Un augurio: che il nuovo anno riaccenda la speranza in chi non ce l’ha più Il Mattino di Padova, 2 gennaio 2017 Se è vero che nella vita "normale" la speranza è l’ultima a morire, per gli ergastolani invece è la prima che se ne va, al momento in cui in un’aula di Tribunale ti condannano al "fine pena mai". In questo momento nella società pare che solo il Papa abbia il coraggio di dire che una pena che ammazza la speranza è una mostruosità, ma magari con le feste di Natale qualcuno si lascia riscaldare la coscienza e comincia ad avere qualche dubbio. Sarebbe già un bel regalo. …e così anche il ventunesimo Santo Natale trascorso in carcere è passato Provate a immaginare in una vita normale quante cose si possono fare, quanti momenti si possono vivere, momenti belli o dolorosi comunque sia è la vita vera e come tutto ciò che accade sulla terra si elabora e si supera assieme alle persone che ami e che ti stanno vicine. Vivere da ergastolano ostativo invece appare oggi come l’evento da non poter superare, una tragedia con cui bisogna convivere, ogni santo giorno che ci si sveglia, assieme ai familiari che per tutti questi anni mi sono rimasti vicini, i miei due figli che quando li ho lasciati a malapena camminavano. Mi sono perso i loro pianti, il loro primo giorno di scuola, la loro adolescenza e nonostante tutto posso dire di essere fortunato perché mia moglie li ha cresciuti educati, e soprattutto ha fatto in modo che io non fossi uno sconosciuto per loro, anzi, in questi lunghi anni è stata capace di tenere viva ed autorevole la mia presenza in casa e nei cuori dei miei figli e nei miei nipotini. Tutto questo mi dà la speranza di lottare ogni giorno e non posso negare che ci sono giorni che desidero morire piuttosto che vivere il mio futuro senza alcuna certezza, poi ritorno in me consapevole che fare certi pensieri è un peccato specie per quelle persone che tragicamente perdono la vita, e allora mi dico che bisogna lottare anche quando non si ha più la forza, e quindi metto i miei perché su carta con la speranza che possano smuovere le coscienze delle Istituzioni, affinché pensino sul serio a come poterci aiutare in un reale reinserimento nella società. Sarebbe un bel dono di Natale, e una grande opportunità per noi di restituire qualcosa alla società di quello che abbiamo tolto. Aurelio Quattroluni Vedi caro amico cosa si deve inventare per continuare a sperare "Caro Amico ti scrivo così mi distraggo un po’, e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò… Da quando sei partito c’è una grossa novità, l’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa qui non va…". Lucio Dalla cantava così nella sua famosissima canzone "L’Anno che verrà" e oggi faccio mie le sue parole per iniziare la mia lettera, che mai avrei pensato, un giorno, di scrivere. Nell’aria si percepisce l’atmosfera della festa, si assapora quell’atmosfera natalizia che fa ritrovare la serenità interiore, ti fa desiderare di stare quanto più possibile vicino alle persone più care, e io cosa faccio? scrivo ad una persona "inimmaginabile", a quel magistrato con il quale più di vent’anni fa non ho voluto scambiare neanche una parola, anche quando nel suo lavoro ha cercato in qualche modo di farmi discolpare delle mie azioni. Da allora sono trascorsi più di ventun anni e ultimamente ci siamo ritrovati di fronte più volte, lui come dirigente delle carceri e io come detenuto, senza che io nutrissi un particolare rancore anche se fu lui a chiedere per me la condanna all’ergastolo. Passano gli anni e le persone cambiano, ci si ritrova seduti attorno ad un tavolo a discutere di problemi legati al mondo carcerario, e di quei problemi spinosi legati alle sezioni speciali dove siamo rinchiusi da anni. L’incontro è stato stranamente cordiale, come tra persone che hanno nutrito un rapporto di amicizia da sempre, all’improvviso mi sento chiamare anche per nome. Al primo impatto mi suscita un certo imbarazzo. È comune a tutti gli uomini sbagliare, anche pesantemente, ma, una volta presa consapevolezza, non sarà stolto né infelice chi cerca di rimediare e non resta irremovibile nelle sue convinzioni. Io oggi sto cercando di farlo e volutamente allora ho iniziato la mia lettera con "L’anno che verrà", perché ripenso a quelle parole "vedi caro amico cosa si deve inventare per poterci ridere sopra, per continuare a sperare", e noi qui davvero qualcosa dobbiamo inventare per non perdere del tutto la speranza. Un altro Natale da detenuto ergastolano ostativo, che non potrà mai uscire, un Natale come tanti altri, lontano dalla famiglia, e quanti pensieri passano per la mente, e mentre tutti festeggiano, ti ritrovi sdraiato su una branda a guardare il soffitto, a ripercorrere la tua vita non vissuta, a pensare a dove ti ha portato l’egoismo, e ora, anche a mettere in discussione il tuo modo di giudicare gli altri e te stesso. Pensavo che giudicare fosse facile, mentre non lo è per niente, ed è difficile anche giudicare equamente i propri comportamenti. Da ignorante mi era tutto più facile, ora ho grandi sensi di colpa proprio nel considerare me stesso e le mie responsabilità. Ma sono un essere umano, nutro sentimenti, nutro speranza, e nello stesso tempo sono costretto a dare speranza a tutte quelle persone che hanno la sola colpa di amarmi. Così arriva il Natale e i bambini sognano di trovare un regalo sotto l’albero. Un ergastolano non sogna, ma spera, dopo quasi ventidue anni continua a sperare che qualcosa possa cambiare. Lo fa senza provare grandi desideri, confida in quella parte di Istituzione che ha ancora il potere di giudicare il suo cambiamento, spero che con tutta quella responsabilità che hanno quelle persone siano serene nel giudicarmi su fatti concreti ed attuali, in modo che io non debba essere sempre e solo inchiodato al mio passato, al mio reato. Auguri di cuore per un Sereno Santo Natale. Agostino Lentini Questo è il venticinquesimo Natale che trascorro nelle sezioni di Alta Sicurezza Mi chiamo Antonio Papalia e sono un ergastolano, detenuto dal lontano 1992, questo è il venticinquesimo Natale che trascorro in queste sezioni di Alta Sicurezza. Oggi mi hanno chiesto quale sarebbe il nostro più grande desiderio se dovessimo ricevere un regalo per le feste. Io di desideri ne avrei una valanga, ma oggi mi accontenterei di uno molto semplice, cioè la mia declassificazione, il passaggio da una sezione di Alta Sicurezza ad una di Media Sicurezza, in modo da poter avere un lavoro per non essere di peso alla mia famiglia che sta attraversando un periodo di grande difficoltà, in pratica vorrei cercare almeno di non vivere sulle spalle dei miei cari che ormai mi sostengono da ben 25 anni. Dico questo perché in queste sezioni di Alta Sicurezza come attività lavorativa non c’è niente, ci sono soltanto due lavori di sezione cioè il porta-vitto e lo scopino, che se dovessimo lavorare tutti a turnazione ci sarebbe un mese di lavoro per ognuno di noi ogni due anni, solo una declassificazione ci può dare la possibilità di avere un lavoro come fanno tanti detenuti in Media Sicurezza. Oltre tutto penso di meritarmela questa declassificazione, perché qui nel carcere di Padova ho intrapreso un cammino rieducativo che sto seguendo con passione, qui ho avuto la possibilità di andare a scuola e diplomarmi e oggi sono iscritto all’università, qui mi è stata data anche la possibilità di frequentare la redazione di "Ristretti Orizzonti" e il progetto che sta portando avanti ormai da anni con le scuole di tutto il Veneto. Ogni anno infatti qui entrano migliaia di studenti, e ognuno di noi si mette in gioco raccontando la propria storia e rispondendo alle loro domande, domande che poi una volta in cella ci fanno riflettere inchiodandoci alle nostre responsabilità. Sono entrato in carcere che avevo 38 anni, oggi ne ho quasi 63, spero e mi auguro che almeno per una volta questo piccolo desiderio natalizio si potrà realmente avverare e quanto prima sarò declassificato e trasferito in una sezione di Media Sicurezza, dove potrò continuare lo stesso percorso con l’aggiunta di un lavoro, grazie a quanti vorranno esaudire questo mio desiderio e darmi la possibilità di cambiare davvero. Antonio Papalia Il carcere felice non esiste, quello sostenibile sì di Luca Mattiucci Corriere della Sera, 2 gennaio 2017 Al 31 dicembre del 2016 il tasso di affollamento delle carceri italiane è del 108%. Per chi ricorda l’annus horribilis, il 2013, durante il quale l’Ue paventò una sanzione all’Italia da 4 miliardi per le condizioni disumane in cui versavano i detenuti, quella di oggi è una buona notizia ma solo a metà. Perché, se è vero che il problema del sovraffollamento è in parte risolto con i detenuti passati da 67.000 a 55.000 è pur vero che le criticità, quelle di sistema, risiedono nella sfera politica e culturale: la maggior parte dei detenuti sono reclusi per reati minori. Le prigioni assomigliano sempre di più agli ospedali generali di una volta, gli "auberges des pauvre". E mentre i suicidi continuano, 43 lo scorso anno, il sistema che non riabilita costa allo Stato 1/3 in più in media del resto d’Europa. Inoltre, scontata la pena, un detenuto su quattro non sa dove andare. E a guardare i deludenti risultati degli "Stati generali" da poco terminati, la situazione non cambierà di molto. Per fortuna, esistono uomini che hanno una visione. È il caso del provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano che da Bollate ha fatto partire una rivoluzione portata avanti poi da Massimo Parisi con celle aperte e corridoi dipinti dove i detenuti lavorano nella ristorazione o nella piccola industria, coltivano fiori e allevano cavalli. Così come accade nell’istituto di pena di Sant’Angelo dei Lombardi, dove i detenuti sono assunti dall’amministrazione diretta da Massimiliano Forgione che ha aperto le porte a cooperative e imprese: i reclusi producono il vino "Galeotto", gestiscono sale convegni e una stamperia, creando un risparmio di 300.000 euro. Come accade anche alla casa circondariale di Siena, in piazza Santo Spirito poco lontano dal "Palio", dove un altro illuminato, Sergio La Montagna, con 800 euro l’anno ha messo in piedi un sistema integrato carcere-territorio dovevi detenuti scrivono libri per le scuole. E poi ci sono i magazine diffusi fuori delle mura come "Sosta forzata" del carcere di Piacenza. Storie piccole ed eccezionali, che oltre le norme restituiscono sogni, speranze e dignità e, come evidenzia una ricerca della Bocconi, riducono la recidiva dal 70% al 20% e potrebbero generare risparmi per 51 milioni di euro. Il carcere felice non esiste, uno sostenibile si. Moschee nelle carceri italiane, 69 istituti su 190 hanno un luogo di culto per i musulmani ilfogliettone.it, 2 gennaio 2017 Un’analisi che ha riguardato 190 istituti carcerari ha permesso di rilevare che in 69 di essi sono presenti locali adibiti a preghiera per i detenuti musulmani dove si può esercitare il culto congiuntamente, in particolare il venerdì: nel 2009 erano 36. È quanto risulta dalla relazione del Dap sul fenomeno radicalizzazione. In 112 istituti penitenziari, invece, le preghiere avvengono nelle stanze detentive o comunque durante gli incontri casuali, quali i passeggi, la socialità, etc. "Il motivo di tale differenziazione - si spiega nel documento - può essere legato a carenze strutturali dei plessi ovvero all’esigua presenza di musulmani. Per i 9 Istituti, dove non si registra alcun tipo di incontro, è stato infatti accertato che negli stessi non è presente alcun detenuto proveniente da paesi tradizionalmente di religione musulmana". Nel 2009 le carceri senza moschee e senza locali per incontri di preghiera erano 120. La relazione rileva inoltre che fanno accesso negli Istituti Penitenziari, 22 soggetti che rivestono la figura di Imam e sono, pertanto, accreditati presso il ministero dell’Interno, 72 mediatori culturali e 14 assistenti volontari. Un’agenda 2017 per i diritti civili e umani di Valter Vecellio articolo21.org, 2 gennaio 2017 D’accordo: Steven Spielberg con il suo "Il ponte delle spie", e Clint Eastwood con il suo "Sully" ci dicono che spesso sono gli "uomini in grigio", quelli apparentemente anonimi che possiamo incontrare ogni giorno, come l’avvocato James Donovan, o il pilota Chesley Sullenberger, gli "eroi", senza necessariamente avere l’aspetto di John Wayne o Rambo-Stallone. Nella vita, e anche in politica. Dunque non si può escludere che dal "costante e timido come l’Adagio di Albinoni" (così Francesco Merlo descrive Paolo Gentiloni), possa venire quello che il suo predecessore, il giocoliere di parole Matteo Renzi non ha saputo, non ha potuto, non ha voluto fare. Nel suo discorso di fine anno, Gentiloni si è presentato con un tono dimesso all’apparenza. Vai a capire come va interpretato quel suo "Mi auguro che Matteo non stia a guardarci, ma stia invece riposando". Una versione del "stai sereno"? E quell’altro sospiro: "Io non faccio di mestiere il giudice, ho un’altra formazione", quando gli chiedono di Luca Lotti indagato: una furba glissata rispetto un argomento scomodo, oppure garantismo non sventolato ma ben assimilato, che si vuole distinguere da "giustizialismi" anche recenti e "prossimi"? Nell’elenco dell’"occorre fare" snocciolato a fine anno, un capitoletto riguarda le carceri, e le condizioni in cui è costretta a vivere l’intera comunità penitenziaria: "Tra le riforme da mettere a segno c’è anche quella dell’ordinamento penitenziario che senz’altro fa parte dei nostri obiettivi, che vanno incrociati con la variabile tempo e la variabile calendari parlamentari…Questo è stato il primo Natale in cui Pannella non era nella sua attività di visita nelle carceri, voglio ricordarlo e ringraziarlo". Gentiloni poi assicura l’intenzione del governo di "inserire in questo menù piuttosto complicato di fine legislatura anche questo tema". Non promesse roboanti, ma chissà: se molto fumo a volte corrisponde a poco arrosto, può accadere anche il contrario. Dunque nessun preconcetto, nessuna pregiudiziale. Ecco comunque, una sorta di "promemoria" relativo ai diritti civili e umani che un governo che voglia essere tale, deve riuscire a garantire; sempre pronti, come dicono i giocatori di poker, a dire al presidente del Consiglio: "See". Si tratta di una vera e propria "agenda"; e nel fissarne i punti è di grande aiuto un dossier curato da Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Lorenzo Fanoli per conto dell’associazione "A buon diritto". Come ricorda Luigi Manconi nella prefazione, "la tutela e ‘effettività dei diritti umani non è questione esotica che riguardi solo lande lontane, popoli oppressi e regimi totalitari. Al contrario, è problema che ci riguarda direttamente. Ed è bene, di conseguenza, partire da noi, prima di andare in giro per il mondo a predicare, di quei diritti, il valore e l’urgenza". Le questioni relative alla disabilità - Si registrano momenti significativi per quel che riguarda l’effettivo recepimento di quanto previsto dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. In ambito normativo, "pur dovendo rilevare il cronico ritardo rispetto all’adozione di alcuni provvedimenti (eclatante il caso dei Lea che, tuttavia, sembrerebbero in dirittura di arrivo), bisogna segnalare alcune novità, in particolare la legge sull’autismo, e la legge sul "Dopo di noi", da tempo attese". Si registrano, per contro "numerosi, e di particolare gravità, episodi di discriminazioni e violenze subiti dalle persone con disabilità. In molti casi, in particolare, le strutture residenziali si sono rivelate essere contesti di violenza e di umiliazione più che di vita". Omosessualità e diritti - L’11 maggio 2016 viene approvata la legge sulle unioni civili per le coppie omosessuali (e solo per esse). Non è il matrimonio, ma è una conquista che allinea l’Italia a quei paesi che hanno già predisposto una qualche forma di riconoscimento alle unioni omosessuali. Un iter legislativo tormentato: l’esame nelle commissioni richiede anni e non approda mai in aula; nell’ultima versione, quella più o meno approdata all’aula, le destre, comprese quelle interne al Partito Democratico, la osteggiano in ogni modo. Il testo finale non parla di "famiglia" per le coppie che avrebbero costituito un’unione civile, ma di "formazione sociale". Un’opposizione particolarmente accanita in Senato, dove più risicata è la maggioranza; il governo pone la fiducia dopo avere modificato in due punti la legge: toglie l’obbligo di fedeltà che invece è contenuto nelle norme sul matrimonio; e toglie il diritto alla cosiddetta stepchild adoption: il diritto di poter adottare il figlio del o della partner dello stesso sesso. Quanto al riconoscimento del matrimonio gay, è rimandato a data da destinarsi; alle coppie omosessuali sono tuttavia riconosciuti gli stessi diritti e doveri della coppia eterosessuale. Pluralismo religioso - I principi costituzionali in tema di libertà religiosa, si legge nel rapporto, "attendono ancora di essere pienamente attuati. La legislazione in materia soffre di un pesante vulnus strutturale, costituito dalla persistente vigenza della normativa sui culti ammessi, che trova applicazione nei confronti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica e prive di Intesa con lo Stato". Vecchi e nuovi problemi si presentano per lo Stato, tra confessioni religiose che faticano a rappresentarsi unitariamente ed associazioni non confessionali che chiedono riconoscimento ai fini delle trattative. Accanto alla Consulta delle comunità, presso il Ministero dell’Interno si è istituito il "Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano": ha il compito di fornire pareri e formulare proposte sulle politiche di integrazione connesse alla religione islamica. Il Consiglio ha prodotto un primo rapporto sul tema del "Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam". L’attenzione è concentrata sulle carceri: approvato un piano sperimentale Stato-Ucoii per l’accesso di imam in alcuni luoghi di detenzione. Rom sinti caminanti - Non si segnalano interventi legislativi significati. Il tema del riconoscimento dello status di minoranza linguistico-culturale anima un dibattito tra gruppi ed organizzazioni rom e pro-rom, senza però echi a livello parlamentare. Il tema rom è progressivamente scomparso dal dibattito politico nazionale e dall’agenda politica del governo. Secondo il rapporto "in assenza di iniziative politiche nazionali, sono ancora i contesti locali gli scenari concreti in cui si costruiscono le possibilità effettive di tutela dei diritti dei rom e dei sinti, a partire dalla questione centrale del diritto all’abitare". Nonostante riguardi soltanto una percentuale non maggioritaria dei rom che vivono in Italia, il problema dei campi-nomadi è "un tema ben presente nelle agende degli amministratori locali, e le strategie per affrontare queste situazioni possono essere considerate come la spia essenziale dell’atteggiamento verso i gruppi rom". Habeas Corpus e Garanzie - Per quel che riguarda il capitolo della disciplina della limitazione della libertà, nelle sue varie forme, il Rapporto osserva che si registra una fase definita "di riforme lenta e timida, ma pur sempre degna di nota". Su impulso della Corte Europea dei Diritti Umani "si sono adottati alcuni provvedimenti in funzione deflattiva tanto delle presenze in carcere quanto, più in generale, di tutta l’area del penalmente rilevante e, quindi, dell’incidenza di misure limitative della libertà". In particolare si è delegato il Governo a provvedere a un’ampia deflazione penale, da attuarsi sia sul piano sostanziale (non punibilità per particolare tenuità del fatto, incisiva depenalizzazione e un’ancora inattuata decarcerizzazione), sia su quello processuale: in particolare con la messa alla prova dell’imputato, capace di estinguere il reato se proficuamente sostenuta. Per quanto riguarda la tutela della dignità nella privazione della libertà, rispetto alle più gravi forme di abusi e violenze quali, in particolare, la tortura, si resta inadempienti rispetto gli obblighi assunti in sede internazionale e sanciti in Costituzione; impantanata di fatto l’approvazione del relativo disegno di legge, un testo persino peggiorato rispetto a quello originario. Lo specifico punto relativo alla tortura - I primi sei mesi del 2016 sono stati caratterizzati da molti avvenimenti che rientrano in questo specifico capitolo. Il numero dei detenuti nelle nostre carceri è diminuito in virtù dell’introduzione di alcuni cambiamenti normativi; e si è finalmente nominato il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Decisamente negative invece le notizie che provengono dalla Corte di Strasburgo. L’Italia è condannata per i cosiddetti fatti di Asti e per quanto accaduto durante il G8 di Genova all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto: "In tutti e tre quei contesti, alcuni uomini appartenenti alle forze di polizia hanno torturato persone sottoposte alla loro custodia ma, nonostante il pesante richiamo della Cedu, e nonostante da tre anni sia in discussione in Parlamento un disegno di legge per introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento, dopo numerosi rinvii la proposta di legge giace al Senato, e la sua approvazione è rimandata a data da destinarsi". Tutela dei minori - Il biennio 2015-2016 registra progressi per quel che riguarda la tutela dei minori. Sul complesso versante delle adozioni, o del diritto alla famiglia, il legislatore pare aver assunto una rinnovata consapevolezza: "Il 2015 è stato l’anno della legge sulla continuità affettiva, ma sono nel dibattito almeno due interventi di modifica alla legge 184 del 1983 sul diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini e sull’apertura delle adozioni alle persone non coniugate. Sono queste due modifiche che dovranno accompagnarsi a una completa riforma del sistema amministrativo che, come denunciato dalle organizzazioni impegnate nel settore, non è in grado di applicare correttamente la legge e garantire tempi ragionevoli per le procedure di adozione". Sul piano della cittadinanza sostanziale, il 2016 è stato l’anno delle presa in carico dei problemi della povertà educativa e del bullismo informatico. In relazione alla prima, connessa ma non sempre, alla povertà minorile (ormai a livelli record), risale all’estate 2016 l’attivazione di un Fondo di intervento e un Comitato governativo per il contrasto al fenomeno. è invece di strettissima attualità, l’approvazione alla Camera del disegno di legge sul contrasto al cyberbullismo, una forma questa di violenza anonima e diffusa, giunta finalmente all’onore delle cronache e ora oggetto di una strategia di contrasto integrata e a carattere socio-formativo. Libertà femminile e autodeterminazione - Su queste tematiche, anche quest’anno assumono un ruolo centrale le norme che disciplinano l’aborto e la procreazione medicalmente assistita. Aborto: il principio della procreazione cosciente e responsabile, affermato dalla legge 194, non solo non è attuato: in misura sempre più crescente viene ostacolato dall’elevatissimo numero di personale sanitario (medici, e non solo) che dichiara "obiezione di coscienza". Il livello di insostenibilità di questa situazione è confermato da una recente pronuncia del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, un organismo del Consiglio d’Europa. Con riferimento alla legge 40 che disciplina la procreazione medicalmente assistita, si rileva che "dopo l’abolizione del divieto di fecondazione eterologa per mano della Corte Costituzionale il ricorso a tale tecnica è ancora esiguo a causa dei costi elevati che esso comporta". Inoltre, la Corte si è occupata dell’accesso alla diagnosi genetica pre-impianto da parte delle coppie fertili affette da patologie geneticamente trasmissibili; del reato di selezione degli embrioni; del divieto di ricerca scientifica sugli embrioni. La giurisprudenza di fatto ha colmato (e smantellato) danni e lacune del legislatore. Resta tuttavia inalterato il divieto di maternità surrogata, previsto nella stessa legge. Si registra un lievissimo calo (e comunque la situazione è comunque inquietante) del numero delle donne che patiscono violenze e sono uccise per mano degli uomini. Dignità della vita (e del morire) - Il 26 settembre scorso un motociclista esce dal portone laterale del Quirinale, deve recapitare una lettera del presidente. Destinatario del messaggio è un malato allo stremo, si chiama Piergiorgio Welby. Si è rivolto qualche giorno prima a lui, Welby: una lunga lettera appello piena di dignità, coraggio, umanità: "Quando un malato terminale", scrive, "decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente "biologica" - io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto. Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui". Il vecchio presidente sente di dover corrispondere in qualche modo; confessa di essere stato toccato e colpito da quelle parole, come persona e come Presidente: "Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento". Una risposta diretta non solo a Welby; è anche, soprattutto, uno sprone, un’esplicita sollecitazione ai parlamentari, a chi ha il compito di fare le leggi; e un invito a discutere, dibattere, confrontarsi. Una lunga battaglia, quella di Piergiorgio; comincia con un male, la Sclerosi Laterale Amiotrofica che non perdona; può essere veloce nel suo decorso, può rallentare, ma non consente al momento illusioni: no c’è rimedio, la ricerca e la scienza ancora non lasciano speranza. Piergiorgio lo sa, ha perfino chiesto al padre, un giorno, di risparmiagli quell’agonia, di ucciderlo. Il padre non ce l’ha fatta; la malattia progredisce, Piergiorgio è bloccato, le funzioni "normali" sono u calvario, alla fine è prigioniero di un corpo che non riconosce più, che rifiuta; vive solo perché un’apparecchiatura meccanica gli consente di respirare. Non vuole morire soffocato da lucido; chiede di essere sedato, e di poter morire nel sonno, senza soffrire. Nessuno ha il coraggio di fare quello che chiede. Un medico che lo addormenti e poi stacchi il respiratore potrebbe essere accusato di omicidio. Welby al suo fianco trova i radicali di Marco Pannella. Lui, Piergiorgio esprime con chiarezza la volontà di non voler più prolungare una sofferenza senza scopo, fine a se stessa. Ma la legge è legge; o meglio: non c’è una legge che sia chiara, univoca. La Costituzione stabilisce che alla fine è solo il malato che può stabilire e valutare se i trattamenti cui viene sottoposto siano proporzionali alla propria condizione e no lesivi della propria dignità di vita (articolo 32). Un principio Un principio che dovrebbe valere sia per i laici che per i cattolici: anche il Vaticano riconosce che nessun paziente può essere obbligato a subire cure che non desidera; e che si può interrompere l’applicazione dei mezzi meccanici quando i risultati deludono le speranze riposte in esse. Prima di vedersi riconosciuto questo suo diritto, Welby ha dovuto patire un vero e proprio calvario; ha dovuto ingaggiare una vera e propria battaglia politica, lui, la moglie Mina che con la morte nel cuore lo ha assecondato, Pannella, i radicali. Dieci anni fa Piergiorgio se n’è andato, "liberato" da un corpo che non sentiva più suo. Lo ha potuto fare perché una mano pietosa, quella dell’anestesista Mario Riccio lo ha prima sedato, e poi ha staccato il respiratore che lo teneva in vita. Riccio poi è stato accusato di omicidio e da questa accusa si è dovuto difendere (anche se poi è stato prosciolto). Sono trascorsi dieci anni: quell’augurio, quella sollecitazione del presidente Napolitano sono più che mai attuali. Siamo ancora qui, a dibattere ed affrontare il delicato tema del fine vita, del diritto di un paziente a veder rispettata la sua volontà sul come essere curati e assistiti, e fino a quando. Ci sono problemi quando il malato è cosciente, lucido; e spesso deve intervenire la magistratura, per dirimere i casi, com’è accaduto per Walter Piludu, malato di SLA. È stato il tribunale di Cagliari a riconoscere il suo diritto a rifiutare di continuare a sottoporsi a trattamenti per lui intollerabili. Si ha poi un bel lamentarsi che la magistratura "invade" campi non suoi. Si decidesse la "politica" a colmare i vuoti legislativi, a fare, finalmente, quello che non ha finora fatto e non fa. Sono stati presentati una decina di testi di legge, e le congiunte commissioni Giustizia-Affari sociali della Camera il 7 dicembre scorso li ha fatti confluire in un testo unificato. Si prevede un consenso informato, in forma scritta o mediante strumenti informatici, qualora le condizioni del paziente non lo consentano. Si stabilisce che il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente; che ogni persona maggiorenne e consapevole, in previsione di una sua futura incapacità di autodeterminarsi possa esprimere le sue scelte attraverso disposizioni anticipate di trattamento; e indicare persona di sua fiducia che lo rappresenti nelle relazioni con il medico e le strutture sanitarie. È appena un primo passo: Presidente Grasso, Presidente Boldrini: fate in modo che, finalmente, le istituzioni diano quelle risposte che da tanto tempo attendiamo. Ancora le carceri - Quest’anno, per la prima volta, Marco Pannella ha mancato la sua tradizionale "visita" di Natale e Capodanno in carcere. I dirigenti del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito non hanno però voluto mancare all’appuntamento. Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Maurizio Turco, Antonella Casu e tanti altri dirigenti e militanti hanno visitato in questi giorni una trentina di carceri "come ci ha insegnato Marco", dice Bernardini. Con puntigliosità hanno preso nota di carenze, situazioni limite, sovraffollamento, carenza di personale, parlato e ascoltato detenuti e agenti di polizia penitenziaria…Per ogni carcere, una scheda-inventario. "Quando entravo con Marco", racconta Bernardini, "sentivo i cori: "Marco uno di noi". Oggi sono affettuosi, ci applaudono. Un detenuto ci ha detto: "Porta un fiore da parte mia a Marco al cimitero la prossima volta che ci va, mi raccomando". Sono molti i detenuti che ci mandano le loro lettere e sono moltissimi quelli che hanno aderito alla marcia per l’amnistia del 6 novembre scorso organizzata in concomitanza con il Giubileo dei carcerati". È un po’ migliorata la situazione per quel che riguarda il sovraffollamento, dice la dirigente radicale, "anche se si registra una tendenza all’aumento: dall’inizio dell’anno ad oggi registriamo un aumento di 1.600 detenuti in tutte le carceri. Ma il vero problema è il trattamento dei detenuti: se puoi uscire dalle celle e fare una attività la vita delle persone detenute di sicuro cambia. E invece sono scarse le attività di studio, lavoro, e sport all’interno delle carceri". E ancora: "La composizione nelle nostre carceri è formata da stranieri, malati psichiatrici e tossicodipendenti: persone più disagiate e fragili che come tali possono cadere nelle maglie della criminalità organizzata". Il carcere, aggiunge, "è solo l’ultimo stadio di una giustizia che non funziona. C’è anche il tema della giustizia lumaca dei processi: l’Italia è stata condannata in sede europea per l’irragionevole durata dei processi…Con il ministro Orlando c’è un rapporto positivo: è persona sensibile, da ministro ha avuto il coraggio di dire che le nostre carceri sono criminogene e che bisogna arrivare alle pene alternative alla reclusione. Ed è per questo che con la nostra iniziativa insieme ai detenuti, chiediamo lo stralcio della parte del Ddl sul processo penale che riguarda l’ordinamento penitenziario. È in discussione al Senato, deve essere trattata a parte ed approvata presto". Da Mattarella un altolà all’odio politico di Alessandro Campi Il Messaggero, 2 gennaio 2017 La politica è azione, scelta, decisione. Ma a darle spessore e a renderla credibile sono anche le parole che essa utilizza. Nel caso del discorso di fine anno di Mattarella, sobrie ed essenziali. Ma proprio per questo percepite come efficaci e credibili da chi le ha ascoltate. Se l’alternativa, a livello di vita pubblica, è in questo momento storico tra chi urla e chi impiega toni tranquillizzanti la scelta degli italiani ragionevoli e davvero preoccupati del loro futuro non dovrebbe essere difficile da fare: meglio la prosaicità della demagogia. La diatriba sulle due Italie - i fessi e i furbi, i puri e i disonesti, gli indefessi e i cialtroni - è certamente abusata e stucchevole, ma ahimè spesso calzante. Ieri Grillo ci ha provato a farsi un suo contro-discorso ufficiale, con l’idea di dare corpo a quegli elettori che sono, spesso per seri motivi, arrabbiati e delusi. Persino pronti, in certe frange, a vedere tutto sfasciarsi pur di appagare il loro senso di rivalsa. Ma si è capito che si tratta di un pezzo di Paese che non ha ancora ricette utili per affrontare, con un minimo di realismo e senso pratico, i mali che denuncia con tanta veemenza. A meno di non considerare un orizzonte credibile quello della democrazia dell’autorappresentazione, dei cittadini che si affidano alla piattaforma digitale della Casaleggio & Associati per scardinare il potere e riappropriarsi della sovranità perduta. Il visionarismo non basta a nascondere la furbizia. Si è capito quali debbano essere questi limiti quando Mattarella ha parlato, ad esempio, dell’odio divenuto uno strumento ordinario di lotta politica. La rete è una rivoluzione democratica che ha concesso a tutti libertà di espressione. Ma ormai è anche un mezzo attraverso il quale non solo si diffondono falsità deliberate e strumentali, ma si organizzano campagne di delegittimazione che minano la convivenza civile e rendono impossibile qualunque forma di dialogo tra avversari. Oltre una certa soglia, lo scontro politico - percome ormai si articola anche in Italia - rischia di essere pericolosamente distruttivo. Ricordarlo era doveroso. Ci sono poi i limiti posti dal buon funzionamento delle istituzioni. Mattarella li ha ricordati quando ha spiegato - riprendendo parole già dette al momento di far nascere il governo Gentiloni - per quale ragione non ci si può recare a breve alle urne. L’idea che per rispettare la volontà popolare ci si debba lanciare, dopo quella per il referendum, in una nuova campagna elettorale, o si debba andare a votare con una legge elettorale quale che sia (incoerente come quella al momento vigente o al limite persino abborracciata) non tiene conto del danno che potrebbe venirne al buon funzionamento del sistema. Un politico responsabile dovrebbe calcolare non solo il proprio tornaconto immediato, ma anche l’interesse generale. E l’Italia, in questo momento, ha bisogno di un governo saldo non di aprire nuovi fronti di contesa e polemica. Proprio alle divisioni e fratture che attraversano attualmente la nazione - nord/sud, centro/periferia, garantiti/precari, vecchi/giovani - Mattarella ha dedicato uno dei passaggi più interessanti del suo discorso. L’Italia, secondo il suo auspicio, deve tornare a pensarsi come una comunità. Una "comunità di vita": dinamica e solidale. Se le parole hanno un senso, ciò significa che bisogna recuperare il senso - storico, culturale, infine anche politico - del proprio stare insieme, senza esclusivismi. Questi inviti all’unità, come molte delle cose che si dicono in circostanze tanto rituali, come appunto il saluto televisivo di fine anno, suonano talvolta come eccessivamente paternalistiche. Ma nel caso italiano colgono un problema reale. Servono valori comuni e una solida etica pubblica di cui dovrebbero farsi testimoni soprattutto coloro che occupano posizioni di responsabilità. Nel momento in cui appare facile sparare sulle élites, Mattarella ha preferito riconoscerne il ruolo e richiamarle al loro dovere. Infine, il passaggio sui giovani. Parole particolarmente necessarie e opportune: un po’ perché il tema è politicamente delicato, visto che sono loro i più penalizzati dalla crisi occupazionale, un po’ perché c’era da rimediare ad alcune recenti cadute di stile e a qualche parola in libertà. Nel mondo globalizzato è un loro diritto muoversi e fare esperienza fuori dai confini nazionali. Ma dev’essere una scelta volontaria, non un obbligo dettato dall’assenza di opportunità e dalla mancanza di occasioni. Formare i giovani per poi lasciarli disperdere per il mondo è una forma di impoverimento sociale ed economico che ancora una volta rimanda alla difficoltà dell’Italia a pensarsi come persona collettiva, al di là dei destini individuali. Con buona pace di Grillo, la realtà non è un punto di vista, mala materia dura contro la quale si sono infranti nel corso della storia i predicatori d’ogni colore. Tra tante ansie, paure e promesse, avevamo (e abbiamo) bisogno di parole pacate e di un serio invito ad andare al cuore dei nostri problemi. E questo Mattarella, alla sua maniera garbata, ieri ha semplicemente fatto. L’esasperazione che nutre il populismo di Luigi La Spina La Stampa, 2 gennaio 2017 Quello che più ha colpito è stata la lontananza del discorso di Mattarella dai toni e dagli argomenti che, purtroppo, siamo avvezzi ad ascoltare da parte dell’attuale classe politica. Il messaggio del capo dello Stato agli italiani per il Capodanno 2017, infatti, ha soprattutto avuto il merito di cogliere e di denunciare il male più profondo del nostro Paese con parole serie, allarmate anche se non disperate, il rischio, cioè, di una crescente disgregazione della società italiana, generata da un’insopportabile disuguaglianza. Il tema di fondo dell’appello del presidente della Repubblica a partiti e leader che, accecati dalla nube quotidiana di polemiche autoreferenziali, non ne riescono a comprendere la gravità e l’urgenza, è stato illustrato, però, con una modernità di concezione che sfugge ai vecchi schemi classisti, fondati su analisi di società novecentesche. Ecco perché sarebbe profondamente sbagliato, o furbescamente strumentale, utilizzare il messaggio di Mattarella per un’indebita appropriazione di schieramento. L’accezione attuale di una disuguaglianza, che mina pure la coesione di gran parte delle società occidentali nel mondo, taglia i cittadini non solo nella tradizionale divisione tra ricchi e poveri, ma tra donne e uomini, tra le generazioni, tra le culture, tra i centri urbani più popolati e quelli più isolati, tra lavoratori, garantiti in modi ingiustamente difformi. Il capo dello Stato, in questi quasi due anni di permanenza al Quirinale, ha evidentemente avuto modo di avvertire il vero motivo di quel clima avvelenato che si respira non solo nel dibattito politico, ma in tutte le manifestazioni del dialogo pubblico e privato, a cominciare dalla rete internet. Non si tratta, come superficialmente si dice, solo di un imbarbarimento del linguaggio, peraltro dal presidente puntualmente denunciato, ma del chiaro sintomo di una esasperazione sociale che nasce dal risentimento per quelle troppe disuguaglianze che, negli ultimi anni, si sono grandemente accresciute nel nostro Paese. Come anche l’inchiesta di Linda Laura Sabbadini, compiuta sul nostro giornale nei giorni scorsi, ha ampiamente illustrato. L’effetto di questa tendenza preoccupa Mattarella perché le conseguenze, sia sulla vita pubblica, ma anche sul normale funzionamento delle nostre istituzioni, sono tali da alimentare quella demagogia antipolitica che, in nome del popolo, ne usurpa indebitamente la volontà. È questo il motivo per cui, in modi insoliti per la ritualità dell’occasione di fine anno, il presidente della Repubblica ha voluto spiegare agli italiani perché non ha voluto imboccare la strada, che pure ha definito "maestra" per una democrazia, delle elezioni. In realtà, senza un sistema elettorale coerente, rappresentativo delle varie opinioni dei cittadini, ma anche capace di rispondere ai loro desideri con l’efficacia di un governo basato su una solida maggioranza parlamentare, l’appello al responso delle urne avrebbe come risultato un vero tradimento di quella volontà popolare della quale, con ipocrisia, si invoca il rispetto. È stato importante il riconoscimento, nel discorso di Mattarella, dei valori positivi di solidarietà, di generosità, di dedizione al bene pubblico che gli italiani, in molte occasioni, hanno dimostrato, perché è su queste risorse che possiamo contare per superare il momento difficile che il nostro Paese sta attraversando. La preoccupazione del capo dello Stato, infatti, si è associata alla convinta espressione di fiducia nei confronti della grande maggioranza dei nostri concittadini. Certo, se partiti o movimenti, esasperando il dibattito politico nel tentativo di cavalcare queste tensioni sociali, pensassero di lucrarne vantaggi elettorali, l’illusione sarà di breve durata, perché una generalizzata protesta e una rivolta con esiti imprevedibili li travolgerà tutti, senza eccezioni. Terrorismo. Il piano del Viminale: "espulsioni più rapide togliendo il reato di clandestinità" di Valentina Errante Il Messaggero, 2 gennaio 2017 Dalle modifiche al reato di clandestinità, che costituisce ancora un ostacolo per i rimpatri, alla convocazione della Consulta islamica, fino alla riapertura dei Cie e all’accelerazione delle procedure per le richieste di asilo. Dopo i fatti di Berlino e l’uccisione a Milano di Ansi Amri, il terrorista già espulso dall’Italia, le misure in materia di sicurezza passano dalle politiche sull’immigrazione. La circolare del Capo della polizia Franco Gabrielli, che punta a rintracciare i migranti irregolari sul territorio nazionale, modificherà nei prossimi giorni gli interventi delle forze dell’ordine, il governo intanto si muove anche sul fronte europeo per trovare sostegno. Dopo domani, Minniti volerà a Malta per incontrare il suo omologo, un faccia a faccia importante, perché nella presidenza maltese del Consiglio Ue l’Italia potrebbe finalmente trovare un sostegno fondamentale. In programma anche il viaggio a Tunisi, per parlare di rimpatri e non è escluso che, nei prossimi giorni, possano essere organizzati nuovi charter per riportare a casa alcuni migranti irregolari, già colpiti da provvedimenti di espulsione. Le modifiche - Il governo Renzi aveva già più volte ipotizzato di depenalizzare il reato di clandestinità. Dopo la bocciatura della Corte Costituzionale, per i casi di inottemperanza all’ordine di lasciare il paese, al posto delle pene detentive è prevista una pena pecuniaria, che però può però essere trasformata in detenzione domiciliare pari a 45 giorni. Un passaggio che, insieme ai mancati accordi bilaterali con i paesi terzi, rallenta l’effettiva esecuzione alle misure di allontanamento forzato. Adesso Minniti punta a modificare la norma. La misura era stata inserita in un disegno di legge su una serie di depenalizzazioni, stralciato, però, al momento del passaggio in Parlamento nel gennaio scorso. Alle Camere, tra l’altro, a partire dal 2013, sono presenti sei proposte di legge, ma di nessuna è stato avviato l’iter parlamentare. Cie e rimpatri - Dopo i fatti di Berlino il problema della sicurezza risulta legato a doppio filo a quello dell’immigrazione clandestina. E la stretta del Viminale, che con le direttive del capo della polizia prevede di rintracciare gli irregolari sul territorio, va di pari passo con la riapertura dei Centri di identificazione ed espulsione. Un passaggio che però non sarà facile, sia per la contrarietà di presidenti di regioni e sindaci, sia perché i posti disponibili sono attualmente 390 (200 gli ospiti) e la maggior parte delle strutture, a cominciare da quella di Roma distrutta da un incendio nel 2015, sono inagibili. Altri Cie sono attualmente utilizzati per l’accoglienza. Solo Caltanissetta, Bari, Torino e, parzialmente, Roma sono operativi. Minniti punta anche incentivare i rimpatri, nei prossimi giorni volerà a Tunisi, sebbene la Tunisia, insieme a Egitto e Nigeria, sia uno dei paesi con i quali esistono già accordi sulla materia. Ma il caso di Amri ancora una volta è indicativo. Il terrorista di Berlino, espulso dall’Italia, ra stato rifiutato dal suo paese. Attualmente, a fronte di circa 40 mila stranieri senza permesso di soggiorno, solo 30 mila sono stati colpiti da un provvedimento di espulsione, mentre sono appena 5mila quelli effettivamente rientrati in patria. La Consulta islamica - La Consulta islamica, creata per decreto nel 2005 dal ministro Giuseppe Pisanu e rinnovata da Angelino Alfano con un tavolo permanente dell’islam, sarà convocata e presieduta da Minniti in tempi brevissimi. Il ministro chiede agli islamici moderati suggerimenti per progetti di integrazione sul territorio. Intanto 100 milioni di euro previsti per i Comuni che accoglieranno i migranti dovrebbero essere erogati entro gennaio, ma intanto nei progetti del Viminale c’è anche un’ulteriore accelerazione dei tempi per esaminare le richieste di asilo. Un’altra misura per velocizzare i tempi di espulsione degli irregolari che non abbiano diritto alla protezione. Anti-corruzione in tre mosse. Ampliati i soggetti e le condotte punibili. Sanzioni pesanti di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 2 gennaio 2017 Al bando corrotti e corruttori nelle società private. Sotto torchio non solo gli amministratori, ma anche i dirigenti e gli istigatori. Il consiglio dei ministri del 14 dicembre 2016 ha approvato, in esame preliminare, lo schema di decreto legislativo attuativo della decisione quadro 2003/568/Gai sulla lotta alla corruzione settore privato (legge delegazione europea n. 170/2016). Nel mirino ci sono i comportamenti infedeli nelle società private. L’impresa privata collettiva deve rispondere al mercato, ai soci e il corretto funzionamento della società risponde a interessi istituzionali. Altro interesse di carattere generale è quello della concorrenza leale e quindi lo svolgimento delle attività economiche senza interferenze illecite. L’innalzamento della tutela penale, previsto dal decreto in esame, poggia su tre basi: 1) ampliamento della categoria dei soggetti punibili, perché vengono ricompresi anche quanti all’interno dell’ente svolgono attività lavorativa con funzioni direttive; 2) ampliamento delle condotte sanzionabili, prevedendo che siano punite la dazione e la sollecitazione della corresponsione di denaro o altra utilità, si punisce l’istigazione alla corruzione, oggi non punita; 3) inasprimento delle sanzioni per l’ente nel caso in cui il corruttore sia soggetto che abbia agito in nome e nell’interesse dell’ente stesso. Corruzione. Lo schema di decreto legislativo interviene sull’articolo 2635 del codice civile. L’attuale formulazione punisce con la reclusione da uno a tre anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società. Sono puniti anche coloro che danno o promettono danaro o altre utilità. L’attuale articolo 2635 del codice civile descrive, dunque, un reato proprio, esclusivamente a carico di soggetti aventi posizioni apicali nella società, escludendo tutti coloro che prestano attività lavorativa, a qualsiasi titolo, nella società. La norma non contempla, inoltre, l’offerta e la sollecitazione di un indebito vantaggio ed omette il riferimento agli intermediari. In adeguamento all’impostazione europea, lo schema di decreto legislativo include tra gli autori del reato, oltre a coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione o di controllo, anche coloro che svolgono attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive presso società o enti privati. L’estensione è coerente con l’estensione delle qualifiche soggettive anche all’amministratore di fatto. Inoltre si prevede la punibilità del soggetto "estraneo", cioè di colui che, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti. Si estende la corruzione passiva anche alla sollecitazione del danaro o altra utilità non dovuti da parte del soggetto "intraneo", qualora ad essa segua la conclusione dell’accordo corruttivo mediante promessa o dazione di quanto richiesto; si estende la corruzione attiva all’offerta delle utilità non dovute da parte dell’estraneo, qualora essa venga accettata dal soggetto "intraneo". Inoltre, tra le modalità della condotta, sia nell’ipotesi attiva che in quella passiva, viene prevista la commissione della stessa per interposta persona. La finalità delle condotte punite viene individuata nel compimento o nell’omissione di un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà posti a carico del "intraneo", con esclusione della fattispecie di corruzione impropria, finalizzata al compimento di atti del proprio ufficio. Infine, viene modificato il sesto comma dell’art. 2635 del codice civile, sulla confisca, mediante l’aggiunta delle parole "o offerte", all’espressione "utilità date o promesse". Milano: lavoro e detenuti, l’azienda che "delocalizza" un comparto dentro il carcere di Giulia Polito Corriere della Sera, 2 gennaio 2017 L’idea è arrivata quasi per caso. Pensavano all’impegno già profuso da numerose aziende che hanno scelto di partecipare ai progetti di solidarietà verso i detenuti delle carceri italiane. Alle esperienze già note di Bollate, di Torino e tanti altri ancora. Attività che fino a questo momento hanno trovato terreno fertile soprattutto nel Nord del Paese. La Callipo, nota azienda calabrese produttrice di tonno in scatola, alla fine ci è riuscita portando un pezzetto della propria filiera all’interno del penitenziario di Vibo Valentia, dove ha assunto 7 detenuti. "In vista delle festività natalizie l’azienda ogni anno allestisce un reparto apposito che si occupa del confezionamento dei cesti regalo" spiega Giacinto Callipo. Ogni anno l’azienda assume a tempo determinato del personale in più da impiegare proprio in questo settore. "Quest’anno abbiamo deciso di portare il comparto dentro il carcere e di assumere i detenuti". L’idea e l’incontro con il carcere - Come spiega Giacinto Callipo "è un’idea che è venuta in mente a mio padre un po’ di tempo fa, quando abbiamo assistito all’incontro tra il direttore del penitenziario, Antonio Galati, e un imprenditore di nostra conoscenza. L’idea dei due era di costruire un laboratorio di falegnameria, un progetto che si è poi arenato. I locali sono rimasti inutilizzati fino a quanto non abbiamo deciso di "delocalizzare" parte della produzione nostra con questa formula". I detenuti sono stati selezionati direttamente dalla direzione e sottoposti a regolari controlli medici e alla formazione dedicata alla sicurezza. E istruiti poi al confezionamento dei cesti regalo dal personale dell’azienda, tre donne in particolare riconosciute come tra le più esperte. "Il loro lavoro è stato fondamentale perché sono riuscite a trasferire ai detenuti soprattutto la cosa a noi più cara: i nostri valori aziendali, la qualità, la tradizione, il rispetto, la solidarietà, la fiducia". Qualcosa di buono per il territorio - Per la Callipo l’iniziativa natalizia non è l’unica promossa in favore del penitenziario di Vibo. In passato l’azienda ha realizzato con il Ministero di Grazia e Giustizia un progetto che ha portato all’assunzione a tempo determinato di un soggetto sottoposto ad una pena con misura alternativa al carcere. In diverse occasioni poi, per trasmettere i valori positivi dello sport, la squadra di pallavolo maschile Volley Tonno Callipo Calabria ha fatto visita ai detenuti. "L’iniziativa - spiega il direttore del penitenziario Antonio Galati - rientra nel progetto generale di questa Casa Circondariale di offrire ai detenuti sempre maggiori opportunità in grado di provocare riflessioni sul passato, favorire positive progettualità per il futuro e fornire loro strumenti di crescita personali e professionali". Per l’azienda si tratta di una buona opportunità per fare qualcosa di buono per il territorio: "Sono persone che hanno sbagliato, - commenta Giacinto Callipo - ma noi crediamo che meritino una seconda possibilità. Li ho osservati in questo periodo di lavoro: hanno iniziato impacciati e sono arrivati ad andare più veloci dei nostri operai. Abbiamo coinvolto ragazzi più giovani e persone adulte. Il più anziano di loro un giorno mi ha detto ‘non vedo l’ora che arrivi domani per rimettermi a lavorarè. Anche per noi è stata un’esperienza umana importante". Al punto da convincerli ad immaginare azioni permanenti all’interno del carcere e non solo: "La nostra difficoltà, da azienda alimentare, è nel portare la nostra produzione fuori dallo stabilimento. Ma stiamo pensando ad altre attività da fare tutto l’anno. Sicuramente cercheremo di sensibilizzare cittadini e altri imprenditori sul territorio, di modo che siano sempre di più le aziende disposte ad investire in questo tipo di progetti". Lucca: salvo un detenuto che tenta di impiccarsi nel carcere di S. Giorgio loschermo.it, 2 gennaio 2017 In un momento di apparente tranquillità, in cui la popolazione carceraria è sotto il livello di guardia, il S. Giorgio fa registrare nella notte di Capodanno un episodio di cronaca. Protagonista un detenuto che, secondo quanto è trapelato, ha cercato di togliersi la vita impiccandosi con una corda. Lo hanno trovato nella sua cella, ma per fortuna respirava ancora. Gli agenti della Penitenziaria sono riusciti a salvarlo. L’uomo era appeso ad una corda, ma tirato giù e portato in codice rosso al pronto soccorso dell’ospedale San Luca, si è ripreso. Il tentato suicidio è avvenuto poco dopo la mezzanotte. Viterbo: "carcere in grave difficoltà operativa", la Uil-Pa chiede interventi urgenti al Dap tusciaweb.eu, 2 gennaio 2017 In poche ore i fatti accaduti a Mammagialla con incendio nella notte odierna di materassi da parte di detenuti di nazionalità magrebina già rei di fatti simili provocando intossicazioni a danno del personale di Polizia Penitenziaria con necessità di ricorrere alle cure presso il pronto soccorso della città di Viterbo e del tentativo di suicidio di un altro detenuto, salvato dall’azione tempestiva delle pochissime unità di Polizia Penitenziaria presenti nel turno serale, dimostrano che la situazione è veramente a grave rischio per l’incolumità dei nostri colleghi. Gli stessi sono chiamati ad adempiere in interventi continui per fatti simili ormai da qualche mese che praticamente viene reso a loro rischio e pericolo non avendo mezzi adeguati non forniti dalla Direzione che invece dovrebbe adempiere. Inoltre tra i 590 ristretti a Mammagialla quasi la metà sono di nazionalità straniera con molti di loro favorevoli alle iniziative dell’Isis e non sono quindi praticamente pronti a provocare qualsiasi iniziativa pur dimettere a rischio la totale incolumità del personale presente nei tre turni. Per questi motivi nei giorni scorsi la Uil unitamente ad altre organizzazioni sindacali aveva aderito al sit-in messo in atto dinanzi al carcere per denunciare questa condizione operativa che probabilmente sarà oggetto di discussione nei prossimi giorni al Provveditorato regionale Lazio Abruzzo e Molise a Roma. A questo punto però ci preoccupano di più quali possano essere le conseguenze se tali soggetti ponessero ulteriori azioni più devastanti che troverebbero gli agenti di polizia penitenziaria in netta inferiorità in unità e mezzi ad evitare il peggio. Per questo la Uilpa polizia penitenziaria interesserà con nota a parte i vertici del Dap - Ministero della Giustizia e gli Organismi Istituzionali presenti sul territorio affinché si adottino tutte le misure al fine di prevenire quanto sta invece accadendo da qualche mese a Mammagialla. Totale solidarietà ai colleghi rimasti intossicati e auspichiamo che il soggetto ristretto venga perseguito dagli organismi preposti a tali valutazioni. Daniele Nicastrini Segretario generale Uilpa Lazio Crotone: il Partito Radicale con detenuti e comunità penitenziaria della Casa circondariale di Danilo Loria strettoweb.com, 2 gennaio 2017 Continuano le visite che, in occasione delle festività, il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito ha organizzato in 29 istituti penitenziari (di cui sette calabresi) per ringraziare i 20.000 detenuti che, col loro digiuno di due giorni, hanno sostenuto la Marcia del 6 Novembre per l’amnistia, l’indulto e la riforma della giustizia, marcia dedicata alle due personalità che più di tutte si sono battute per il raggiungimento dell’obiettivo del rientro del nostro Paese nella legalità costituzionale del rispetto dei diritti umani fondamentali: Marco Pannella e Papa Francesco. "Carenze di educatori, di agenti penitenziari, assenza quasi totale di lavoro e di attività di trattamentali, difficoltà coi detenuti stranieri e, a Cosenza, persino un sovraffollamento del 129%. Dopo la visita di Natale alla casa circondariale di Vibo Valentia e quella a Santo Stefano effettuata al Cosmai di Cosenza, mentre Rita Bernardini sarà alla guida della delegazione del Partito Radicale il 31 dicembre sera in visita alla casa circondariale di Rebibbia a Roma, noi - la mattina di Capodanno - anche in Calabria, proseguiamo le visite in carcere portando gli auguri per un buon 2017 di giustizia e libertà alle persone detenute e a tutta la comunità penitenziaria nel carcere di Crotone che abbiamo già visitato lo scorso anno". Lo si legge in una nota di Giuseppe Candido, segretario dell’associazione Non Mollare e Rocco Ruffa, entrambi militanti del Partito Radicale Nonviolento, che lo scorso anno, durante le festività natalizie, effettuarono un tour di visite nelle carceri che riguardò tutti i dodici istituti di pena calabresi e i cui dati furono pubblicati in un dettagliato rapporto pubblicato e disponibile online. Dopo la visita di Capodanno a Crotone, le visite in Calabria proseguiranno - con la presenza di Rita Bernardini - il 3 gennaio nella casa circondariale di Reggio Calabria, Giuseppe Panzera - sicuramente tra le più affollate della Calabria - e, il 4 in quella di Arghillà. Sempre il 4 gennaio, Rocco Ruffa e Giuseppe Candido visiteranno ancora una volta la casa di reclusione di Rossano Calabro dove, l’ultima vista, era stata fatta a Ferragosto 2016. Torino: pane, pizza e grissini si fanno alle Vallette ma si vendono in centro di Leo Rieser La Repubblica, 2 gennaio 2017 È un progetto di forte impegno sociale quello della panetteria Farina del Sacco: le sue lavorazioni sono interamente realizzate nel forno della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno dove i detenuti, guidati da Andrea Maffia, panificatore professionista di origine pugliese, apprendono l’arte bianca. Le farine che si utilizzano sono macinate a pietra; la lievitazione, con lievito madre o con biga, è lunga e naturale; completano la ricetta sale integrale marino e olio extravergine italiano. Nel negozio, da poco aperto in via San Secondo, Emilia Luisolo propone 9 tipologie di pani a rotazione tra cui multicereali, integrale, riso venere con farina tipo 1 e una leggera tartaruga al mais. I grissini all’olio sono anche con mais, sesamo, cipolle, olive o dolci con il cioccolato. Prodotto di punta è la "ruota pugliese", focaccia di grano con olive, pomodorini ed extravergine, mentre tra i dolci primeggiano la crostata pere e cioccolato e la torta Tenerella con cioccolato e nocciole. Da non perdere il panettone classico o con gocce di cioccolato che, inserite nell’impasto, gli danno un colore ambrato. "Farina nel sacco" - via San Secondo 10/f - Torino - Tel. 011.0768749 - Aperto 8/13.30 - 16/19.30 (chiuso domenica). Firenze: ordigno contro una libreria vicina a Casa Pound, ferito gravemente un poliziotto La Stampa, 2 gennaio 2017 Un artificiere della polizia è rimasto ferito a Firenze dallo scoppio di un ordigno trovato davanti alla sede della libreria Bargello, non lontano dal centro storico in via Leonardo Da Vinci, vicina a Casa Pound. C’era un timer collegato ai fili e al pacco bomba esploso stamane. Verso le 5 del mattino, una pattuglia della Digos che controllava obbiettivi sensibili ha notato un involucro davanti alla saracinesca della libreria che poteva essere sospetto. Era un pacco con fili elettrici e un timer. La pattuglia ha chiamato la questura, sono arrivati una volante e gli artificieri, la zona è stata isolata, come da procedura in questi casi. L’artificiere ha cominciato ad esaminare l’ordigno quando è avvenuto lo scoppio. L’artificiere ferito nell’esplosione ha perso l’occhio destro e gli è stata amputata la mano sinistra. L’agente è stato trasportato stamane all’ospedale Careggi e sottoposto immediatamente ad un primo intervento all’arto. In un secondo momento, si è intervenuti sull’occhio. "Condanno duramente quanto avvenuto stamattina a Firenze: si tratta di un episodio gravissimo e senza alcuna giustificazione. All’agente ferito va la solidarietà mia e dell’intera città. I colpevoli devono essere presto assicurati alla giustizia. Firenze è città di pace e non è rappresentata da orrori di questo genere". Lo afferma il sindaco Dario Nardella a proposito dell’ordigno esploso davanti a una libreria che fa riferimento a Casapound. Migranti. Il Viminale: più controlli ed espulsioni per gli irregolari di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 2 gennaio 2017 Una circolare alle questure chiede di intensificare in tutta Italia i servizi per i controlli e l’allontanamento degli stranieri non regolari. La Caritas: la risposta è negli accordi internazionali. La stretta, sulla quale il Viminale meditava da giorni, è arrivata alla vigilia di Capodanno. Con una circolare inviata alle questure, il capo della Polizia e direttore del Dipartimento di pubblica sicurezza Franco Gabrielli ha chiesto di intensificare in tutta Italia i servizi per i controlli e per l’allontanamento degli stranieri irregolari, ossia quelli sprovvisti di un permesso di soggiorno o altri documenti che ne autorizzino la presenza sul territorio nazionale. Dopo l’attentato a Berlino e la tragica fuga in Italia del tunisino Anis Amri, il timore del ministro dell’Interno Marco Minniti e dell’apparato di sicurezza è che altri potenziali estremisti possano approfittare di zone d’ombra legate a situazioni irregolari per portare avanti progetti o azioni pericolose nel nostro Paese. La circolare: "I rimpatri sono una priorità europea - Nel documento, che Avvenire ha potuto visionare, si evidenzia l’importanza dei controlli "nell’attuale contesto di crisi, a fronte di una crescente pressione migratoria e di uno scenario internazionale connotato da instabilità e da minacce che impongono di profondere massimo impegno nelle attività volte a mantenere il territorio sotto controllo". Appare necessario, si legge nel documento, "conferire massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare, in particolare attraverso una specifica attività di controllo delle diverse forze di polizia". Pertanto, riveste "un ruolo altrettanto importante il dispositivo di controllo e di allontanamento degli stranieri irregolari". Inoltre, la circolare emanata dal prefetto Gabrielli sottolinea come questa "attività di controllo consenta spesso di intercettare fenomeni di sfruttamento e di inquinamento dell’economia del territorio collegati a forme di criminalità organizzata di livello nazionale e transnazionale". Nel provvedimento si ricorda come "la politica di rimpatrio per gli stranieri in posizione irregolare rappresenta una priorità nel contesto dell’Unione europea e trova particolare riscontro, oltre che nelle disposizioni obbligatorie dei trattati istitutivi, anche in numerosi atti di indirizzo politico e strategico" come le Agende europee in materia di sicurezza e sulla migrazione. Pattugliamenti contro lavoro nero e sfruttamento In tutta Italia saranno dunque "pianificati" e "intensificati" servizi mirati a ottimizzare le risorse disponibili "nel più ampio contesto delle esigenze operative a livello territoriale". Una valutazione che verrà "svolta in sede di Comitato provinciale per l’ordine la sicurezza pubblica attraverso l’attivazione di piani straordinari di controllo del territorio, volti non solo al contrasto dell’immigrazione irregolare ma anche allo sfruttamento della manodopera e alle varie forme di criminalità che attingono dal circuito della clandestinità". In tale contesto, si definirà anche il "concorso delle diverse forze di polizia in attuazione di piani di controllo congiunto che vedano l’eventuale contributo operativo dei corpi delle polizie locali", ossia gli agenti delle Municipali delle diverse città. Rafforzamento dei Cie - Gli immigrati irregolari rintracciati in tutta Italia, in attesa dell’espulsione, saranno ospitati nei Cie, i centri per l’identificazione e l’espulsione. Sarà la Direzione centrale per l’immigrazione e della polizia delle Frontiere, si legge nella circolare, a curare "il necessario raccordo con gli Uffici immigrazione delle questure per una pianificazione più specifica di tale attività di controllo, con riguardo in particolare all’assegnazione dei posti nei Centri di identificazione ed espulsione". Negli ultimi anni, il ricorso ai Cie (che avevano finito per diventare luoghi di trattenimento a lunga durata, con problemi di ordine pubblico e in qualche caso vere e proprie rivolte delle persone rinchiuse) era stato molto ridimensionato. Attualmente, la loro capienza è minima: sulla carta potrebbero ospitare 1.600 persone, ma i posti veri sono meno di 400. Il Dipartimento di pubblica sicurezza è ben consapevole dei problemi di ordine pubblico che potrebbero crearsi. L’intenzione del Viminale è di aprire un Cie per regione, restaurando e mettendo a norma quelli più grandi già esistenti oppure ricorrendo ad altre strutture da riadattare, come ex caserme in disuso. Ma potrebbero non essere sufficienti. Una volta constatata l’irregolarità dello straniero, infatti, secondo la legge si dovrebbe procedere al suo rimpatrio. Ma qui sta il nodo principale: con oltre 180mila migranti approdati in Italia (di cui oltre la metà, secondo le associazioni che si occupano di migranti, avrebbe ricevuto un primo diniego alla richiesta di asilo), gli irregolari presenti in Italia potrebbero essere diverse decine di migliaia. Pertanto, la stretta sui controlli potrebbe provocare un repentino intasamento dei Cie. La Caritas: la risposta non è nei Cie, ma negli accordi internazionali - "Nessuno mette in dubbio le esigenze di sicurezza legate alla situazione internazionale che stiamo vivendo - ragiona Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas italiana-, ma auspichiamo che ciò non finisca per costituire un alibi per avviare un sistema di espulsioni che comunque, lo ribadiamo, debbono sempre avvenire nel rispetto dei diritti umani. Non vorremmo che si facesse un passo indietro, visto che in passato si sono verificati nei Cie trattenimenti prolungati e contro la legge. La detenzione, secondo le norme, deve essere temporanea, questo deve essere chiaro". I governi precedenti, con l’allora ministro dell’Interno Alfano, ricorda ancora il responsabile immigrazione della Caritas, "avevano deciso di ridurre al minimo l’attività dei Cie, perché poco efficaci e molto costosi per le casse dello Stato. Ora la pressione dei fatti internazionali ha indotto a ripiegare su una soluzione già sperimentata, come quella dei centri di detenzione amministrativa. Ma se non avevano funzionato in passato, ci chiediamo, in quale modo dovrebbero farlo oggi? Vedremo...". La soluzione, argomenta Forti, potrebbe stare nell’intensificazione degli accordi coi Paesi di provenienza. Secondo i dati, nell’anno in corso, su 40mila irregolari rintracciati in Italia, 30mila sono stati destinatari di un provvedimento di espulsione, ma solo 5mila sono poi stati effettivamente rimpatriati. E in base alle indagini, lo stesso Anis Amri (il 24enne tunisino autore dell’attentato a Berlino rimasto ucciso prima di Natale in uno scontro a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni) nel 2015 ricevuto l’atto di allontanamento dall’Italia, non era rientrato in Tunisia, ma aveva continuato a muoversi per l’Europa con un falso permesso di soggiorno italiano: "C’è un problema di accordi bilaterali e di resistenze dei singoli Paesi a riprendersi i propri migranti - conclude Forti -. Ad oggi, solo pochi Paesi, come il Marocco, la Tunisia, l’Egitto o la Nigeria accettano di buon grado i rimpatri dei propri connazionali". Una situazione complessa sul piano diplomatico, sulla quale stanno lavorando tanto la Farnesina, col ministro degli Esteri Angelino Alfano (che provenendo dal Viminale ben conosce i nodi della questione migratoria) sia il ministro dell’Interno Minniti, che nel mese di gennaio potrebbe partire per una missione in terra africana per consolidare i rapporti di collaborazione con le autorità di polizia di diversi Paesi. Migrantes (Cei): no a una politica delle migrazioni centrata solo suilla sicurezza - Una circolare "coerente con una politica delle migrazioni che fino ad oggi è stata incentrata solo sulla sicurezza. Una politica che ha portato ad esasperare l’attenzione solo sui casi di delinquenza e di irregolarità tra i migranti, finendo per far dimenticare l’azione di un popolo che sta contribuendo a cambiare l’Italia: più di 500mila imprenditori, 2 milioni e mezzo di lavoratori, 800mila studenti": Monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, commenta così all’Adnkronos la direttiva inviata ieri alle questure dal capo della Polizia Franco Gabrielli, che ha disposto l’intensificazione dei controlli e delle attività volte all’allontanamento degli stranieri irregolari. "Certo, il momento storico non aiuta, con i timori diffusi per il terrorismo. Ma non aiuta neanche una politica della sicurezza che dimentica che bisogna costruire il futuro dell’Italia sull’incontro e sulla capacità di integrazione, su percorsi di accompagnamento, sulla cittadinanza, sul diritto al voto amministrativo, su una rappresentanza reale. Anche le politiche di molti altri Stati europei - aggiunge Perego - vanno in una direzione che non favorisce un’Europa dei popoli". Migranti. "È il ‘68 dei giovani africani, non si faranno fermare dai muri" di Carlo Lania Il Manifesto, 2 gennaio 2017 Parla il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. Sulla Siria: "Se in futuro ci sarà un piano per la ricostruzione i siriani torneranno, ma oggi il paese è balcanizzato, mancano le condizioni di sicurezza". Sull’Africa. "E ‘ in corso una rivoluzione dei giovani africani che vogliono vivere meglio e che fuggono dalla guerra". Sull’Europa: "C’è il vezzo infondato di sentirsi invasi dai rifugiati. In realtà non aver posto come centrale la pace in Siria è stato un errore e il segno della debolezza dell’Unione europea". 66 anni, storico, ministro della Cooperazione con il governo Monti, in passato Andrea Riccardi ha svolto un ruolo di mediatore in numerosi conflitti, africani e non solo. Un "eroe moderno" per la rivista Time, ma soprattutto il fondatore nel 1968 della Comunità di Sant’Egidio con cui, insieme alla Federazione delle chiese evangeliche e alla Tavola Valdese, ha organizzato corridoi umanitari che hanno permesso finora di portare in Italia 350 profughi siriani e palestinesi dal Libano. "Un successo, al quale dal 2017 parteciperà anche la Francia", dice. Professore, cosa si aspetta per il 2017? Per quanto riguarda l’immigrazione i problemi principali riguarderanno ancora la Siria e l’Africa. La Siria è la madre dei rifugiati. C’è il vezzo europeo di sentirsi invasi dai profughi siriani, che invece si trovano soprattutto in Turchia, Giordania e Libano. Sei anni di conflitto siriano durante i quali come europei non siamo intervenuti o lo abbiamo fatto male. E qui c’è la prima contraddizione: non si è vissuto il primato della ricerca della pace, credendo che la guerra degli altri non fosse un nostro problema o che comunque si potesse isolare. Non aver posto questa priorità è stato un errore e allo stesso tempo la debolezza dell’Unione europea. Adesso c’è questo accordo russo-turco-iraniano che però non credo che limiterà il flusso dei profughi. C’è poi l’Africa, un continente in movimento. Quella africana è un’immigrazione in parte ambientale, in parte economica e in parte dovuta all’instabilità. L’idea di fermarli alla frontiera o di scaricarli sui paesi di prima accoglienza è folle. Il governo punta sui migration compact, la convincono? È una politica giusta. Sono stato sempre convinto che esista una irresponsabilità dei governanti africani nei confronti dei loro migranti. Ha mai visto un presidente africano venire a inchinarsi a Lampedusa di fronte alle proprie vittime? L’immigrazione è una valvola di sfogo per questi paesi, anche perché i migranti finanziano una parte delle economie locali con le rimesse. I risultati degli investimenti promessi nei paesi africani non si vedranno prima di una, forse due generazioni. Intanto però si chiede di fermare subito i migranti. Sarei più ottimista. Non dico che i migration compact sono la soluzione, ma occorre moltiplicare la cooperazione e responsabilizzare i governi africani nel sensibilizzare le giovani generazioni. In Africa si vive un ‘68 permanente e i giovani senza lavoro sono un elemento di instabilità per i governi, per i quali è meglio mandarli via. Ma questo è un sistema antidemocratico, che mette a rischio la vita delle persone. Conosco i giovani africani e so che la scelta di andare via, di attraversare il deserto rappresenta una sorta di rivolta contro nazioni che sono matrigne, perché vogliono vivere meglio di come vivono. È la rivolta dei giovani. Senza dimenticare che c’è anche tanta gente che è costretta a fuggire. Pensiamo alla Nigeria, al Corno d’Africa, alla Somalia, lì si fugge dalla guerra. Questa rivoluzione non si fermerà in un anno, ma una politica europea di cooperazione è la direzione giusta. Europa e Africa non hanno destini separati e i destino dell’Africa ci coinvolgerà. La riforma di Dublino sarà una delle prime questioni che l’Ue dovrà affrontare nel 2017. Per ora però non si intravede niente di buono. Siamo in un momento in cui l’Unione europea stenta a esistere. Dublino come è ora è sostanzialmente l’accordo di chi non vive lo spirito dell’Unione. D’altro canto molti stati hanno capito che sull’immigrazione si vincono e si perdono le elezioni, quindi non vogliono socializzare un problema come questo. E questa è la crisi drammatica dell’Europa. Ma a preoccupare non è solo Dublino, riforma miope, ma i muri nell’est europeo a partire dall’Ungheria. Quando a marzo celebreremo i Trattati di Roma dovremo dire cosa è per noi l’Europa. Intanto la crisi dei migranti ha prodotto l’avanzata prepotente dei populismi in Europa. Questo è successo prima di tutto perché in passato una politica di sinistra o di centrosinistra ha voluto nascondere la questione migranti pensando che fosse meglio non parlarne per non perdere voti. È vero, si perdono voti, ma bisogna avere il coraggio di dire con molta chiarezza che noi abbiamo bisogno dei migranti perché abbiamo un vuoto demografico incredibile. Paesi che si chiudono come l’Ungheria tra un po’ saranno vecchi e dovranno invitare i migranti nella propria terra. Non avranno più però la capacità di integrazione perché saranno paesi di anziani, quindi saranno conquistati. Per quanto riguarda i migranti l’unica buona notizia del 2016 sono i corridoi umanitari che Sant’Egidio organizza insieme alla Federazione delle chiese evangeliche e alla Tavola Valdese. È un’esperienza di successo a costo zero per il paese, perché sono le famiglie e le comunità che si assumono il mantenimento dei siriani e di alcuni palestinesi che arrivano in Italia. Stiamo negoziando un accordo con la Francia per un nuovo corridoio umanitario per 300 rifugiati. Siamo convinti che si tratti di una soluzione giusta, anche nell’interesse di quei paesi che presto saranno troppi vecchi e dovranno implorare l’arrivo dei migranti. Ma questo sarà il loro suicidio e insieme la perdita della loro storia. Migranti. I bimbi di Calais fanno causa a Theresa May di Lorenzo Carbone Il Dubbio, 2 gennaio 2017 L’esecutivo britannico rifiuta l’accoglienza a 36 minori disagiati. Dall’Indipendent arriva la notizia che 36 minori hanno intentato una azione legale contro il governo britannico. Otto di loro aspettano da oltre cento giorni il via libera per passare la frontiera, via libera che probabilmente non arriverà mai, mentre gli altri sono già stati dichiarati non idonei. Alla fine della scorsa estate la "Giungla", il campo di Calais che ospitava decine di migliaia di rifugiati, è stato sgomberato e dato alle fiamme dalle autorità francesi. "Ho sperato e aspettato per entrare in Inghilterra tre mesi", dice Taher, un ragazzino eritreo di 15anni intervistato da The Guardian. "Mi sarebbe piaciuto andare in Inghilterra perché mi piace l’accento inglese. Ma ci sono molti altri che, come me, hanno ricevuto brutte notizie. Il governo britannico ha giocato con noi". Nella causa lanciata dallo studio legale inglese Duncan Lewis Solicitors, l’esecutivo britannico viene accusato di non aver rispettato l’impegno che si era preso ad accogliere i minori più vulnerabili come chiesto dall’Immigration Act. Secondo il ministero degli interni di Londra sono stati accolti 750 minori. Ma a fine ottobre, mentre le fiamme ingoiavano la Giungla, circa 1900 minori erano stati registrati per passare su suolo inglese. Si trattava specialmente di minorenni che versavano in condizioni disagiate, privi di famiglia o vittime di traumi. "A questi ragazzini è stato comunicato verbalmente che le loro richieste non erano state accettate, ma non hanno ricevuto nessuna ragione né argomentazione sul questo rifiuto. Si tratta dell’ennesimo segnale negativo della tardiva quanto scarsa politica di sostegno ai bambini migranti mostrata dal governo May. Tutto questo è scioccante, il modo in cui li hanno trattati è vergognoso". A parlare è Toufique Hussain, avvocato della "Duncan Lewis Solicitors", che rappresenta legalmente vari minori rifugiati sparsi per la Francia. Quando nei primi di dicembre ha ricevuto la notizia del rifiuto, Taher, ospite assieme ad altri minori di un ordine monastico transalpino, ha cominciato uno sciopero della fame. Taher afferma che molti dei suoi amici di sventure non proveranno a chiedere asilo in Francia, come gli è stato consigliato da parte delle autorità inglesi. Molti hanno già deciso che tenteranno la fuga, non si fidano delle autorità d’oltralpe che ha già conosciuto durante i mesi di Calais. "Alcuni proveranno ad entrare nel Regno Unito su un camion dal Belgio. Io credo che tornerò a Calais e da lì cercherò una via di fuga". Il governo conservatore di Teresa May si era impegnato a dare rifugio ai minori più vulnerabili, e adesso centinaia di loro, la maggior parte non accompagnati, provenienti soprattutto da Eritrea, Afghanistan e Sudan, sono sparsi per la Francia in diversi centri di accoglienza. Da chissà quanto tempo non vanno a scuola, vivono in un limbo burocratico e umano e si domandano perché non sono "idonei" per passare il confine tra Francia e Regno Unito? "Questi minorenni sono a rischio. Gli è stato detto che non possono raggiungere l’Inghilterra. E gli è sbattuto in faccia senza la presenza di alcun adulto che li potesse aiutare a digerire la notizia" dichiara Rebecca Carr, avvocato di Taher. "Taher e gli altri hanno studiato duramente per imparare l’inglese. Adesso, appresa la verità, molti di loro sono scappati da soli per la Francia". Chiediamo una "legge Mastrogiovanni" per regolare il Tso di Valentina Stella Il Dubbio, 2 gennaio 2017 Parla l’avvocato Michele Capano, legale della sorella della vittima e tesoriere dei Radicali Italiani. In attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza di secondo grado sul caso Mastrogiovanni abbiamo intervistato Michele Capano, legale della sorella della vittima. Avvocato, in secondo grado è arrivata anche la condanna per gli infermieri. In appello i giudici hanno fatto un ragionamento diverso rispetto a quello di primo grado: di fronte a un ordine di tipo manifestamente criminale, come quello della contenzione ininterrotta e prolungata nel caso in questione, non è possibile giustificare una persona che ubbidisce. Potremmo dire che i giudici hanno stabilito il dovere alla disobbedienza di questi infermieri: disobbedire è doveroso quando ti viene ordinato di delinquere. Può ritenersi complessivamente soddisfatto della sentenza? Ritengo positiva la sentenza perché il punto di principio che riguarda anche la responsabilità degli infermieri era il vero nodo da sciogliere. Certo non è stata una sentenza severa dal punto di vista delle pene inflitte, ma da radicale il tema mi appassiona poco... piuttosto si è cominciata ad illuminare la grande zona d’ombra delle condizioni di svolgimento dei Tso. Però forse è da sottolineare negativamente il fatto che i medici continuino a svolgere il loro lavoro come se niente fosse. Sì, la sentenza d’appello ha anche cancellato l’interdizione temporanea dalla professione, che riguardava i medici, ma il nodo è rappresentato dalla tutela dei pazienti che sono sottoposti a Tso... Presso la procura della Repubblica di Lagonegro pende una indagine per la morte di un ragazzo, Massimiliano Malzone, avvenuta lo scorso anno nell’ospedale di Sant’Arsenio e che era stato curato da alcuni degli stessi medici coinvolti nel caso Mastrogiovanni, e non è l’unico caso di morte ‘ da Tso" nell’ultimo anno nella sola provincia di Salerno. Anche alcuni psichiatri incredibilmente ritengono che quando un cittadino viene "investito" dal Tso... nei suoi confronti - dalla contenzione al sovraccarico di farmaci, finanche alla privazione di contatti con i familiari - siano permesse condotte altrimenti impensabili. Come se si entrasse - è il caso di Mastrogiovanni - in una dimensione parallela, e il paziente si trasformasse da persona in "cosa". In Italia si registrano 20.000 Tso all’anno. Com’è la situazione in generale? Alcuni dati indicano una differenza tra regione e regione: in Friuli Venezia Giulia ci sono cinque Tso per 10.0000 abitanti, in Sicilia trenta Tso per 10.0000 abitanti. Significa che da un lato c’è una strategia per non arrivare direttamente alla soluzione del Tso, mentre dall’altro lato c’è una maggiore superficialità e una minore efficacia dei servizi psichiatrici territoriali che dovrebbero svolgere una funzione ‘ preventivà. Quale ruolo gioca il Sindaco nella procedura? È uno dei problemi sul tappeto: nella legge nel 1978 (ndr legge del 23/ 1978 n. 833 che agli articoli 33- 35 disciplina i trattamenti sanitari obbligatori) la presenza del Sindaco veniva immaginata con un ruolo di garanzia del cittadino: l’intervento nella procedura è presto divenuto esclusivamente burocratico, un passaggio di carte senza alcuna contezza della effettiva necessità di ricorrere alla misura privativa della libertà personale. Non ho ancora trovato in Italia un sindaco che abbia rifiutato di ordinare un Tso che gli fosse stato proposto. Forse è il caso di pensare ad una figura diversa. Magari il Garante dei diritti delle persone ristrette. Lei è anche Tesoriere di Radicali Italiani, i quali chiedono una legge di riforma del Tso. Sì, pensiamo a una "Legge Mastrogiovanni" che introduca, così come avviene per l’arresto e il fermo, una udienza di convalida, e verifica dell’utilità del prosieguo della privazione della libertà, nel giro di 72 ore o giù di lì. Vogliamo dare a chi subisce il Tso un avvocato, di fiducia o di ufficio che sia. Siamo sicuri che il solo aumento del "filtro" e del controllo potrebbe più che dimezzare i Tso attuali. Turchia. L’attentato a Istanbul e le ambiguità di Erdogan di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 2 gennaio 2017 La Turchia, gigante musulmano adagiato fra due continenti e frontiera fra due mondi, è nel caos. Non soltanto per la strage della scorsa notte al club Reina, ritrovo della Istanbul laica e secolare che guarda all’Europa, quanto per la facilità con cui i terroristi sono riusciti a entrare in un locale fra i più noti seminando la morte. Forse riproponendo nella realtà le immagini televisive di un film di successo, trasmesso recentemente nel Paese. È il nuovo capitolo, purtroppo annunciato, di una guerra che continua e che ormai è concentrata sulla Turchia, crocevia strategico, geopolitico, energetico, e ormai punto di equilibrio (o di squilibrio) fra Ovest ed Est, fra Europa e Paesi che si affacciano sulla sponda Sud del Mediterraneo, fra Occidente e mondo arabo. Pare chiaro che il Paese sta subendo i contraccolpi di scelte politiche avventate poi radicalmente corrette in corsa, lasciando scorie sociali e politiche difficili da cancellare. Le modalità del feroce attentato, che ripropone lo schema della strage del Bataclan di Parigi, sono più evidenti di una rivendicazione, che prima o poi arriverà. La firma, inequivocabile, è quella dell’Isis e dei suoi alleati jihadisti più feroci. Se infatti l’obiettivo è la folla, i civili, con i rappresentanti delle istituzioni ritenuti effetti collaterali, non vi sono dubbi sulle responsabilità. Diverso sarebbe se i terroristi avessero colpito poliziotti, militari, centri istituzionali, trasformando in effetti collaterali i civili che si trovavano casualmente sulla direttrice dell’attacco. In questo caso sarebbe inevitabile allargare il fronte dei sospetti all’estremismo curdo (Pkk e altre sigle) o ai gruppi più fanatici della sinistra extraparlamentare turca. Le ragioni di quest’ondata di ferocia potrebbero essere alimentate dall’estero, come sostiene il presidente Recep Tayyip Erdogan. Ipotesi credibile, anche perché la Turchia è diventata rifugio di milioni di profughi, la maggior parte dei quali giunti dalla Siria. Tuttavia vi sono anche ragioni legate all’altalenante linea politica del governo, guidato dal partito islamico Akp, acronimo di Giustizia e Sviluppo. Fino a un anno fa o poco meno, la Turchia aveva un atteggiamento abbastanza ambiguo e sicuramente opaco. Pur di indebolire il presidente siriano Bashar Assad, Erdogan era stato pronto a sostenere tutte le opposizioni siriane in armi. I tir, scortati da agenti dei servizi segreti e diretti nel Paese confinante, trasportavano armi pesanti e leggere che finivano anche ai jihadisti (Isis e Al Nusra), come documentato da immagini non smentibili. Immagini finite in Rete e costate carcere e punizioni varie a giornalisti, agenti, poliziotti e magistrati. Il problema è che dopo l’abbattimento di un cacciabombardiere russo troppo curioso, che forse aveva documentato il traffico di petrolio tra Turchia e Isis, Erdogan e il suo governo hanno virato di 180 gradi: amicizia con Putin, che significa dipendenza dal Cremlino e sostegno alla strategia russa in Medio Oriente; quasi amicizia e molta comprensione per Assad; mano tesa al presidente egiziano Al Sisi, dopo aver parteggiato platealmente con il fratello musulmano Mohammed Morsi. E soprattutto, impegno della Turchia a partecipare lealmente alla campagna internazionale contro il terrorismo, e attivamente alla stabilizzazione della Siria, come l’accordo fra Mosca, Ankara e Teheran ha sancito. È chiaro che Erdogan, deciso a riconquistare il terreno perduto, è pronto a pagare per i propri errori, perché la posta è fondamentale non soltanto per il suo futuro politico e per quello del suo Paese, ma per l’intera regione; per gli interessi della Nato, di cui la Turchia fa parte, e per quelli di Mosca. Ecco perché l’attentato di Istanbul era prevedibile, e probabilmente non sarà l’ultimo. Turchia. Il campo minato ai confini dell’Europa di Stefano Stefanini La Stampa, 2 gennaio 2017 Il 2017 non ha lasciato tempo per festeggiamenti. Per metà del globo non era neppure cominciato quando un kalashnikov ha fatto strage al Reina Club di Istanbul. Nel mirino, ancora una volta, la Turchia. Per quante siano le diffidenze verso l’impronta autoritaria di Recep Tayyip Erdogan, non si può non ammirare la tenuta di Ankara, sul ciglio del campo minato mediorientale, fra attentati a ripetizione, colpo di Stato e una popolazione di rifugiati che si aggira sui 3 milioni. Impallidisce, a confronto, l’arrovellarsi elettorale di mezza Europa. L’Italia entra nell’Anno Nuovo domandandosi come e quando voterà. I campanelli di allarme di Berlino e di Istanbul la dovrebbero spingere a guardarsi di più intorno. Ci si accorgerebbe che non soltanto il 2017 non è un anno qualunque; non lo è per il nostro Paese. Da ieri siamo membri del Consiglio di Sicurezza e abbiamo la presidenza del G7. Onori e oneri: ma non possiamo cavarcela con una politica estera di piccolo cabotaggio. Non sono tempi di ordinaria amministrazione internazionale. Debutta una Presidenza americana rivoluzionaria, si apre il sipario su Brexit, si riassesta il Medio Oriente, si rivisita il triangolo Washington-Mosca-Pechino, il terrorismo continua a colpire. La risposta non può venire solo dalla foto di famiglia al vertice di Taormina del 26-27 maggio, dalla celebrazione del 60° anniversario del Trattato di Roma, dal summit della cultura di Firenze del 30-31 marzo. Se ci limiteremo a fare da cerimonieri, gli italiani saranno i primi a non avere fiducia. La sfida è doppiamente impegnativa. Dentro, l’Italia rischia di passare il 2017 arrovellandosi sulla legge elettorale, poi in campagna e finalmente alle prese con la formazione di un nuovo governo. Intanto, il resto del mondo galopperà avanti. Fuori, non abbiamo più pilota automatico. Le certezze del dopoguerra, europeismo e alleanza con gli Stati Uniti, sono incrinate, l’uno dalla crisi dell’Ue, l’altra dall’incognita Trump. Delle direttrici regionali, quella balcanica gira a vuoto perché imperniata sui tempi biblici dell’allargamento Ue, quella mediterranea è ostaggio dell’incubo immigratorio, della minaccia terroristica, del buco di sicurezza in Libia e dei difficili rapporti con l’Egitto. Il presidente del Consiglio Gentiloni e il ministro Alfano non hanno il lusso di aspettare. Sanno quali siano gli interessi nazionali in questo frangente di fragilità globale, europea e mediterranea. L’immigrazione è un peso nazionalmente insostenibile. Cosa realisticamente chiedere all’Ue? Non le quote - non passano, e non funzionerebbero. L’Unione può invece farsi carico, politico e finanziario, di ricezione, selezione e rientri forzati, esclusi gli aventi diritto all’asilo. Qualcosa di utile che farebbe bene all’Europa. La Libia è un tridente terrorismo-immigrazione-energia puntato sulla penisola. Ma se non saremo noi a proporre cosa fare in Libia, nessun’altro, in Europa o altrove, si farà avanti. Vogliamo la difesa europea: per quali compiti e missioni? Non sarà il toccasana dei malori europei, ma se utilmente impiegata darà un colpo d’ala all’Ue e alleggerirà il carico di sicurezza della Nato. Quali sono le priorità italiane nel negoziato Brexit? Dall’estate scorsa la piccola Danimarca ha messo in piedi una Brexit task-force interministeriale. Non una cattiva idea. Avremo responsabilità. Europeismo e atlantismo restano le scelte strategicamente valide, ma è l’Ue in difficoltà a dover essere sostenuta e la credibilità a Washington va guadagnata, non viceversa. In Consiglio di Sicurezza contano voto e iniziativa: lo si è appena visto nella risoluzione sugli insediamenti israeliani - sono decisioni nazionali. Come tenere l’amministrazione Trump e la Turchia di Erdogan agganciate alla Nato? Cosa significano per l’Europa i segnali di fumo scambiati fra Putin e Trump? L’Italia ha ottimi strumenti. Alla nostra diplomazia, ai nostri militari in missione, serve un timone politico. Con Bruxelles e Washington come punti cardinali, il timone romano si è impigrito per decenni. Né un’Ue in crisi (clamorosamente assente dalla crisi siriana) né un’agnostica amministrazione Trump ci toglieranno le castagne da fuoco. Nel 2017 dovremo pensarci da soli e costruire reticoli di partners e alleati. L’attentato di Istanbul è un’avvisaglia. Il G7 e il Consiglio di Sicurezza offrono all’Italia l’occasione di essere al centro di uno scenario internazionale in un anno di trasformazioni. L’occasione non si ripresenterà presto - forse mai in un magma di nuovi ordini, e disordini, mondiali. Turchia. "Propaganda al terrorismo": rilasciate due scrittrici, arrestato un giornalista di Alberto Custodero La Repubblica, 2 gennaio 2017 Nelle stesse ore in cui Ahmet Sik è stato privato della libertà con l’accusa di aver scritto alcuni tweet non graditi sui servizi segreti, sono state liberate Asli Erdogan e Necmiye Alpay sotto processo per gli stessi reati. Rilasciate, su ordine del tribunale, due note intellettuali che erano detenute per terrorismo: sono la scrittrice Asli Erdogan e la linguista Necmiye Alpay che scrivevano per il quotidiano Ozgur Gundem, chiuso per presunti legami con i curdi del Pkk. Le due scrittrici sono rimaste dietro le sbarre per oltre 100 giorni. Nello stesso giorno, la polizia ha arrestato il giornalista Ahmet Sik, firma prestigiosa di un quotidiano di opposizione al governo del presidente Recep Tayyp Erdogan. Anche per lui l’accusa è di propaganda a favore del terrorismo. Liberate due scrittrici. Le autorità turche hanno rilasciato due intellettuali che erano state arrestate con l’accusa di propaganda terroristica, la scrittrice Asli Erdogan e la linguista Necmiye Alpay. "Sono una scrittrice e il motivo per cui esisto è quello di parlare. L’unica prova di appartenenza ad un’organizzazione terroristica che mi è stata mostrata è stata solo il mio nome sul giornale", ha dichiarato in tribunale la Erdogan. Poi ha aggiunto che i principi basilari del diritto erano stati violati accusando i redattori del giornale. Oltre alle due scrittrici, sono stati rilasciati anche altri giornalisti. Ancora un giornalista arrestato. Dopo il fallito golpe del 15 luglio, era stata anche la libertà di stampa a finire nel mirino di Erdogan: oltre 130 media - 16 reti televisive, 23 radio, 45 quotidiani, 15 magazine e 29 case editrici - erano stati chiusi, decine i giornalisti arrestati. Ma da allora è continuato il pugno duro di Erdogan contro i media, contro i diritti civili e contro la democrazia. E dopo le maxi-purghe di settembre nel corso delle quali sono stati cacciati 40 mila dipendenti pubblici, tocca ora a Ahmet Sik finire in carcere, sempre con la stessa accusa contestata ai giornalisti di fare "propaganda al terrorismo" e di "denigrare la Repubblica Turca". Sik twitta la notizia del suo arresto. È stato lui stesso a darne la notizia: "Sono stato arrestato. Vengo portato dal procuratore per un tweet", ha twittato Sik. Il professionista aveva diffuso sul social alcuni post sul partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), nonché articoli per il quotidiano di opposizione Cumhuriyet nei quali - secondo le accuse - avrebbe criticato i servizi segreti turchi. Stati Uniti. La startup sociale che trasforma gli ex detenuti in imprenditori di Davide Illarietti Corriere della Sera, 2 gennaio 2017 Uscire di prigione, bussare alla porta di oltre 500 aziende, sentirsi rispondere "picche" da tutte. A Ralphy Dominguez è successo, nel 2013 (al termine di una condanna per furto): è allora che ha deciso di mettersi in proprio. La sua startup - specializzata in portafogli, ironia della sorte - è nata da un’altra startup. Si chiama Refoundry: l’impresa sociale che aiuta gli ex detenuti non a trovare lavoro, ma a crearselo. L’idea è semplice. Dopo un anno di formazione e business planning, gli ex carcerati ricevono da Refoundry un finanziamento per lanciare la loro attività: parte dei ricavi della nuova impresa serviranno a finanziarne un’altra, e così via. Un effetto a catena che "libera chi è appena uscito dal carcere dall’ansia di trovarsi un impiego" spiega Tommy Safian, co-fondatore della startup con base a New York. "La maggior parte delle agenzie che si occupano dell’inserimento professionale di ex detenuti sono al momento sotto pressione: il mercato del lavoro non riesce ad assorbire tutti, o comunque ci sono grandi difficoltà". Negli Stati Uniti, secondo una recente statistica, circa un ex detenuto su due è recidivo a causa della mancanza di mezzi di sostentamento. Dei pochi (fortunati) che trovano un impiego fuori dal carcere, solo il 25 per cento riesce a mantenerlo per più di un anno, il 10 per cento per più di tre anni. "La spesa del governo per il reinserimento professionale ammonta a centinaia di milioni di dollari l’anno, ma i programmi non funzionano" commenta Safian. Il primo deficit è nella formazione. E Refoudry lo colma con dei corsi mirati, più un supporto ai detenuti-imprenditori in stile franchising. La startup ha lanciato una campagna di crowd-funding su Kickstarter (40 mila dollari raggiunti, finora, su un obiettivo di 45 mila) per completare i primi progetti. Accorrete numerosi. Cambogia. 5 anni di carcere a leader dell’opposizione per un post su Facebook Reuters, 2 gennaio 2017 Sam Rainsy, il leader dell’opposizione cambogiana, è stato condannato in contumacia a cinque anni di reclusione per aver "cospirato per creare caos" accusando il primo ministro Hun Sen di aver ceduto territorio nazionale al vicino Vietnam. Il tribunale municipale di Phnom Penh ha condannato Rainsy per aver rilanciato su Facebook una serie di documenti tradotti in cui si insinuava che il governo avesse firmato un trattato con il quale Hun Sen avrebbe dato al Vietnam una striscia di territorio in una zona non ben demarcata. Sono stati condannati alla stessa pena anche due collaboratori del suo partito che curano dall’estero la pagina Facebook. Sam Rainsy è attualmente in esilio in Francia. Gli è stato proibito di tornare in patria. Il prossimo anno in Cambogia si terranno delle elezioni locali, che faranno da prologo in vista delle legislative del 2018. Bahrein. Evasione di massa dal carcere di Jau, ucciso un poliziotto tpi.it, 2 gennaio 2017 Tra i prigionieri in fuga ci sarebbero anche persone accusate di terrorismo. Alcuni uomini armati hanno preso d’assalto la prigione di Jau, in Bahrein, uccidendo un poliziotto e facendo fuggire numerosi carcerati. Tra gli evasi ci sarebbero anche persone accusate di terrorismo, secondo quanto reso noto dal ministero dell’Interno del paese del Golfo Persico, che non ha però diffuso dati sul numero di persone in fuga. Dal 2011 il piccolo stato del Bahrein è protagonista di proteste in cui si chiede di porre fine alle discriminazioni verso la popolazione sciita. Nel paese, infatti, nonostante la maggior parte della popolazione sia di religione sciita, la famiglia regnante è sunnita.