi "passa le carte" o di chi vìola il segreto d’indagine, ma anche i giornalisti dovrebbero chiedersi a chi giova tutto questo". Cosa pensa di Berlusconi che le prova tutte per spostare il voto a dopo la sentenza della Corte dei Diritti Umani che dovrebbe restituirgli la candidabilità? "Non si può fare troppo affidamento sui tempi della magistratura europea: la Corte Europea è bravissima a condannarci per la lentezza della nostra giustizia, ma anche i suoi tempi sono spesso biblici". Ma lei si augura che Berlusconi torni candidatile? "Ho grande stima per la professoressa Severino ma quella legge non mi ha mai convinto. Lo dico da cittadino, da avvocato, da ex sindaco. Non comprendo come in un Paese, che ha scolpita nella sua Costituzione la sovranità del popolo e la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, chi è stato eletto dai cittadini possa essere sospeso dopo una condanna di primo grado (che peraltro spesso viene annullata in Appello o in Cassazione). A maggior ragione non mi convince la retroattività di quella legge. Conosco la decisione della Consulta che ha ritenuto che la "sospensione" non sia una sanzione penale e quindi priva del vincolo di non retroattività. Ma così, a mio sommesso parere, si incide negativamente, con una legge ordinaria, su princìpi costituzionali quali la sovranità del popolo oltre con la presunzione di innocenza, baluardi di ogni democrazia". E cosa pensa della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’Italicum? "Per un giudizio complessivo bisogna aspettare le motivazioni della sentenza. Detto questo, condivido l’incostituzionalità della norma che garantiva, al ballottaggio, la maggioranza assoluta dei parlamentari a chi al primo turno aveva magari ottenuto poco più de120% dei voti. E condivido il principio che i cittadini abbiano il diritto di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento". E adesso che si fa: si vota subito o si scrive un’altra legge? "Se in Parlamento ci fossero i numeri e la volontà di portare a termine importanti leggi già approvate, con largo consenso, da un ramo del Parlamento, sarebbe utile proseguire la legislatura. Ma ho la sensazione che non ci siano questi presupposti. Allora è preferibile che - dopo aver approvato una legge elettorale che rispetti le indicazioni della Consulta e omogeneizzi i sistemi di Camera e Senato - si ridia voce ai cittadini. Vanno conciliate rappresentanza e governabilità e questo è possibile solo se si prevedono liste di coalizione e una soglia, non alta, che permetta di avere parlamentari a chi ha consensi non minimali". Come Prodi, anche lei è rimasto innamorato dell’Ulivo? "Quella dell’Ulivo è stata un’esperienza importante perché ha unito esperienze e provenienze diverse su valori condivisi. Il Mattarellum, oltre a tutto, con i collegi nominali spingeva i parati a candidare persone che avevano la fiducia, la stima dei cittadini e che erano conosciute sul territorio". Ma se non ha in testa un Ulivo 2.0, a cosa pensa allora? "A un nuovo centrosinistra (o sinistra-centro) con un programma condiviso. Un campo aperto dove si impegnino persone che hanno stessi obiettivi e valori. Una sinistra responsabile, con un Pd che guardi a sinistra e non a destra". E perché stavolta la coalizione dovrebbe tenere? "Perché di questa coalizione farebbero parte soggetti che già hanno positive esperienze unitarie di governo a livello locale e perché, oltre a un programma comune, ci sarebbero paletti precisi anche su altri punti (possibile alleanze su alcuni temi, limite di legislature per i parlamentari, codice etico ecc.)". Mi dica uno di questi "paletti"? "Ne dico due. Nessun accordo con la destra, no alle grandi intese. Il Pd, in questi anni in cui non era possibile una coalizione quale quella che si era presentata alle elezioni, ha dovuto allearsi con parte della destra. Ma ora siamo a un bivio. Prima del prossimo voto, deve fare una scelta: tornare alle origini e guardare a sinistra con un’ampia e aperta coalizione di centrosinistra". Ma nessuna coalizione arriverà al 40% alle elezioni. E allora per governare Renzi dovrà allargare il campo fino a Berlusconi... "E allora io non sarò della partita. Veniamo da quattro anni di alleanze anomale diverse da quelle per cui avevano votato gli elettori nel 2013. Prima il Pd con Forza Italia, poi con Ncd, poi si è aggiunta Ala: è ora di fare una scelta precisa se ancora si crede nella differenza tra destra e sinistra. Io ci credo". Quindi conferma il suo tweet: "Alfano con noi sarebbe un incubo", a cui il ministro ha risposto: "Coalizione con Pisapia? Zero"? "Mi pare che ognuno abbia detto la sua. Non c’è altro da aggiungere". È tempo di nomi: è vero che candiderà la Boldrini alle primarie della sinistra? "Laura Boldrini è la terza carica dello Stato e, nel suo attuale ruolo istituzionale dev’essere "super partes". Sarà lei a prendere, al momento giusto, le sue decisioni. Personalmente, non potrò che rispettarle". Vendola definisce "velleitaria" la sua idea. Nel 2012 si precipitò in piazza Duomo ad abbracciarla per una storica foto opportunità: cos’è successo nel frattempo? "Abbiamo continuato a lavorare e impegnarci insieme anche in questi anni. Ho con Nichi un rapporto di amicizia, affetto e stima. Oggi abbiamo posizioni diverse sul Pd. Io continuo a essere convinto, e lo verifico ogni giorno, che il popolo del Pd vuole l’unità e la vuole all’interno di un nuovo centrosinistra. Rispetto le sue scelte e sono convinto che anche in futuro su tanti temi - i diritti, il sostegno ai soggetti più deboli, la lotta alla povertà - continueremo a trovarci dalla stessa parte". E Bersani, lo ruba alla ditta? "Bersani ha grande esperienza ed è persona con la quale è sempre prezioso e utile confrontarsi. Farà la sua battaglia all’interno del suo partito. Una cosa è certa: il mio obiettivo non è in nessun modo portare via voti al Pd ma contribuire a restituire fiducia agli oltre tre milioni di elettori del Pd, di centrosinistra, di sinistra che non vanno più a votare o votano altri schieramenti. Il mio impegno sarà anche quello di fare il possibile per restituire fiducia ai tanti giovani disillusi dalla politica e che vorrebbero impegnarsi non solo per un futuro migliore ma anche per una società più giusta". Cosa mi dice del grande rottamatore, Renzi? "Apprezzo il coraggio e la forza di Renzi soprattutto quando si impegna per vere riforme. Ma in molte cose siamo diversi. Io credo nel confronto, nel cercare il più possibile le mediazioni nobili. Rottamare è una parola che suscitò entusiasmo ma che si è rivelata sbagliata. Sono state accantonate persone che avrebbero potuto dare importanti contributi a migliorare la situazione. Non mi piace il termine rottamazione. Credo molto, invece, nella rotazione degli incarichi e nella politica come servizio e non come professione". Perché l’ex premier ha così fretta di tornare a votare se ha perso il feeling con gli elettori? "Se sta fuori dal giro per 14 mesi rischia di essere ridimensionato definitivamente. Per fare il premier ha trascurato il partito. Non condivido lo statuto del Pd, che prevede che il segretario coincida con il premier. Chi è impegnato nel governo non ha la possibilità, per quanto bravo sia, di occuparsi del partito, confrontarsi con i circoli, ascoltare gli elettori. E forte è il rischio di perdere il rapporto col proprio elettorato e di non percepire le diverse criticità". Torniamo a lei: perché persegue un suo progetto e non prova lei a dare una mano al Pd? "La mia storia è completamente diversa. E poi le ho detto: non credo alla vocazione maggioritaria e all’autosufficienza del Pd". Il grande errore di Veltroni. Lei quali figurine ha nel cassetto? "Non guardo al passato ma al presente e al futuro. Oltre alla mia professione di avvocato, sono impegnato in incontri con le tante realtà che vogliono dare il proprio contributo a un nuovo modo di fare politica. Ho conosciuto molte persone attive nel loro territorio, sindaci, amministratori, cittadini, che vogliono ancora impegnarsi per il bene della loro comunità, anche a livello nazionale. Molti giovani che potranno essere la futura classe dirigente". Mi pare scontato che lei si candidi alle primarie della sinistra e al Parlamento. O no? "Mi pare che questa intervista sia già fin troppo lunga, cosa di cui peraltro la ringrazio". Processo ai magistrati: più sbagliano meno pagano di Vittorio Feltri Libero, 30 gennaio 2017 In Italia un imputato non rischia solo di perdere la libertà, ma anche la dignità. Eppure i pm continuano a essere intoccabili. Sabato sera è andata in onda su Rai3 un’altra puntata di "Io sono innocente", che tratta la materia giudiziaria da un punto di vista particolare, quello di varie persone che sono state sbattute in carcere senza tanti complimenti pur non essendosi macchiate di alcun reato. Le quali - numerose - ne hanno passate di ogni colore prima di essere scagionate, veri e propri calvari che hanno dell’incredibile. Il conduttore, Alberto Matano, è un maestro che non si dà arie e forse anche per questo risulta affidabile quando si cimenta in racconti allucinanti, riguardanti cittadini torturati da una giustizia cieca e bieca che non ascolta ragioni e procede con crudele determinazione, infischiandosene della verità, al punto che dimostra di non cercarla neppure. Si dirà, sono casi isolati, eccezioni. Data la quantità di episodi offerti da questa nobile trasmissione, la più bella e interessante che io abbia mai seguito in tivù, mi sembra che le nefandezze avvenute nei tribunali e nelle prigioni siano più che sufficienti a scandalizzare il popolo. Quando un uomo o una donna finisce tra le grinfie degli inquisitori non solo perde la libertà, bene supremo, ma anche la dignità. I documenti offerti in proposito da Matano sono ineccepibili. Il detenuto in attesa di giudizio è trattato come un povero animale da macello e se riesce a sfuggire al mattatoio, ciò avviene dopo lungo tempo, se avviene, talvolta venti anni, come certifica la vicenda di un siciliano condannato gratis all’ergastolo e scarcerato per una botta di fortuna: la confessione tardiva dell’autentico colpevole dell’omicidio, decisosi a confessare a distanza di un paio di decenni dal delitto. Storie che provocano brividi in chi le apprende, storie indigeribili per chi abbia un filo di coscienza. "Io sono innocente" non indulge in dettagli raccapriccianti: l’orrore che suscita il programma nasce dalla naturalezza con cui il conduttore riesce a portare avanti la narrazione dei fatti. Fatti incontestabili. Ci si domanda come sia possibile succedano in un Paese democratico certe schifezze che nessuno tenta di evitare con normative che non consegnino agli addetti alla giustizia così ampi margini di arbitrio. È un mistero il motivo per il quale si ricorra con facilità alla detenzione cautelare. Ed è un mistero il motivo per cui le carceri siano gestite ancora con criteri disumani di sapore medievale. Chi incappa nelle maglie della giustizia, quand’ anche sia appunto innocente, subisce maltrattamenti efferati, umiliazioni empie. Consiglio ai nostri lettori di guardare e di ascoltare i racconti raggelanti proposti da Matano, un giornalista coi fiocchi nonostante l’aspetto di un amministratore condominiale. Costui inaspettatamente propina una lezione di giornalismo unica nel suo genere. E consiglio ai magistrati di non saltare una puntata di "Io sono innocente"; sono convinto che essi stessi ne trarrebbero utili insegnamenti allo scopo di svolgere con maggiore oculatezza e meno boria il loro lavoro, che non è quello di demolire moralmente e fisicamente gli imputati, bensì quello di giudicarli per quanto hanno effettivamente commesso e non per quanto si presume abbiano combinato. Raccomandiamo la visione della trasmissione anche e soprattutto ai soloni che inaugurano in pompa magna l’anno giudiziario schivando con cura di scusarsi per le puttanate che hanno fatto in danno di parecchi poveri cristi. A proposito, perché tutti noi paghiamo cari gli sbagli che ci vengono attribuiti, invece lor signori con la toga, no? L’obbligatorietà dell’azione penale e la deriva del pm-poliziotto di Giuseppe Di Federico Il Mattino, 30 gennaio 2017 In tutti i Paesi a consolidata democrazia la struttura del pubblico ministero (Pm) è di tipo unitario e gerarchico. Nella maggior parte dei Paesi al vertice della gerarchia è collocato il ministro della Giustizia o figura simile (come ad esempio in Inghilterra) in altri il compito è assegnato a un soggetto nominato protempore nell’ambito del processo democratico su proposta del governo, come, ad esempio, in Spagna e Portogallo. In Italia no. Non esiste nessuna struttura gerarchica e unitaria, il Pm è indipendente e libero da qualsiasi ingerenza esterna al pari del giudice. Il principale vincolo all’azione dei singoli uffici di Procura e dei suoi componenti previsto dal nostro costituente è quello dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale, che dovrebbe anche garantire l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge. Poiché il costituente riteneva che fosse di fatto possibile perseguire tutti i reati, non era necessario prevedere, come negli altri Paesi democratici, una struttura gerarchica che governasse i comportamenti delle singole procure e dei suo i componenti, né un soggetto che fosse politicamente responsabile dì fronte ai cittadini delle attività e decisioni dei Pm. Poiché non è materialmente possibile perseguire tutti i reati, la decisione su quali reati condurre indagini più o meno approfondite, su quali esercitare l’azione penale o lasciare che il reato si prescriva, rientra in larga misura nella discrezionalità dei singoli uffici dì Procura e dei singoli Pm. Di queste decisioni il nostro Pm non porta responsabilità alcuna. Neanche quando diviene evidente che l’iniziativa penale era priva di giustificazioni, neanche quando, come spesso avviene, le indagini e l’iniziativa penale hanno generato devastanti e irrimediabili danni sullo status sociale, economico, familiare, di lavoro, della stessa salute di cittadini innocenti. I Pm possono sempre affermare a buon diritto che erano stati obbligati ad agire come avevano agito dal principio di obbligatorietà dell’ azione penale, un principio che in tal modo trasforma tutte le decisioni dei Pm, per discrezionali che siano, in "atti dovuti". Nessuna conseguenza negativa neppure in sede di valutazione della loro professionalità. Nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario di venerdì scorso, il presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio ed il procuratore generale della stessa Corte hanno entrambi affrontato il problema della incontrollata discrezionalità dei coni-portamenti e delle iniziative dei Pm ed anche suggerito rimedi volti a ridurre quella discrezionalità. Giustamente il professor Giovanni Verde, su questo giornale ha ricordato al presidente Canzio che quell’obiettivo non può essere adeguatamente perseguito senza abbandonare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Lo scrivo da più di 40 anni e quindi non posso che essere d’accordo con lui. Mi sento tuttavia di aggiungere che, anche nel caso il presidente Canzio fosse d’accordo con noi, non avrebbe certo potuto proporre di rivedere il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale nell’ambito di un discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. E tuttavia molte sono le disfunzioni che derivano dall’obbligatorietà dell’azione penale, oltre a quelle che riguardano l’inconsistente protezione dei diritti del cittadino nell’ambito processuale. Non posso certo trattarne qui. Mi soffermerò solo ad indicare perché l’obbligatorietà dell’azione penale e la piena indipendenza del Pm sono in contrasto anche con principi che riguardano il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. In primo luogo perché il sistema italiano fondato sull’obbligatorietà ha creato la figura del poliziotto indipendente. A differenza dei suoi colleghi di altri Paesi democratici, infatti, il Pm italiano può di propria sponte iniziare e condurre attività investigative di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino, cioè su ciascuno di noi, quando ritiene che sia stato commesso un crimine (art. 330 cpp). Non solo. Nel condurre le indagini, la polizia deve operare chiedendo istruzioni al Pm e seguendo in via esclusiva e vincolante le sue direttive (art. 347 cpp art. 109 Costituzione). Nella fase investigativa, cioè, il ruolo del nostro pubblico ministero è di fatto quello di un poliziotto indipendente, cosa che non è resa meno preoccupante per il cittadino e meno anomala in democrazia per il solo fatto che il poliziotto indipendente si chiami pubblico ministero. In secondo luogo viene violato il principio democratico della rappresentanza. Lasciando alle singole Procure e d ai suoi componenti un’ampia discrezionalità nel decidere come svolgere le indagini e come esercitare l’azione penale si pone anche in buona parte nelle loro mani la definizione delle politiche pubbliche nel settore della criminalità per le quali da noi, a differenza degli altri Paesi democratici, non esiste un responsabile politico che ne risponda in Parlamento e all’elettorato. A differenza degli altri Paesi a consolidata demo crazia, la definizione delle politiche criminali del Paese viene quindi di fatto delegata ai componenti di un corpo reclutato burocraticamente e privo di qualsiasi legittimazione democratica. Ed a riguardo mi piace ricordare Giovanni Falcone il quale diceva che a dispetto della natura liberal democratica del nostro Stato le politiche giudiziarie vengono lasciate - lo cito - "alla mercé delle scelte prive di adeguati controlli dei capi degli uffici, o peggio dei singoli magistrati senza alcuna possibilità istituzionale di intervento". Un fenomeno che appariva - e lo cito ancora - come una "variabile impazzita del sistema". P.S. Devo aggiungere una postilla per non essere frainteso. In nessun modo ho voluto affermare che negli altri paesi democratici non venga ricorrentemente posto il problema di come meglio proteggere il Pm da eventuali tentativi della maggioranza del momento di influenzarne la condotta per obiettivi di parte. Non è ovviamente possibile considerare qui le diverse soluzioni adottate nei vari paesi per coniugare autonomia e responsabilità del Pm. Mafia Capitale sparisce dai giornali mentre la mafia sparisce dall’inchiesta di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 gennaio 2017 A ventisei mesi dall’inizio del grande circo su Mafia Capitale tutto inizia a essere chiaro: la mafia non si trova, le accuse cadono, le corti chiariscono ma il bollino resterà. Storia di un flop annunciato Sono passati ventisei mesi dal giorno in cui l’opinione pubblica italiana ha fatto la sua conoscenza con due parole importanti che da anni ormai accompagnano la vita della capitale del nostro paese. Le due parole sono "Mafia Capitale" e a ventisei mesi dai primi arresti quella che poteva sembrare solo un’impressione oggi è un fatto: la grande inchiesta che, tra mille rulli di tamburi e fanfare grilline, avrebbe dovuto portare alla luce l’esistenza, a Roma, di una nuova Corleone non è riuscita a dimostrare la presenza di un’organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della capitale italiana. Prima i fatti, poi le opinioni. Piccolo riassunto delle puntate precedenti. Pochi giorni fa, la Corte d’appello di Roma ha ridotto le pene per quattro persone condannate per corruzione nell’ambito del processo di Mafia Capitale. Tra queste, anche Emilio Gammuto, collaboratore di Salvatore Buzzi, considerato uno dei capi dell’organizzazione mafiosa. Piccolo dettaglio: per lui la Corte d’appello ha escluso l’aggravante mafiosa. Zeru tituli. Andiamo avanti? Andiamo avanti. A Ostia, quella che doveva essere la terra dei nuovi padrini, la Corte d’appello, lo scorso settembre, ha detto che non esiste, che non c’è nulla, che è un’invenzione. E all’interno delle 150 pagine con cui ha affermato la mancanza di una prova che potesse certificare la presenza della "pervasività mafiosa" nella Corleone di Roma, afferma tre cose chiare. In sintesi. Afferma che: (a) non è provato "il diffuso clima d’intimidazione proprio del metodo mafioso", (b) le dichiarazioni del principale pentito del processo sono fragili e "non possono ritenersi riscontrate nel presente procedimento" e (c) certamente vi sono stati, a Ostia, "singoli atti intimidatori, posti in essere nei confronti di singoli soggetti" ma restano dei singoli atti - usura, estorsione, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione e porto di armi, acquisizione di attività economiche in modo occulto - che ci dicono una cosa sola: "L’atteggiamento tenuto dai test escussi nel corso del dibattimento di primo grado non può essere ricondotto in modo univoco a strategie intimidatorie o comunque a uno stato diffuso di soggezione". Andiamo avanti? Andiamo avanti. Qualche tempo dopo, siamo a ottobre, mister anti corruzione, Raffaele Cantone, ha detto che la mafia a Roma lui non l’ha vista: "Posso escludere ad oggi di avere mai individuato e segnalato alle procure ipotesi di 416 bis, cioè associazione di stampo mafioso". Può bastare? Non basta. Andiamo avanti. Il più importante politico indagato per mafia nell’inchiesta della procura di Roma, l’ex sindaco Gianni Alemanno, qualche mese fa ha visto decadere l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso che gli era stata contestata. Niente mafia, ancora. E come se non bastasse, il capo di gabinetto del presidente della regione Lazio, che doveva essere il simbolo dell’allargamento dell’inchiesta, a ottobre è stato assolto con formula piena. Zeru tituli. Bene. Diciamo tutto questo per dire che a Roma va tutto bene e che la criminalità non esiste? Ovviamente no. Lo diciamo per far notare qualcosa di clamoroso che sta accadendo nella capitale italiana e che ha avuto effetti dirompenti sulla vita del nostro paese. Scegliere di mettere accanto alla parola "Capitale" la parola "Mafia" è stata una decisione forte che ha portato grande visibilità ai magistrati della procura di Roma, e molto fango sulla capitale d’Italia; ha permesso all’inchiesta di avere una copertura mediatica internazionale; ha permesso ai magistrati di poter indagare sui sospettati utilizzando strumenti di indagine invasivi che si possono usare solo quando qualcuno viene accusato sulla base del 416 bis (più tempo per le intercettazioni, meno vincoli sulle perquisizioni); e ha contribuito ad alimentare quella retorica dell’onestà che ha permesso al Movimento 5 stelle di conquistare il Campidoglio. A ventisei mesi dai primi arresti, la mafia a Roma non si vede, i padrini non si trovano, le coppole non ci sono ma tutti fanno finta di niente e gli stessi giornali che hanno alimentato la bolla di Mafia Capitale ora fischiettano facendo finta di nulla e nascondendo le notizie sui flop dell’inchiesta del secolo" in un boxino a pagina 14. Nessuno spirito critico. Nessuno che si chieda come sia stato possibile che, come vittime della violenza e delle minacce del gruppo "mafioso", in dibattimento, i pm abbiano portato (a) un gioielliere dei Parioli per una storia relativa al pagamento di tre Rolex, (b) un venditore ambulante, (c) un pensionato vessato per tremila euro di interessi usurari, (d) un orafo che doveva fare un affare in Africa finanziato da Carminati e poi sfumato. A Roma, come capita circa da duemila anni, c’è corruzione ma la mafia è qualcosa di diverso, no? Ecco: la storia dell’inchiesta romana ci dice qualcosa di cruciale su un tratto importante della nostra cultura giudiziaria: la facilità estrema con cui si dà del mafioso a qualcuno, fregandosene poi se il bollino appiccicato sulla fronte era vero oppure no, e la prevalenza nel nostro paese del pensiero unico giustizialista, che prevede la formazione di ole quando i magistrati attaccano e che prevede l’insabbiamento dei flop quando si capisce che ciò che sembrava oro invece era fuffa. E prima di trasformare la capitale d’Italia nella capitale della mafia forse sarebbe stato bene pensarci due volte. O no? Incidenti stradali, risarcimenti più lenti di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2017 L’obiettivo delle nuova legge (la 41 del 2016) in materia di omicidio e lesioni personali stradali era quello di dare soddisfazione alle vittime. Ma a oggi l’effetto più evidente sembra quello di avere rallentato i risarcimenti. Norme severe - Aumento considerevole delle pene, ampio ricorso alle misure precautelari (arresto e fermo), divieto di concessione delle circostanze attenuanti: la legge 41/2016 - in vigore dal 25 marzo dell’anno scorso - è frutto di un’impostazione che ha pensato di affrontare il problema dei morti sulle strade puntando soprattutto sull’aspetto sanzionatorio. Si tratta di disposizioni molto severe, che sembrano voler scongiurare il rischio di interpretazioni troppo "morbide" da parte dei giudici. Vanno in questa direzione, ad esempio, novità come l’arresto obbligatorio in flagranza per chi sia sospettato di avere causato un incidente mortale sotto l’effetto di alcol o droghe anche se non si è dato alla fuga, previsto dall’articolo 380 del Codice di procedura penale. Una misura inutile, perché se non ci sono le esigenze cautelari - tra le quali, appunto, rientra il pericolo di fuga - nel giro di qualche ora il giudice deve liberare l’indagato. Allo stesso modo, il blocco delle attenuanti, previsto dal nuovo articolo 590-quater del Codice penale, ha l’obiettivo di "legare le mani" al giudice nell’individuazione di una pena effettivamente proporzionata a tutte le circostanze che caratterizzano l’incidente e la condotta del reo. Si pensi al caso di chi si sia messo al volante dopo avere bevuto un bicchiere di troppo, ma la cui effettiva colpa - nel rapporto di causa-effetto con un incidente con danni alla persona - sia quella di avere commesso una violazione minore delle norme della circolazione. Messo sotto inchiesta, decide subito di risarcire il danno. Per le nuove norme, il giudice deve sempre considerare prevalente l’aggravante dell’alcol, senza poterla bilanciare con il risarcimento del danno o l’effettivo grado della colpa. Effetti collaterali - Le aspettative risarcitorie delle vittime non sono tutelate di più ora rispetto al passato; anzi, l’impressione è che la nuova disciplina abbia seminato ostacoli al tempestivo risarcimento dei danni, dato che non ha reso "conveniente" il risarcimento preprocessuale finalizzato alla successiva opzione per un rito alternativo come il patteggiamento o il giudizio abbreviato. Il che si traduce in tempi più lunghi per arrivare al risarcimento delle vittime, che rischiano di dover aspettare fino al terzo grado di giudizio. Per l’imputato - e anche per le assicurazioni - può essere preferibile affrontare il dibattimento. La dialettica processuale è l’unica chance per guadagnarsi l’attenuante che può prevalere sullo stato di alterazione del conducente in conseguenza dell’uso di alcol o di droghe: si tratta della minima importanza di tale stato fisiologico nella dinamica dell’incidente (prevista dall’articolo 114 del Codice penale), che consente un sensibile abbattimento della pena e una proporzionale diminuzione del risarcimento. Il dibattimento è ancora più vantaggioso se si pensa che le nuove norme (articoli 589-bis, comma 7, e 590-bis, comma 7, del Codice penale) prevedono una diminuzione della pena fino alla metà - e anche del risarcimento - "qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole". Si tratta di ipotesi tutt’altro che remote. Si pensi alla responsabilità degli enti gestori per la manutenzione delle strade, o del personale sanitario per soccorsi non tempestivi o inadeguati. Tutte cause che possono contribuire, unitamente alla condotta di chi guida sotto l’effetto di alcol o droghe, a determinare la morte o le lesioni a un utente della strada: concause che è giusto accertare, ma che inevitabilmente aumentano il tasso di conflittualità tra imputato e vittime, dilatando anche i tempi per il risarcimento dei danni. Conversazioni intercettate sono prove di colpevolezza se gravi, precise e concordanti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 5 gennaio 2017 n. 487. Gli elementi raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni possono costituire prova diretta della colpevolezza, senza necessità di riscontri, essendo peraltro necessario che quegli elementi, allorché assumano valenza indiziaria, possiedano i caratteri della gravità, precisione e concordanza. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 487 del 5 gennaio 2017. Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In materia di intercettazioni telefoniche, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (sezioni Unite, 26 febbraio 2015, Sebbar). In questa prospettiva, il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione. La rilevanza anche nei giudizi camerali del legittimo impedimento dell’avvocato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 2 gennaio 2017 n. 8. Nel giudizio abbreviato di appello, soggetto al rito camerale, il legittimo impedimento del difensore impone il rinvio del procedimento: ne deriva che, se il difensore non compare senza addurre alcun legittimo impedimento, il procedimento è celebrato senza che la mancata comparizione determini l’obbligo di provvedere ex articolo 97, comma 4, del Cpp; se invece il difensore non compare, ma rappresenta e documenta tempestivamente il proprio impedimento a comparire, chiedendo un differimento dell’udienza, il giudice è tenuto a pronunciarsi sull’esistenza o meno di un legittimo impedimento e ad assumere i provvedimenti conseguenti. Così si sono espressi i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 8 del 2 gennaio 2017. L’orientamento giurisprudenziale prevalente - Si va formando ormai un orientamento giurisprudenziale in forza del quale, superandosi la precedente interpretazione (validata per vero anche dalle sezioni Unite: sentenza 8 aprile 1998, Cerroni, nonché sentenza 30 ottobre 2014, Tibo), il legittimo impedimento del difensore assume rilevanza anche nei procedimenti in camera di consiglio e, in particolare, nel giudizio camerale di appello ex articolo 599 del Cpp a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado (sezione VI, 21 ottobre 2015, Caramia, nonché, autorevolmente, sezioni unite, 21 luglio 2016, Nifo Sarrapochiello e altri, laddove, in particolare, si è affermato che il legittimo impedimento del difensore determinato da non prevedibili ragioni di salute assume rilevanza anche nel giudizio camerale di appello, conseguente a processo di primo grado celebrato con rito abbreviato). Qui la Cassazione ha supportato la propria lettura interpretativa affermando che l’articolo 420, comma 1, del Cpp prevede, in relazione all’udienza preliminare, pur avendo anche quest’ultima natura camerale, la partecipazione necessaria del difensore dell’imputato, e tale disposizione, per identità di ratio, deve trovare applicazione anche nel procedimento camerale d’appello, senza che a ciò osti il disposto dell’articolo 127, comma 3, del Cpp, richiamato dall’articolo 599, comma 1, del Cpp, a norma del quale i difensori sono sentiti se compaiono: questa norma, infatti, si limita a sancire il diritto del difensore di modellare il proprio atteggiamento processuale sulla strategia processuale prescelta e quindi di decidere se comparire o meno all’udienza camerale, senza che la sua mancata comparizione determini alcuna conseguenza processuale; in questa prospettiva, ha ancora argomentato il giudice di legittimità, laddove il difensore abbia optato per la comparazione all’udienza camerale, questa scelta non può essere vanificata da eventi costituenti forza maggiore e del tutto indipendenti dalla sua volontà, che gli impediscano materialmente la partecipazione all’udienza, perché la compressione del diritto di difesa che ne deriverebbe non sarebbe giustificabile con le esigenze di celerità e snellezza pur proprie del rito camerale. Figli minori, rischio carcere per l’auto-riduzione dell’assegno di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2017 Tribunale di Aosta - Sentenza 11 novembre 2016 n. 480. Non ci sono giustificazioni per chi, dopo la separazione, faccia mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minore invalida al 100%. Il Tribunale di Aosta, con la sentenza n. 480 dell’11 novembre 2016, ha infatti condannato a 3 mesi di reclusione e 200 euro di multa, senza sospensione condizionale, un papà resosi irreperibile senza ottemperare all’obbligo disposto dal tribunale di versare alla minore 300 euro al mese. Per il giudice, dall’esame delle prove raccolte nel corso del dibattimento, "risulta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato". Infatti, dalla testimonianza dell’ex moglie è emerso che, dopo la separazione pronunciata nel 2008 dal Tribunale di Aosta, "non si è più preso cura della figlia minore, né ha contribuito al suo mantenimento". L’imputato, del resto, non si è presentato all’udienza di cui pure era informato, "né ha addotto ragioni impeditive dell’obbligazione di mantenimento della prole minore età". Ma, anche se lo avesse fatto, spiega la sentenza, le cose non sarebbero cambiate. La sentenza spiega infatti che "qualora si manifesti una incapacità di produrre reddito in epoca successiva alla separazione coniugale e sia di entità tale da non consentire più al genitore obbligato di corrispondere l’assegno mensile nella misura stabilita dal Tribunale o concordata tra le parti e quindi omologata, è dato al medesimo ricorso per la modifica delle condizioni di separazione, tra cui rientrano certamente le disposizioni relative al mantenimento della prole minore di età". "Non è invece dato al genitore obbligato l’auto-riduzione unilaterale dell’assegno mensile, o ancor meno la sua sospensione, trattandosi dell’adempimento di un dovere primario strettamente connesso all’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli minori di età". Nel caso affrontato, dunque, la responsabilità dell’imputato è provata "sia con riguardo all’elemento oggettivo sia con riferimento all’elemento soggettivo". La circostanza che l’imputato, dopo la separazione dalla moglie, sia rimasto "del tutto assente nei rapporti con la figlia minore, non preoccupandosi della stessa, nonché rendendosi del tutto irreperibile, permette di inferire la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato". Infine, riguardo al trattamento sanzionatorio, il giudice, valutati i parametri previsti dall’articolo 133 del Cp nella prospettiva della rieducazione del reo delineata dall’articolo 27 della Costituzione, ha comminato la pena di mesi tre di reclusione e 200 euro di multa, "in ragione del protratto lasso di tempo nel quale si è manifestato l’inadempimento dell’obbligo di contribuzione della prole minore di età". Mentre "la persistenza attuale dell’inadempimento non consente di formulare una prognosi di non recidiva, sicché non è possibile applicare la sospensione condizionale della pena". Napoli: detenuto morto, inchiesta sulla mancata scarcerazione nonostante la malattia internapoli.it, 30 gennaio 2017 Per accertare le cause della morte del trentasettenne romano Crescenzi Stefano, morto da detenuto all’Ospedale Don Bosco di Napoli nonostante le ripetute richieste di scarcerazioni per gravissime condizioni di salute, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli intende nominare un collegio di esperti. La difesa dei genitori di Crescenzi, rappresentata dagli avvocati Dario Vannetiello del Foro di Napoli e Daniele Fiorino del Foro di Roma, intende far emergere ogni particolare della triste vicenda ed ha immediatamente offerto al pubblico ministero presso il Tribunale di Napoli la perizia e la consulenza già svolte nell’ambito del processo svoltosi presso la Corte di assise di Roma ed hanno sin da ora nominato quale proprio consulente il dott. Mario Oliviero. La dott. ssa Visone, pubblico ministero che conduce le indagini, ha compreso la complessità degli accadimenti ed ha fissato per il giorno 2 febbraio la data in cui verrà conferito l’incarico per accertare le cause della morte non ritenendo sufficiente che ad occuparsi del caso debba essere come di sovente accade un solo esperto, ma ha ritenuto affidarsi ad un collegio peritale, formato da ben tre medici. Torino: tutti alle Vallette, la politica riscopre l’emergenza carceri La Repubblica, 30 gennaio 2017 Gran traffico di esponenti politici nelle carceri torinesi. Le visite si susseguono a ritmo incalzante: "Magari fosse così sempre, vorrebbe dire che finalmente la questione è finita al centro dell’attenzione", osserva il radicale Igor Boni, uno che da anni si è dato come missione quella di verificare continuamente lo stato di salute degli istituti penitenziari. In questi due giorni fari puntati sulle Vallette: ieri si sono recati in visita i grillini, oggi tocca a radicali e sinistra. Il commento del senatore M5S Marco Scibona e della consigliera regionale Francesca Frediani sembra senza appello: "Alle Vallette abbiamo purtroppo potuto verificare direttamente le gravi carenze della struttura". Tra le più pesanti gli ascensori rotti, i pazienti in carrozzella o in barella sollevati di peso per raggiungere l’infermeria, le docce comuni, la muffa, le infiltrazioni. Non sono denunce nuove e questo, forse, è un problema nel problema. Perché erano gli stessi rilievi del garante dei detenuti dopo una visita dei mesi scorsi. Questa mattina la visita alle Vallette sarà di marco Grimaldi, consigliere regionale di Sel, insieme ai radicali Igor Boni e Silvja Mazi e a Eleonora Artesio di "Torino in Comune". Se la situazione alle Vallette preoccupa le forze politiche, quella del carcere di Ivrea, teatro in autunno di proteste e pestaggi, è considerata molto grave da tutti i protagonisti. Ieri si sono appresi nuovi particolari sulla risposta del Dap, il dipartimento competente del ministero della giustizia, ha dato al garante nazionale dei detenuti sugli "eventi critici verificatisi nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016". Fatti che sono anche al centro di un’indagine della Procura di Ivrea dopo che alcuni detenuti hanno denunciato di essere stati percossi al termine di una protesta per le condizioni di detenzione. La stessa amministrazione del ministero ha disposto un’ispezione sull’accaduto. Pur con tutte le prudenze del caso, il Dap del Ministero scrive una frase particolarmente significativa: "Ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria - si legge - la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni dei detenuti coinvolti nei disordini, alcuni dei quali erano visibilmente alticci, possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria". L’ammissione che qualcosa non ha funzionato? Venezia: nuovo negozio ai Frari con i prodotti dei detenuti di Enrico Tantucci La Nuova Venezia, 30 gennaio 2017 Apertura a maggio, alla vigilia della Biennale: il progetto "Processo collettivo" finanziato dall’artista americano Mark Bradford. I carcerati faranno i commessi. L’arte e la solidarietà sociale si fonderanno concretamente a Venezia in occasione dell’ormai non lontana Biennale Arti Visive - che si aprirà a maggio - grazie a una bellissima iniziativa voluta dall’artista statunitense Mark Bradford, scelto per rappresentare il suo Paese nel padiglione ai Giardini, che coinvolgerà anche la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, che da anni si occupata dei reinserimento lavorativo dei detenuti di Santa Maria Maggiore e di quelle del carcere femminile. Bradford, afroamericano è uno dei più significativi "neoespressionisti astratti" della sua generazione, noto per i grandi dipinti a griglie in cui il collage e la pittura si fondono in un’unica composizione. Ma è anche un artista fortemente impegnato sul sociale. Per questo a Venezia - accanto al suo intervento nel padiglione statunitense, che si chiamerà Tomorrow Is Another Day, Domani è un altro giorno - lancerà anche un progetto che durerà sei anni che si chiamerà "Processo collettivo", che coinvolgerà appunto la Cooperativa Rio Terà dei Pensieri e detenuti e detenute che già "producono" borse con materiale riciclato, oggetti in pelle e prodotti di cosmetica che poi vendono attraverso i negozi o in spazi provvisori, come quello allestito in Campo Santo Stefano. "Bradford" spiega la presidente della Cooperativa Liri Longo "finanzierà l’apertura di un negozio vero e proprio ai Frari dove potremo vendere stabilmente i nostri prodotti e impiegare anche ex detenuti come commessi. Stiamo ultimando i lavori, ma il negozio dovrebbe aprire prima dell’inaugurazione della Biennale. Ma con Bradford c’è anche un progetto di più lunga durata per produrre insieme altri oggetti, ad esempio delle borse che riprodurranno i suoi dipinti e che saranno vendite già in occasione della Biennale. È già venuto diverse volte a Venezia, ha incontrato i detenuti e vuole tornare a parlare con loro della sua arte e del suo progetto che si propone di lanciare anche un programma che si propone di diffondere la consapevolezza dei limiti del sistema penale. Attualmente sono circa 25 i detenuti o gli ex detenuti - tra uomini e donne - che collaborano con la Cooperativa. È stato Bradford a venirci a cercare proprio per proporre questa collaborazione, a cui tiene molto e che andrà avanti nel tempo". La Cooperativa Rio Terà dei Pensieri vende tra l’altro i suoi prodotti artigianali anche all’interno del bookshop della Fenice. Nella Venezia in cui aprono in continuazione i negozi di paccottiglia a un euro che sommergono la città arriva da un artista americano come Mark Bradford un esempio concreto di come si possa contribuire invece all’apertura di esercizi che si basano su una produzione locale e artigianale e favoriscono contemporaneamente il reinserimento di chi vive anche socialmente in condizioni di particolare difficoltà. Un esempio da imitare, superando anche le difficoltà burocratiche, visto che i permessi per l’apertura del negozio ai Frari sono già stati ottenuti. La prova che se si svuole e si è disposti a investire anche in modo creativo, è ancora possibile dare spazio ad attività che non sacrifichino ogni dignità al turismo di passo. Venezia: agricoltura sociale, una Comunità di recupero per i ragazzi usciti dal carcere di Giovanni Cagnassi La Nuova Venezia, 30 gennaio 2017 A San Donà il progetto di una Comunità di recupero per i ragazzi usciti dal carcere. Una comunità per il recupero dei minori usciti dal carcere all’ex centro tori, dismesso da anni in via Calvecchia e di proprietà della Camera di Commercio. Si tratta di un progetto importante di agricoltura sociale e inserimento che è stato già presentato al Comune dalla Cooperativa "L’Altra Riva" di San Donà. Tra i promotori, il 30enne Francesco De Vecchi, sandonatese laureato in economia che da anni opera all’interno di questa cooperativa che si occupa di progetti sociali. L’idea è stata già presentata anche alle parrocchie del territorio oltre che al Comune nella figura del sindaco, Andrea Cereser, che presto avrà un incontro con il presidente della Camera di Commercio, Giuseppe Fedalto. La Camera di commercio è infatti proprietaria della vasta area dismessa che ospitava il centro tori di via Calvecchia, ora fatiscente e nel degrado. Una struttura e un’area molto ampia che necessiterebbero oltretutto di un intervento di bonifica complessivo anche nel rispetto dell’ambiente. "Pensiamo a un centro di recupero", spiega De Vecchi, "specificamente rivolto ai giovani che hanno vissuto l’esperienza del carcere, minorenni che hanno bisogno di aiuto e di assistenza per un vero reinserimento nella società. Ragazzi che oltre al carcere vivono altre problematiche, come possono essere le dipendenze a tutti i livelli. Metteremo a disposizione educatori, esperti del settore, psicologi e altri profili professionali". Il sindaco Cereser appare entusiasta. L’amministrazione comunale da lui guidata sta lavorando molto nell’impiego di quelle aree dismesse della città, come può essere appunto il centro tori e come è stata la ex caserma Tombolan Fava di Fiorentina dove andranno a trasferirsi numerose associazioni di vario genere e altre realtà. Un investimento di tipo culturale e sociale che porterebbe San Donà a essere un punto di riferimento anche per centri studi e di ricerca. Oggi l’economia e lo sviluppo di un territorio si misurano anche con queste iniziative che possono portare con sé nuovi posti di lavoro e professionalità e al contempo migliorare la nostra società con speciali azioni di supporto ai soggetti più deboli. "Il progetto riguarda l’agricoltura sociale", spiega il primo cittadino, "e il recupero di questi giovani. Crediamo sia un’iniziativa importante per il territorio e molto utile anche per l’area del centro tori che è molto grande potrebbe poi ospitare anche altre attività collegate". Trento: l’On. Dellai "sul carcere siamo pronti a forme di corresponsabilità" di Erica Ferro Corriere del Trentino, 30 gennaio 2017 Rossi: "Sì all’istituzione di una figura per i reclusi". Viola: però non risolverà i problemi. "Sul carcere siamo pronti a forme di corresponsabilità". Lo ha detto Lorenzo Dellai, a margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, in merito alla situazione in cui versa la struttura di Spini. Ha assunto un significato particolare, ieri mattina, l’inaugurazione dell’anno giudiziario a un mese quasi esatto dal via libera del governo alla norma di attuazione sulla giustizia. La delega alla Regione del personale amministrativo e organizzativo ha tenuto banco, insieme alla questione relativa alla situazione all’interno delle carceri, negli interventi della mattinata: "sfida" e "occasione unica di ulteriore miglioramento" secondo la presidente della Corte d’appello Gloria Servetti, modello che impone di riflettere sulle "possibili ricadute sull’autonomo esercizio della funzione giurisdizionale" per il procuratore generale Giovanni Ilarda. La politica non ha esitato a fornire rassicurazioni: "Ci organizzeremo con un’agenzia apposita per alzare ulteriormente il livello di indipendenza e autonomia del personale amministrativo rispetto alla condizione politica" garantisce Ugo Rossi. Anche per il vicepresidente del consiglio provinciale Walter Viola si tratta di "un esercizio delicato ma possibile", così come per Lorenzo Dellai: "Nel testo della norma di attuazione approvata ci sono tutti gli strumenti per garantire l’ indipendenza" assicura l’onorevole, che sul tema del carcere incalza la Provincia a discutere un’ulteriore "forma di corresponsabilità" con lo Stato. "È inaccettabile - sostiene - che un carcere costruito con criteri di modernità e ispirato alla concezione del recupero sociale del detenuto finisca col diventare una struttura nella quale tali finalità non vengono perseguite per problemi tecnologici, organizzativi e di personale". I numeri li riporta Servetti: nel 2016 a Spini si è registrata una presenza massima di 360 detenuti e una minima di 250 (erano 256 e 218 nell’anno precedente), con il 67% di stranieri, superiore al limite di capienza di 240 persone concordato da Provincia e Stato. "Se la Provincia di Trento vorrà, la Commissione dei 12 è pronta a studiare forme intermedie di corresponsabilità per tutto ciò che riguarda l’aspetto più sociale della gestione carceraria, compreso il numero di persone che la struttura ospita" precisa Dellai. "Sollecitiamo continuamente il ministro per poter affrontare il tema del carcere" afferma Rossi dal canto suo. E alla richiesta dell’avvocatura di istituire la figura del garante del detenuto risponde positivamente: "Confido in un provvedimento legislativo nelle prossime settimane, è un livello di civiltà che va garantito". Anche se per Walter Viola (Progetto Trentino) "il garante non ha la chiave di accesso ai problemi strutturali del carcere, dal sovraffollamento alla carenza di organico, all’interrelazione col tessuto sociale, che vanno risolti in altro modo". E se il presidente della Regione Arno Kompatscher ricorda che "il modello organizzativo dovrà garantire l’indipendenza della giustizia e un passaggio sereno del personale che opterà per entrare nel ruolo regionale", anche Rossi garantisce il rispetto dell’autonomia: "Attraverso il protocollo che definiremo con il ministero individueremo anche i livelli di partecipazione degli stessi uffici giudiziari alla definizione di organici e fabbisogni - conclude - lo stesso dicasi per la formazione del personale, per la quale è evidente la necessità di un raccordo costante della funzione amministrativa con la giurisdizionale". Novara: oggi la presentazione della pubblicazione "Il Garante regionale dei detenuti" infovercelli24.it, 30 gennaio 2017 Lunedì 30 gennaio, alle ore 18 nella sede del Circolo dei Lettori di Novara, in via Fratelli Rosselli 20, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, presenterà la pubblicazione "Il Garante regionale dei detenuti". La pubblicazione, un numero speciale uscito nell’ottobre scorso all’interno della collana "I Tascabili di Palazzo Lascaris", è curata e pubblicata dal Consiglio regionale del Piemonte e riesce a comunicare al lettore in modo sintetico le principali informazioni su questa figura istituzionale di garanzia, non ancora così nota al grande pubblico. Nel corso dell’incontro viene anche presentata la "rete" dei garanti, che garantiscono un’adeguata copertura territoriale essendo presenti a livello comunale, regionale e nazionale. "L’iniziativa - spiegano dalla Regione - sarà l’occasione per parlare di carcere e la scelta di farlo a Novara non è casuale. L’istituto penitenziario novarese è l’unico in Piemonte ove sia ancora presente una sezione dedicata ai detenuti in regime di 41 bis; inoltre il 31 gennaio alle ore 12 scadrà il termine utile per presentare le candidature a Garante dei detenuti della città di Novara". L’avviso pubblico di ricerca, pubblicato all’albo pretorio del Comune, è consultabile sul sito comunale, al link: www.comune.novara.it/comune/bandi/bandi.php. Alla presentazione del tascabile farà seguito un dibattito cui parteciperanno, oltre a Bruno Mellano, anche Roswitha Flaibani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Vercelli e Davide Petrini, professore Ordinario di Diritto Penale all’Università degli Studi del Piemonte Orientale e supplente di Diritto penale del lavoro all’Università degli Studi di Torino, oltre che garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del comune di Alessandria. Roma: lo sguardo dei bambini oltre le sbarre, apre la Casa di Leda Adnkronos, 30 gennaio 2017 Gioia Passarelli: entro febbraio si spalancano le porte della struttura che vedrà ospiti sei mamme detenute e i figli. Bambini innocenti non più detenuti: andranno a vivere in un’abitazione civile composta di otto stanze con un giardino intorno dove poter scorrazzare insieme alle mamme, colpevoli di reati di non particolare gravità. Da Rebibbia alla Casa di Leda, nel quartiere Eur di Roma: saranno sei le mamme che potranno occupare con i figli, italiani e stranieri, l’edificio confiscato alla criminalità organizzata, oggi Casa famiglia protetta, così come prevede il decreto attuativo della legge 21 aprile 2011 n. 62. "Della Casa di Leda, intitolata a Leda Colombini, abbiamo già le chiavi. Sono state già individuate le ospiti che andranno ad occuparla. Auspico l’apertura entro febbraio", dice all’Adnkronos Gioia Passarelli, presidente di A Roma Insieme, l’associazione che gestirà la struttura. Le utenze saranno a carico del Comune di Roma, Fondazione Poste Insieme finanzierà le attività con 150 milioni in un anno. L’arredo è donato da Ikea. "In questa casa i bambini potranno vivere insieme alle loro mamme sottoposte alla misura degli arresti domiciliari. Indubbiamente un passo avanti ma questo non risolve il problema: bisognerebbe creare le condizioni perché mamme e bambini non siano più separati. Riflettere sul fatto che i bambini non devono scontare i reati commessi dalla mamme", sottolinea Passarelli. Oggi negli istituti penitenziari italiani ci sono circa una quarantina di bambini (37 secondo i dati al 31 dicembre 2016 forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), la maggior parte sono stranieri, figli di Rom, che non avendo fissa dimora non possono accedere agli arresti domiciliari. Dove sono presenti gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) - solo a Torino, Milano, Venezia e Cagliari - vivono lì insieme ai figli. Gli Icam sono istituti pensati e strutturati in modo tale da non ricordare il carcere ma si tratta pur sempre di luoghi ristretti che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. "Gli Icam sono un palliativo perché di fatto sono un carcere. Poniamo che durante la notte un bambino si senta male e debba essere trasferito in ospedale, la mamma non può seguirlo. Diverso il discorso per la case famiglia protetta", sottolinea Passarelli che abbracciando la battaglia di Leda Colombini continua a lottare perché sia resa "meno drammatica la condizione dei bambini in carcere". Perché "la detenzione di un bambino da 0 a 3 anni - dice - è assolutamente inconcepibile oltre che insopportabile". A quell’età "i piccoli formano la propria personalità e l’ambiente carcerario non risulta idoneo perché possano esplorare liberamente. Conoscere". A Rebibbia ci sono attualmente 10 mamme detenute: ogni sabato i volontari di A Roma Insieme vanno a prendere i loro bambini e li portano ad esplorare la normalità del mondo fuori. Le mamme nel frattempo hanno dei colloqui con gli psicologi di sostegno o si dedicano a qualche attività. "Dalla musica alla lettura, i nostri volontari cercano di stimolare queste donne in tutti i modi possibili", spiega Passarelli. "La casa famiglia protetta è una soluzione da privilegiare" anche secondo Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, la onlus che, insieme al ministro della Giustizia Andrea Orlando e alla Garante dell’Infanzia Filomena Albano, ha sottoscritto a settembre scorso il rinnovo per altri due anni del protocollo d’intesa "Carta dei figli di genitori detenuti", avviato il 21 marzo 2014. "Si tratta di un documento unico in Europa - spiega Sacerdote - che dà molta forza alle associazioni, come la nostra, che si occupano di bambini in carcere. Stimola la ricerca di nuovi interventi per rafforzare il legame affettivo tra genitore detenuto e figlio. Dà indubbiamente visibilità ai tanti minorenni che vivono la realtà carceraria tutelando i loro diritti". Parlando della legge 62, Sacerdote ricorda "che è nata con l’obiettivo di far uscire i bambini dal carcere; ha liberato lo Stato dall’onere economico per la gestione delle Case famiglie protette e ha delegato gli enti locali ad occuparsene". "Quindi nessuna scusa sulle risorse: se gli enti locali, come successo, dichiarano di non avere soldi per realizzare ambienti idonei per la crescita dei più piccoli, loro la responsabilità di lasciarli in carcere". No deciso all’apertura dei nidi nelle carceri. "Sarebbero un passo indietro - commenta Sacerdote, contrario al traguardo normativo che mira a fare uscire i bambini". Semmai Icam in una fase transitoria, sostiene, "che assicurano il legame affettivo fino al compimento del decimo anno di età del bambino". Ma l’obiettivo finale restano le Case famiglie protette. A giudizio di Sacerdote "il carcere può cambiare, deve cambiare". Tutto sommato, secondo Alessio Scandurra, dell’associazione Antigone, anche se restano le criticità, "la legge sta funzionando: c’è uno sforzo importante da parte degli operatori della legislazione a tendere di non far entrare mamme e figli in carcere". Che il legame affettivo nei primi anni di età, secondo norma, non sia spezzato "va tenuto in considerazione, se pensiamo ai risvolti negati che comporta uno strappo". D’altronde, "le mamme che vivono i nidi delle carceri italiane il più delle volte ci stanno poco, il tempo di trovare una struttura che possa ospitarle", sottolinea Scandurra. Perplesso sugli Icam: "si tratta comunque di una struttura detentiva non alternativa al carcere - dice Scandurra - in realtà si tende a far uscire dal circuito penale queste donne con bambini". Quindi, sono più una "sconfitta" che una risorsa. Un tema difficile, senza dubbio. Una sfida che attraversa anche il piano culturale, contro i pregiudizi, perché si può essere buoni genitori anche sbagliando nella vita. "Spes contra Spem". Santi Consolo (Dap): questo docufilm dev’essere proiettato ovunque di Alessandra Ippolito agora24.it, 30 gennaio 2017 Il docufilm "Spes contra Spem. Liberi Dentro" del regista Ambrogio Crespi, che ha partecipato alla Biennale di Venezia e al Festival del Cinema di Roma, ed è stato definito dal ministro Andrea Orlando "un manifesto contro la criminalità", sta riscuotendo un successo senza precedenti. Il docufilm di Crespi è stato girato nel carcere di Opera di Milano, in cui sono stati intervistati 9 detenuti con ergastolo ostativo. E sono mesi ormai che la proiezione è richiesta nelle casi circondariali italiane e non solo, per il messaggio forte e deciso che lancia contro la criminalità, attraverso esperienze di vita vissuta, raccontate dagli stessi carcerati. Venerdì 27 gennaio "Spes contra Spem" è stato proiettato al carcere di Parma e al termine della proiezione si è tenuto un dibattito a cui hanno partecipato Carlo Berdini (direttore della Casa di reclusione di Parma), i Magistrati di Sorveglianza Maria Giovanna Salsi, Cristina Ferrari e Paolo De Meo, il Capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) Santi Consolo, il Direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano, i costituzionalisti Davide Galliani e Andrea Pugiotto, il regista del Docufilm Ambrogio Crespi e, per Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini, Maria Brucale, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, e i detenuti. Tra applausi scroscianti e visibile commozione dei carcerati, anche il "grazie" di tutti al regista per il docufilm, che scuote le coscienze e invita a lottare contro ogni forma di criminalità. "Grazie, grazie! Grazie per questo docufilm. Ambrogio sei stato un grande", ha esordito il magistrato e capo del Dap Consolo nel suo intervento. "Crespi è stato un grande - ha aggiunto Consolo - non solo perché ci ha riuniti tutti a qui a dibattere, ma perché ha colto l’umanità, la sofferenza, il tormento di quanti sono ristretti. Ma ha colto anche l’umanità e il valore di chi opera all’interno dell’interno dell’amministrazione penitenziaria votata all’aiuto, riqualificando questo settore". "Non è vero che il carcere crea soltanto delinquenza", ha ribadito il capo del Dap, sottolineando che si sta mobilitando affinché in accordo con il ministero della Giustizia si possa avviare al lavoro i detenuti. "Il delitto non paga - ha proseguito Consolo, spiegando che è questo il messaggio forte e penetrante del docufilm, anzi con il delitto si fanno soffrire i familiari e si vive il rimorso". "Se potessi tornare indietro io detenuto non lo farei più", è questo il monito, ha annotato Consolo, di "Spes contra Spem" ed anche per questo che "Crespi è stato un grande". "Voglio portare ovunque il docufilm di Ambrogio", ha concluso il magistrato, perché questo docufilm è "un’esortazione a non delinquere ed a costruire tutti un futuro migliore e onesto". "A Mani Nude". Come combattere lo Stato islamico nelle carceri minorili frontierenews.it, 30 gennaio 2017 "A Mani Nude" racconta dei giovanissimi returning fighters e di un esperimento per salvarli Il carcere minorile di Wiesbaden, capitale dell’Assia, ospita ragazzini dai 16 ai 21 anni, per la maggior parte returning fighters plagiati dalla propaganda dello Stato islamico. Il recupero di questi giovanissimi combattenti è affidato ad un progetto sperimentale guidato da due uomini: Martin Meyer Husamuddin, un tedesco convertito all’islam e diventato imam e un regista teatrale, Arne Dechow. Insieme i due hanno lanciato la loro sfida all’Isis e alla spinosa questione della radicalizzazione nelle carceri. Un documentario intende raccontare le storie dei returning fighters e del progetto di Husamuddin e Dechow. Il film - prodotto dalla casa di produzione Tfilm e diretto da Stefano Obino (Vinicio Capossela - Nel Paese dei Coppoloni; Il Vangelo Secondo Precario) - ha un titolo semplice ed esplicativo: Bare-Handed - A mani nude, a indicare che l’unica via percorribile passa attraverso la riabilitazione e la prevenzione. Dietro il filo spinato di Wiesbaden teatro e fede si fondono, provando a canalizzare la rabbia e il senso di esclusione degli adolescenti di seconda e terza generazione. Per sostenere il documentario è partita una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo, il budget raccolto servirà a finanziare la sua presentazione ufficiale all’East European Forum, un importante appuntamento per produttori e investitori che si terrà a Praga dal 6-12 marzo, dove il documentario potrà trovare i fondi necessari per essere ultimato. Regista e produzione sono riusciti a superare la diffidenza dei vertici del Ministero della Giustizia tedesco e dei responsabili dell’istituto minorile, che mai avevano acconsentito a mostrare cosa significhi tentare di recuperare decine di ragazzini che guardano alla Siria e al terrorismo come all’unica alternativa di riscatto. Il risultato è stato l’incontro con una realtà inimmaginabile fatta di storie e vite ancora acerbe e forse irrimediabilmente ferite, e con un esperimento che fonde il Corano e Brecht nel tentativo di proteggere l’Europa ed il mondo. L’Europa non smetta di lottare per le libertà di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 30 gennaio 2017 Parlando l’altro giorno agli studenti della Sorbona di Parigi, il presidente tedesco Gauck ha ricordato che "non c’è veramente motivo di glorificare l’Europa. Essa non ha mai conosciuto un’epoca d’oro e non la conoscerà mai. Essa è il teatro di una lotta incessante per l’umanità, la libertà, il diritto e la democrazia". "Lotta" è la parola usata per indicare un lavoro continuo e difficile, con stasi e ritorni all’indietro per assicurare libertà e diritti umani. Quella lotta è il motivo di distinzione e orgoglio per la nostra civiltà. Prima ancora che la ricerca di unità nella ricostruzione economica, il progetto europeo ha preso le mosse sul terreno dei valori propri dello stato di diritto, della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali. Fu così che il nucleo fondamentale dell’Europa occidentale (la Cortina di Ferro era già calata a separare i Paesi soggetti alla Russia sovietica) diede vita al Consiglio d’Europa. Poco dopo e in parallelo sarebbe stato creato il Mercato Comune, fondato sulle libertà economiche. Il Mercato Comune, progressivamente arricchito con l’attenzione ai diritti umani, si sarebbe poi evoluto nell’Unione Europea. I primi Paesi membri del Consiglio d’Europa - l’Italia tra questi - affermarono di essere mossi da tradizioni comuni. Quelle tradizioni rispondevano però alla cultura e alle aspirazioni di una parte soltanto dei loro popoli. L’Italia usciva dal fascismo, la Germania dal nazismo. Reagendo alla tragedia che l’Europa aveva attraversato e cogliendo il meglio della loro storia, quei Paesi si accordavano per iniziare insieme un cammino di civiltà e progresso. Solo dopo la fine del sistema sovietico nell’Est europeo, nella speranza di condizionarne l’evoluzione, i Paesi che vi erano stati assoggettati vennero ammessi nel Consiglio d’Europa; non senza perduranti problemi per il successo della "lotta" per le libertà fondamentali. Come è palese, al di là della retorica, emergono innegabili differenze tra i Paesi del Consiglio d’Europa e dello stesso più ristretto circolo dell’Unione Europea. Anche nell’area dell’Unione vi sono governi che contrastano la libertà di espressione e di stampa, che sono insofferenti dell’indipendenza della giustizia, che negano la fondamentale eguaglianza nei diritti di tutti nel territorio europeo, cittadini e stranieri, e che ora plaudono a misure discriminatorie su base religiosa e di origine nazionale, come quelle imposte in queste ore dall’America di Trump. E dove non sono i governi, ad applaudire sono larghe parti dell’elettorato. Guardando la mappa del mondo, l’Unione europea si rivela un’isola. A ovest l’America di Trump, a est la Russia di Putin, a sud la Turchia di Erdogan e i Paesi della riva meridionale del Mediterraneo: ciascuno a suo modo offre l’esempio di metodi e valori opposti a quelli per i quali in Europa si è ingaggiata la lotta per i diritti e le libertà. Persino l’uscita del Regno Unito dall’Unione, che ora sembra da spiegare sul terreno degli interessi economici nazionali, ha un precedente che riguarda i valori di fondo europei. Si tratta della polemica (già del governo Blair) contro la regola, difesa dai giudici europei ed egualmente da quelli britannici, che, vietando la tortura, impedisce di espellere chiunque in Paesi ove rischierebbero di essere a essa sottoposti. E in America il presidente Trump, inverte la scelta di Obama e trova che la tortura funziona, come se il criterio per praticarla o rifiutarla fosse la sua utilità e non la sua immoralità. L’Unione Europea perderebbe l’anima se la difesa intransigente per i diritti e le libertà fosse messa tra parentesi per convenienza e lasciata alle cure dei soli specialisti e dei militanti. E le stesse sue istituzioni economiche, giudicate con l’esclusivo metro del successo e dell’insuccesso, avrebbero difficoltà a mantenere il sostegno dei popoli. Purtroppo si vedono segni di arretramento e quasi di imbarazzo da parte delle istituzioni europee. La timidezza dei responsabili del Consiglio d’Europa e di quelli dell’Unione europea nei confronti dell’ondata di violazioni dei diritti fondamentali in Turchia è un brutto segno. Si sarà notata l’indignazione ostentata per l’eventualità che la Turchia reintroduca la pena di morte. Ma poco o nulla è stato detto (e fatto) per la realtà attuale delle migliaia di arresti di oppositori politici, giornalisti, magistrati, avvocati, docenti. La reazione di giudici in diversi Paesi d’Europa è stata di vietare estradizioni in Turchia di persone ricercate da quelle autorità. Negli Stati Uniti, ove tanti stranieri titolari di visto di ingresso sono ora detenuti nell’aeroporto di arrivo, in esecuzione dell’ordine del Presidente di impedire l’entrata di intere categorie di stranieri, definite per il luogo di nascita, il giudice distrettuale di New York, con provvedimento urgente, ha ritenuto incostituzionale e illegale l’espulsione. Qua e là vi saranno giudici che terranno fermi i principi. Ma non ai soli giudici può essere lasciata la difesa dei diritti e delle libertà. I Paesi dell’Unione Europea, il prossimo 25 marzo, celebreranno i sessant’anni dell’Unione. Per quanto importanti siano gli zero virgola economici, c’è da augurarsi che non si perda l’occasione per convincere e coinvolgere i popoli nella "lotta" per i diritti e le libertà di tutti e di ciascuno. L’onda lunga del movimento che non vuole la globalizzazione di Cesare Martinetti La Stampa, 30 gennaio 2017 Dopo Corbyn in Gran Bretagna e Podemos in Spagna anche la Francia scommette sul paladino del reddito di cittadinanza. Benoit Hamon stravince le primarie socialiste francesi, la sconfitta di Manuel Valls sancisce la fine definitiva dell’hollandismo, che non è solo il tramonto politico di un uomo come François Hollande che si è smarrito nel tatticismo, nell’ambiguità e nell’inadeguatezza al ruolo di monarca repubblicano che la Francia si attende dal suo presidente. È la sconfitta di una sinistra europeista e globalista. Hamon porta il Ps che fu di Mitterrand ad allinearsi con quella "rivolta del cuore" che in Europa si è diversamente espressa. Con Jeremy Corbyn segretario del Labour che rinnega Blair in Inghilterra, Alexis Tsipras e Syriza in Grecia, in Portogallo con Antonio Costa socialista premier in un governo di sinistra unita secondo una formula ovunque dispersa. E infine anche con Pablo Iglesias capo di Podemos il movimento nato dagli Indignados della Puerta del Sol di Madrid. Cosa unisce queste sinistre con origini e traiettorie differenti? Innanzitutto la parola d’ordine dell’anti-austerità. E quindi del rifiuto dell’impostazioni di fondo delle politiche economiche europee (non dell’Europa) dopo la crisi del 2008. La proposta slogan di Hamon è stata il "revenu universel", quella che noi chiamiamo reddito di cittadinanza ed è la risposta a disoccupazione e precarietà, soprattutto tra i giovani. In Italia è la proposta faro del Movimento 5 Stelle, il partito che condivide in alcuni punti questi programmi. Il vecchio partito socialista francese si trova così scisso in due partiti alternativi, mai scontro di linee e di uomini è stato tanto radicale. Ci vorranno anni per rifondarlo e perché con esso la sinistra ritrovi una sua bandiera. I sondaggi per le presidenziali danno i socialisti nettamente in svantaggio rispetto ai due candidati maggiori, Marine Le Pen e François Fillon. Al momento sembra impossibile che Hamon possa arrivare al ballottaggio del 7 maggio, anche se la situazione è talmente mobile che nulla si può escludere. Fillon, eletto candidato della destra repubblicana nelle primarie di dicembre e che sembrava già sulla soglia dell’Eliseo è ora alle prese con lo scandalo rivelato dal Canard Enchainé della moglie assunta come assistente parlamentare e remunerata come tale pur non avendolo mai fatto. Mentre i socialisti si dividevano nel ballottaggio delle primarie, ieri, Fillon ha tenuto il suo meeting di lancio della campagna elettorale a Le Bourget denunciando un complotto. Nessun passo indietro dunque e si vedrà dove arriveranno quelle che De Gaulle chiamava "bulles puantes" (bolle puzzolenti) e che visibilmente sono state sganciate dall’interno del partito dei "républicains", dove le divisioni non sono state meno crude che tra i socialisti, specie con l’esclusione di Nicolas Sarkozy. Per Manuel Valls una sconfitta così netta ha il sapore di uno smacco cocente, come per Matteo Renzi di cui si è sempre dichiarato alleato e ammiratore. Hollande l’aveva nominato ministro dell’Interno nel suo primo governo, nel 2012, e due anni dopo primo ministro per marcare una svolta più forte verso una linea socialdemocratica e di alleanza sociale con sindacati e imprenditori, quel patto per il lavoro che non ha dato i risultati sperati, specie sull’occupazione. Valls era allora il socialista più popolare di Francia, mentre la curva di gradimento di Hollande aveva già imboccato quella traiettoria discendente che l’avrebbe eletto a presidente meno amato. La vera rottura con l’elettorato di sinistra e buona parte del Ps (come dimostra in modo inequivocabile il voto di ieri) è stata sulla legge di riforma del lavoro che ha cambiato le regole dei negoziati, delegando alle trattative aziendali buona parte dei contratti. È stata vissuta come una perdita di diritti per i lavoratori, ne è nato un vasto movimento sociale cresciuto intorno a place de la République di Parigi chiamato "nuit debout", la notte in piedi, divenuta il punto di ritrovo e di riferimento della capitale dopo gli attentati islamisti di Charlie e del Bataclan. Anche intorno a questo movimento sono nate e cresciute le candidature alle primarie socialiste, in particolare quella di Benoit Hamon che pur faceva parte del primo governo della presidenza Hollande, ma dal quale venne escluso con la svolta "a destra" della nomina di Valls. Che può succedere ora? Dopo un confronto così radicale è ben difficile che l’elettorato di Valls si riversi su Hamon, è ben possibile invece che ne guadagni Emmanuel Macron, la vera sorpresa di questa campagna. Ha meno di quarant’anni, è candidato indipendente del movimento "En marche!" (in marcia), è stato anche lui ministro - all’Economia - con Valls, ha una linea europeista, liberale e socialdemocratica, antipopulista eppure popolare quella che la Francia non ha mai avuto e che in definitiva rappresenta la vera alternativa a Marine Le Pen. La retorica dell’uomo forte e gli errori da non ripetere di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 30 gennaio 2017 Con la vittoria di Trump è tornato in auge il lessico craxiano, tra leaderismo e decisionismo. Ma ne abbiamo già sperimentato tutti i limiti. Il tema dell’uomo forte è vecchio e senza sbocco. Non sono riuscito a capire perché nei giorni scorsi sia riesplosa sui giornali la segnalazione di una diffusa domanda di una intensa decisionalità politica, fino a riproporre l’ipotesi dell’esigenza di un "uomo forte". Il tono usato dalla stampa, con l’impegno di direttori, giornalisti, sondaggisti e commentatori, mi è sembrato molto funzionale a rendere attrattiva l’ipotesi. Ma mi è difficile sfuggire alla sensazione che il tema sia decisamente vecchio; e che vecchie siano le considerazioni usate per rimetterlo all’onor del mondo, magari richiamando quanto una offerta politica aggressiva sembra vincente in altri Paesi (dagli Usa di Donald Trump alla Russia di Vladimir Putin). È un tema certo di moda, ma mi spingo a dire che è vecchio e senza sbocco. Non soltanto perché siamo usciti di recente da una non felice governance personalizzata e verticalizzata (resta comunque la fila per riprovarci); ma specialmente per due ragioni più profonde: vedo infatti usato da un lato un ragionamento politico di quasi quaranta anni fa; e dall’altro una concezione dell’Italia di oggi che non ritrovo nella realtà. Si rimette anzitutto sul tavolo una filosofia di governo che risale alla comparsa sulla scena di Bettino Craxi. Ho in proposito un ricordo ancora vivido, di quando nel dicembre 1978, dopo aver discusso come il Rapporto Censis aveva trattato la tragedia Moro, mi trattenne a lungo su questo concatenato ragionamento politico: il Paese è "sfinito" dalla continua mediazione democristiana; occorre quindi perseguire un alto tasso di decisionismo; per far questo occorre una verticalizzazione delle decisioni; per tale verticalizzazione occorre una spinta personalizzazione del potere; e di conseguenza una consistente presenza mediatica. Sappiamo che Craxi "uscì dall’uscio, ma la cosa rimase"; e fa impressione ritrovare un po’ dovunque oggi le singole proposizioni linguistiche di allora (decisionalità, personalizzazione, verticalizzazione, mediatizzazione) come se fossero nuove e innervassero uno statu nascenti. Allora potevano dare spinta ad un lungo ciclo sociopolitico, oggi no, specialmente dopo che su di esse sono state costruite avventure che non hanno sfondato. E non è cinismo dire che, se una scelta non sfonda per lungo e troppo tempo, è inutile riproporla ancora. Eppure qualcuno ci prova, o ci spera, nella speranza che se nel mondo succedono cose che nessuno "aveva neppure immaginato" (la vittoria di Trump è l’esempio più gettonato) può accadere che un politico italiano possa ritenere che ci sia anche per lui un futuro che oggi sembra inimmaginabile. E così si tenta di applicare la logica craxiana (decisionismo, verticalizzazione, personalizzazione) ai due aspetti più drammatici delle società moderne e di quella italiana in particolare: la perdita della sovranità nazionale e la perdita dell’identità nazionale. Due problemi tanto "mostruosi" che io mi sentirei un irresponsabile se mi gettassi a coltivare o esercitare su di essi una leadership politica, magari esaltando l’orgoglio nazionale e il "sovranismo". Si tratta infatti di due concetti ambigui ed inservibili: da un lato, la sovranità in Italia è parola vuota, visto che tutti i grandi soggetti vedono slittare il proprio potere verso l’alto (le grandi strutture finanziarie sovranazionali, i trattati internazionali, gli organismi sovranazionali, ecc.) o verso il basso (gli individui e le famiglie nella crescente molecolarità del sommerso); dall’altro lato, l’esasperazione dell’identità nazionale non può avvenire senza lo sfruttamento di un ciclo di grande sviluppo e senza l’utilizzo di una efficiente macchina pubblica. Si tratta di due "fondamentali" oggi a disposizione dei grandi leader dell’attuale congiuntura internazionale, ma non mi sembrano operanti in una Italia adeguata ad essere un grande paesone, con una sua "chimica" di crogiolamento nell’esistente, nella agiata prudenza. È possibile che all’Italia non serva un uomo forte, sovranista e nazionalista, ma si abbia solo bisogno di un podestà morbidamente pre-fascista, senza l’alterigia della divisa sovranista. Migranti. Alfano: "Quest’Europa non può dare lezioni agli Stati Uniti" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 gennaio 2017 "Non accetteremo mai un’imposizione dell’Ue per una legge di stabilità che deprima il cammino di crescita del nostro Paese". "Trump? Non mi aspettavo nulla di diverso". Le misure di Donald Trump? "Non mi aspettavo nulla di diverso". I richiami dell’Unione europea all’Italia? "Non accetteremo imposizioni da nessuno, tantomeno da chi non rispetta i patti". Mentre il mondo guarda a quanto accade negli Stati Uniti e il nostro Paese è alla vigilia del confronto con Bruxelles in materia di conti pubblici, il ministro degli Esteri Angelino Alfano vola negli Emirati arabi per una serie di incontri con le autorità "e per ribadire la partnership strategica con i nostri imprenditori". Ma l’attenzione rimane puntata agli appuntamenti imminenti del governo. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiuso le frontiere. Crede che porterà avanti questa strategia? "Trump in campagna elettorale ha detto delle cose e, sulla base delle cose che ha detto, ha vinto. Adesso le sta realizzando. Non sta facendo cose diverse da quelle promesse". Quindi lei è d’accordo con questa linea? "Io dico che la nostra visione è un’altra e si è rivelata finora vincente sul piano della sicurezza. Ossia: nessuna omologazione generica tra migrazioni e terrorismo e attenzione al caso concreto. Abbiamo unito rigore e umanità e i nostri risultati sul piano della sicurezza stanno a testimoniare che non abbiamo sbagliato. Anzi, sono sicuro che proprio la nostra umanità abbia inciso sulla nostra sicurezza. Abbiamo espulso i radicalizzati senza aspettare le sentenze della magistratura e siamo stati campioni del mondo nel salvataggio di vite nel Mediterraneo e di accoglienza a chi scappa da guerre e persecuzioni. Sicurezza e solidarietà possono camminare insieme". In realtà Trump dice di voler evitare proprio il caos che c’è in Europa. "Sin da quando ero al Viminale ho rivolto particolare attenzione ad alcune persone che giungevano da alcune regioni in cui il terrorismo islamico è più diffuso. E verso le quali la silente prevenzione, prima ancora che la visibile repressione, è fondamentale. Sono per il pluralismo e il rispetto dei diritti umani, ma la sicurezza degli italiani viene prima di tutto, per questo non ho esitato a espellere estremisti islamici". Chiudere le frontiere però è molto diverso e ora le proteste si stanno allargando in tutta Europa. "L’Europa non può immaginare di mostrarsi incapace di gestire la vicenda migratoria e al contempo essere rispettata nel giudizio. Non è certamente nella posizione di esprimere valutazioni sulle scelte di altri. O vogliamo dimenticare che anche in Europa si fanno i muri e talvolta anche dove non si fanno si evocano come è accaduto per il passo del Brennero?". Sta dicendo che l’Unione europea non è credibile? "Sin da quando ero al Viminale avevo detto che era necessario rivolgere la massima attenzione più che agli africani immigrati, agli europei islamici che abitano le periferie di tante città e che si sono radicalizzati vivendo in Europa. Sappiamo tutti che cosa è successo con il terrorismo fondamentalista in Francia e in Belgio, e prima ancora nel Regno Unito. Io dico semplicemente che le politiche di integrazione sono fondamentali per cercare di fronteggiare la minaccia. Pur ribadendo che non esiste il rischio zero e soprattutto che nessuno Stato può ritenere di essere fuori pericolo". Proprio in Europa l’Italia rischia la procedura di infrazione se non effettuerà correzioni alla manovra. Mercoledì il governo dovrà fornire una risposta. Che posizione prenderete? "Non accetteremo mai un’imposizione dell’Unione europea per una legge di stabilità che deprima il cammino di crescita del nostro Paese o che metta sacchi di sabbia sulla nostra strada di sviluppo. E lo dice uno dei pochi politici che rimane tuttora europeista". E pensa che riuscirete ad avere ragione? "L’Unione dovrà tenere conto dei vincoli politici interni. Non siamo né pronti né disponibili a manovre che aumentino le tasse. Su questo la posizione è fin troppo chiara e nulla potrà modificarla". Esistono le regole condivise tra gli Stati membri. "Appunto, sarebbe ben difficile spiegare agli italiani che abbiamo accettato un diktat da chi non è riuscito a far rispettare nemmeno l’accordo sul ricollocamento dei profughi e adesso si ricorda dei nostri zero virgola sulla manovra. Per di più in un momento di gravissima emergenza, con spese straordinarie che abbiamo già evidenziato". Si riferisce al terremoto? "Terremoto unito a un’ondata di maltempo senza precedenti che ha causato una tragedia immane. E poi ci sono le spese relative ai flussi migratori che diventano sempre più pressanti proprio per l’incapacità dell’Unione di affrontare la questione". L’Italia aveva annunciato trattative bilaterali con gli Stati africani proprio per cercare di fermare le partenze. A che punto siamo? "Ci stiamo concentrando sul lavoro di protezione della frontiera esterna comune. Stiamo negoziando con i Paesi di transito e origine diversi accordi per progetti operativi per debellare il traffico di esseri umani che tante vittime miete sulla rotta centro mediterranea". Il commissario Dimitri Avramopoulos ha lodato queste iniziative. Lei crede che alle parole seguiranno anche impegni concreti? "È un lavoro che stiamo portando avanti da tempo sia a livello nazionale, sia a livello europeo, dove abbiamo proposto e trovato l’accordo sulla strategia del migration compact con un forte impegno per un partenariato economico e di investimento con l’Africa. Sarebbe un fallimento dell’Unione non condividere questi passi". Lei è il ministro degli Esteri, ma è anche il leader del Nuovo centrodestra. Anche voi siete favorevoli a votare prima possibile? "Tra chi ha fretta e chi fa melina, io vorrei dire che noi siamo il partito del buonsenso. E per questo ritengo che ci siano alcune questioni su cui intervenire". Quali? "Intanto è inutile parlare senza attendere le motivazioni della Corte Costituzionale. Poi niente melina ma un intervento in artroscopia per rendere omogenei i sistemi evitando di muoversi su due platee, quella di Camera e Senato, con un articolo, due commi e sei righe. Infine attribuire un premio di governabilità alla coalizione prima classificata sotto il 40 per cento e l’individuazione di un criterio oggettivo per una opzione ai pluri-eletti, così come richiesto dalla Corte". Quindi lei è favorevole a votare prima una nuova legge elettorale? "Sì, senza usarla come pretesto per perdere tempo. Anche perché siamo convinti che si possa fare in tempi rapidi". E voi con chi starete? "Al momento ci stiamo predisponendo ad andare da soli, perché questa legge non prevede alleanze. Se ci saranno modifiche valuteremo". Silvio Berlusconi si sta proponendo come il leader dei moderati. C’è spazio per un nuovo dialogo? "In realtà Berlusconi è a un bivio, dovrà chiarire se vuole rimanere nel campo dei popolari europei o se invece vuole continuare a fare patti con gli estremisti. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta in modo chiaro. Aspettiamo di vedere la sua". Stati Uniti. Giudici e piazze contro Trump di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 30 gennaio 2017 Per ora è solo un piccolo aggiustamento. Reince Priebus, il capo dello staff della Casa Bianca, intervistato dalla tv Nbc corregge la portata del bando contro i cittadini provenienti da sette Paesi considerati a rischio terrorismo: Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen. "I titolari di una Green Card non sono interessati dal provvedimento", ha detto Priebus, aggiungendo, però: "Finora sono state fermate 190 persone, quasi tutte rilasciate. I funzionari della dogana avranno il potere discrezionale di controllare a fondo tutti coloro che vanno e vengono da quei Paesi, anche se sono cittadini americani. Non abbiamo nulla di cui scusarci". Lo stesso Donald Trump conferma la linea dura prima con un tweet: "Il nostro Paese ha bisogno di confini molto forti e di controlli rigorosi adesso. Guardate che cosa succede in tutta Europa e nel mondo, un caos orribile". Poi, in serata, con un comunicato ufficiale: "Il mio non è un bando contro i musulmani. Ci sono altri 40 Paesi a maggioranza islamica non interessati dal provvedimento. La questione non è la religione, ma il terrorismo e la lotta per la sicurezza del Paese. Torneremo a rilasciare i visti una volta che avremo rivisto e completato le politiche più sicure nei prossimi 90 giorni". Le correzioni di Priebus e le precisazioni di Trump arrivano dopo un sabato di affollate manifestazioni e soprattutto dopo che cinque tribunali federali hanno disposto la liberazione immediata dei viaggiatori bloccati negli aeroporti. La prima giudice ad accogliere il ricorso presentato da sette associazioni, tra le quali l’American Civil Liberties Union, è stata Ann Donnelly, della Corte di Brooklyn, sabato 28 gennaio alle ore 21. Subito dopo anche Leonie Brinkema della Corte Federale della Virginia ha ordinato agli agenti dello scalo di Dulles, vicino a Washington, di rilasciare i cittadini con la "Green Card", cioè il permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Lo scontro legale si allarga: i procuratori generali di 15 Stati, più il distretto di Washington, hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta contro il decreto di Trump: è incostituzionale perché comprime la libertà religiosa. La confusione resta grande. L’ordine esecutivo di Trump, firmato il 27 gennaio, contiene indicazioni di massima. Ma le storie sono diverse e gli agenti alla frontiera si sono trovati in difficoltà. Nel dubbio hanno fermato tutti, anche i musulmani-americani che vivono da decenni negli Stati Uniti. In questo clima si rincorrono le indiscrezioni. Secondo la Cnn, il Dipartimento di Stato vorrebbe ottenere informazioni più dettagliate anche dai visitatori provenienti da tutto il mondo, Europa compresa. Per esempio i propri contatti telefonici o la rete di amicizie sul web. Ma, va precisato, sono progetti allo studio: non c’è nulla di esecutivo. Aumenta l’intensità delle proteste. Il "movimento degli aeroporti" si salda con "la marcia delle donne" del 21 gennaio. L’altra sera 3-4 mila persone hanno manifestato fino alle 23 davanti al Terminal 4 dell’aeroporto JFK. Ieri sit-in negli scali di Atlanta, Dallas, Los Angeles e Washington. Raduni anti Trump davanti alla Casa Bianca, a Boston, Filadelphia e di nuovo a New York, a Battery Park, da cui si vedono la Statua della Libertà e la sagoma di Ellis Islands, l’approdo dei migranti di inizio secolo. Lo slogan più ricorrente: "Questo Paese è costruito sugli immigrati". Iraq: Human Rights Watch denuncia torture sui bambini detenuti Ansa, 30 gennaio 2017 Bambini e ragazzi nel nord dell’Iraq affermano di essere stati torturati durante la loro detenzione da parte del governo regionale curdo, perché sospettati di avere collegamenti con l’Isis. Lo riferisce l’organizzazione Human Rights Watch. I bambini, senza aver ricevuto nessuna incriminazione formale, raccontano di esser stati costretti a rimanere in posizioni innaturali, di essere stati ustionati con delle sigarette, di aver subito scosse elettriche, di essere stati picchiati con tubi di plastica, secondo quanto denuncia Hrw, che stima in circa 180 i minori in custodia. Le autorità locali, secondo l’organizzazione umanitaria, non hanno neanche informato le loro famiglie, suscitando così timori che possano scomparire. Human Rights Watch precisa di aver ascoltato 19 ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 17 anni mentre erano in custodia in un riformatorio di Erbil. Si tratta di colloqui, sottolinea inoltre Hrw, condotti senza la presenza di ufficiali della sicurezza o dell’intelligence. Il pizzo nel pozzo nigeriano di Luca Manes Il Manifesto, 30 gennaio 2017 Petrolio. L’Alta corte federale della Nigeria toglie l’immenso giacimento Opl245 dalle mani di Eni e Shell, per vederci chiaro su una vecchia storia di tangenti, faccendieri e politici. La Nigeria ha battuto un colpo, e che colpo, nell’intricata vicenda "Opl245". Ovvero l’immenso blocco petrolifero acquisito nel 2011 dalle oil major Eni e Shell, una sorta di Eldorado offshore dell’oro nero dal momento che le sue riserve stimate ammontano a 9,23 miliardi di barili di greggio. Venerdì si è infatti saputo che l’Alta Corte federale del Paese africano ha sospeso la licenza per "Opl245" fino a quando l’unità anti-corruzione non avrà completato le sue indagini. La notizia fa il paio con quella di circa un mese fa relativa all’accusa di frode avanzata sempre dall’unità anti-corruzione nei confronti del ministro della Giustizia fra il 2010 e il 2015, Mohammed Adoke. Quest’ultimo avrebbe giocato un ruolo di fondamentale importanza per la chiusura dell’affare, su cui aleggia l’ombra della corruzione. Opl 245 è stato assegnato nel 1998 per 20 milioni di dollari - una frazione del suo valore attuale - alla Malabu Oil & Gas, una società segretamente di proprietà dell’allora ministro del Petrolio, Dan Etete. Come visto, il blocco è stato poi ceduto a Shell ed Eni nel 2011 in cambio di un pagamento di 1,1 miliardi di dollari, di fatto trasferiti alla Malabu invece che allo Stato nigeriano che avrebbe agito solo da passacarte. O meglio da "passa-carta-moneta" dalle società ad Etete e ai suoi soldali. Tra questi, uno dei fedelissimi del dittatore Sani Abacha è sempre rimasto il beneficiario occulto della Malabu ed è anch’egli indagato per frode dalle autorità nigeriane. Se il fronte nigeriano si fa sempre più caldo, quello nostrano è ormai bollente da tempo. Negli ultimi giorni del 2016 i due pm della procura della Repubblica di Milano, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, hanno notificato la chiusura delle indagini alle due società e a undici persone fisiche, tra cui spiccano i nomi dell’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi, del suo predecessore Paolo Scaroni e del faccendiere Luigi Bisignani, uno degli intermediari chiamati a svolgere un ruolo di primo piano nel deal. Per tutti il capo d’imputazione è pesante: corruzione internazionale. I magistrati milanesi hanno ricostruito tutta la fitta rete di trasferimenti del denaro di Eni e Shell, inizialmente transitato per un conto londinese riconducibile al governo di Abuja, ma poi subito disperso in mille rivoli per andare a ingrossare, si ipotizza, i conti correnti di politici nigeriani di alto livello - forse addirittura quelli dell’ex Presidente Goodluck Jonathan - come intermediari e manager dello stesso Cane a Sei Zampe. Vale la pena rammentare che nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni fossero andati a presunti "sodali dell’ presidente nigeriano Goodluck Jonathan" e quindi aveva sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu alla JP Morgan di Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera. Eni conferma che la propria affiliata in Nigeria ha ricevuto copia del provvedimento con il quale viene disposto un sequestro temporaneo della licenza "OPL 245" e fa sapere di star valutando l’impugnazione dell’atto. La compagnia ribadisce altresì la propria estraneità da possibili condotte illecite in relazione all’acquisizione del blocco "OPL 245". Sul caso si attendono ulteriori corposi sviluppi nelle prossime settimane. Uno degli scenari ipotizzabili prevede il rinvio a giudizio di Descalzi. E qui si apre il capitolo più puramente politico di questa storia. Fu Matteo Renzi nella primavera del 2014 a scegliere Descalzi come successore di Paolo Scaroni. Una decisione difesa con fermezza poche settimane dopo la nomina formale di Descalzi, quando il caso "Opl245" scoppiò in tutta la sua virulenza. Anche nella recente intervista rilasciata a Repubblica l’ex premier ha ribadito la sua fiducia all’amministratore delegato dell’Eni. Quindi ci dobbiamo aspettare che l’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni confermi gli attuali vertici societari? Non bisogna infatti dimenticare che la più grande multinazionale italiana è controllata per poco più del 30% dallo Stato tramite il ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. Chissà che cosa pensano i grossi investitori stranieri (tra cui la statunitense Blackrock, il più grande fondo del Pianeta) che dall’inizio dell’anno si sono trovati a leggere sul Financial Times o sul New York Times articoli non proprio rassicuranti sull’esito finale di uno dei potenziali scandali di corruzione più grandi della storia. Le realtà della società civile internazionale che da tempo seguono l’affaire "Opl245" invece esultano. "Questo è un evento storico. Generazioni di nigeriani sono stati derubati dei servizi essenziali, mentre gli uomini del petrolio si sono arricchiti a loro spese. Proprio ora che negli Usa la nuova amministrazione Trump annacqua la normativa sulla corruzione e nomina Segretario di Stato l’ex manager di un’azienda petrolifera, quanto sta accadendo in Nigeria è senza dubbio confortante", ha dichiarato il direttore di Global Witness Simon Taylor.