Giustizia, scontro Davigo-Orlando "Non violi la nostra indipendenza" di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 gennaio 2017 Anno giudiziario, l’apertura a Milano: Davigo difende l’indipendenza della magistratura e il ministro Orlando replica: "Nessun attacco, attenti al corporativismo". "Io - scandisce Piercamillo Davigo - certamente non voglio essere ricordato come il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati che ha abdicato sulla difesa dell’indipendenza della magistratura, e Lei, signor ministro, spero non voglia essere ricordato come quello che ha provato a violarla". "Non mi considero un nemico della magistratura, non mi pare si giustifichi l’accusa rivolta a me, al governo e al legislatore e, devo dire, anche agli organi di garanzia - gli ribatte il ministro della Giustizia, Andrea Orlando -: attenti all’insidia che i singoli soggetti della giurisdizione reagiscano alle difficoltà ripiegando in una dimensione corporativa, tentando sì di salvaguardare le proprie ragioni ma attraverso la delegittimazione di quelle degli altri, e la finale delegittimazione di tutto il sistema". Giovedì se le erano dette a distanza di 4 piani in Cassazione, sabato faccia a faccia all’inaugurazione a Milano dell’anno giudiziario. Sempre sullo stesso nodo. Nel 2014 "il governo ha mandato a casa 400 magistrati con lo slogan "largo ai giovani", attacca Davigo, ma "tra il bando di un concorso e l’ingresso in servizio del primo magistrato di quel concorso passano 4 anni: avrebbe dovuto essere prevista un’adeguata temporizzazione che non c’è stata". Poi il governo ha varato due proroghe, l’ultima (per l’anno 2017) solo però per i vertici di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei Conti, in tutto "18 magistrati: è inaccettabile perché apre a che sia il governo a decidere chi fa il giudice. Non discutiamo l’autorità dei prorogati, che sono certamente i migliori: ma se passa il principio, qualche altro governo potrebbe scegliere i peggiori". Orlando risponde spostando la questione dal tema della proroga "mirata" al tema della pensione: "Non credo si stia attentando all’autonomia della magistratura perché si modifica l’età pensionabile, altrimenti non mi saprei spiegare perché l’Anm non ha protestato quando a suo tempo si decise di portarla da 70 a 75 anni. Se modificarla significa scegliersi i giudici, allora questo vale sia quando la si abbassa, sia quando la si alza" e "magari la misura è più gradita all’insieme della categoria". E comunque "non mi considero un nemico della magistratura, credo di aver in questi anni dimostrato di tutelarne l’autonomia e l’indipendenza". Il Guardasigilli aveva incentrato il proprio intervento su un tema che da tempo cerca di introdurre nel dibattito pubblico, e cioè il paradosso che "la costante sottovalutazione dell’impatto della dimensione globale sulla giurisdizione" produca "il doppio inganno" di un neonazionalismo muscolare: "Una promessa di sicurezza che non potrà realizzare perché i principali pericoli alla nostra sicurezza derivano da una situazione globale; e il rischio di estendere una zona franca nella quale si possono collocare, per loro natura e per loro struttura, potentati economici e finanziari che sfuggono alla dimensione nazionale sia per fiscalità sia per giurisdizione". Non che l’argomento non faccia presa. Ma nelle cerimonie di tutta Italia a mordere sono le urgenze quotidiane. A cominciare dai vuoti nel personale amministrativo ("collasso", dice il pg milanese Roberto Alfonso) anche in quei distretti di cui, come rimarca la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, il ministero può vantare "una durata dei processi inferiore allo standard europeo e metà della media nazionale". La crisi della giustizia è "prima di tutto dovuta alla mancanza di strutture, uomini e mezzi", è convinto Luciano Panzani, presidente della Corte d’Appello di Roma, dove il pg Giovanni Salvi addita "interi settori della legalità sommersi dalla prescrizione", dichiarata nel 2016 sul 38% dei processi. È scontro tra governo e toghe. Ma Orlando parla anche di tortura: legge subito di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 gennaio 2017 Inaugurazione anno giudiziario. Pensioni dei magistrati, Davigo (Anm) attacca il Guardasigilli: "Spero non voglia essere ricordato come il ministro che ha provato a violare l’indipendenza della magistratura". La replica del ministro: parole grosse. "Io certamente non voglio essere ricordato come il presidente dell’Anm che ha abdicato sulla difesa dell’indipendenza della magistratura, signor ministro spero che lei non voglia essere ricordato come quello che ha provato a violarla". È ormai scontro diretto, tra Piercamillo Davigo e il ministro di Giustizia Andrea Orlando. Dopo aver disertato la cerimonia in Cassazione, in aperta polemica con il governo per la norma che proroga le pensioni fino a 72 anni solo ai vertici della Cassazione e provvisoriamente anche ai giudici di merito, il capo del sindacato dei magistrati interviene all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Milano per chiarire i motivi della protesta delle toghe. E per puntare il dito direttamente contro il Guardasigilli, responsabile a suo dire di non aver mantenuto le promesse: "Il governo - attacca Davigo - ha mandato a casa 450 magistrati con lo slogan ‘Largo ai giovani’ senza prevedere un’adeguata temporizzazione delle uscite, ma poi ha fatto prima una proroga per gli uffici direttivi e poi un’altra proroga" per sopperire alle carenze di organico. Così facendo, spiega l’ex pm di Mani Pulite, "il governo decide chi fa il giudice", cosa ovviamente non accettabile in uno stato di diritto. Orlando però non ci sta e, pur confermando la carenza di personale amministrativo degli uffici giudiziari che, dice, sarà presto tamponata con 5100 nuove assunzioni, lancia un monito contro l’"insidia" di "singoli soggetti della giurisdizione" che "reagiscano alle difficoltà" con il corporativismo. Nel suo discorso però vola anche un po’ più in alto, ricordando al Parlamento che il blocco del ddl sulla tortura impedisce all’Italia di "allinearsi ai Paesi di alta civiltà giuridica" in Europa. Poi, a fine cerimonia, contrattacca Davigo: "Non credo che si stia attentando all’autonomia della magistratura perché si modifica l’età pensionabile, perché allora l’Anm non ha protestato quando si decise a suo tempo di portare l’età pensionabile da 70 a 75 anni?". Su "tre questioni", poste ad ottobre durante l’incontro a Palazzo Chigi anche con l’allora premier Matteo Renzi, assicura Orlando, "due sono state risolte nella direzione che era stata richiesta dall’Anm". Il gran ballo dei numeri per l’inaugurazione dell’anno giudiziario di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 gennaio 2017 Altro che pollo: con le inaugurazioni degli anni giudiziari Trilussa avrebbe impiantato una rosticceria. Una settimana fa una ricerca (su dati europei) della Fondazione Italia Decide e del ministero indicava in 3,14 il tasso di "staff per giudice": macché 3 cancellieri, qui a momenti manco 1, testimonia invece ieri al ministro Orlando la presidente della Corte d’appello milanese, Marina Tavassi, calcolando nel distretto in "0,72 il rapporto tra magistrati e personale di diretta collaborazione alla giurisdizione". Non c’è nesso di causa-effetto tra carenze d’organico e risultati degli uffici, valorizza il ministro comparazioni vere: ma vero è pure che il presidente della Cassazione Gianni Canzio mostra come la mancanza di cancellieri stia impedendo di pubblicare 3.151 sentenze già scritte dai giudici, o che a Roma la Procura non può sgravarsi di 30.000 giudizi già pronti perché il Tribunale ingorgato non saprebbe come fare a celebrarli. Il problema è che hanno un po’ tutti ragione. Ce l’ha Orlando quando rivendica di essere il primo ministro da 20 anni a invertire sul serio la rotta pur partendo da 9.000 cancellieri mancanti, ed elenca "1.600 già entrati, altri 220 entro marzo, saranno 3.300 nel giro di un anno, più 350 dalle convenzioni con le Regioni, e poi sono già operanti 4.000 tra stagisti e tirocinanti" (a 400 euro al mese per massimo 40 ore mensili). Ce l’ha però anche il presidente della Corte d’Appello di Bologna, Giuseppe Colonna, "la giustizia si basa molto, troppo sul precariato: 400 euro al mese o 200 euro a sentenza non possono risolvere i problemi". Ce l’ha la sua collega milanese Tavassi nell’esemplificare in Corte d’appello il saldo effettivo del personale amministrativo fra le 30 uscite nel 2015 e le entrate in concreto solo di 3 operatori dalla Croce Rossa e 2 tirocinanti. E fulminanti sono i due sindacalisti del personale, che al ministro raccontano del "collega proveniente dalla Croce Rossa e terrorizzato perché, pensando di dover al massimo spingere un carrello di carte, si è invece ritrovato messo (lui con la terza media) al delicato ufficio dell’esecuzione penale". Fotografia perfetta del cortese scambio di battute quando il procuratore generale Roberto Alfonso, al ministro che dalla platea gli addita la Gazzetta Ufficiale come riprova di un maggior numero di futuri cancellieri, ribatte "noi leggiamo la Gazzetta Ufficiale, poi però verifichiamo nelle stanze e non li troviamo". Tutto è double-face. Le prescrizioni: quasi 133.000 l’anno ma a macchia di leopardo, ad esempio con la Corte d’appello di Venezia che produce il 7,5% del totale nazionale e Palermo solo l’1%. Il carcere: 54.653 detenuti sono infinitamente meglio dei 67.000 in 46.000 posti di pochi anni fa, ma, oltre al preoccupante riaumento di 2.500 nel 2016, il sovraffollamento medio del 27% cela picchi (solo per stare al prisma locale della cerimonia dov’è il ministro) del 41% a San Vittore, 61% a Busto e addirittura 87% a Como. Pure l’Europa è centaura: Orlando si meraviglia del poco risalto al fatto che "per la prima volta l’Italia non compaia più tra i primi 5 Paesi per numero di ricorsi alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo"; ma i viceprocuratori onorari e i giudici di pace (magistrati non togati, senza pensione-ferie-malattia, ai quali sono però demandate larghe fette del contenzioso) si meravigliano che sia passata in cavalleria la condanna dell’Italia da parte del Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa per discriminazione dei giudici onorari. E in fondo con l’Europa, naufraghi nella statistica, ci si può pure consolare un po’ tutti: non si è forse appena verificato il primo caso di azienda risarcita con 50.000 euro dal Tribunale dell’Unione Europea per eccessiva durata del procedimento davanti… al Tribunale dell’Unione Europea? I magistrati vanno alle crociate di Vincenzo Maiello Il Mattino, 29 gennaio 2017 Sostiene il presidente dell’Anm Davigo che la decisione del governo di non prorogare la collocazione in pensione di un certo numero di magistrati costituisce un attestato all’indipendenza ed alla autonomia della Magistratura, addirittura realizzando una surrettizia scorciatoia per "scegliere i capi degli uffici giudiziari". Verrebbe da chiedere quale sia la concezione che il presidente dell’Anm ha di quei valori cardine dello Stato di diritto in nome dei quali ha sferrato il suo j’accuse. Spiacerebbe, in particolare, sapere se per lui l’autonomia e l’indipendenza configurano davvero le prerogative funzionali che consentono ai soggetti della giurisdizione di poter svolgere con adeguatezza ed effettività, il compito di difendere il diritto e il diritto di tutti, al di fuori di qualsiasi pressione (esterne ma anche interne) oppure se esse non siano altro che un comodo schermo dietro al quale si nasconde per proteggere interessi corporativi. Vorremmo, ancora, chiedere se è in nome dell’indipendenza e dell’autonomia della funzione giurisdizionale che vengono motivatele resistenze ad ampliare gli organici di una classe oppressa da carichi di lavoro insopportabili, o ad occupare le cosiddette sedi disagiate. Sarebbe grave se, sotto le bandiere di quei capisaldi dello Stato costituzionale si volesse far transitare solo le aspirazioni di pochi a detrimento di quelle di tanti altri egualmente meritevoli, come ha voluto sottolineare con chiarezza il guardasigilli Orlando. Eppure, andrebbe ricordato come in questi anni, in cui in nome delle difficoltà di bilancio sono stati chiesti sacrifici a tutti, alla Magistratura sia stato risparmiato il trattamento che è toccato ai professori universitari, ai quali per ben chiunque anni, è stato congelato il trattamento retributivo delle progressioni di carriera. Di ben altro tenore ed ispirazione culturale è la concezione del ruolo della Magistratura che traspare dalla lucida, disincantata e culturalmente consapevole relazione del presidente della Cassazione Canzio, pronunciata qualche giorno fa. Aliena da ogni suggestione o finalità di rivendicazione corporativa, il documento Canzio si apprezza, al contrario, per la capacità dimessa a fuoco di una serie di aspetti disfunzionali dell’amministrazione della giustizia penale del nostro paese. Sarebbe fuorviante analizzare i "nervi scoperti" segnalati dal presidente Canzio in un ottica settoriale. Se lo si facesse, si rischierebbe di non mettere a fuoco l’autentica dimensione di complessità dei problemi evocati, propiziando rimedi "di corto respiro" che, ove sperimentati, rischierebbero di generare ulteriori disinganni. Temi quali la "spiccata autoreferenzialità" di taluni pubblici ministeri, tra aspettative di punizione (indotte da una sorta di giuridicizzazione dei bisogni emotivi di sicurezza) e gli esiti delle verifiche giudiziarie, il "pernicioso ribaltamento della presunzione di innocenza dell’imputato", il "corto circuito tra il rito mediatico e il processo penale" non sono meri epifenomeni, ma espressione di un più generale contesto di crisi, che interpella le questioni della identità ed effettività del modello di giustizia penale in action e la sua relazione di dipendenza con la progressiva erosione di una matura cultura costituzionale delle garanzie individuali. Siamo dell’avviso che quegli aspetti rinviino al processo di trasfigurazione delle funzioni liberali del diritto e del giudizio penale, realizzatosi negli ultimi venticinque anni per cause molteplici e complesse. Invia di estrema sintesi, si può dire che la stratificazione di scelte legislative ascrivibili ad un fenomeno di "fuga dalla responsabilità politica" del governo della convivenza sociale ha finito per creare un convincimento (mostruoso": quello secondo cui ogni forma di patologie della vita collettiva (reali o talvolta solo drogate da "strumentali" amplificazioni mediatiche) andasse consegnata alle funzioni regolative e terapeutico-normative del processo penale. Di qui i correlati effetti del gigantismo giudiziario (con l’abnorme sovraesposizione dei poteri di accusa non adeguatamente bilanciati dal controllo giurisdizionale del Giudice) e della eclissi di una cultura - istituzionale e sociale - delle garanzie individuali. La fuoriuscita del processo penale da qualsiasi ambito di controllabilità e da ogni capacità di concretizzare effettivamente le domande di giustizia formalizzate nelle norme è figlia di un diritto penale pervasivo ed ipertrofico, composto da migliaia di fattispecie criminose poste a presidio di pressoché tutti gli ambiti della vita individuale e sociale. Un diritto penale così costruito è figlia divisione politiche demagogiche e populiste e realizza una spaventosa truffa in danno della collettività delle vittime, in quanto genera l’illusione di una tutela che non potrà mai essere implementata. In tale contesto - che, assecondando inquietanti prospettive di "società punitiva", ha promosso la giustizia penale nel ruolo di principale (se non unico) presidio di tutela - si sono insediate pratiche di affievolimento di un’etica della giurisdizione che fosse servente la funzione di Magna Charta dei diritti fondamentali dell’accusato: spettacolarizzazione informativa delle iniziative cautelati, acquisizioni probatorie ad ampio spettro, allentamento garantistico del procedimento probatorio con surrettizio ampliamento degli spazi di recupero di atti di indagine, erosione della terzietà, sono le manifestazioni di questo paradigma. Il problema di fondo della gestione dei Diritti nel processo è, allora, eminentemente un problema di cultura; e tuttavia, solo una riforma organica della giustizia penale "nel segno della Costituzione" e delle Carte sovranazionali di garanzia può favorire la riscoperta del fascino discreto della giurisdizione e del suo ruolo di "metafora della democrazia costituzionale". In questa prospettiva, andrebbero messe in cantiere revisioni strutturali e profonde del sistema; traesse, in particolare, la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, una nuova disciplina dell’azione penale e l’introduzione di un quorum qualificato per l’approvazione delle leggi penali. Con queste riforme, si creerebbero le condizioni per ridefinire in senso autenticamente liberale le funzioni della giustizia penale, evitando che esse continuino ad essere sovraccaricate di compiti che non le appartengono. Magistrati e politici sono davvero nemici? Intervista al ministro Andrea Orlando di Giorgio Dell’Arti Gazzetta dello Sport, 29 gennaio 2017 L’Anm contro con il ministro della Giustizia: "Vuole intaccare la nostra indipendenza". Intanto, il sistema appare paralizzato. Polemiche, come sempre, alle varie aperture dell’anno giudiziario. In generale i magistrati si lamentano della pochezza degli organici, che a loro dire andrebbero quasi raddoppiati, e paventano una crisi della giustizia irreversibile. Piercamillo Davigo, il presidente del loro sindacato Anm, ha disertato la cerimonia in Cassazione - la prima della serie - perché in forte disaccordo anche con la riforma del processo penale che giace in Parlamento e in cui si prevede, tra l’altro, l’obbligo per i pm di decidere il rinvio a giudizio entro tre mesi dalla fine delle indagini. Ci sono poi polemiche sul fatto che Renzi, a suo tempo, impose ai giudici la pensione a 70 anni invece che a 75, salvo poi - dovendo affrontare vuoti d’organico che oggi assommano a un migliaio di posti - concedere varie deroghe, e da ultimo una ai vertici di Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti e Avvocatura, a cui la scorsa estate sono stati riconcessi i 72 anni. Questi suoi riassuntini lasciano alla fine il tempo che trovano. Che cosa dicono in concreto i magistrati? Per esempio, su questa faccenda della pensione, il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, rivuole i 72 anni, la decisione di costringere i giudici a ritirarsi a 70 anni "ha destabilizzato il sistema: così sono svanite le legittime aspettative di tanti magistrati, ancora disponibili a servire la collettività in un momento di così grave affanno della giustizia". Sulla carenza degli organici ha parlato, sempre ieri, la presidente della corte d’Appello milanese, Marina Anna Tavassi: "La carenza di personale raggiunge punte del 40%, meno 15% di scopertura tra i magistrati, meno 35% tra il personale amministrativo". Interessante anche la presa di posizione del presidente della Cassazione Giovanni Canzio (un ostinato fautore della pensione almeno a 72 anni), che ha criticato le indagini troppo lunghe e le "distorsioni del processo mediatico", favorite anche dalla "spiccata autoreferenzialità" di alcuni magistrati. E Davigo? Davigo vede nell’impianto della riforma del ministro Orlando (un non renziano) e in una sua dichiarazione il rischio che la politica voglia "scegliersi i magistrati" e intaccare la loro indipendenza. Orlando aveva detto: "C’è il rischio che singoli soggetti della giurisdizione reagiscano alle difficoltà ripiegando in una dimensione corporativa, tentando sì di salvaguardare le proprie ragioni, ma attraverso la delegittimazione di quelle degli altri, con la finale delegittimazione di tutto il sistema". Davigo gli ha risposto (tra gli applausi): "Io certamente non voglio essere ricordato come il presidente dell’Anm che ha abdicato sulla difesa dell’indipendenza della magistratura, signor ministro spero che lei non voglia essere ricordato come quello che ha provato a violarla". Il ministro ha risposto dichiarando: "Non sono nemico della magistratura". E sulle risorse ha aggiunto: "1.820 nuove immissioni entro marzo, 1.600 già avvenute e altre 3.300 assunzioni che porta il numero a un totale di 5.100 unità". Politici e magistrati sono nemici o no? Canzio nel suo intervento ha detto. "Il Paese percepisce una diffusa corruzione sia nella Pubblica amministrazione che tra i privati. Tale percezione, però, non trova riscontro nelle rilevazioni delle statistiche giudiziarie. Il dato nazionale registra infatti un numero esiguo di giudizi penali per siffatti gravi delitti, con appena 273 procedimenti definiti nel 2016 in Cassazione, pari allo 0,5%. Occorre pertanto avviare una approfondita riflessione sull’efficacia delle attuali misure, preventive e repressive, di contrasto del fenomeno". Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, ha anche lanciato un invito alla distensione nei rapporti tra magistratura e politica. È difficile, però. Appena eletto presidente dell’Anm, Davigo ha ribadito un suo vecchio giudizio sui politici: "Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti". Davigo era uno del pool di Mani Pulite. In generale, dove stanno le ragioni e i torti? L’andare in pensione a 75 anni è un’enormità, effetto della disorganizzazione del nostro sistema, il quale andrebbe riformato rendendo, per esempio, poco conveniente il ricorso in Appello o anche, nel civile, punendo i furbi, quelli che non pagano i debiti perché tanto in sede giudiziaria si arriverà sempre come minimo a un accordo che tagli il dovuto. I numeri ci dicono che qualcosa di più incisivo dovremmo fare. La Cassazione affronta centomila casi all’anno, l’analoga corte americana se la vede con appena 80 pratiche. Che si può fare? Solo a Roma ci sono più avvocati che in tutta la Francia. Il sistema ne deve far campare 250 mila e il Parlamento è pieno zeppo di avvocati, sia a destra che a sinistra che al centro, e questi avvocati superano subito le barriere ideali che li separano quando una qualche riforma va a toccare il loro portafogli, reso pingue proprio dalle lungaggini. Creda: o si vieta agli avvocati di fare i parlamentari (ma stanno alla Camera o al Senato dal 1848) o si impone un numero chiuso oppure alle riforme vere non si arriverà mai. Inaugurazione dell’anno giudiziario, lo scarto insostenibile tra "idee" e realtà di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2017 Come le "idee" platoniche spiegate da Benedetto Croce alla sua cuoca, anche le politiche della giustizia sembrano "tanti caciocavalli appesi", un metafisico cielo di misure senza gambe e braccia per muoversi. L’effetto-caciocavallo è emerso dalle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario nei 26 distretti di Corte d’appello dove - con buona pace dell’inversione di tendenza" celebrata in Parlamento e in Cassazione - Presidenti e Pg hanno raccontato una "giustizia al collasso"; "sommersa dalle prescrizioni"; alle prese con "mafie vecchie e nuove", con una "corruzione crescente" e con il "dilagare della criminalità economica"; che vive "sul precariato" ed è privata delle risorse umane - cancellieri e magistrati - indispensabili per garantire tempi ragionevoli dei processi. L’indice è puntato contro il ministro della Giustizia, responsabile per Costituzione dell’organizzazione degli uffici giudiziari, e l’accusa non fa sconti neppure a un ministro stimato come Andrea Orlando, che da qualche tempo scarica sulle toghe una serie di performance negative degli uffici e, soprattutto, insiste nel bollare come "corporativa" la protesta dell’Anm contro il decreto legge-Renzi di proroga dell’età pensionabile di un pugno di ermellini della Cassazione, con il quale il governo "si è scelto i magistrati da tenere in servizio". Peraltro, l’effetto-caciocavallo non risparmia neppure il Csm, vissuto dalle toghe come un’entità sempre più lontana, le cui riforme non trovano riscontro nella realtà - per esempio delle nomine dei direttivi - al punto che tanti magistrati, soprattutto donne (che ormai sono più della metà in organico), pur a un passo da possibili incarichi direttivi, preferiscono andarsene in pensione prima dei 70 anni voluti dal governo Renzi come dead line. Potrebbero sembrare alibi, per giustificare la perdurante inefficienza del servizio giustizia, di cui - a dispetto delle riforme e dei trend - cittadini e imprese continuano ad essere vittime quotidiane. Potrebbe sembrare la difesa estrema di chi - nonostante il riconoscimento dell’alta produttività e qualità della risposta nel panorama europeo - oggi viene additato come casta, responsabile di errori giudiziari, fomentatore di un processo mediatico colpevolista che inficia la fiducia nella giustizia. E tuttavia, il film di ieri testimonia uno scarto oggettivo tra "idee" e realtà che non va sottovalutato, perché la sottovalutazione produce non solo stagnazione ma anche conflittualità. Lo scarto si coglie immediatamente nella vicenda del decreto legge ad personas sulla proroga delle pensioni. È sbagliato liquidare in termini corporativi la posizione dell’Anm, anche se la sua prima reazione ha fatto pensare che l’obiettivo delle toghe fosse soltanto la proroga a 72 anni per tutti. Non si possono chiudere gli occhi di fronte a un decreto legge con cui il governo si è assunto la prerogativa di scegliere quali magistrati trattenere in servizio e quali no, a prescindere dalle qualità di quei magistrati. Questa è la gravità di quella scelta politica, che ci riporta indietro di mezzo secolo. Manipolarla significa negare princìpi fondamentali, che non sono caciocavalli appesi ma "sangue vivo - diceva Piero Calamandrei - che scorre nelle vene". L’errore è ormai irrimediabile, ma Orlando - al quale non manca onestà intellettuale - dovrebbe almeno riconoscerlo politicamente. È vero, poi, che sulle politiche del personale c’è stata un’inversione di tendenza perché dopo vent’anni si sono rimesse in moto le assunzioni, ma non si può non vedere che tempi e procedure sono inadeguati a un’emergenza che svuota gli uffici non fosse altro perché escono più persone di quante ne entrano. Questa è una responsabilità politica, ma forse non così ineludibile se in ballo c’è l’efficienza di un servizio da cui dipende, tra l’altro, anche la competitività del sistema Paese. Ancora: riforme annunciate, come la prescrizione, stentano a sbarcare nei Tribunali in una versione efficace a causa di contrasti nel governo (e nel Pd), frenando anche altri interventi acceleratori del processo, seppure non sempre coerenti. Scaricare quest’impasse politica sui Pm o sui processi mediatici (al di là di responsabilità specifiche che sicuramente ci sono) è solo un parlar d’altro, con conseguenze dannose sulla legittimazione della giustizia e sull’informazione, nonché sulla necessità di una "comunicazione giudiziaria" che, semmai, va coltivata in forme migliori, e non censurata. Ma forse l’effetto-caciocavallo sconta anche una coincidenza temporale: una stagione politica sta finendo, la legislatura è agli sgoccioli e il clima da campagna elettorale in cui già siamo finiti non favorisce analisi pacate e ponderate su una realtà delicata come la giustizia. Giustizia: i dejà vu, dalla mafia all’economia criminale di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2017 L’apertura dell’anno giudiziario 2017 non può richiamare un déjà vu. Nell’ascoltare i procuratori porre l’attenzione sulle infiltrazioni mafiose, la corruzione e l’economia criminale, si ha infatti la sensazione di un’esperienza precedentemente vissuta. Vissuta lo scorso anno e quello precedente e quello ancora prima, indietro nel tempo. Ed allora vuol dire che qualcosa non quadra nella catena che dovrebbe garantire prevenzione e repressione. Più di qualcosa. A partire da quella cultura del "bene comune", della "res publica" che, come ha sottolineato il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, deve essere inculcata nelle nuove generazioni. Ha usato proprio il verbo inculcare Alfonso, richiamando dunque la necessità di imprimere valori profondamente nell’animo altrui, con l’educazione o con l’esempio. Se dunque la base, il substrato dei principi e dei valori ha ancora bisogno di far presa sulla collettività nel nome della quale si amministra la Giustizia, non ci si può meravigliare se lo Stato sia costretto a riconcorrere anziché precedere le nuove forme di criminalità, per meglio combatterle. E non ci si può sorprendere se i ritardi con i quali il Legislatore e la classe politica di questo Paese combattono l’evoluzione dei sistemi criminali, si ripercuotano poi sulla povertà, sulla frammentazione e sulla rarefazione degli strumenti messi a disposizione della Giustizia. Non solo carenza d’organico tra i ranghi della magistratura inquirente o giudicante ma anche tra le forze dell’ordine e di polizia giudiziaria. Tre ferite in una sola che si sommano a una carenza di formazione che, in alcune parti d’Italia, si fa particolarmente sentire. Ecco che il déjà vu torna e si manifesta dunque con gli stessi ritornelli, a partire dalla forza preponderante che hanno le mafie nell’inquinare tessuti sociali e trame economico finanziarie di ogni latitudine, nonostante ci sia chi si ostini ancora a presentare questa come una declinazione nuova, una verità inaspettata in alcune zone d’Italia. E invece no, sono decenni che le mafie hanno spostato il baricentro dei loro interessi sporchi nel nord Italia e fuori dai confini nazionali. E mentre questo avveniva e continua progressivamente ed incessantemente a succedere, la risposta dello Stato è lenta e inadeguata. Solo pochi giorni fa la prefettura di Milano, in una lunga relazione consegnata alla Commissione parlamentare antimafia, ha sottolineato che perfino le white list delle imprese sono a rischio di infiltrazione mafiosa. Pochi controlli e poche risorse a disposizione sono il solito "condimento" a una situazione sempre più complessa. Bene ha fatto il procuratore generale di Torino, Arturo Soprano, a ricordare che oltre alle mafie (‘ndrangheta in primis) lo Stato si trova a lottare ad armi impari contro la corruzione che poi altro non è se non l’altro lato della medaglia mafiosa. Ormai - dopo anni di negazione del problema - non c’è quasi più alcun analista che non sottolinei come le mafie non penetrino più (salvo eccezioni) con metodi violenti ma con sistemi di ampia corruttela nella pubblica amministrazione, che rendono ancora più subdolo e complesso da colpire l’inquinamento delle regole, della concorrenza e del libero mercato. E che lo Stato sia in affanno lo testimonia anche un passaggio della relazione di Marcello Viola, procuratore generale a Firenze, dopo una vita passata a Trapani e in Sicilia a combattere colpo su colpo la prepotenza di Cosa nostra. In Toscana, ha detto, "bisogna essere rapidamente in grado di leggere i possibili nessi tra criminalità economica e criminalità organizzata", anche perché aumentano i reati fiscali, societari, fallimentari e di usura. Proprio ieri (si veda il Sole-24 Ore in edicola oggi) la Direzione investigativa antimafia (Dia) ha ricordato che alle mafie non basta più capitalizzare i proventi illeciti in attività imprenditoriali sempre più remunerative: l’ennesima frontiera del business mafioso è quella degli indebiti risparmi d’imposta. Ed allora - nella mente perversa del consorzio tra sistemi criminali - tutto si regge e ogni azione ha un filo logico per essere sempre un passo davanti allo Stato. È tempo che lo Stato - a fatti e provvedimenti, non a chiacchiere e parole - faccia quello scatto che faccia sperare che la sensazione di dejà vu all’apertura di un anno giudiziario abbia vita corta. Magistratura: chi sbaglia paga veramente? di Valter Vecellio lavocedinewyork.com, 29 gennaio 2017 Scorrendo per il 2016, mese per mese, le sentenze finali di alcuni processi che avevano stroncato la carriera di figure politiche di primo piano, si scopre che sono stati per lo più fallimentari. Tutti assolti… Che la politica sia affare sporco e che sporca; che i politici abbiano generalmente pessima fama, è giudizio consolidato, largamente diffuso, più che giustificato. Ovunque: e senza differenza di latitudine o paese. "Ero veramente un uomo troppo onesto", dice Socrate, "per vivere ed essere un politico". Più vicino a noi Ronald Reagan ricorda che "la politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima". Tutto vero; ma occorre pur aggiungere che il politico corrotto, o incapace, mediocre non è una maledizione che cade dal cielo; è un signore (o una signora) che si presenta a delle elezioni. Nessun dottore ordina all’elettore di votare Tizio invece di Caio, o di Sempronio. Ma ora si rischia di deviare dalla riflessione che si propone; che è questa: è giusto, sacrosanto, che il politico sia costantemente sottoposto alla lente di sorveglianza dell’elettore; ed è anche giusto che non possa beneficiare di immunità che lo mettano al riparo da inchieste di un magistrato che indaga sui suoi "affari sporchi". Accadono però fatti, vicende, che fanno pensare; fatti e vicende inquietanti. L’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle, il 2016, per esempio, è caratterizzato da una quantità di flop giudiziari. Vale la pena (letterale), di elencarli, come si sono scansionati, mese per mese: un calendario davvero deprimente e di un certo significato. Gennaio: si registra la Caporetto giudiziaria dell’ex pubblico ministero di Catanzaro (oggi sindaco di Napoli) Luigi De Magistris: assolti tutti i politici imputati nel processo per associazione per delinquere "figlio" della maxi-inchiesta "Why not": presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria. Il tribunale di Napoli annulla, dopo anni, il rinvio a giudizio dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella per presunta associazione a delinquere. L’inchiesta ha provocato la caduta del governo Prodi; per i giudici è viziata da "indeterminatezza della descrizione del fatto". Dopo cinque anni, il Giudice dell’Udienza Preliminare di Catania archivia l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per l’ex senatore Nino Strano. Febbraio: il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, è assolto in appello dall’accusa di abuso d’ufficio nel processo relativo alla costruzione di un termovalorizzatore (assoluzione che verrà confermata dalla Cassazione in settembre). Assolto in Cassazione il senatore Salvatore Margiotta; era accusato di corruzione e turbativa d’asta per degli appalti relativi alla costruzione del centro petrolifero Tempa Rossa in Basilicata. Marzo: assolto Paolo Cocchi, ex sindaco di Barberino ed ex assessore regionale toscano. Nel frattempo ha abbandonato la carriera politica e si è ritirato a vita privata. Aprile: assolti in primo grado tutti i funzionari del ministero dell’Agricoltura accusati tre anni e mezzo prima di aver costituito una "cricca" per la spartizione dei fondi pubblici. Tra gli imputati c’è chi, come Ludovico Gay, ha trascorso 120 giorni in carcere in stato di semi isolamento. A Salerno assolti i sei imputati accusati di aver ordito un complotto per far sì che le inchieste "Why not" e "Poseidone" fossero sottratte a Luigi de Magistris quando questi era Pubblico Ministero di Catanzaro. Maggio: la Corte d’Appello di Palermo conferma l’assoluzione nei confronti dell’ex generale dei carabinieri Mario Mori e del colonnello dei carabinieri Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento aggravato per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. La Corte di Cassazione scrive la parola fine sul processo per l’urbanizzazione dell’area di Castello a Firenze, durato otto anni, annulla la condanna a carico dell’ex patron di Fondiaria Sai, Salvatore Ligresti, e gli altri imputati, tra cui gli ex assessori comunali Gianni Biagi e Graziano Cioni. Giugno: la Corte d’appello di Bologna assolve l’ex presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, dall’accusa di falso ideologico nel processo d’appello bis per il caso "Terremerse". La vicenda, durata sei anni, nell’estate del 2014 aveva portato Errani alle dimissioni da governatore. Luglio: Ilaria Capua, ricercatrice di fama internazionale, deputata, viene prosciolta dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus. Per due anni è stata definita come una pericolosa "trafficante di virus". Sempre a luglio assolto, in uno dei filoni del processo Mafia Capitale, Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Settembre: scagionati dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, in procedimenti separati, il deputato Luigi Cesaro); il senatore Antonio D’Alì, dopo un rito "abbreviato" durato sei anni; e il consigliere regionale Stefano Graziano, che a causa dell’inchiesta si era dimesso da presidente del Pd campano. Vincenzo De Luca incassa una nuova assoluzione, nel processo "Sea Park" per le accuse di associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio. Ottobre: assolto dalle accuse di truffa e peculato l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, assolto insieme ad altre quindici persone dall’accusa di truffa per le cosiddette "spese pazze" in regione. Depositate, dopo un anno, le motivazioni della sentenza con cui l’ex ministro Calogero Mannino è stato assolto nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia: prove "inadeguate" ed "enorme suggestione mediatica". Novembre: Sandro Frisullo, ex vicepresidente della giunta regionale pugliese guidata da Nichi Vendola, viene assolto dopo sei anni dall’accusa di turbativa d’asta per presunti appalti truccati nel settore sanitario. Per questa vicenda ha trascorso cinque mesi in carcere e agli arresti domiciliari. Dicembre: la Cassazione annulla con rinvio la condanna nei confronti dell’ex governatore dell’Abruzzo, Ottaviano Del Turco, per associazione per delinquere nell’inchiesta sulla sanità abruzzese. Tutti questi casi, e gli altri - tanti altri, si può presumere - non ci devono certo deflettere dal sostanziale sentimento di diffidenza che è igienico nutrire nei confronti di chi fa politica. Cautela e prudenza di fronte a chi si presenta con l’intento di voler fare il bene pubblico (e dunque anche il nostro), sono d’obbligo. È tuttavia incontestabile che se dei politici (certi politici), è bene diffidare e stare lontani, di certi magistrati è bene aver timore e a loro volta andrebbero giudicati per quello che fanno (o non fanno). E invece? Era il mese di febbraio 2015. Il presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, modifica una norma sulla responsabilità civile dei magistrati. Trionfante annuncia che finalmente si sblocca l’anomalia, tutta italiana, dell’assenza di conseguenze per i danni provocati dai magistrati che commettono gravi errori giudiziari. Finalmente, assicura Renzi, il magistrato avrebbe pagato per il suo sbaglio, se commesso per dolo o colpa grave e acclarata. Come non esserne soddisfatti? I magistrati a dire il vero, la prendono malissimo. Il loro sindacato parla di "attacco morale alla nostra autonomia". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando promette che la situazione sarà monitorata, in modo che si possa scongiurare che la riforma non comporti un eccesso di intenti punitivi nei confronti della categoria: "Faremo un tagliando", garantisce. Ecco i risultati del "tagliando": nel 2015, settanta ricorsi. Nel 2016, ottanta. Niente, rispetto ai tanti casi di mala-giustizia che si sono consumati. Ma attenzione: si tratta di ricorsi. Per quel che riguarda le condanne: nessuna nel 2015. Una nel 2016. Va da via i ciap, dicono a Milano. I ragazzi che vivono sul filo di Antonio Mattone Il Mattino, 29 gennaio 2017 Cos’è che cambia il destino di una giovane promessa del calcio e lo trasforma in pusher della droga? Cosa è entrato nella testa di Renato Di Giovanni che lo ha risucchiato nel vortice della criminalità per poi essere ucciso per strada come un boss? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta. Renatino, come lo chiamavano i compagni di squadra, avrebbe potuto diventare l’erede di Lorenzo Insigne, il futuro attaccante del Napoli. Nelle foto del suo profilo Facebook lo si può vedere nel pullman della squadra di calcio giovanile con la tuta indosso e le cuffie per ascoltare la musica, come fanno tanti giocatori di calcio. Forse già sognava di diventare un campione e immaginava glorie e goal negli stadi dei grandi club del pallone. Invece la sua giovane vita è stata spezzata dai colpi di una pistola che lo hanno steso sul selciato della strada in modo spietato, peggio dello sgambetto più scorretto che avrebbe potuto immaginare. Così Renato Di Giovanni ha terminato la sua corsa, come Emanuele Sibillo e tanti altri giovani napoletani la cui vita è stata rubata dall’illusione del potere e della violenza della criminalità organizzata. Eppure il giovane talento aveva molte più chance rispetto a tanti altri coetanei, sembrava che la sua grande passione potesse regalargli un futuro diverso. Ma ad un certo punto ha abbandonato i campi di calcio ed ha iniziato a frequentare cattive compagnie. Ci deve essere stato un momento in cui ha traballato, è rimasto in bilico tra due vie. Ha dovuto scegliere se continuare a credere nel suo sogno di poter diventare un giocatore di serie A, magari affrontando duri sacrifici, oppure se intraprendere una strada apparentemente più facile che lo avrebbe portato a scalare la classifica del clan della zona dove viveva. Non possiamo sapere cosa sia passato per la sua mente, ma possiamo immaginare che tanti ragazzi come lui sono tentati dagli stessi dilemmi e si trovino al bivio di scelte difficili. Se tentare la strada di guadagni facili o se mangiare pane e fatica. È come la pallina da tennis quando tocca la rete e resta per un attimo sospesa tra le due parti del campo, quasi indecisa su dove andare. E basta niente per farla tendere da una parte o dall’altra. Saranno gli insegnamenti della famiglia, gli incontri, il percorso scolastico, le compagnie o le opportunità lavorative a concorrere a determinare le scelte di questi giovani? Forse questi elementi saranno decisivi nel far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Il tutto si inserisce in un substrato culturale della società contemporanea tutto incentrato sul successo e sul guadagno facile. C’è da dire anche che questa scelta spesso avviene in un attimo, con la stessa velocità con cui oggi i giovani si relazionano e comunicano con i coetanei e sui social. E questa rapidità fa spesso perdere lucidità e ponderazione. La grande abilità a guidare un motorino può diventare manifestazione di inafferrabilità, il rispetto guadagnato convincimento di invincibilità, il tutto con la suggestione della cocaina che da la sensazione di essere ancora più potenti. La famiglia è certamente è il luogo privilegiato dove si formano le inclinazioni culturali e comportamentali dei giovani. Un detenuto del carcere di Poggioreale mi ha detto: "sai io ho preso il vizio di mio padre, quello di bere, ed ero ubriaco quando ho commesso il reato". Un altro mi ha spiegato che se la famiglia prende le distanze in modo deciso dai camorristi della zona dà un segnale ben preciso, ma se invece, pur essendo lontana da traffici illeciti mostra di essere lusingata dal saluto e dal rispetto che gli viene riservato, trasmette un messaggio di accondiscendenza che diventa ambiguo. Certo questo non esaurisce il rischio di devianza. Per i ragazzi di oggi è facile cadere nelle maglie della criminalità anche se incontrano qualcuno che li guidi o se hanno delle opportunità straordinarie. Pochi giorni fa mi è arrivata una lettera dal carcere di un giovane che è molto tifoso del Napoli su cui avevo perso le speranze che cambiasse strada. Mi ha scritto: "una volta che finisco la pena la palla passa a me, come mi hai ripetuto tante volte tu". La porta girevole del destino si può sempre fermare segnando il goal della vita. Milano: l’allarme del procuratore generale "giustizia ormai al collasso" Corriere della Sera, 29 gennaio 2017 Il monito nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del procuratore Roberto Alfonso. "Serve un intervento urgente del governo". La giustizia è "al collasso". L’allarme è stato lanciato dal procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, nell’ambito della sua relazione per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Alfonso, pur "apprezzando davvero gli sforzi del ministro della Giustizia, ha sottolineato con preoccupazione che così stando le cose, l’amministrazione della giustizia resta al collasso" per le "vacanze degli organici del personale amministrativo". "Invochiamo - ha detto il Pg - un intervento urgente e serio del governo affinché esso adotti tutti i provvedimenti necessari per il buon funzionamento della giustizia". Per poi aggiungere: "Non si può non osservare che, a fronte di una crisi ormai cronica della giustizia, tutto ciò che rimane è un bando di concorso per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari". Ossia, ha precisato, "meno del 10 per cento delle vacanze degli organici del personale amministrativo". E "così stando le cose - ha aggiunto ancora - l’amministrazione della giustizia resta al collasso". Il mancato "adempimento - ha spiegato Alfonso - agli obblighi imposti al ministro della Giustizia dall’art. 110 Costituzione (in cui si dice che spetta al ministro "l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia", ndr) non consente al sistema di rispondere adeguatamente alle esigenze del cittadino; rallenta le aspettative delle imprese; non rende competitivo il Paese; non consente di uniformarsi al dettato costituzionale della ragionevole durata del processo; rende difficoltoso il rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per l’inadeguatezza delle risorse". "Gravi infiltrazioni mafiose" - Nella sua relazione Alfonso ha anche toccato il tema della criminalità organizzata, facendo riferimento, in particolare, alla recente inchiesta della Dda milanese su Fiera Milano. Le infiltrazioni di una "organizzazione criminale", che avrebbe agito per "agevolare l’associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra", nei lavori di Fiera Milano spa sono un fatto assai grave per la città di Milano". Il riferimento del Pg milanese è all’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Paolo Storari, che lo scorso luglio ha portato all’arresto di 11 persone, tra cui Giuseppe Nastasi, ritenuto vicino all’entourage del superlatitante Matteo Messina Denaro e che con il suo consorzio Dominus si è accaparrato 18 milioni di euro di lavori in Fiera, anche per alcuni padiglioni Expo. Nel frattempo, tra l’altro, il Tribunale milanese ha commissariato Nolostand, controllata di Fiera, e il settore allestimento stand del gruppo e venerdì ha ampliato anche i poteri dell’amministratore giudiziario in altri settori. Nella sua relazione il Pg ha dedicato un capitolo alla "criminalità organizzata nel distretto di Milano", segnalando anche che nel caso di una cosca di `ndrangheta operante a Lecco, come documentato da un’altra indagine della Dda, i clan hanno fatto "ricorso all’attività corruttiva per condizionare atti dell’amministrazione comunale". Metodo corruttivo che, a detta del Pg, "non è una rinuncia al tradizionale metodo mafioso ma è una modalità di esso più raffinata". I giovani magistrati - "Non è lungimirante mantenere un sistema che consente l’accesso in magistratura all’età media di trenta anni, ossia superiore di molti anni rispetto al passato. Ciò è servito soltanto ad allontanare dalla magistratura giovani brillanti che hanno preferito indirizzarsi verso altre professioni piuttosto che aspettare il concorso per accedere in magistratura", ha aggiunto Roberto Alfonso. Il quale critica il "sistema vigente" e lo ha bocciato in quanto "esclude dalla magistratura quei giovani che provengono da famiglie non abbienti, che non possono permettersi di attendere mediamente cinque anni prima di entrare in magistratura. Tutto ciò non è accettabile perché costituisce una discriminazione dal punto di vista sociale ed economico". La lotta al terrorismo - "Negli ultimi due anni, dopo la proclamazione del cosiddetto "stato islamico", sono state svolte indagini complesse e rilevanti su tale organizzazione terroristica, con risultati molto positivi", ha poi aggiunto nella sua relazione. Il Pg ha parlato di "investigazioni estremamente complesse sull’organizzazione terroristica sovranazionale cosiddetto "stato islamico" nell’ultimo anno ed ha ricordato che "sono state chiuse alcune indagini svolte nel periodo precedente". "Garantito funzionamento dignitoso" - Malgrado "la situazione di disagevole, estrema difficoltà in cui versano gli uffici giudiziari del distretto a causa delle persistenti, anzi aggravate, vacanze di organico", a Milano "è stato garantito il funzionamento dignitoso dell’attività giudiziaria", ha sottolineato Roberto Alfonso. "Dai dati "acquisiti - ha proseguito Alfonso - emerge che nel periodo considerato, il numero dei procedimenti definiti nelle varie fasi non è distante da quello degli anni precedenti benché vi sia stata una notevole riduzione di risorse". Il Pg, dunque, come il presidente della Corte d’Appello milanese, Marina Tavassi, ha sottolineato "l’apprezzabile risultato registrato" che va ascritto "esclusivamente al merito, all’impegno e al sacrificio dei magistrati, del personale amministrativo e della polizia giudiziaria". Tavassi: "Gravissima scopertura degli organici" - Sulla situazione dell’amministrazione giudiziaria è intervenuta anche la presidente della Corte d’Appello di Milano Marina Anna Tavassi, che nella sua relazione ha spiegato come nonostante la "gravissima scopertura degli organici" "le performance sono migliorate in modo generalizzato" e sono stati "pienamente raggiunti gli obiettivi che ci si era prefissati". Tavassi ha sottolineato che la carenza di personale ha "punte che hanno raggiunto il 37% e anche il 40" ma che a fronte di ciò si è riusciti a recuperare l’arretrato, il controllo delle giacenze, la riduzione "dei tempi di durata, di tenuta nei gradi superiori di giudizio" ponendo il distretto milanese in linea con "le sedi giudiziarie più virtuose" in Europa. Tutto ciò - si legge nelle conclusioni del suo discorso - rischia di essere compromesso "laddove non si provveda in tempi rapidi ad adeguati interventi di copertura degli organici del personale di magistratura" e amministrativo. La replica del ministro Orlando - Sulla scopertura degli organici che ha messo "in serio pericolo la tenuta del sistema" giudiziario "oggi la tendenza è invertita", ha risposto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, durante il suo intervento all’inaugurazione del distretto di Milano. Il ministro, replicando alle denunce e lamentele dei vertici degli uffici milanesi e non solo, ha spiegato che "1.820 sono le immissioni previste entro marzo", 1.600 i dipendenti già arruolati e 3.300 le assunzioni ordinarie "che si aggiungeranno nel giro di un anno. Il totale - ha precisato - supera le 5.100 unità. Ciò comporterà l’ingresso nei ranghi dell’amministrazione di risorse giovani". Inoltre, il Guardasigilli ha precisato, tra l’altro, che 4 mila è il numero di stagisti e tirocinanti già operanti negli uffici giudiziari. "Credo che sia possibile riconoscere in questi numeri - ha concluso - una decisa e significativa inversione di marcia rispetto al passato". Infine, ha ricordato che l’organico della magistratura ha visto nell’ultimo triennio l’ingresso di 1.100 unità. "È un’insidia che i singoli soggetti della giurisdizione reagiscano alle difficoltà ripiegando in una dimensione corporativa, tentando di salvaguardare le proprie ragioni attraverso la delegittimazione di quelle degli altri e la finale delegittimazione di tutto il sistema", ha poi concluso Orlando. L’affondo di Davigo - Quindi è intervenuto il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo: "Io certamente non voglio essere ricordato come il presidente dell’Anm che ha abdicato sulla difesa dell’indipendenza della magistratura, signor ministro spero che lei non voglia essere ricordato come quello che ha provato a violarla", ha detto, tornando sulla questione dell’età pensionabile delle toghe. Davigo, che è stato anche applaudito nel suo intervento nell’aula magna del Tribunale di Milano, dopo aver spiegato di essere emozionato per essere tornato "in quella che è stata la mia casa per 25 anni", ha parlato della "sofferenza" per la sua non partecipazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. "Ma quando sono in discussione principi - ha chiarito il presidente dell’Anm - non si media". L’ex pm del pool Mani Pulite, infatti, ha ricordato che "il governo ha mandato a casa 450 magistrati con lo slogan "Largo ai giovani"", senza prevedere "un’adeguata temporizzazione" delle uscite, ma poi ha fatto "prima una proroga per gli uffici direttivi e poi un’altra proroga". Con questi interventi, a detta di Davigo, in pratica "il governo decide chi fa il giudice e l’Anm ha deciso di non accettare questo. I magistrati prorogati sono di sicuro i migliori, ma se passa il principio che il governo può scegliere in futuro potrebbe scegliere i peggiori". E poi si è rivolto direttamente al ministro Orlando, prima dicendo che il Guardasigilli nel suo intervento "ha volato alto e l’ho apprezzato, ma mi sarei aspettato anche un colpo d’ala", e poi ripetendo: "Signor ministro spero che lei non voglia essere ricordato come quello che ha provato a violarla (l’indipendenza della magistratura, ndr)". Modena: niente 41bis al Sant’Anna, il Sindaco Muzzarelli ringrazia il ministro modenatoday.it, 29 gennaio 2017 Muzzarelli soddisfatto per la decisione del Guardasigilli Orlando, per aver ufficialmente e rapidamente sgomberato il campo dall’ipotesi di una sezione di carcere duro al Sant’Anna. Soddisfazione per la conferma che al Carcere S. Anna di Modena non arriveranno i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ad esprimerla è il sindaco Gian Carlo Muzzarelli che ha ringraziato il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando per aver ufficialmente e rapidamente sgomberato il campo all’ipotesi e il senatore Vaccari per aver sollevato il problema. Rassicurazioni in tal senso erano già giunte dal sottosegretario Gennaro Migliore che, in occasione della visita alla Casa circondariale Sant’Anna dei giorni scorsi, aveva anche incontrato il sindaco Muzzarelli in Municipio. La conferma ora arriva dallo stesso ministro che ha anticipato al senatore modenese la risposta all’interrogazione che questi aveva presentato. Il ministro ha escluso che il Sant’Anna rientri tra le strutture destinate a detenuti in regime di carcere duro nell’ambito di un intervento di riconversione che privilegerà quelle dotate delle caratteristiche necessarie ad assicurare la piena esecuzione delle prescrizioni restrittive. Ivrea (To): il capo delle carceri ordina "chiudete le celle punitive" di Jacopo Ricca La Repubblica, 29 gennaio 2017 Svolta dopo i pestaggi di ottobre denunciati da alcuni detenuti. Le due celle del carcere di Ivrea luogo dei pestaggi di fine ottobre vanno chiuse. A dirlo non è un’associazione per i diritti dei detenuti, ma Santi Consolo, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che, alcuni giorni fa, ha inviato alla direttrice delle Casa circondariale di Ivrea, Assuntina Di Rienzo, una lettera dove si chiede di "inibire l’uso della stanza detentiva denominata cella liscia nel riparto di isolamento e di interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche". La ricostruzione del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e la relazione degli ispettori del ministero di Giustizia avrebbero confermato che lì, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, si sarebbero praticate le violenze su almeno un paio di detenuti, denunciate da un altro compagno di cella, e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Dopo aver letto la relazione sulla visita dell’avvocata torinese Emilia Rossi, che fa parte del collegio del Garante Nazionale, fatta a dicembre insieme all’omologo regionale, Bruno Mellano, il garante Palma ha preso carta e penna e scritto a Consolo: "Una stanza vuota di ogni elemento d’arredo, priva di passaggi per la circolazione dell’aria e di impianto di riscaldamento, senza sufficienti passaggi di luce naturale, non può essere adibita ad ospitare le persone, soprattutto se chiusa, nemmeno per tempi molto contenuti, salvo violazione evidente di tutti i parametri dettati dalla Carta europea dei diritti dell’uomo". Nella prima delle due stanze, ora chiuse, sarebbe stata messa una delle due persone prese da agli agenti di polizia penitenziaria durante le proteste di quella notte, mentre nella seconda, da tutti chiamata acquario, stando alla ricostruzione di Palma, era finita l’altra vittima dei pestaggi. "La cella di attesa del vicino locale di infermeria è priva di ogni arredo" e il referente sanitario del carcere, durante la visita di Rossi e Mellano, ha confermato che lì "le persone vengono chiuse anche per ore e che ne viene fatto uso come di una cella di contenimento". Palma ha raccomandato di interrompere l’uso di entrambe le celle e ora è arrivata la risposta del Dap: "Non possono essere usate fino a che non saranno ristrutturate". La direttrice Di Rienzo si era già impegnata a intervenire e mettere a norma quelle stanze, ma finora non è stato fatto nulla e per questo è arrivato lo stop del Dipartimento. Nella lunga relazione del Garante si conferma, insomma, che qualcosa di anomalo è avvenuto in quella notte di ottobre e gli atti sono stati inviati anche al procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando, che ha aperto un fascicolo per ora contro ignoti. "Siamo contenti che intanto si intervenga per mettere fine a una situazione che rischia di creare tensione - commenta il garante regionale Mellano - Sia io che il mio collega della Città di Ivrea Michelizza siamo molto attenti a quanto succede in quel carcere e verificheremo che le prescrizioni del Dap siano accolte". Tra un paio di settimane la Commissione legalità del Consiglio regionale farà un’audizione con Mellano per parlare di rispetto delle regole nelle carceri piemontesi, proprio a partire dal caso Ivrea. Ivrea (To): situazione carcere, M5S chiede apertura di un dibattito in Consiglio regionale quotidianocanavese.it, 29 gennaio 2017 Il Movimento 5 Stelle chiede l’apertura in Consiglio Regionale di un dibattito sulle condizioni detentive nel carcere di Ivrea. "Il rapporto del Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale sulle condizioni del penitenziario di Ivrea conferma i dubbi in merito alle numerose carenze igieniche e strutturali del carcere che ho riscontrato in prima persona". Lo afferma Francesca Frediani, Consigliere regionale M5S Piemonte. "Ho visitato il carcere il 2 novembre dopo aver letto la denuncia di un detenuto, pubblicata su un sito web, in merito a presunti pestaggi verificatisi nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016. La direttrice mi ha consentito di incontrare alcuni dei detenuti coinvolti che hanno affermato di esser stati ammanettati, di aver subito pestaggi e di esser stati sistemati per due ore, senza vestiti, in un locale soprannominato "l’acquario", situato al primo piano dell’istituto penitenziario. Nel corso del colloquio i detenuti hanno mostrato ecchimosi e contusioni sul volto e sul corpo. I fatti sono stati confermati da altri due detenuti che quella sera erano presenti nella sezione (pur non essendo stati coinvolti direttamente nelle vicende)". L’esistenza di un video, inizialmente confermata dalla direttrice, è stata successivamente negata. Pare infatti che nella struttura non ci siano telecamere funzionanti. "Attendiamo che la magistratura faccia chiarezza in merito ai fatti di ottobre, ma nel frattempo chiediamo che si possa aprire in Consiglio Regionale un dibattito sulle condizioni detentive nel carcere di Ivrea e di tutti i penitenziari piemontesi, sulle possibili soluzioni, coinvolgendo anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte Bruno Mellano". Catanzaro: Moretti (Radicali) "nel distretto 4 carceri su 7 sono sovraffollate" emilioquintieri.com, 29 gennaio 2017 Intervento di Valentina Anna Moretti, esponente radicale calabrese, alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario presso la Corte di Appello di Catanzaro. La Moretti, accompagnata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, è stata espressamente delegata ad intervenire da Riccardo Magi e Michele Capano, Segretario e Tesoriere Nazionale del Movimento Radicale. Alla manifestazione, presieduta dal Presidente della Corte di Appello di Catanzaro Domenico Introcaso, c’erano tutti i Magistrati Requirenti e Giudicanti del Distretto, il rappresentante del Ministero della Giustizia, del Consiglio Superiore della Magistratura, dell’Ordine degli Avvocati, del Consiglio Nazionale Forense, dell’Associazione Nazionale Magistrati nonché dei Radicali Italiani, Forza Politica che da tanti si occupa principalmente dei problemi della Giustizia e delle Carceri. C’erano anche numerose Autorità Politiche, Civili, Militari e Religiose. Ancora una volta, come avviene ormai da decenni, l’Anno Giudiziario, è inaugurato nel segno e nel contesto di un’emergenza, anzi di più "emergenze": emergenza mafia, emergenza corruzione, emergenza terrorismo. Mi chiedo se questa giustizia, ha detto la Moretti, possa essere considerata "giustizia" e se sia compatibile con i principi fondamentali cui essa deve essere improntata nei Paesi civili come l’Italia. Non sarà qui ed ora che potrà darsi una risposta d’ordine generale. Ma è impossibile, se non si vuole che questo diventi uno squallido rituale, magari anche un pochetto ridicolo, non interrogarci sul fatto che stanno tragicamente venendo al pettine i nodi rappresentati da questa "devianza" della giustizia. Uno di quelli che ormai sono diventati scandalosi è quello del "sistema" dei pentiti, perché di un complesso sistema si tratta, che costituisce l’architrave di ogni prova non solo in materia di criminalità organizzata. Hanno creato un loro mondo, una loro "verità", si sostengono e si "ispirano" reciprocamente. Ogni tanto clamorosi casi di falsità, evidenti manifestazioni di "pentimenti" strumentali, lasciano intravedere le magagne del problema. Ma a tutti si risponde che i pentiti sono "essenziali" per la "lotta" alla criminalità organizzata. E tutto ciò "supera" il problema dell’affidabilità delle loro dichiarazioni, prosegue l’esponente radicale. Ma quante sentenze sono viziate, false, ingiuste, perché fondate su dichiarazioni di pentiti che saranno pure risultati "essenziali" per la lotta, ma non altrettanto per la certezza delle accuse fondate sulle loro "rivelazioni"? È in corso un sempre più marcato e frequente ricorso a norme di legge "alla giornata", spesso al di fuori e contro il sistema complessivo del diritto, per soddisfare sentimenti e reazioni della pubblica opinione, in ordine a particolari in sé non essenziali dei comportamenti considerati. L’uso di qualche termine straniero, entrato nel linguaggio usuale da un sistema giuridico totalmente diverso dal nostro, completa il quadro di uno sfascio del sistema. La proporzionalità delle pene secondo la gravità effettiva del delitto è stata compromessa e rovinata dall’esigenza di adattare le leggi penali alla contingenza di momenti di allarme e di esecrazione per certi reati. E qui si deve dire chiaramente che la "giustizia di lotta", per "campagne", di volta in volta contro questa o quella forma di criminalità, oltre a determinare pregiudizi e deformazioni delle valutazioni delle prove necessarie per applicare le norme repressive, finisce per portare alla disgregazione ed allo sfascio dell’armonia degli ordinamenti giuridici. Infine, l’attenzione di Valentina Anna Moretti, laureanda in giurisprudenza all’Università della Calabria e membro della Delegazione Radicale visitante gli Istituti Penitenziari della Calabria, si è focalizzata sulla situazione penitenziaria del Distretto di Catanzaro. Com’è noto, come Radicali, ci siamo sempre occupati del "Pianeta Carcere" e continuiamo ad occuparcene con grande impegno, anche con frequenti visite a tutti gli Istituti, grazie all’autorizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria che intendo, pubblicamente, ringraziare anche in questa sede. In questo Distretto Giudiziario vi sono 7 Istituti Penitenziari (6 Case Circondariali ed 1 Casa di Reclusione). Oltre la metà (4 su 7) continuano ad essere sovraffollati. A Paola l’indice di affollamento è del 130%, a Cosenza del 129%, a Crotone del 107% ed a Rossano del 104%. Manca il personale di Polizia Penitenziaria ed in particolare i Funzionari ed i Sottufficiali (8 Commissari, 41 Ispettori, 69 Sovrintendenti). Mancano i Funzionari Giuridico Pedagogici ed anche quelli del Servizio Sociale. Manca, addirittura, ha tuonato la delegata di Radicali Italiani, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria. È dal 2010 che non è stato più nominato, in pianta stabile, nessun Dirigente Generale per la nostra Regione. Venezia: a Santa Maria Maggiore 80 detenuti oltre il limite di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 29 gennaio 2017 Tensioni sempre più accese nel carcere maschile, in un anno otto tentati suicidi. Mancano braccialetti elettronici, compensi irrisori per gli interpreti. Svuotare le carceri sovraffollate ricorrendo al "braccialetto elettronico"? Lo prevede la legge dal lontano 2013, ma solo sulla carta: "La richiesta dei magistrati sulla disponibilità degli strumenti elettronici di controllo rimane di solito senza risposta". Così, anche dare a un imputato straniero un interprete è un diritto, stabilito dal decreto 129/2014, ma anche qui bisogna fare i conti con i mille guai del quotidiano: "Normativa di per sé condivisibile e necessaria, che si scontra con le difficoltà degli uffici di repererire gli interpreti, a volte perché la lingua o più spesso il dialetto parlato dall’imputato è poco diffuso, più spesso a causa dell’irrisorietà dei compensi e il ritardo, anche di anni delle liquidazioni". La legge impone gli interpreti, ma poi l’Erario non li paga. Toghe rosse, divise da parata: nella sede della Corte di Appello del Veneto si è riproposta la curiosa formalità che accompagna l’apertura dell’anno giudiziario. Molti i dati che preoccupano, come la mole di nuovi ricorsi dei clienti raggirati dalle banche e dei migranti che chiedono lo status di rifugiati, che si riversano su uffici già oberati di fascicoli. La giustizia veneziana: dati e difficoltà Paradossi. Interpreti sotto pagati o imputati che parlano dialetti sconosciuti, controllo elettronico dei detenuti che esiste solo sulla carta, sono due dei tanti paradossi raccontati - pur con toni formali - nella relazione di accompagnamento all’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, a firma dell’ex presidente della Corte d’Appello Antonino Mazzeo Rinaldi, su dati forniti dalla presidente del Tribunale di Venezia Manuela Farini. Vere e proprie emergenze quotidiane per uffici sommersi da una mole immensa di procedimenti, con la responsabilità di avere la vita e la libertà delle persone tra le mani. I dati. La vita della giustizia penale degli uffici veneziani - e quella dei cittadini coinvolti nelle cause, come imputati o vittime - è scandita dalla pressione di un macigno di 25.544 procedimenti pendenti in Procura, nonostante la mole di lavoro che nell’ultimo anno ha di fatto pareggiato le cause nuove in entrata con quelle vecchie in uscita (16 mila) ed ha visto il Tribunale di Venezia impegnato in un superlavoro che a fronte di 10 mila pendenze e 11 mila procedimenti definiti, con un saldo finale di 7.373 fascicoli a ora a giudizio. Carcere e suicidi. Meno che nel passato, ma sempre sovraffollato. È la grave quotidianità del carcere di Santa Maria Maggiore, dove si contano 224 detenuti laddove dovrebbero stare in 144 (con punte anche di 237). Una situazione aggravata da tensioni sempre più accese: nell’ultimo anno si sono registrati otto tentativi di suicidio (per fortuna sventato dall’intervento degli agenti penitenziari) e 55 atti di autolesionismo. Decisamente migliore la situazione alla casa di reclusione femminile di Venezia, dove le detenute sono 63 a fronte di 122 posti disponibili nelle celle. Anche qui, comunque, il personale di custodia è intervenuto per sventare un tentativo di suicidio e soccorrere due donne per ferite auto inflitte. I buchi neri. Se da una parte la norma prevede una nuova serie di istituti per liberare le carceri, pur contemplando la pena, dall’altra mancano gli strumenti. Così come per il braccialetto elettronico, la presidente del tribunale veneziano Farini, rileva come siano sì aumentati gli "affidamenti in prova" (passati da 21 a 39), rilevando gli effetti positivi di questi istituti, ma lamenta il ritardo (di mesi se non di anni) con coi l’Uepe, il cui organico è rimasto immutato, provvede alla trasmissione del programma". Tempi lunghi e risarcimenti. Le statistiche veneziane registrano anche un’impennata nel numero delle cause di risarcimento presentate in nome della Legge Pinto, che tutela chi abbia subito i tempi lunghi della giustizia, con un’ "irragionevole durata del giudizio": se nel 2014 erano state 97, nel 2015 sono salite a 99 e nel 2016 moltiplicate a 245. Belluno: nel carcere di "massima sicurezza" un suicidio e due tentati di Lauredana Marsiglia Il Gazzettino, 29 gennaio 2017 Un suicidio, su un totale di tre avvenuti nelle carceri venete, due tentativi e venti atti di autolesionismo sono i numeri della disperazione nel carcere di Belluno registrati nel periodo luglio 2015 - giugno 2016. Il dato emerge dalla relazione annuale di apertura dell’anno giudiziario, sottolineando il dramma del sovraffollamento nelle carceri italiane, anche se, secondo i dati più recenti, si registra una tendenza alla diminuzione. Il carcere di Belluno, considerato di massima sicurezza, ha una capienza regolamentare di 89 posti che può salire fino ad un massimo di 134. Nel corso dell’anno in analisi le presenze medie sono state di 80 unità, con una dato di 91 al 30 giugno 2016. Numeri che segnalano una condizione migliore di altre carceri dove le presenze medie sono sempre state al di sopra della capienza regolamentare. Eppure, ciò nonostante, Belluno ha registrato un suicidio contro i due di Verona, per un totale complessivo di tre che si associa ai 37 tentati suicidi, cifre fortunatamente scese rispetto all’anno precedente (4 suicidi e 55 tentati). Sono saliti invece, complessivamente, gli atti autolesionismo, passati da 249 a 318 di cui 20 a Belluno. Un contribuito anti-sovraffollamento è arrivato anche dall’istituzione nel carcere bellunese di un’apposita sezione per seminfermi di mente e dall’apertura di una nuova casa circondariale a Rovigo e di un nuovo padiglione a Vicenza. Complessivamente, nei nove penitenziari veneti ci sono 2.136 detenuti di cui 1.160 stranieri e 113 donne. Bologna: il Pg De Francisci "gli stranieri preferiscono le carceri italiane" bolognatoday.it, 29 gennaio 2017 Il fenomeno del "turismo della detenzione" è riconosciuto anche dal capo delle toghe bolognesi Amato e dal Questore, Ignazio Coccia. Il procuratore d’Appello: "Galere italiane invivibili? Una campagna giornalistica". Pene meno severe e carceri non davvero invivibili. E così molti criminali, soprattutto dell’est Europa, preferiscono farsi incriminare in Italia. A dirlo è Ignazio De Francisci, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bologna, oggi all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Emilia-Romagna. "Agli occhi della criminalità dell’est Europa - incalza De Francisci - la commissione di delitti in Italia è operazione più lucrosa e meno rischiosa che in patria. E alle loro carceri sono preferibili le nostre". A questo proposito, il procuratore cita le "frequenti campagne giornalistiche" sulle pessime condizioni di vita dietro le sbarre. Ma se le carceri italiane "fossero talmente invivibili come vengono descritte rispetto a quelle di altri Paesi europei - sottolinea De Francisci - gli stranieri non preferirebbero eseguire le pene qui. Anche se di questo nessuno parla". Il Procuratore spiega che "accade sempre più di frequente che questi individui, spesso di origine rumena, chiedano di scontare in Italia non solo le pene inflitte dai nostri giudici, ma anche quelle inflitte all’estero, non ancora scontate e per le quali magari sono ricercati con mandato d’arresto europeo". Secondo il procuratore, la scelta è legata alle "differenze di trattamento, regime penitenziario e benefici ottenibili da noi in sede di esecuzione". De Francisci cita ad esempio la liberazione anticipata, non prevista in Romania, e l’indulto. "Il vantaggio di una esecuzione penale in Italia è evidente - insiste il procuratore - con il risultato che le persone sfruttano la legislazione europea, nata per altri fini, come un’occasione per farsi ridurre la pena o comunque per ottenere benefici che nei loro Paesi non avrebbero". Il fenomeno dei criminali che dall’est Europa scelgono di scontare la pena in Italia per il trattamento "favorevole" che ottengono "ha una sua rilevanza" ed è anche un "problema per l’amministrazione penitenziaria, perché ovviamente la capienza delle carceri ne subisce un pregiudizio". Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, condivide l’allarme lanciato oggi da De Francisci, e parla di un fenomeno di cui "anche noi abbiamo contezza. Insomma, anche per Amato "è un fenomeno che ha una sua rilevanza" ed è "un problema per l’amministrazione penitenziaria, perché ovviamente la capienza delle carceri ne subisce un pregiudizio". A confermare la situazione è anche il questore di Bologna, Ignazio Coccia. "È un dato oggettivo- afferma, al termine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario- quello che riferisce il procuratore è un dato di cui siamo perfettamente a conoscenza. Poi, le valutazioni non spettano a me". Nuoro: il consiglio comunale a Badu e Carros di Valeria Gianoglio La Nuova Sardegna, 29 gennaio 2017 La relazione del Garante Gianfranco Oppo: "Vengano intensificate le politiche di inserimento lavorativo dei detenuti". Alle 14.40, i primi consiglieri comunali si affacciano con le loro auto su viale Badu e Carros, abbandonano computer e telefonini, e si incamminano verso l’ingresso del carcere. Qualcuno di loro, quando il penitenziario è entrato in funzione, agli inizi degli anni 70, non era ancora nato. Ma quella di ieri, al di là di tutto, è stata una giornata storica per il carcere nuorese: per la prima volta da quando è stato costruito e da quando ha accolto tra le sue celle migliaia di detenuti, Badu e Carros ha ospitato anche una seduta del consiglio comunale. Una seduta sollecitata dal presidente del consiglio comunale, Fabrizio Beccu, e dal sapore decisamente speciale, tra l’altro, visto che era stata fissata soprattutto per ascoltare la relazione finale del garante dei detenuti, Gianfranco Oppo. E così, poco dopo le 15 di ieri, alla presenza dei consiglieri comunali nuoresi, l’esperto sociologo nuorese ha raccontato l’anno che si è appena chiuso della sua esperienza come garante dei detenuti, tra luci, ombre e tante speranze e progetti per il futuro. L’incarico di Oppo è scaduto lo scorso 31 dicembre ma l’esperto e noto sociologo nuorese si ricandida per svolgere quell’incarico delicato per altri cinque anni. A breve ci sarà dunque la nuova nomina, che spetta al sindaco, dopo aver sentito la commissione Servizi sociali. Ma ieri, intanto, per il garante è stato tempo di bilanci. Nella sua relazione finale Oppo ha toccato diverse questioni e una delle prima è quella legata alla struttura-carcere. "Presenta ancora molte carenze - ha spiegato il garante - il braccio nuovo del carcere, ad esempio, non si sa quando verrà aperto. E poi c’è la situazione della sezione dei detenuti comuni: è vecchissima, avrebbe bisogno di diversi interventi". Proprio a causa di queste carenze strutturali, infatti, 105 posti non sono disponibili. Attualmente Badu e Carros ospita 167 detenuti, in base alle tabelle ministeriali ne potrebbe però accogliere 218, se non fosse che le lacune strutturali di fatto rendano non disponibili più di un centinaio di posti. Ma il tema centrale della relazione del garante e del consiglio comunale in carcere di ieri, è stato sicuramente l’aspetto legato al reinserimento lavorativo dei detenuti, dopo che hanno scontato la pena. "Bisogna velocizzare il processo di reinserimento dei detenuti - ha chiesto Oppo - attualmente ha tempi ancora troppo lunghi. Per farlo servirebbe più personale che se ne occupi. Al Comune chiediamo che vengano intensificate le politiche di inserimento lavorativo, chiediamo che venga valorizzata l’attenzione al mondo del carcere. Badu e Carros fa parte della città, e le membrane tra la città a Badu e Carros devono essere sempre più permeabili. Nessuno si può dimenticare che dentro ci sono tante vite umane che si consumano". Palermo: il Presidente della Corte d’appello "la prescrizione salva i colletti bianchi" di Salvo Palazzolo La Repubblica, 29 gennaio 2017 "La corruzione è una vera e propria emergenza nazionale. E la prescrizione è di fatto l’esito processuale più frequente". È un grido d’allarme quello lanciato dal presidente reggente della corte d’appello di Palermo, Matteo Frasca, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che si celebrerà oggi. A Palermo, "il numero dei reati che vengono dichiarati estinti per prescrizione ha subito un consistente aumento: 4.235 contro i 3.261 del periodo precedente". Dati nella media nazionale, precisa la relazione di Frasca, ma non c’è da stare allegri. Perché a Palermo la prescrizione è sintomo del malessere di una giustizia con pesanti vuoti in organico (di magistrati e personale amministrativo). E non solo. "Per il grado di appello - scrive Matteo Frasca - fattore determinante è stato sovente il ritardo nel deposito della sentenza o nella trasmissione del fascicolo del primo giudice". Un atto d’accusa contro le zone d’ombra che ancora restano nel sistema giustizia. A trarne beneficio, sono soprattutto i colletti bianchi accusati di aver intascato mazzette. In Sicilia, dice anche questo il presidente Frasca, "l’omertà è forse ancora più marcata che nelle vicende di mafia". La conseguenza è inevitabile: "La già ardua scoperta degli episodi di corruzione spesso avviene a distanza di anni dalla loro consumazione, quasi sempre proprio alle soglie della prescrizione, che prima o poi arriva e finisce per garantire l’impunità ai corrotti". Il presidente reggente della corte d’appello invita a guardare "l’esiguo numero di detenuti per corruzione in espiazione di pena per rendersi conto di come la sanzione penale non abbia alcuna efficacia deterrente". Ecco la proposta che arriva da Palermo: "Va ancora una volta ribadito che i termini di prescrizione dovrebbero decorrere ex novo ad ogni passaggio processuale, senza limiti temporali massimi". La procura diretta da Francesco Lo Voi è impegnata in diverse complesse indagini per cercare di svelare i segreti dei colletti bianchi che intascano mazzette. In questa zona grigia di relazioni, l’osservazione non è certo facile. "Il dato più significativo - dice la relazione della procura inviata alla corte d’appello - è rappresentato dalla permanente e molto attiva opera di infiltrazione da parte di Cosa nostra in ogni settore dell’attività economica e finanziaria che consenta il fruttuoso reinvestimento dei proventi illeciti, oltre che nei meccanismi di funzionamento della pubblica amministrazione, in particolare nell’ambito degli enti locali". C’è un altro dato che spicca: il boom di truffe sui contributi statali ed europei. Nell’ultimo anno, è stata registrata "una preoccupante ascesa - questo viene rilevato nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario - da 53 a 113" reati accertati. Fra il 2013 e il 2014, ne erano stati scoperti 159 nel distretto della corte d’appello. Eppure, guardando solo i numeri, sono in calo i reati contro la pubblica amministrazione: sono passati da 3.338 a 3.167, con un decremento percentuale del 5 per cento, che arriva addirittura a 22 per cento se si analizza il reato di corruzione (le denunce sono passate da 45 a 35). Ma la media non deve ingannare, perché il trend a Palermo, Sciacca e Trapani è comunque in ascesa. Scrive ancora Matteo Frasca: "Emerge un crescente, desolante quadro di illegalità diffusa ed in espansione, tanto nelle modalità di esercizio di pubbliche funzioni, nella gestione della cosa pubblica e nell’impiego delle risorse ad essa assegnate, quanto nei rapporti dei singoli cittadini con la pubblica amministrazione e nella fruizione, spesso indebita e fraudolenta, di prestazioni economiche e servizi da parte di pubbliche strutture". È il vero orizzonte di impegno per la magistratura. Mentre la mafia tradizionale, quella che vive in simbiosi col territorio, è ancora forte. È un altro capitolo dell’analisi di Matteo Frasca: "Cosa nostra sul territorio rimane diffusa e pervasiva ed è stata tuttora in grado, quando ne ha ritenuto la necessità, di portare a compimento azioni violente ed efferate per affermare la propria supremazia ed alimentare il flusso di proventi illeciti". Il pizzo e la droga sono i due canali di finanziamento delle famiglie. Augusta (Sr): donati generi per l’igiene personale e libri ai detenuti lagazzettaaugustana.it, 29 gennaio 2017 Numerose donazioni sono state ricevute dalla Casa di reclusione di Augusta grazie all’iniziativa promossa a partire da novembre dalla confraternita Maria SS. Odigitria e Giuseppe Carrabino, già presidente della Commissione comunale di Storia patria di Augusta. Si va da generi per l’igiene personale a favore di detenuti indigenti a volumi per la biblioteca dell’istituto di pena. In particolare, libri sulla città di Augusta, per consentire alla popolazione detenuta, che si interfaccia quotidianamente con la città in numerose iniziative interne ed esterne, di conoscerne la storia e le radici e di impiegare parte del tempo in letture sul territorio. La donazione è stata preceduta da un incontro presso gli uffici di direzione fra il direttore della Casa di reclusione Antonio Gelardi, il governatore della confraternita Antonino Arena e Giuseppe Carrabino. Carrabino, durante la presidenza della Commissione di storia patria, aveva già collaborato con l’istituto penitenziario in numerosi progetti, fra cui quello denominato "Ritorno al Castello Svevo", momento di riapertura alla cittadinanza del maniero federiciano. Il direttore della Casa di reclusione ha ringraziato a nome della popolazione detenuta i promotori dell’iniziativa e coloro che hanno donato, plaudendo alla attività sussidiaria svolta dalla comunità esterna. Airola (Bn): all’Ipm partita di beneficenza tra l’Asd "Ciro Vive" e i giovani detenuti napolitan.it, 29 gennaio 2017 Continua l’impegno sociale dell’Associazione Ciro Vive, la Onlus istituita in memoria del giovane tifoso napoletano che ha perso la vita in seguito all’agguato messo a segno da un tifoso giallorosso all’esterno dello stadio Olimpico di Roma prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Da allora, il suo nome e il suo ricordo sono diventati un impegno sociale concreto che continua a disseminare solidarietà, iniziative benefiche e messaggi d’amore e nonviolenza. Il prossimo evento in programma è di quelli tutt’altro che usuali, ma destinati a lasciare un segno importante in quel famoso percorso di cambiamento e riabilitazione al quale dovrebbero andare incontro i giovani detenuti. Lunedì 30 gennaio, dalle 15 alle 19.30, si giocherà una partita di calcio amichevole al carcere di Airola nel beneventano, un momento di aggregazione e sensibilizzazione alla legalità e di lotta alla violenza, tra i calciatori dell’Asd Ciro Vive e i giovani detenuti. Parteciperanno alcuni rappresentanti dell’associazione Domus di Secondigliano che animeranno il momento di preghiera e di condivisione con testimonianze di giovani ex detenuti, che hanno fatto la scelta di cambiare vita, i membri dell’Associazione Ciro Vive onlus, il ristoratore Ilario Tutucci titolare del ristorante Il Brigante dei Sapori di Volla che offrirà una cena con dolci per chiudere la mezza giornata con un bel terzo tempo che ormai è diventato - grazie alla squadra Asd Ciro Vive - una consuetudine ad ogni fine gara. I membri dell’associazione Ciro Vive per la quarta volta si recano al carcere di Airola perché i giovani detenuti lo hanno espressamente richiesto. Continuano dunque, i progetti che l’associazione fondata da Antonella Leardi si era prefissata, partendo proprio dai giovani disagiati, con progetti di solidarietà autofinanziati. Interverranno Pasquale Esposito e Maria Puddu, Vicepresidente e dirigente della Asd Ciro Vive, Antonella Leardi e Giovanni Esposito, presidente e vice presidente dell’associazione Ciro Vive, membri della Chiesa evangelica di Secondigliano (tra cui il pastore Christian Parisi). "Per l’iniziativa è stato scelto il 30 gennaio in quanto è la ricorrenza della giornata scolastica della nonviolenza e della pace in ricordo dell’anniversario della morte di Gandhi - spiegano gli organizzatori - che ha un significato molto profondo. Perciò abbiamo deciso di dedicarla a Gandhi che è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, fondato sulla satya (verità) e sull’ahimsa (nonviolenza). "Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fin tanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". (Mahatma Gandhi) Bologna: "Co2, controllare l’odio", canzoni per anime in pena, così si evade con un iPad di Caterina Giusberti La Repubblica, 29 gennaio 2017 "Co2, controllare l’odio" è il progetto di Mussida, fondatore della Pfm, alla Dozza. Detenuti entusiasti per la playlist scelta da Bollani e Fresu. Creste sparate in testa, cappucci sugli occhi e tatuaggi ben in vista: tutti lì, con gli occhi socchiusi, a ballare Cyndi Lauper. Bisognava vederli ieri pomeriggio i detenuti della Dozza: chi muoveva il piede da seduto, chi schioccava le dita, chi ondeggiava la testa a ritmo, chi batteva le mani. Ma quando la cantante ha intonato Girls just wanna have fun con una voce che arrivava dal centro esatto della terra non si è tenuto più nessuno. È tornata la musica in carcere: dopo il coro Papageno fondato da Claudio Abbado, ieri è stata inaugurata la prima audio-teca. Si chiama "Co2, controllare l’odio" ed è un progetto firmato dal fondatore della Premiata Forneria Marconi, Franco Mussida e sostenuto dal Cpm Music Institute di Milano, dall’Università di Pavia e dal Ministero della Giustizia. Hanno distribuito iPad rimpinzati di centinaia di canzoni di ogni genere, selezionate da artisti come Paolo Fresu e Stefano Bollani, e suddivise in base allo stato emotivo che dovrebbero trasmettere: calmo, malinconico, dubbioso, innamorato. Ai detenuti basta cliccare l’icona in cui si riconoscono e chiudere gli occhi. Prima di arrivare alla Dozza Co2 è stato sperimentato da un centinaio di detenuti a Monza, Opera, Rebibbia femminile e Secondigliano, e oltre a Bologna coinvolgerà anche le carceri di Genova, Parma, Torino, Ancona, Venezia, Roma, Firenze e Milano. Da dov’è partito tutto. "Ho cominciato a lavorare con la musica a San Vittore nel 1987 - racconta Mussida, organizzavo corsi per ex tossicodipendenti. Poi Gino Paoli, da presidente della Siae, mi incaricò di pensare a un progetto più particolare e io ho cercato qualcosa che potessero capire tutti". Così è partito dalle emozioni. "Perché lo so che il rumore della galera spesso non si copre neanche con le cuffie", ripete ai detenuti riuniti nella sala comune. Poi qualcuno spinge play e parte la musica. La presentazione è un gioco particolare: per ogni canzone i detenuti devono sollevare dei cartelli con delle emoticon che indicano i loro stato d’animo. Però partecipano tutti, spiano i cartelli dei vicini, si scambiano pareri: nessuno la prende in ridere. L’ultima canzone, cantata dal vivo da Luca Nobis e Elisabetta Cois è No potho reposare e finisce con una standing ovation e dichiarazioni di amore eterno per la cantante. "Mi è piaciuto molto - dice Daniele all’uscita - qui in carcere non abbiamo molta musica: possiamo farci portare dei cd, c’è la tv e la radio, ma questo è meglio. Mi chiedo solo in quanti potranno partecipare. Oggi eravamo pochi, ma qui dentro siamo in 600". Bisognerà fare i turni, ammette la direttrice Claudia Clementi: "Gli iPad che abbiamo per ora sono due e consentono di connettersi a quattro persone alla volta spiega -. Li lasceremo in biblioteca e chi li vorrà usare potrà chiedere aiuto ai detenuti che abbiamo formato come tutor". Milano: l’inno camusiano alla vita dei detenuti di Bollate di Michele Weiss La Stampa, 29 gennaio 2017 I reclusi portano in scena una delle opere giovanili di Albert Camus. Non tutti lo sanno ma più che per il romanzo, il cuore di Albert Camus, gigante della letteratura novecentesca, batteva per la scena, con varie pièce scritte per la compagnia teatrale di riferimento con cui, alle volte, saliva sul palco a recitare. La cooperativa teatrale attiva nel carcere di Milano-Bollate, in questi giorni sta portando in scena nel teatro dell’istituto un’interessante drammaturgia tratta da una delle opere giovanili di Camus, la raccolta di saggi "Il rovescio e il dritto". Scritta nel 1935/36 poco prima di trasferirsi a Parigi, l’opera (a torto bollata in seguito dallo stesso autore come "rozza"), benché con uno stile ondivago o "contaminato" a metà tra il sensismo, la poesia e la politica, conteneva in nuce quella che, più tardi, sarebbe diventata la vera filosofia camusiana: il Mediterraneo. Camus, diventato in seguito uno degli intellettuali di punta a Parigi, provò per tutta la vita una nostalgia enorme per la propria giovinezza, povera ma libera ad Algeri, baciata dalla bellezza del clima e della cultura meticcia del posto. Non stupisce che gli attori detenuti abbiano provato interesse per queste pagine, un inno struggente alla vita, alla giovinezza e alla libertà. La scena della Casa di reclusione di Bollate risuona di lingue povere, proprio come quelle delle storie di questi personaggi ora approdati su una riva sperduta di Algeria, ora apparizioni di una periferia francese degli anni Cinquanta. Tra riscatti impossibili, amori confusi, silenzi impenetrabili e dolce ironia, il messaggio della compagnia è quello di Camus: vivete la vostra unica vita inseguendo la bellezza. Via Cristina Belgioioso 120, stasera e il 2 febbraio, ore 21 (ingresso dalle 20.15 alle 20.45), 10/15 euro. Migranti. A Milano stretta sull’accoglienza: stop alla politica delle "porte aperte" di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 29 gennaio 2017 L’allerta sicurezza impone una svolta e il "modello Milano" per l’accoglienza deve essere aggiornato. Il Comune sta valutando modifiche che saranno sottoposte alla prefettura. Ospitalità garantita solo a chi avvia un percorso di regolarizzazione. Senza identificazione, l’ospitalità sarà ridotta a una sola notte. L’obiettivo è eliminare la "zona grigia": migranti che circolano in città, ospitati nei centri della rete del Comune e Terzo settore, ma privi di un’identificazione ufficiale. A oltre tre anni dall’inizio dell’emergenza profughi, il "modello Milano" dell’accoglienza va aggiornato. E in particolare la sua prima linea, quell’hub di via Sammartini che per migliaia di persone è stato la porta d’ingresso in città. Le nuove sfide della sicurezza dettate dagli ultimi fatti di cronaca (dalla minaccia terroristica al caso dell’aguzzino somalo arrestato vicino alla stazione Centrale) impongono una stretta nei controlli. L’input era già arrivato dalle nuove politiche del ministro dell’Interno Marco Minniti e dal capo della Polizia Franco Gabrielli. E ora il Comune sta iniziando a pianificare la svolta. Fino a oggi l’impostazione dell’assistenza poneva l’accento sul lato umanitario. Porte aperte per tutti: per chi fa richiesta d’asilo e per chi lascia generalità di fantasia pur di proseguire il suo viaggio verso nord (i trattati europei impongono al migrante di restare nel Paese dove viene identificato). Da tempo Francia e Svizzera hanno sigillato le frontiere e il flusso di "transitanti" si è ridotto. La conseguenza è l’aumento della percentuale di chi chiede protezione umanitaria (oltre l’80 per cento). Le esigenze di sicurezza sono però tornate in cima alle priorità. E quindi l’identificazione di chi è sul territorio e l’espulsione di chi non ha diritto a fermarsi. Rimodulare l’hub, tra l’altro, è una richiesta che viene anche da Fondazione Arca, la Onlus che gestisce il centro, che ha chiesto a Prefettura, Comune e forze dell’ordine di intervenire in questo periodo di tregua, in cui le presenza sono intorno alle 200, prima che con marzo i flussi tornino a farsi imponenti. "Dobbiamo riprogettare il sistema complessivo dell’accoglienza - conferma l’assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino: da una parte vanno fatte più identificazioni, dall’altra va mantenuto lo spirito umanitario di una città che dal 2013 ha dato un tetto a 120 mila persone. Ne parleremo con il nuovo prefetto". Al momento sono due le ipotesi per il futuro dell’hub su cui si sta lavorando a Palazzo Marino. Una prevede una stretta nell’ospitalità dei "transitanti": posto letto per una sola notte, se non si vuole fare richiesta d’asilo e iniziare il percorso di regolarizzazione che parte proprio dall’identificazione. Anche per scoprire, magari, che il migrante è già conosciuto e assegnato a un’altra regione. L’altra ipotesi vedrebbe dividere la parte dall’accoglienza da quella della registrazione degli arrivi, da ospitare in un nuovo spazio nelle vicinanze come il vecchio hub di via Tonale. Qualsiasi progetto va però discusso con il prefetto Luciana Lamorgese. Nel frattempo, in attesa della riapertura dei Cie - altro tassello della nuova politica governativa sull’immigrazione - è già cresciuto il numero dei rimpatri. Se nel 2016 a Milano le espulsioni di clandestini erano triplicate rispetto all’anno prima (erano 296 nel 2015, sono diventate 762 l’anno successivo), anche il primo mese del 2017 registra un segno più in confronto al gennaio 2016: da 33 casi, i rimpatri sono più che raddoppiati quest’anno, fino a raggiungere quota 72 (dato parziale). Stati Uniti. Trump: stop all’immigrazione per quattro mesi, fermati rifugiati già in volo La Stampa, 29 gennaio 2017 Bloccati i cittadini di sette paesi musulmani. Nella "lista nera" Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen. Giudice federale vieta l’espulsione degli immigrati fermati dopo il decreto del presidente Usa. Panico, rabbia, proteste e ricorsi legali, forse anche una class action. E caos negli aeroporti. Sono le reazioni, in Usa e nel mondo, all’ordine esecutivo con cui Donald Trump ha congelato per tre mesi gli arrivi da sette paesi a maggioranza islamica e per quattro mesi il programma dei rifugiati (a tempo indeterminato per quelli siriani), più che dimezzando a 50 mila il numero di quelli previsti per quest’anno dall’amministrazione Obama. Uno stop alle ondate migratorie che hanno fatto la storia e la grandezza degli Stati Uniti, e ad uno dei programmi umanitari più ambiziosi al mondo, deciso da Trump per mettere a punto controlli più severi contro l’ingresso di terroristi stranieri. "Il mio ordine esecutivo non è una messa al bando dei musulmani. Sta funzionando molto bene", è la valutazione del presidente Usa. Si tratta di misure "molto rigide che danno i loro risultati", ha detto Trump rivolgendosi ai giornalisti, "Lo si può vedere negli aeroporti come ovunque. Controlli veramente severi che avremmo dovuto aver introdotto in questo paese da molti anni". Il Nyt è sceso subito in campo sostenendo che il provvedimento è "illegale" perché viola la legge Usa che dal 1965 vieta qualsiasi discriminazione contro gli immigranti basata sull’origine nazionale. Una discriminazione aggravata da quella religiosa, dato che Trump, oltre a mettere nel mirino solo Paesi musulmani, ha disposto di dare priorità in futuro ai rifugiati cristiani o di altre minoranze religiose perseguitate. Col paradosso inoltre che nel suo bando il presidente, pur citando l’11 settembre, ha "dimenticato" i Paesi da cui provenivano gli attentatori: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Libano, dove in alcuni casi possiede degli asset. L’Iran è stato il primo Paese a reagire. Dopo le critiche del presidente Hassan Rohani ("Oggi è tempo di riconciliazione e convivenza, non di erigere muri tra le nazioni"), Teheran ha deciso di applicare il principio della reciprocità contro questo "affronto" che rischia di essere "un grande dono agli estremisti". L’attrice iraniana Tanareh Alidoosti, protagonista del film `The Salesman´ (Il cliente) candidato agli Oscar, ha intanto deciso di boicottare la cerimonia di premiazione. Immediata anche la replica dell’Onu: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati hanno chiesto agli Usa di "continuare ad esercitare il loro forte ruolo di leadership" e a rispettare "la lunga tradizione di proteggere coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni". Francois Hollande è stato invece il primo leader europeo ad invocare la "fermezza" del vecchio continente nel dialogo con Trump, prima di ricevere la sua telefonata. "L’Europa deve definire una politica estera comune per affrontare il resto del mondo", ha detto, ricordando che "il protezionismo non fa parte del Dna europeo". Anche il mondo della cultura si mobilita. "Mi si spezza il cuore nel vedere che oggi il presidente Trump chiude la porta ai bambini, alle madri e ai padri che fuggono dalla violenza e dalla guerra", ha scritto su Fb il premio Nobel per la pace 2014 Malala Yousafzai. La protesta cresce pure in Usa, dove il giro di vite di Trump potrebbe avere conseguenze boomerang, e non solo sul fronte della sicurezza. Le persone sospese dal suo provvedimento mentre erano già in volo per gli Stati Uniti sono state fermate e detenute agli aeroporti di arrivo. Come capitato a due rifugiati iracheni fermati allo scalo di New York. Gli avvocati che li rappresentano hanno già presentato ricorso e avviato le procedure per una possibile class action. Anche vari gruppi per la difesa dei diritti umani stanno affilando le armi per una battaglia legale. Tra questi, il Consiglio per le Relazioni americano-islamiche. Le compagnie aeree si stanno però già adeguando alle nuove misure, bloccando i passeggeri nella `lista nera´ anche negli scali partenza. L’inquietudine monta pure nel mondo accademico e studentesco americano. Una petizione è già stata firmata da 12 premi Nobel e migliaia di docenti. Preoccupati anche gli studenti, che hanno cominciato a radunarsi in alcuni atenei, tra cui Harvard. Alzata di scudi anche dalla Silicon Valley, quella che più ha beneficiato dei talenti da oltreoceano. Il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg si è detto preoccupato dalla stretta sui migranti esortando il presidente a mantenere aperti i confini degli Stati Uniti ai rifugiati che hanno bisogno di un rifugio sicuro e a non deportare milioni di persone senza documenti che non pongono alcuna minaccia alla sicurezza nazionale. Sulla stessa lunghezza d’onda i dirigenti di Twitter e Google, quest’ultima affrettatasi a far rientrare il prima possibile circa 100 suoi dipendenti provenienti dai Paesi islamici. Stati Uniti. La civiltà stracciata da uno spot di Franco Cardini Il Mattino, 29 gennaio 2017 Insomma, pare che Donald Trump faccia sul serio. Confessiamocelo: molti fra noi pensavano fino a ieri che in fondo bluffasse. E magari lo speravano. Esercitazioni muscolari di uno straricco dai buffi capelli e dalla moglie-Barbie esibita in tutti i modi. Promesse di marinaio prima delle elezioni, cose che si dicono per far bottino di voti facili: e poi, fra il dire e il fare... E, intendiamoci, non è detto che infondo le cose non stiano poi davvero proprio così. Molte dichiarazioni, molte minacce. Ma la partita è ancora aperta: certo, c’è il tradizionale periodo di "honey moon" con gli elettori, quello in cui qualunque neopresidente è quasi il Padreterno. Ma poi il teatrino si smonta, riemergono i poteri messi in sordina, si fanno sentire il parlamento e magari anche il Pentagono e i servizi: e il prode Trump che porta - l’avete notato - lo stesso nome che negli States distingue il vecchio caro Paperino (Donald Duck) sarà magari condotto a più miti consigli. Certo, per il momento il carnet delle rottamazioni sembra impressionante: muro al confine col Messico e rifiuto di conferire col presidente messicano, Enrique Peria Nieto, che di concorso alle spese di costruzione della barriera da lui non voluta non vuol ovviamente nemmeno sentir parlare; dazi elevati all’astronomico 20% sull’import/export; drastica chiusura sulla politica di accoglienza, specie nei confronti dei paesi a maggioranza musulmana; espulsioni più facili e pluri-promesso stop alle politiche di repressione e di tortura esorcizzato (si rassegni chi per otto ani ha sperato di veder smantellare il lager di Guantánamo). A questi vanno aggiunti anche il rifiuto di prender sul serio la lotta per la riqualificazione ecologica e contro il cambiamento climatico, a tutto vantaggio d’industriali e di petrolieri contro il rispetto dell’ambiente (i fondi per la ricerca sul clima sono stati bloccati); il disimpegno annunziato nella politica vicino-orientale, salvo il riconfermato appoggio senza condizioni a Netanyahu (nemmeno una parola sul fatto che il premier israeliano sta rischiano in questi giorni l’impeachement, per quanto su ciò i nostri media appiano singolarmente "distratti"), ma promessa al tempo stesso - in parziale contraddizione col punto precedente - di risolvere una buona volta con la forza il problema Daesh, ovviamente d’accordo con Putin (ma anche con l’Iran e con la Siria di Assad, che Putin non ha alcuna intenzione di mollare?). Infine, alleanza di ferro con la Gran Bretagna antieuropeista del Brexit, conferma di voler ridimensionare - come? - la questione della Nato e in una parola di voler assumere un atteggiamento esplicitamente anche se non dichiaratamente antieuropeo e perfino minacce di tagli di fondi all’Onu e, anche nei confronti di essa, riaffermazione di un orgoglioso primato statunitense (America first). Rassicuriamoci: non siamo a un rivolgimento epocale, a una sconvolgente novità nelle nobili tradizioni americane di pace, di fratellanza e di libertà. La storia degli States, quasi ignorata dalle nostre parti, ha parecchi volti. C’è quello pacifico e "buonista", ma anche duro quando occorre in difesa della libertà e dell’umanità: quello che la gente s’immagina ancora col ciuffo e il sorriso di John F. Kennedy. Ma c’è anche Monroe col suo "L’America agli americani!", che significava "Il continente americano a noialtri statunitensi, e gli altri fuori!"; c’è il ceffo di Grant, l’alcolista presidente cow-boy sterminatore dei pellerossa e idolatrato dal pistoluto e sciaboluto generale Patton dall’elmetto d’argento; c’è il muso da grizzly di "Teddy" Roosevelt e la sua politica del "nodoso bastone". Non temete: quanto a bestioni che hanno occupato la Casa Bianca, Donald Duck-Trump (che più che a Paperino somiglia a suo zio Paperone) è in folta, eccellente compagnia. Il suo modello non è semplicemente quello "neo-isolazionistico" delle buone tradizioni repubblicane, contrapposte al cosmopolitismo democratico: è quello isolazionistico americo-centrico, di un Paese che vuol esser solo perché sa, o ritiene, di essere anche il Primo. Ma quello di Paperone Trump è oltretutto un america-centrismo straccione. Donald sa bene che ad averlo votato in massa è lawhite trush, che vive negli slums di periferia dai fatiscenti tetti di lamiera (ma con la bandiera "stars and strips" orgogliosamente issata al sommo di ciascuno di essi) e si nutre di junk food, il cibo-spazzatura dei market di quart’ ordine pieno di ormoni e di additivi. Obama aveva tentato di fornire quella miserabile paccottiglia umana quanto meno di uno straccio di social security; Donald la cancella, e quella banda di miserabili (altro che poorly educated!...) giù ad applaudire. Portate pazienza. Lasciate che gli effetti dei dazi aggravati e dei posti di lavoro ulteriormente perduti si faccia sentire. Lasciate che si accorgano che contro questa crisi montante aver chiuso le frontiere col Messico (cosa che in fondo aveva già cominciato a fare Clinton a colpi di guardie armate e di filo spinato) non serve a niente. Lasciate che i primi cadaveri dei nuovi caduti americani nel Vicino Oriente, scagliati contro quel Daesh ch’è sostenuto dagli alleati stessi degli Usa tornino in patria e che l’incanto si spezzi. Intanto, semmai, cominciamo a pensare ai casi nostri. Che faremo, ad esempio noialtri, poveri orfanelli della Nato? Certo, dovremo alzare l’asticella delle nostre spese militari. Ma se finissimo con l’accorgerci che la Parigi della ritrovata libertà (e dignità) della sovranità militare - che vuol dire anche politica e militare - val bene la messa di un aggravio nelle spese per la difesa e la sicurezza, e se ciò aprisse un nuovo capitolo anche nella storia d’Europa? Pensiamoci. E aspettiamo. La svolta, se è una svolta, è appena cominciata. Turchia. La sfida dei Nobel al bavaglio "basta carcere per chi critica il potere" di Marco Ansaldo La Repubblica, 29 gennaio 2017 "Gli scrittori turchi devono poter parlare, criticare, protestare senza dover temere rappresaglie". I premi Nobel per la Letteratura, il Pen Club International, gli autori turchi che hanno scelto di rimanere in patria amando il Paese "per la sua grande storia e l’arte immensa" si schierano a fianco di quanti sono in prigione per i loro scritti. Si trattino di libri, articoli, lavori teatrali, traduzioni. Una conferenza stampa in un albergo vicino a Piazza Taksim, il centro di Istanbul, ha presentato l’appello degli scrittori internazionali a favore dei loro colleghi. "Vi scriviamo per farvi sapere che non siete soli. Vi scriviamo per dirvi che non resteremo pigri nel vostro momento del bisogno. Non resteremo in silenzio mentre i diritti umani vengono violati. Alzeremo la nostra voce a livello globale contro ogni tentativo di mettere a tacere le vostre voci". I nomi che hanno sottoscritto il messaggio sono tanti e importanti. I premi Nobel Elfriede Jelinek, J.M. Coetzee, Mario Vargas Llosa. E poi, in ordine sparso, e tralasciando molti autori: Jonathan Franzen, Salman Rushdie, Adonis, Elif Shafak, Margaret Atwood, l’artista Ai Weiwei. In loro rappresentanza una delegazione del Pen International, guidata dalla presidente Jennifer Clement e dal presidente del premio Nobel per la Letteratura, Per Waestberg, ha spiegato l’iniziativa di una settimana di visita svolta in Turchia. Molti gli incontri avuti. Giovedì, ha spiegato lo scrittore turco e curdo Burhan Sonmez, siamo andati alla prigione di Istanbul a Silivri. "Il nostro autobus è stato fermato tre volte, ci hanno circondato con le armi, controllato i passaporti. Ma abbiamo potuto lasciare infine ai nostri colleghi in carcere un messaggio di solidarietà". "Tra loro - ha aggiunto Jennifer Clement - c’è grande tristezza e depressione. Ricordano quando la Turchia nel 2008 fu Paese ospite alla Fiera del libro di Francoforte, e quanto gli autori turchi venissero apprezzati e onorati. Questa era la Turchia, e questa la sua ricchezza. Oggi questo non c’è più, e tutto ciò è deprimente. Abbiamo anche incontrato il ministro della Cultura, Nabi Avci, il quale si è però sostanzialmente tenuto sulla linea del partito al governo, dicendo che la situazione dopo lo stato d’emergenza dovuto al golpe fallito di luglio è tornata alla normalità". Un comunicato del Pen Club rileva che al momento "ci sono quasi 150 scrittori e giornalisti in prigione in Turchia, il che la rende la più grande galera per giornalisti nel mondo, sorpassando Cina, Eritrea ed Egitto". Lo scrittore tedesco Peter Schneider, presente alla conferenza stampa, si è soffermato sul caso della scrittrice Asli Erdogan, uscita di prigione dopo più di 4 mesi e che ha rifiutato tutte le accuse di terrorismo: "Non ha ricevuto ancora il suo passaporto e non può uscire dal Paese. Questa persone vivono sotto una minaccia. E la Turchia è un Paese il cui 60 per cento dell’export finisce in Europa. Le autorità europee devono reagire a questa situazione e non chiudere gli occhi". Ieri come Asli Erdogan un’altra autrice è finita sotto accusa. È la giornalista e scrittrice Arzu Demir, condannata da una corte di Istanbul a 6 anni di carcere. Il giudizio è dovuto alla pubblicazione di due libri, uno sulla condizione delle combattenti curde sulle montagne e l’altro sulla nascente entità curdo siriana del Rojava. La Demir ha affermato di essere "felice di aver scritto" i libri in questione assicurando che tornerà a scrivere. "Mi trattano come una terrorista che fa la guerra allo Stato, ma io ho fatto solo giornalismo". Ankara ha giudicato come "una provocazione" l’invito fatto per un ricevimento a Berlino all’ex direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, Can Dundar, come ospite d’onore. Dundar ha annunciato una nuova iniziativa online dalla Germania. Il suo sito Ozguruz (Siamo liberi) è stato subito bloccato in Turchia. L’ambasciatore tedesco è stato convocato al ministero degli Esteri. "Questa situazione ci crea un disagio - ha spiegato il portavoce del ministero turco - nel momento in cui la cancelliera Angela Merkel sta per arrivare ad Ankara e molte questioni devono essere discusse". Khalifa Ghwell, il "golpista" di Tripoli: l’Italia non può decidere chi governa la Libia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 gennaio 2017 Il leader libico accusato di aver condotto un "golpe strisciante" nella capitale ai danni del premier del governo di unità nazionale critica i nostri media: "Continuate a scrivere che io sono legato ai Fratelli Musulmani. Non è affatto vero!" "Benvenuta l’ambasciata italiana a Tripoli. E benvenuto anche il vostro ospedale militare a Misurata. Però avete troppi soldati in Libia. Sono oltre duecento. A cosa servono?". Così il 53enne Khalifa Ghwell, il leader libico accusato di avere appena condotto un "golpe strisciante" nella capitale ai danni del premier del governo di unità nazionale Fayez Serraj, ci riceve nel suo luminoso ufficio sul lungomare di Misurata. L’intervista dura un’ora e mezza. Una figura controversa la sua. Il suo campo, legato ai partiti religiosi, è accusato di non aver accettato la sconfitta alle elezioni del luglio 2014 contro una variegata coalizione di formazioni più o meno laiche. Oggi si definisce "l’unico leader legittimo": è il maggior avversario di Serraj, il quale gode del sostegno dell’Onu, e non esita a criticare le mosse italiane in suo favore. Il nostro incontro è anche dettato dal caos crescente nella capitale e dalla visibile presenza delle milizie pro-Ghwell per le strade e nei ministeri. Curioso sugli ultimi sviluppi della politica italiana, Ghwell ha parole dure per i nostri media: "Continuate a scrivere che io sono legato ai Fratelli Musulmani. Non è affatto vero! Un errore. Sono un musulmano credente, rispetto le leggi islamiche anche nella vita privata, non bevo alcol per esempio. Ma non ho alcun rapporto con quel movimento politico qui o all’estero". Il suo golpe è avvenuto ai primi di gennaio, pochi dopo l’annuncio della riapertura dell’ambasciata italiana. I due fatti sono legati? "Assolutamente no. Non c’è alcun legame. Ma non c’è golpe. Il mio governo è legittimato dal parlamento di Tripoli. Al contrario, Serraj non ha mai ricevuto alcun sostegno legale in Tripolitania e neppure dal parlamento di Tobruk, come invece era previsto dalle regole stabilite in Marocco nel dicembre 2015. La comunità internazionale, l’Onu, con l’Italia in testa, non possono decidere il governo dei libici. Serraj non ha alcuna forza, è arrivato nel marzo 2016 dal mare, di nascosto. Io, che allora ero il premier insediato, mi sono spostato a Misurata, con i miei ministri avevamo deciso di dargli credito. Ma già lo scorso 14 ottobre sono tornato a Tripoli, per il semplice fatto che la situazione sta collassando. Nella capitale crescono i rapimenti, le violenze, la corruzione, l’inefficienza dello Stato, i furti di ogni tipo, la sicurezza è degenerata come non mai. Un anno fa un euro valeva un dinaro e mezzo, oggi quasi sette". Serraj ringrazia l’Italia per l’apertura della sede diplomatica, la considera di grande aiuto. E lei? "Anch’io, senza alcun dubbio. E mi auguro che altri seguano. Apprezzerei molto l’apertura della rappresentanza europea. Il giudizio di Serraj invece non importa nulla. Tra poco sarà svanito dall’arena politica libica". Lei cosa controlla a Tripoli? "Sei ministeri: Difesa, Lavoro, Sanità, Educazione, Economia, Martiri della Rivoluzione. Inoltre larga parte dei quartieri occidentali, l’hotel Rixos, e stiamo ricostruendo l’aeroporto internazionale, che aprirà per il sesto anniversario della rivoluzione il 17 febbraio". Serraj definisce le sue mosse una commedia senza sostanza. Quei ministeri erano già vuoti. Cosa replica? "Noi le cose le facciamo. Agiamo nel concreto. È lui ad essere senza appoggio locale, un patetico personaggio da cartoni animati. Fumo senza arrosto. Con lui i ministeri non lavoravano. Ma noi oggi siamo in piena attività". Chi ha fatto saltare la bomba presso l’ambasciata italiana sabato scorso? "L’inchiesta si indirizza contro i circoli legati al generale Khalifa Haftar, che sta a Bengasi. Così concludono le maggiori milizie di Tripoli. Ma personalmente non ne sono certo al cento per cento. Sono troppi gli attori interessati a fomentare il caos, libici e stranieri". Qui a Misurata i medici locali sembrano molto contenti del lavoro dell’ospedale italiano e del suo personale. Lei però ha espresso critiche anche dure sulla loro presenza. "L’ospedale va benissimo. Anzi, ringrazio l’Italia per il suo sforzo, che serve a curare i nostri feriti nella guerra contro l’Isis. Però sin dal loro arrivo in autunno non ho capito perché mai ci fossero tanti soldati. A che servono? L’ospedale è ben protetto, chiuso in una nostra base aerea. Capisco la scorta di dieci e venti soldati italiani. Ma perché oltre duecento?". Servono per la sicurezza del personale italiano. Un meccanismo simile alle centinaia di militari posti a difesa dei tecnici civili italiani che lavorano alla diga di Mosul, in Iraq. "Per noi sono decisamente troppi. Una ventina di giorni fa ho anche scritto una lettera al governo di Roma per ribadire che sarebbe meglio ritirarne una buona parte. Alcuni in Libia li percepiscono come un contingente d’invasione. Io stesso rimasi colpito quando li vidi arrivare di notte dal porto qui a Misurata, in pieno assetto di guerra. Girano voci di loro attività nel deserto, nelle oasi e sui pozzi petroliferi, specie nella zona di Giufra. Non vorrei potessero subire atti di violenza. Il tema è delicato". Tra pochi giorni dovrebbe avvenire un summit tra Serraj e Haftar al Cairo. Forse in vista di una vera alleanza tra Tripolitania e Cirenaica. Come lo vede? "Il risultato è scontato: zero. Non ne uscirà nulla di nuovo. I due da lungo tempo cooperano dietro le quinte".