Napolitano è il capo dello Stato che ha concesso meno grazie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 gennaio 2017 Ieri abbiamo lanciato dalle colonne di questo giornale un appello al presidente delle Repubblica perché conceda la grazia alla madre della bambina di 14 mesi detenuta a Cagliari. La piccola, reclusa con la mamma, è malata e recentemente si è dovuta operare, alla bocca e al palato, e ora ha bisogno di cure che in carcere non può avere. L’articolo 87 della Costituzione prevede, infatti, che il presidente della Repubblica può, con proprio decreto, concedere grazia e commutare le pene. Si tratta di un istituto clemenziale di antichissima origine che estingue, in tutto o in parte, la pena inflitta con la sentenza irrevocabile o la trasforma in un’altra specie di pena prevista dalla legge (ad esempio la reclusione temporanea al posto dell’ergastolo o la multa al posto della reclusione). Il procedimento di concessione della grazia è disciplinato dall’art. 681 del codice di procedura penale. La domanda di grazia è diretta al presidente della Repubblica e va presentata al ministro della Giustizia. È sottoscritta dal condannato, da un suo prossimo congiunto, dal convivente, dal tutore o curatore, oppure da un avvocato. Se il condannato è detenuto o internato, la domanda può essere però direttamente presentata anche al magistrato di sorveglianza. Il presidente del Consiglio di disciplina dell’istituto penitenziario può proporre, a titolo di ricompensa, la grazia a favore del detenuto che si è distinto per comportamenti particolarmente meritevoli. Sulla domanda o sulla proposta di grazia esprime il proprio parere il Procuratore generale presso la Corte d’Appello o, se il condannato è detenuto, il magistrato di sorveglianza. A tal fine, essi acquisiscono ogni utile informazione relativa, tra l’altro, alla posizione giuridica del condannato, all’intervenuto perdono delle persone danneggiate dal reato, ai dati conoscitivi forniti dalle Forze di Polizia e alle valutazioni dei responsabili degli Istituti penitenziari. Acquisiti i pareri, il ministro trasmette la domanda o la proposta di grazia, corredata dagli atti dell’istruttoria, al capo dello Stato, accompagnandola con il proprio "avviso", favorevole o contrario alla concessione del beneficio. Come stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 200 del 2006, al capo dello Stato compete la decisione finale. L’art. 681 del codice di procedura penale prevede anche che la grazia possa essere concessa di ufficio e cioè in assenza di domanda e proposta, ma sempre dopo che è stata compiuta l’istruttoria. Se il presidente della Repubblica concede la grazia, il pubblico ministero competente ne cura l’esecuzione ordinando la liberazione del condannato. Il presidente Mattarella, dall’inizio del suo insediamento, ha concesso finora 4 grazie a detenuti condannati per reati comuni, mentre Giorgio Napolitano è il presidente della Repubblica che ha concesso meno grazie durante il suo mandato. Nella classifica, infatti, il presidente della Repubblica dimissionario è ultimo per numero di grazie concesse: 23 nel primo settennato e neppure una dopo la rielezione. Considerando che le richieste giudicate ammissibili sono state oltre 1.800, si tratta dell’ 1,3 per cento. L’ultima grazia concessa da Napolitano - la penultima è stata concessa ad Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale - è spettata a Joseph Romano, colonnello dell’Air Force One, condannato nel 2012 nell’ambito della vicenda del rapimento dell’ex imam di Milano Abu Omar. Al tempo del sequestro, Romano era capo della sicurezza della base di Aviano dove venne portato l’imam prima del trasferimento prima alla base Nato di Ramstein e poi in Egitto. Napolitano è stato assai contenuto e in tre casi, durante il suo mandato, ha negato la clemenza nonostante il ministro della Giustizia avesse espresso parere favorevole. Nemmeno nel secondo mandato le occasioni sono mancate. Eppure solo nel primo anno il capo dello Stato ha respinto tutte le 320 richieste di clemenza che avevano superato la fase istruttoria. Tutt’altra storia rispetto agli oltre 15mila atti di clemenza di Luigi Einaudi, in un’Italia segnata dalla violenza e dalla criminalità anche come conseguenza della dilagante povertà figlia della guerra. Fra i beneficiati, sebbene con suo profondo rammarico, ci furono anche numerosi collaborazionisti: quelli maggiormente responsabili erano riusciti a evitare le conseguenze dell’epurazione grazie all’amnistia di Togliatti e a Einaudi, come spiegò lui stesso, non sembrava giusto che alla fine gli unici a pagare fossero quelli meno coinvolti. Giovanni Gronchi ne concesse 7.423, Antonio Segni/Cesare Merzagora 926, Giuseppe Saragat 2.925, Giovanni Leone 7.498, Sandro Pertini 6.095 e Francesco Cossiga 1.395. Dal presidente Oscar Luigi Scalfaro in poi, il numero della concessione della grazia è sceso vertiginosamente. Quest’ultimo concesse 339 grazie, a seguire Carlo Azeglio Ciampi con 114, fino ad arrivare a Napolitano con 23. Con Scalfaro siamo nel periodo di tangentopoli e le stragi mafiose: da allora ci fu un inasprimento delle pene, il ripristino della carcerazione dura con il 41 bis e fu modificato l’articolo della Costituzione riguardante l’amnistia. L’unico errore giudiziario è l’innocente di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 gennaio 2017 Davigo spiega con chiarezza perché siamo tutti potenziali colpevoli. Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ha tenuto una lezione di diritto da incorniciare: gli errori giudiziari non esistono. Non nel senso che non ce ne sono stati l’anno passato - solo nel 2016 lo stato ha speso 42 milioni per risarcirli - ma nel senso che non esistono proprio. Quelli per cui lo stato paga non sono errori giudiziari: sono accidenti Davigo spiega che si confondono due cose, gli errori giudiziari e l’ingiusta detenzione. Gli errori giudiziari sono quando viene condannato un colpevole, ma "il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere". L’ingiusta detenzione avviene quando si arresta una persona sulla base di alcune dichiarazioni e indizi "ma se poi nel processo un testimone cambia versione perché viene minacciato, l’arrestato viene liberato e pure risarcito". Seguendo il ragionamento, gli errori giudiziari non sarebbero errori e le ingiuste detenzioni non sarebbero tali. Anzi, sarebbero la prova che il sistema funziona benone. Questo non vuol dire, però, che non ci siano errori in assoluto, c’è una fattispecie sottovalutata: "Quando viene assolto un colpevole". E qui Davigo, con formidabile guizzo d’ingegno, demolisce l’intera struttura della giustizia: ogni innocente assolto, in realtà, è un potenziale colpevole, un errore giudiziario. Azzardiamo una soluzione: far pagare un risarcimento a ogni persona che esce da un processo senza condanne. E col ricavato, creare un fondo per le vittime della malagiustizia: i magistrati che sbagliano perché tratti in errore da testimoni falsi. Legnini (Csm): "Arriva una Circolare per le Procure: serve una maggiore responsabilità" di Cristiana Mangani Il Messaggero, 28 gennaio 2017 È di ritorno dal Quirinale, il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini. C’è stato con una delegazione, per celebrare la giornata della memoria. Un evento che segue il plenum di mercoledì scorso, al quale per la prima volta, hanno partecipato la presidente della Comunità ebraica Ruth Dureghello e il professor Marcello Pezzetti. Una seduta dove è stata presentata la Carta d’Intenti sottoscritta ad Auschwitz con il Miur e l’Ucei. Oggi sarà all’Aquila per l’inaugurazione dell’anno giudiziario delle corti d’Appello. Una scelta fortemente voluta, perché è la sua terra e perché, insieme con altre regioni del Centro Italia, è afflitta da tragedie e calamità naturali senza precedenti. "Vado lì - spiega - per manifestare sostegno agli uffici giudiziari di quel distretto e per stringermi al dolore dei famigliari delle vittime e ad una comunità che deve riprendere un cammino di speranza, dopo le recenti tragedie che si aggiungono a quelle del terremoto del 2009". Una rinascita legata principalmente alla ricostruzione, con il pericolo continuo di infiltrazioni mafiose e di corruzione. Eppure, dice il presidente della Cassazione Giovanni Canzio, i processi per corruzione continuano a essere pochi. C’è una strada per contrastarla? "La corruzione, per sua natura, fatica ad emergere perché il corruttore e il corrotto non hanno ovviamente alcun interesse a che ciò avvenga. Ed è anche questo che determina la distanza tra corruzione percepita e corruzione accertata, della quale si è parlato durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione". In che modo ci si può difendere? "La lotta alla corruzione deve essere una priorità per la credibilità del nostro Paese, che deve procedere su un doppio binario: quello culturale-preventivo e quello giudiziario, sapendo che non tutto può essere riversato sulle forze dell’ordine e la magistratura. Passi avanti sono stati fatti, come rilevato dal Greco del Consiglio d’Europa (gruppo di Stati contro la corruzione, ndr), ma altri vanno ancora fatti". La giustizia, intanto, sebbene ci siano stati progressi nel civile, continua a procedere molto lentamente. E il cittadino resta sospeso in attesa di un giudizio che tarda ad arrivare. "Non c’è alcun dubbio che il fattore tempo, oltre a inverare il principio costituzionale della ragionevole durata è decisivo per rendere il processo più giusto. Troppo a lungo e troppo spesso, l’unica verità che rimane sul campo e che viene percepita dall’opinione pubblica, è quella dell’accusa. Si tratta di una anomalia che produce effetti inaccettabili sulle persone indagate e alimenta una sfiducia nella giustizia. La battaglia sui tempi è la più importante da vincere, se si vuole una giustizia più giusta". Tempi lunghi, ma anche processi mediatici, fughe di notizie, e pubblici ministeri troppo autoreferenziali. Tanto che il presidente della Cassazione ha ipotizzato delle "finestre di controllo sulle inchieste". Non sarà un ritorno alla figura del giudice istruttore? "Condivido l’allarme lanciato dal presidente Canzio e dal Pg. Ciccolo, si tratta sia di indicazioni rivolte al legislatore che di autorevoli richiami al rispetto dei doveri e delle norme processuali già vigenti". Il Csm cosa può fare? "Il Consiglio, ed in particolare la VII Commissione, ha avviato da tempo un lavoro molto impegnativo per emanare una nuova circolare sugli uffici di Procura. Nelle prossime settimane terremo un confronto con tutti i procuratori distrettuali per ascoltare le loro idee e i loro suggerimenti". Quali le possibili soluzioni? "Non posso rivelare il contenuto della nuova circolare per rispetto del lavoro della Commissione, e perché vogliamo prima ascoltare le proposte dei procuratori. Una parte dei problemi che molto spesso vengono denunciati da più parti, potrebbero trovare risposta nel rafforzamento delle misure e capacità organizzative degli uffici di Procura. Occorre ricercare un equilibrio nuovo e più avanzato tra i poteri del capo dell’ufficio e l’autonomia dei singoli pm, sulla base delle vigenti disposizioni dell’ordinamento giudiziario ed affermando la responsabilità di ciascuno". Non si rischia di limitare l’autonomia del singolo magistrato? "L’autonomia trova piena tutela nell’ordinamento. Ciò che vorremmo tentare di fare è un’operazione analoga a quella sulle intercettazioni telefoniche, a seguito delle circolari di alcune importanti procure. Dunque, no alla gerarchizzazione, sì alla migliore definizione degli ambiti di responsabilità di ciascuno dei pm, affinché sia assicurato il rispetto delle norme che nel codice sono ben chiare. Ad esempio quelle sull’obbligo alla riservatezza e sulle modalità di comunicazione dell’andamento e dell’esito delle indagini. Un argomento sul quale si è soffermato il pg Ciccolo. Penso anche, che bisogna fortemente valorizzare, come già sta accadendo, il ruolo di coordinamento del pg della Cassazione e di quello delle Corti d’appello, in attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 6 del decreto legislativo 106/2006". Se i malesseri della giustizia sono i tempi e la sovraesposizione di alcuni magistrati, viene da chiedere allora quanti siano i procedimenti disciplinari aperti dal Consiglio superiore. "Il procedimento disciplinare funziona. Spesso però, anche sui mezzi di informazione, vengono confusi i poteri del Csm con quelli che spettano ai titolari dell’azione disciplinare. Spetta al pg della Cassazione e al Ministro della giustizia l’esercizio dell’azione disciplinare. Molto spesso sento invocare l’intervento del Csm ma sono solo tali organi ad avere il potere di formulare le incolpazioni. E quando ciò accade, la decisione della Sezione disciplinare arriva in tempi ragionevoli, con sentenze improntate ad equilibrio e rigore. Sono le cifre di cui disponiamo che lo dimostrano". Quali i dati? "Dati rilevanti, che parlano di 391 procedimenti definiti in due anni con 124 sentenze di condanna, 118 di assoluzione e per le altre, ordinanze di non luogo a procedere a seguito di richiesta del pg. Significativi sono i dati del 38 per cento di condanne relativi ai ritardi nel deposito delle sentenze e del 23 per cento per le scarcerazioni ritardate". Alla luce di questi risultati sono aumentati i procedimenti disciplinari? "Sì, i procedimenti disciplinari e le sentenze sono in aumento, così come lo sono gli esposti e le denunce sulle incompatibilità. E su questo da tempo invochiamo l’intervento del legislatore, peraltro contenuto nelle conclusioni della Commissione ministeriale appositamente istituita. La capacità di intervento per incompatibilità prevista dall’articolo 2 della Legge sulle guarentigie è purtroppo molto depotenziata. Per questo una parte importante delle istanze provenienti dai cittadini e dagli Uffici rimane insoddisfatta". C’è poi la protesta dell’Anm, che lamenta organici ridotti e la mancanza di una norma sull’età pensionabile. "Le scoperture di organico sono molto rilevanti, circa 1200, non sostenibili per gli uffici. Il prossimo ingresso dei Mot (magistrato ordinario di tirocinio), 310 ai quali nei prossimi giorni assegneremo le sedi e i concorsi in fase di espletamento, risolveranno una parte consistente del problema. Bisogna accelerare, e penso che sia necessario prevedere a un concorso straordinario, magari con accesso diretto per i laureati più meritevoli, con voto di laurea elevato". Resta il noto sull’età pensionabile, quale la vostra posizione? "La posizione del Csm è nota: 72 anni a regime. A decidere comunque sono il parlamento e il governo. Mi auguro solo che si pervenga ad una soluzione definitiva e stabile, al più presto". La presenza del premier Gentiloni alla Cerimonia di inaugurazione in Cassazione, dopo l’assenza di Renzi dello scorso anno, che significato politico ha? "Il significato politico non lo deve chiedere a me. Ciò che è certo è che la sua presenza è stata un segnale importante insieme a quella molto estesa dei rappresentanti di tutte le istituzioni. Auspico che i rapporti tra magistratura associata e governo riprendano al più presto, insieme all’approvazione delle riforme all’esame del Parlamento per proseguire nel percorso di innovazione della giustizia italiana, che è in corso da anni e che sta dando i primi frutti". Morosini (Csm): "La protesta? L’Anm vuole solo magistrati liberi dalla politica" di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2017 Il consigliere del Csm sullo scontro tra governo e giudici dopo il decreto pro-Canzio sulla proroga dei pensionamenti. Il dito puntato del presidente della Cassazione Giovanni Canzio contro pubblici ministeri "autoreferenziali" che contribuiscono ai processi mediatici e alle fughe di notizie (parole sue all’inaugurazione dell’anno giudiziario) ha riaperto una polemica mai sopita, soprattutto nel mondo politico. Abbiamo chiesto in merito un’opinione a Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm, il Consiglio superiore della magistratura: "Il problema certamente esiste, anche se in casi non frequentissimi, ma l’ordinamento prevede forme di responsabilità penale, disciplinare e professionale del magistrato". Il presidente Canzio chiede ulteriori controlli delle indagini di tipo giurisdizionale… Anche quelli ci sono e sono molteplici: dall’autorizzazione alle intercettazioni fino alla proroga delle indagini, dalla convalida di un sequestro all’applicazione della custodia cautelare. Piuttosto questo tema della riservatezza dovrebbe essere esaminato anche da altri angoli prospettici, alla luce delle novità del decreto legislativo sul passaggio della guardia forestale ai carabinieri, che ha introdotto, l’estate scorsa, l’obbligo per la polizia giudiziaria di riferire sulle indagini segrete ai loro superiori. Ci faccia un esempio di cosa può accadere… Un’intercettazione non ancora valutata dal pm può finire sul tavolo di strutture direttamente dipendenti dal potere esecutivo. Proprio per questo motivo le stesse forze di polizia hanno annunciato di adottare una sorta di autoregolamentazione, così da proteggere la piena cooperazione con la magistratura. Dico questo non perché sia in discussione la fiducia verso gli organi di polizia, che fanno tanto per il nostro Paese, ma per la potenziale erosione di quelle norme del codice che affidano al pm la direzione del l’indagine. Una novità, introdotta nel codice del 1988, che è stata alla base di un controllo di legalità esercitato a tutto tondo a partire dagli anni 90. E allora perché secondo lei il presidente Canzio se la prende con i pm? Più che altro, il presidente Canzio credo abbia fatto un richiamo alla sobrietà. Vorrei, però, aggiungere che molto spesso il clamore mediatico attorno alla notizia di un’indagine non dipende dai magistrati, ma da manovre strumentali di ambienti interessati a colpire chi è sotto indagine. La Giunta dell’Anm, per la prima volta assente all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha detto che il governo vuole scegliersi i giudici, avendo fatto una proroga solo per i vertici della Cassazione, il presidente Canzio per primo, aggiungiamo noi... Vorrei prima dire qualcosa sulle polemiche per il tipo di protesta. Credo che l’iniziativa dell’Anm abbia un forte valore simbolico e vorrei anche ricordare che questa protesta non ha allungato di nemmeno un’ora i processi che si stanno celebrando in Italia e quindi non ha gravato sui cittadini. Rispetto al merito: l’Anm ha attaccato il decreto, poi convertito in legge, che è apparso a molti osservatori ampiamente lacunoso sul piano della funzionalità complessiva e soprattutto culturalmente discutibile nel modo di interpretare i rapporti tra politica e magistratura; nella distinzione tra magistratura di merito e di legittimità; nella erronea individuazione delle priorità rispetto ai problemi strutturali della giustizia; nell’uso della decretazione d’urgenza per norme che riguardano l’ordinamento giudiziario. Discostandosi in questo modo dagli auspici della Costituzione. In altri termini, l’Anm ha protestato per assicurare un sano rapporto di separatezza tra le prerogative della politica e l’idea costituzionale del governo autonomo della magistratura. Lei fa parte del Csm, l’Anm ha detto che questa proroga voluta dal governo incide anche sulla composizione del Consiglio. È d’accordo? Più che sui magistrati che beneficiano di questa proroga, l’Anm pone l’accento sulla pericolosità di questo precedente. La disposizione di legge e il suo impatto così circoscritto sono vissuti come una impropria sovrapposizione alla prerogative affidate dalla Costituzione in via esclusiva al Csm. È un fatto o no che i prorogati siano il presidente e il procuratore generale della Cassazione, membri di diritto del Csm? È una conseguenza della legge. Mascherin e Davigo, primo duello su diritti e garanzie di Errico Novi Il Dubbio, 28 gennaio 2017 A duello il capo dei Pm e il capo degli avvocati. "Restiamo su posizioni diverse, possiamo dissentire su aspetti tecnici della riforma del processo: ma noi avvocati e voi magistrati sappiamo cosa serve alla giustizia, e se stabiliamo un’alleanza possiamo avere una forza politica straordinaria". Andrea Mascherin propone un patto della giurisdizione a Piercamillo Davigo. Che resiste, esibisce scetticismo, trova mille "orpelli del processo" sui quali mai la classe forense potrebbe concordare con i giudici. Ma alla fine di una lunghissima e appassionante discussione al Centro fiere e congressi di Arezzo, fa un passo avanti molto concreto: "Direi assolutamente di sì" alla presenza con pieno potere del presidente dell’Ordine distrettuale all’interno dei Consigli giudiziari. Che sembra niente, ma con il clima che si è creato nel dibattito sulla giustizia, da un paio di giorni a questa parte, è tantissimo. Finisce insomma con un interessante passo verso il dialogo il primo incontro a cui Davigo si concede, da quando è presidente Anm, con il vertice del massimo organismo di rappresentanza dell’avvocatura. Andrea Mascherin era già presidente del Consiglio nazionale forense quando, nell’aprile dell’anno scorso, l’ex pm di Mani pulite è stato eletto alla guida dell’Associazione magistrati. Si tratta dunque di un inedito assoluto, in cui però l’asprezza dei contrasti si stempera in una vicinanza di fatto su alcuni aspetti decisivi come la necessità di mettere la giustizia "dalla parte dei cittadini". Anche se Davigo non rinuncia alle provocazioni che finiscono per intrattenere il pubblico, composto in maggioranza da avvocati. Davigo: Palamara si uniformi - Il faccia a faccia dal vivo si celebra il giorno dopo la cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario che l’Anm ha disertato per protesta. E così al tema dell’incontro ci si arriva dopo aver ascoltato dal leader delle toghe le ragioni di un dissenso tanto clamoroso. "Magistratura e avvocatura: un confronto per una Giustizia condivisa, più efficiente e più giusta", è il titolo scelto dalla Fondazione per la Formazione forense, organizzatrice dell’evento. Confronto che giovedì mattina in Cassazione è avvenuto in un quadro reso anomalo dall’assenza della magistratura associata. Davigo arriva subito al punto: "Non si può andare a una inaugurazione a sentire un ministro che aveva preso un impegno scritto e poi non l’ha mantenuto", è la spiegazione che il presidente Anm fornisce. Stoccata al guardasigilli Andrea Orlando, che aveva ribadito la volontà di intervenire su pensioni e trasferimenti con una nota al sindacato dei giudici. Torna la polemica sul decreto Cassazione con cui, secondo l’ex pm del Pool, "il governo si è scelto i magistrati da solo". Ma il vero bersaglio, ancora più che Orlando, è quella parte della magistratura associata che ha disconosciuto l’iniziativa della giunta Davigo in tempo reale, innanzitutto il togato di Unicost ed ex leader del "sindacato" Luca Palamara: "Anche lui fa parte dell’Associazione, ha avuto la possibilità di dire la sua. Dopodiché una volta che una decisione è presa, per giunta all’unanimità, dovrebbe fare la cortesia di uniformarsi". Mascherin: pm e avvocati forze autonome - Mascherin non manca di ricordare al "rivale" che le battaglie come quella sulle pensioni sono incomprensibili per l’opinione pubblica: "Anche quando sono sorrette da questioni di principio come quella relativa all’autonomia, è difficile che le persone comprendano. Esattamente come quando noi parliamo di tariffe o eccessiva pressione fiscale: non si pensa alla giusta rivendicazione, solo al fatto che vogliamo guadagnare di più". E oltre tutto, aggiunge, "se avessimo disertato l’anno giudiziario tutte le volte che la politica ci ha maltrattati, non ci saremmo andati quasi mai". Dopodiché il presidente del Cnf indica in avvocati e magistrati "due forze autonome dagli altri poteri in grado di assumere un ruolo forse inedito ma naturale: essere guida di un riscatto civile, esercitare un ruolo sociale e svolgere una funzione di indirizzo della politica in un momento in cui i diritti, soprattutto dei più deboli, sono messi in discussione". Il vero nemico per il giudice, secondo il leader dell’avvocatura, "non è il difensore, ma l’idea che possa essere, per esempio, l’economia a imporre le proprie regole al diritto e non viceversa". Il principio è che "noi sappiamo cosa serve alla giustizia, e invece ci troviamo spesso di fronte all’esercizio abusivo della professione di legislatore". Ma il patto deve sostanziarsi in qualcosa: il presidente del Cnf accenna alla presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari anche in sede di valutazione della professionalità dei magistrati. E a sorpresa, dopo l’iniziale schermaglia, Davigo dice "sì" senza riserve particolari alla presenza del presidente dell’Ordine distrettuale. "Non a un rappresentante dell’avvocatura eletto, però: siamo un Paese di cialtroni, il giorno dopo il suo studio sarebbe invaso dai clienti, a discapito degli altri avvocati". "Processi efficienti. Non come in Corea" - Il vertice del Consiglio nazionale forense chiede conto all’interlocutore della sua polemica sul numero chiuso a Giurisprudenza: "L’abbiamo interpretata come un progetto di decimazione economica degli avvocati". "Non è così", è la risposta di Davigo, "intendevo dire che abbiamo un numero abnorme di avvocati ma non che sono gli avvocati a fare in modo che le cause aumentino". Incidente chiarito, almeno in parte. Sul numero chiuso anche Mascherin è "aperto" visto che "non è possibile che si scelga la professione forense solo perché si è fallito il concorso da notaio o da magistrato". D’altronde sull’efficientismo processuale le distanze restano: Davigo vorrebbe "evitare che la formazione della prova debba avvenire davanti al giudice fino al punto da escludere le testimonianze de relato, e comunque", è forse il passaggio più controverso del magistrato, su questo punto, "pretendere l’assoluta verginità cognitiva del giudice è assurdo: è giusto invece che chi deve decidere lo faccia anche sulla base della propria esperienza, e cioè del fatto che la maggior parte degli imputati è colpevole". Punti sui quali Mascherin dissente in modo radicale, perché "la prova non può che formarsi nel contraddittorio: solo su quest’ultimo chi giudica può fare la propria sintesi". E poi, ricorda il presidente del Cnf, "mi tengo stretto il nostro sistema di garanzie: in Corea del Nord l’esecuzione penale è rapidissima, ma non importerei quel modello…". Davigo è sicuro: "Alcune riforme possono voler dire anche riduzione delle udienze: siete convinti vi convenga discuterne con noi?". Ma Mascherin non deflette dall’apertura iniziale. E pur dopo aver cercato di mettere alla prova la controparte, anche Davigo sa, da ieri, che sul dialogo con gli avvocati vale almeno la pena di tentare. Il partito dei Pm e le deformazioni della legalità di Riccardo Magi e Michele Capano* Il Dubbio, 28 gennaio 2017 L’Anno Giudiziario è stato inaugurato nel segno di più "emergenze". Quando si dà per scontato che l’ordinamento giuridico, la giustizia, possano essere condizionate "dall’emergenza", è ben difficile che poi si possa considerare di "esserne fuori" ed escludere che, invece, sempre nuove emergenze sopravvengano. Ancora una volta, come avviene oramai da decenni, l’Anno Giudiziario è inaugurato nel segno e nel contesto di un’emergenza, anzi di più "emergenze", ché, quando si dà per scontato che l’ordinamento giuridico, la giustizia, il suo ruolo tra le istituzioni dello Stato possano una volta essere condizionate "dall’emergenza", è ben difficile che, poi si possa considerare di "esserne fuori" ed escludere che, invece, sempre nuove ne sopravvengano. Emergenze mafia, emergenze corruzione, emergenze terrorismo. La giustizia "delle emergenze" è da considerare "giustizia"? È compatibile con i principi fondamentali cui essa deve essere improntata nei Paesi civili? Non sarà qui ed ora che potrà darsi una risposta d’ordine generale. Ma è impossibile, se non si vuole che questo diventi uno squallido rituale magari anche un pochetto ridicolo, non interrogarci sul fatto che stanno tragicamente venendo al pettine i nodi rappresentati da questa "devianza" della giustizia. Cominciamo da uno di quelli che oramai sono diventati scandalosi. Eventi recentissimi hanno richiamato l’attenzione sul "sistema", che di un complesso sistema si tratta, dei pentiti, che costituisce l’architrave di ogni prova non solo in materia di criminalità organizzata. I pentiti hanno creato un loro mondo, una loro "verità": si sostengono e si "ispirano" reciprocamente. Sono "gestiti" (come si dice oramai nel linguaggio giudiziario) da determinati magistrati con i quali collaborano con un rapporto personale. Ne assecondano le "intuizioni", ne sostengono le "tesi", ne colpiscono i "nemici". Ogni tanto clamorosi casi di falsità, evidenti manifestazioni di "pentimenti" strumentali, lasciano intravedere le magagne del problema. Ma a tutti si risponde in un solo modo: I pentiti sono "essenziali", per la "lotta" alla criminalità organizzata. Questo "supera" il problema della affidabilità delle loro dichiarazioni. Quante sentenze sono viziate, false, ingiuste, perché fondate su dichiarazioni di pentiti che saranno pure risultati "essenziali" per la lotta, ma non altrettanto per la certezza delle accuse fondate sulle loro "rivelazioni"? E qui bisogna soffermarsi a riflettere su ciò che la storia della nostra legislazione processuale ci dimostra. Quando fu introdotta nel codice di procedura la formula della necessità, per addivenire ad una sentenza di condanna, della dimostrazione della colpevolezza dell’imputato "al di là di ogni ragionevole dubbio" (escludendo quindi, ad esempio, il valore di una pur altissima probabilità) avrebbe dovuto verificarsi una svolta, un "terremoto" nell’esito dei processi penali. Avrebbe dovuto scomparire per sempre la tendenza a far dipendere le condanne dall’esigenza di "dare un esempio", di rendere meno allettante l’idea del ricorso al crimine etc. etc. Non è successo niente. Non sono nemmeno cambiate le parole con le quale le sapienti motivazioni prevalgono sulla ragionevolezza dei motivi delle condanne. Le statistiche non ne hanno risentito. Ancora una volta la legge è risultata non essere fatta per realizzare il suo semplice e chiaro dettato. È in corso un sempre più marcato e frequente ricorso a norme di legge "alla giornata", spesso al di fuori e contro il sistema complessivo del diritto, per soddisfare sentimenti e reazioni della pubblica opinione in ordine a particolari in sé non essenziali dei comportamenti considerati. L’uso di qualche termine straniero, entrato nel linguaggio usuale da un sistema giuridico totalmente diverso dal nostro, completa il quadro di uno sfascio del sistema. La proporzionalità delle pene secondo la gravità effettiva del delitto è stata compromessa e rovinata dall’esigenza di adattare le leggi penali alla contingenza di momenti di allarme e di esecrazione per certi reati. E qui si deve dire chiaramente che la "giustizia di lotta", per "campagne", di volta in volta contro questa o quella forma di criminalità, oltre a determinare pregiudizi e deformazioni delle valutazioni delle prove necessarie per applicare le norme repressive, finisce per portare alla disgregazione ed allo sfascio dell’armonia degli ordinamenti giuridici. Da un punto di vista soggettivo, poi, questo tipo di giustizia finisce per conferire a chi è chiamato ad esercitarla una visione del proprio compito che, anziché di applicazione e, quindi, di soggezione alla legge, è di superiorità della giurisdizione al diritto: la pericolosa involuzione della funzione giuridica e del corpo stesso della magistratura spinta ad assumere tendenze, ad essere parte, partito, ed a deformare l’Istituzione che rappresenta con l’assunzione di un ruolo concorrente e finalizzato alla supremazia rispetto agli altri organi costituzionali. Se si è potuto parlare di "Partito dei magistrati" ciò non è dovuto ad una perversa tendenza personale, ma ad un complesso di deformazioni del diritto e delle istituzioni che sarebbe nell’interesse di tutti analizzare per poterne evitare l’effetto di pericolose devianze. *Segretario e Tesoriere di Radicali Italiani Vogliamo evitare fughe di notizie? Togliere le indagini ai pm "gole profonde" di Michele Vaira* Il Dubbio, 28 gennaio 2017 "Dinanzi al fenomeno della fuga di notizie su indagini in corso più volte viene invocato l’intervento del mio ufficio, che risulta quasi sempre sterile per la obiettiva difficoltà di individuare le singole responsabilità". Lo ha detto il procuratore generale Ciccolo nel corso della giornata di inaugurazione dell’anno giudiziario. Il Procuratore Ciccolo era proprio di fronte a me, e nella direzione del mio sguardo c’era il sindaco di Roma, Virginia Raggi. Questa combinazione tra il discorso del procuratore e la visione della Raggi mi ha indotto, quasi costretto, a riflettere. E, magari, lanciare delle proposte davvero semplici. La Raggi ha ricevuto un invito a comparire in qualità di indagata per i reati di falso e abuso d’ufficio. E fin qui, nulla da dire (in realtà, ce ne sarebbe da dire, quantomeno sulla qualificazione giuridica dei fatti, ma non mi compete). La notizia dell’invito, che ha valore di informazione di garanzia, è stata, apprezzabilmente, da lei stessa resa pubblica. Per chi, come me, frequenta abitualmente le aule penali, ma anche per chi ha un minimo di esperienza di interrogatori di indagati prima della conclusione delle indagini, non rappresenta una novità il fatto di svolgere queste attività difensive "al buio", senza conoscere gli atti su cui si fonda l’incolpazione provvisoria. Nella migliore delle ipotesi il Pm, a suo insindacabile giudizio, li contesta all’indagato, spesso con l’obiettivo di metterlo in difficoltà. Le indagini sono segrete. Lo sappiamo dai tempi dell’Università. Anche dopo l’applicazione di una misura cautelare, non tutti gli atti sono disponibili per la difesa, ma solo quelli che il Pm ha trasmesso (a suo insindacabile giudizio) al Gip per la valutazione della richiesta cautelare. Tant’è che, molto spesso, il giudizio di primo grado giunge all’assoluzione degli imputati sulla base degli atti che, in fase cautelare (prima della conclusione delle indagini), i Pm (non tutti, sia chiaro, ma una buona parte di essi) custodivano gelosamente nei propri archivi. Peccato che, soprattutto nei casi di più spiccata rilevanza mediatica (e l’indagine sulla Raggi ne è l’attuale esempio più evidente) accade l’esatto opposto. I due esempi che seguono sono lampanti: articolo del Corriere della Sera del 24 gennaio: "La svolta nell’indagine arriva due giorni fa, quando i carabinieri consegnano al procuratore aggiunto Paolo Ielo la relazione sui contenuti del telefono sequestrato a Raffaele Marra dopo l’arresto per corruzione". Non si tratta, come è evidente, di atti depositati nel fascicolo cautelare di Marra (che sarebbero, quindi, non coperti dal segreto - sebbene sia difficile immaginare che i legali di Marra ne abbiano comunque dato diffusione alla stampa arrecando un danno al proprio assistito), ma di atti di recentissima produzione. Atti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono disponibili per i difensori mesi dopo il deposito degli stessi. Qui abbiamo invece in pratica una relazione in streaming da parte della polizia giudiziaria. Mi chiedo: questa consegna è avvenuta nel segreto della stanza del procuratore aggiunto, o al bar del tribunale, alla presenza di migliaia di persone, tra le quali il misterioso informatore del Corriere? Un successivo articolo su Repubblica riporta addirittura il virgolettato di un verbale. "Fu Raffaele Marra - ha detto a verbale Meloni - a suggerirmi la nomina del fratello Renato quale direttore del dipartimento per il turismo". Salvo il caso (invero astratto) in cui il giornalista abbia inventato di sana pianta queste circostanziate informazioni, si aprono diversi inquietanti scenari. Qualcuno ha sottratto il verbale gelosamente custodito dal procuratore aggiunto Paolo Ielo? Vi è una rete di microspie all’interno della Procura? Una terza ipotesi a me appare più verosimile: qualcuno dei presenti all’assunzione delle informazioni ha rivelato dolosamente il segreto di ufficio al giornalista. Non c’è bisogno della sfera di cristallo, per chi voglia procedere a punire il o i responsabili del reato. Essendo stato il testimone ascoltato in Procura, appena due giorni prima, il cerchio può facilmente restringersi. Un responsabile del fascicolo c’è, ed è un magistrato. Dominus delle indagini. C’è il suo assistente, e forse qualche esponente della polizia giudiziaria. Saranno, nella peggiore delle ipotesi, cinque o sei persone. In Procura c’è una gerarchia. C’è (o ci dovrebbe essere) una catena di custodia e un principio di responsabilità. C’è dipendenza funzionale della polizia giudiziaria nei confronti della magistratura inquirente. Se si vuole passare dalle parole ai fatti, si intervenga. Come per tutti i comuni cittadini. Il reato è stato commesso, è evidente. Le notizie non sono fuggite da sole. Ma siccome la prevenzione è più efficace della punizione, e non è bello vedere magistrati e forze dell’ordine sotto processo, c’è un rimedio semplice. Lo abbiamo sperimentato nel caso degli incendi: il vincolo di inedificabilità assoluta dei terreni. Basterebbe, con un criterio di addebito oggettivo, privare i pubblici ministeri dai cui uffici (per colpa o dolo a quel punto poco importa) fuoriescono informazioni sottoposte a segreto istruttorio, del fascicolo loro assegnato. Condannarli all’oblio, che per alcuni è punizione peggiore del carcere. Sono consapevole che si corre il rischio, in certi tribunali, di veder girovagare fascicoli da una stanza all’altra della Procura. Ma sono certo che, a regime, questo sistema porterebbe quei risultati che tutti - dico tutti - oggi così solennemente auspicavano. *Presidente Associazione Italiana Giovani Avvocati Campania: viaggio nelle carceri della, tra stereotipi e verità di Lara Tomasetta tpi.it, 28 gennaio 2017 Emilio Quintieri racconta la situazione delle strutture penitenziarie campane, come le Case circondariali di Salerno e Poggioreale. Oltre 54mila detenuti sono presenti nelle carceri italiane rispetto ai 49mila e 600 posti disponibili: le prigioni vivono un sovraffollamento del 9 per cento che varia notevolmente a livello regionale e di singoli istituti. Emilio Quintieri è stato capo delegazione dell’operazione denominata Tre metri dietro le sbarre promossa dall’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani, i cui soci, nel corso del 2016, hanno effettuato visite ispettive in otto case circondariali della Campania. Emilio, in qualità di esperto penitenziario autorizzato dal ministero della Giustizia, ha avuto modo di verificare le condizioni di vita dei detenuti e il rispetto della funzione rieducativa della pena con resoconti e relazioni inviati agli organi competenti in materia penitenziaria. Grazie al suo contributo TPI ha potuto effettuare un viaggio tra gli istituti e delineare un quadro per sfatare eventuali miti su Poggioreale, quello che per molti è il peggior carcere campano, e acquisire informazioni sulle strutture che invece mantengono standard bassi rispetto alle credenze generali. Le visite hanno interessato gli istituti di Napoli Poggioreale, Napoli Secondigliano, la Circondariale di Bellizzi Irpino, la Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, quella di Santa Maria Capua Vetere, l’istituto di custodia attenuata di Carinola e le carceri di Benevento e Salerno. Casa circondariale di Salerno - "Tutti i reparti detentivi, eccetto quello femminile e dell’alta sicurezza, si presentano del tutto fatiscenti", racconta Emilio. "Hanno camere di pernottamento indecorose, piene di muffa, alcune con vetri delle finestre rotte dalle quali entra freddo ed acqua, altre con mattonelle del pavimento saltate ed altre ancora prive di riscaldamento per il non funzionamento dei termosifoni, occupate quasi tutte da sette detenuti". "Quando siamo arrivati c’era una forte agitazione tra i detenuti, specialmente nei confronti del direttore che era lì con noi", spiega l’esperto penitenziario. "Sono intervenuto più volte per calmare gli animi". La casa circondariale di Salerno è stata aperta all’inizio degli anni Ottanta. Ospita 475 detenuti: 50 donne e 83 stranieri. Ci sono diversi circuiti detentivi di media e alta sicurezza con criminalità organizzata e la sezione di semi libertà con otto detenuti. "I locali per l’igiene personale hanno docce non funzionanti e con acqua calda insufficiente", spiega Quintieri. "La Direzione dell’Istituto si è giustificata adducendo che l’esiguità delle risorse economiche non consente di svolgere attività di manutenzione straordinaria e a volte anche quella ordinaria. Ma la mancanza di fondi non può assolutamente giustificare che l’esecuzione della custodia degli imputati o l’espiazione della pena per i condannati avvenga in condizioni che ledono la dignità umana". Proprio in virtù delle delicate condizioni in cui versa la struttura, la relazione redatta per Salerno sarà presto oggetto di interrogazione parlamentare ai ministri competenti. I punti critici riguardano soprattutto il mancato adeguamento della struttura agli interventi di ristrutturazione previsti dall’ordinamento penitenziario del 2000, secondo il quale le sezioni detentive dovevano abolire i bagni in comune e introdurli nelle singole celle, cosa che per Salerno ancora non è avvenuta. Un altro aspetto scoraggiante riguarda la proporzione tra il numero delle guardie e numero dei detenuti. Le unità di controllo penitenziario, tra commissari e ispettori, dovrebbero essere 294, mentre sono presenti 251 unità, con una carenza di 43 unità. Con la sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 è stato stabilito che ogni detenuto debba avere a disposizione 3 metri quadri di spazio calpestabile in cella. La prima sezione penale della corte di cassazione ha recentemente definito i termini per individuare lo spazio del detenuto: è necessario detrarre lo spazio occupato dalla strutture fisse in cella. "A Salerno ci sono 7 persone in celle da 21 metri, ma lo spazio è di gran lunga inferiore ai 3 metri quadrati per detenuto poiché non è stato calcolato lo spazio occupato dal mobilio", ha raccontato l’ispettore. Casa circondariale di Poggioreale - "L’istituto ha mostrato evidenti segni di miglioramento nel corso degli anni, sia per quanto riguarda gli ambienti, sia per quanto riguarda il trattamento dei detenuti", racconta Emilio. "Inizialmente Poggioreale non aveva locali per attività in comune. Dal 2016 si è riusciti a trasformare due celle per ogni reparto in una piccola palestra con attrezzature fornite da una chiesa valdese. Dal 2017 sono stati completati alcuni padiglioni in ristrutturazione tra le sezioni più fatiscenti dei padiglioni Napoli, Milano, Salerno. Si è passati da 3mila detenuti a 1.964, su una reale capienza di 1.500 posti. Ristrutturazioni completate anche per la cucina e per il padiglione Roma, nuove palestre in costruzione e nuovo terreno in erba sintetica per il campo di calcetto. Progetti in fase di avvio riguardano una ludoteca, una sala colloqui per i figli dei detenuti e nuovi passeggi dei cortili da realizzare con l’università di Napoli. "Quando siamo entrati nella struttura non c’era la stessa agitazione riscontrata a Salerno", spiega Emilio. "Bisogna forse cominciare ad abbattere qualche stereotipo: non è questo il peggior carcere della Campania. Piuttosto Salerno è tra quelle che meriterebbero un interessamento nazionale". Santa Maria Capua Vetere - Quello di Santa Maria Capua Vetere è un carcere nuovo che però presenta dei problemi di tipo strutturale, non è allacciato all’acquedotto comunale ed è stato edificato in prossimità di una discarica. "C’è un cattivo odore, di animali e insetti che sono presenti anche nei padiglioni", continua il capo delegazione dell’operazione Tre metri dietro le sbarre. "I reparti Volturno, Tamigi, Nilo e Senna sono tra i migliori, le detenute sono impegnate in attività sartoriali propedeutiche ad una formazione professionale". Con una capienza di 833 posti per 937 detenuti e 561 unità di polizia, la struttura sta lentamente raggiungendo gli standard previsti per l’equilibrio numerico. Carinola - "La struttura di Carinola una volta era adibita a carcere di alta sicurezza", prosegue Emilio. "Recentemente è stata trasformata in casa di reclusione a custodia attenuata: tutti detenuti sono in sorveglianza dinamica, cioè possono durante il giorno circolare liberamente tra i bracci". Da segnalare il progetto denominato Condominio 21, con 18 detenuti che lavorano all’esterno della struttura, presso un’ex caserma e con il solo controllo dinamico in autogestione. Secondigliano - "A Secondigliano abbiamo trovato una situazione poco chiara soprattutto per quanto riguarda l’ex centro clinico: molti detenuti lamentano di non essere seguiti a livello sanitario", prosegue Emilio. "Il numero dei detenuti è di gran lunga superiore alla capienza: 1.309 detenuti per 1029 posti". Bellizzi Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi - Note di merito per i due istituti di Bellizzi Irpino e Sant’Angelo dei Lombardi, entrambi situati nella provincia di Avellino. A Sant’Angelo dei Lombardi si è attivato un importante lavoro volto all’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. "Molti reparti sono in regime di sorveglianza dinamica, quasi la totalità dei carcerati è impegnata in tipografia, nell’officina meccanica, o nell’orto o nel vigneto gestito da una cooperativa insieme ai detenuti", racconta l’ispettore. "Le richieste per essere trasferiti in questa struttura sono moltissime. Si è molto lontani dal vecchio concetto di carcere con pena fine a sé stessa". "Per quanto riguarda il regime custodiale, la Campania è un delle poche dove è stata realmente rivoluzionata l’organizzazione. Dal tipo tradizionale si è passati a quello aperto, con sorveglianza dinamica, non solo nella media sicurezza, ma anche nell’alta sicurezza, contrariamente a quanto avvenuto in Calabria". Liguria: "la situazione della carceri è negativa", l’analisi del Sappe ligurianotizie.it, 28 gennaio 2017 Dall’analisi del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, sull’andamento delle carceri liguri ne esce fuori un quadro negativo da non sottovalutare. I problemi liguri oggi si raccontano principalmente con un affollamento carcerario che, con i suoi circa 1400 detenuti con la Liguria che ha una capienza di 1100 posti, la colloca al 5° posto nazionale con indice 130 (113 nel 2015). Tra gli istituti della Regione è quello di Imperia ad essere maggiormente sovraffollato con un indice pari a 137 mentre Genova tocca indice 127. Ma ciò che ci preoccupa - afferma il Sappe - è il silenzio che è calato sul carcere di Savona, soppresso il 28 dicembre del 2015 ed attualmente rimosso anche dalla memoria dell’interesse pubblico. Per il Sappe ligure l’edificazione del nuovo carcere a Savona è invece indispensabile perché incide sulla quotidianità dell’attività giudiziaria, sulle forze di Polizia che effettuano l’arresto, sulla Polizia Penitenziaria. Le carceri liguri sono sempre coinvolte nella gestione di quei fenomeni malavitosi che contraddistinguono il territorio, come oggi sul terrorismo internazionale i dati in nostro possesso dicono che sono stati 5 i casi di detenuti con comportamenti sospetti quindi monitorati, mentre sono state 61 le perquisizioni effettuate nelle celle liguri conseguenti a sospetto di affiliazioni o comunque riconducibili a terrorismo internazionale, dando così alla Polizia Penitenziaria un importante ruolo. Anche gli eventi critici sono da analizzare; nel 2016 sono stati 1.830 ai quali sommiamo i quasi 500 casi di infortuni in carcere. In totale sono stati 2.698 i casi più o meno importanti che hanno visto intervenire la Polizia Penitenziaria ligure. Nel 2016 la Polizia Penitenziaria, in Liguria ha sventato ben 36 tentativi di suicidio. "I tentati suicidi sono in aumento - continua l’analisi il segretario nazionale Lorenzo - e bisogna collegare questo dato anche alla detenzione di soggetti con disagio mentale i quali dovrebbero essere ospitati nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza denominate REMS delle quali la Liguria purtroppo è sprovvista". Restando il ambito della sanità penitenziaria, registriamo la presenza di un elevato numero di detenuti affetti da patologie infettive, sono 45 detenuti affetti da Hiv e 173 con epatite C e sono 453 i tossicodipendenti. Detenuti che richiedono di continua assistenza sanitaria. La sanità penitenziaria è di competenza delle Regioni, all’assessore regionale va il nostro invito affinché negli istituti si potenzi la presenza di medici specialisti, oggi insufficienti. In tutta la Liguria sono 13 specialisti e 33 i medici generici. Le criticità del sistema penitenziario ligure si connotano per un elevata percentuale di detenuti stranieri stimati in 718 mentre 678 sono italiani. Gli istituti di Imperia, Marassi e La Spezia si contendono il primato di maggiore concentrazione di stranieri, è necessario che venga agevolata la possibilità di far scontare la loro pena nei loro Paesi d’origine. Emerge anche il dato della presenza di detenuti di età dai 18 ai 24 anni che al 31 dicembre sono stati 112, di questi 65 solo a Marassi. Un dato che non dovrebbe comparire nelle statistiche penitenziarie perché a questi soggetti non serve il carcere, dovrebbero essere affidati a strutture alternative, competenza questa che richiama l’attenzione della magistratura di sorveglianza, delle associazioni e di tutti gli Enti pubblici competenti. Il quadro degli eventi critici registrati nella carceri liguri nel 2016 dati si raccontano in: 167 atti di aggressione con 8 ferimenti, 538 azioni di autolesionismo, 103 casi di danneggiamenti, 12 incendi dolosi, 441 invii urgenti al pronto soccorso, 152 scioperi della fame e sete, 7 atti turbativi la sicurezza e poi il dramma di 1 suicidio e 3 decessi e ripeto i 36 detenuti che hanno tentato il suicidio in carcere salvati dalla Polizia Penitenziaria quale unico punto di riferimento a garanzia della sicurezza penitenziaria La Polizia Penitenziaria ha intercettato e bloccato 23 telefonini, 7 coltelli ed in 13 casi, sostanze stupefacenti. Questa mole di "criticità" viene contrastata solo dalla tenacia e professionalità della Polizia Penitenziaria spesso non valorizzata e sempre in una forte carenza d’organico, un dato su tutto, la carenza si conta in quasi 300 unità di Polizia Penitenziaria. "È ovvio - conclude segretario regionale Lorenzo - che la Liguria non può reggere tale ritmo, quindi è indispensabile che il Ministro Orlando richieda l’attenzione dei responsabili dell’amministrazione penitenziaria, ma soprattutto come Sappe richiamiamo l’attenzione dei politici liguri, perché il combinato aumento popolazione detenuta, eventi critici e carenza della Polizia Penitenziaria, potrebbe compromettere seriamente tutto l’assetto sicurezza delle carceri liguri e ciò che ne è collegato". Milano: le 400 mila notizie di reato "fantasma" in Procura Di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 gennaio 2017 Come ricetta per aggredire l’arretrato della giustizia penale, l’invisibilità sarebbe in effetti ingegnosa. Ma è involontaria, e anzi subita, la bacchetta tutt’altro che magica con la quale la Procura di Milano ha suo malgrado accumulato, nella quotidiana lotta di cancelleria per mandare avanti la baracca, la mancata iscrizione in questo momento di oltre 7 mila notizie di reato a carico di noti, e addirittura 400 mila a carico di ignoti. Depositate in carta, ma non ancora inserite nel registro informatico. A volerci scherzare sopra, è come se nel bilancio della Procura - che di mestiere indaga sui bilanci creativi di tante imprese, compresa 15 anni fa la contabilità Parmalat che con forbici, colla e scanner faceva credere alle banche di possedere 4 miliardi di liquidità inventata - esistesse una colossale posta extra bilancio. Parcheggiata in una sorta di "bad bank" non dichiarata dai "Bilanci di responsabilità sociale" presentati annualmente dalla Procura in tandem con il Politecnico, e nemmeno rilevata dalle cerimonie di inaugurazione (come oggi) dell’anno giudiziario, o dall’ispezione ordinaria del Ministero che nel 2016 si concluse in Procura con un lusinghiero giudizio per il triennio 2013-2015. A spulciarne però ora le 1.500 pagine allegate, qualcosa gli ispettori avevano già intravisto: ad esempio che erano state iscritte dopo più di 2 mesi dal deposito in Procura ben 42 mila notizie di reato a carico di noti (il 13% delle 305.000 del triennio) e 72 mila a carico di ignoti (il 27% di 261 mila). La situazione deve evidentemente essere esplosa nell’ultima stagione, forse per tre fattori: le carenze d’organico nel personale amministrativo, la travagliata migrazione dal vecchio (traballante ma più flessibile) sistema "ReGe" al nuovo (più stabile ma anche più rigido) sistema "Sicp", e il non contemporaneo passaggio (come invece altrove) al Portale telematico delle notizie di reato. Sicché oggi, al ritmo medio di 10 minuti per iscrizione di una notizia di reato, ci vorrebbero in teoria oltre 7 anni e mezzo per assorbire le 400 mila a carico di ignoti, e alcuni mesi per registrare le 7 mila pendenti a carico di noti. Cosa ci sia dentro questo "buco nero" statistico, nessuno può seriamente saperlo. Ovvio che i procuratori aggiunti di turno facciano già, tra tutte le 630 notizie che arrivano ogni giorno all’ufficio ricezione atti, una prima selezione di quelle più urgenti, quindi iscritte in tempo reale: le altre passano in coda, specie quelle "seriali" a carico di ignoti, per le quali una recente circolare ministeriale contempla l’iscrizione con elenchi mensili a pacchi anche di 50 per volta, e la definizione con cumulative richieste di archiviazione ai Gip. Ma altrettanto ovvio è che delle due l’una: o ci si fa il segno della croce e si immagina che lì dentro ci sia solo fuffa (a dispetto degli obblighi di legge), o ci si deve arrendere all’antipatica idea che lì dentro ci possano essere anche cose serie, e cioè almeno una quota di vissuti personali e micro diritti lesi (piccoli furti d’auto e in casa, mini truffe, modesti danneggiamenti, carte clonate) comunque meritevoli di cura. È quanto si propone ora di fare l’ufficio del procuratore (da giugno 2016) Francesco Greco con il passaggio dall’1 febbraio al Portale telematico con il quale forze di polizia, Inps ed Entrate invieranno in Procura per via telematica le proprie comunicazioni di reato, in modo che alla Procura basti un clic per importarle nel proprio registro e, da lì in poi con minor dispendio di tempo e di cancelleria, in ogni successiva fase. Napoli: nel 2016 omicidi in aumento. Il Pg: "le stese sono il nostro terrorismo" di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 28 gennaio 2017 La denuncia del Procuratore Generale Riello, a margine del bilancio della Corte di Appello. Calano invece le violenze sessuali, passate da 170 a 149, e i casi di usura, 25 rispetto a 40. Criminalità, a Napoli va peggio. Nel corso dell’ultimo anno sono aumentati gli omicidi, i tentativi di omicidio e le rapine: emerge dai dati raccolti dalla Corte d’Appello, diffusi oggi nel corso della consueta conferenza stampa indetta alla vigilia della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Il presidente della Corte, Giuseppe de Carolis di Prossedi, e il procuratore generale, Luigi Riello, si sono soffermati sui dati: i delitti sono passati da 134.605 a 136.393; in particolare gli omicidi sono passati da 44 a 77, di cui 38 legati alla criminalità organizzata; i tentativi di omicidio sono saliti da 83 a 103, le rapine da 6.056 a 6.342. Calano invece le violenze sessuali, passate da 170 a 149, e i casi di usura, 25 rispetto a 40. Preoccupano il fenomeno delle "stese" e quello delle rapine commesse da gruppi di giovanissimi; al momento è sotto controllo il terrorismo, anche se è in aumento il numero delle persone iscritte nel registro degli indagati per reati di questo genere. Ha detto il presidente Riello: "Le stese sono il nostro terrorismo, occorre una risposta da parte della politica, la repressione non basta". "Paradossalmente anche a causa dell’efficace opera di contrasto da parte delle procure e delle forze dell’ordine che hanno assicurato alla giustizia molti capi storici e disarticolato interi gruppi, si è assistito all’ emersione anche in posizioni apicali di nuove leve di ragazzi che mossi dall’irruenza giovanile e dall’ansia di affermarsi nel circuito criminale hanno dato luogo a fenomeni particolarmente preoccupanti che hanno scosso l’opinione pubblica". È quanto afferma il presidente della Corte di Appello di Napoli Giuseppe De Carolis nella relazione che sarà letta domani in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. De Carolis ha parlato delle "stese, vere e proprie azioni di guerriglia urbana da parte di giovani che passano tra i vicoli del centro di Napoli sparando all’impazzata e a casaccio con scopi puramente intimidatori per affermare i proprio dominio sul territorio" ed ha ricordato "il fenomeno delle rapine seriali commesse da gruppi di ragazzi ai danni di banche, farmacie, supermercati e uffici postali". Alessandria: Uil-Pa; carceri, i conti ancora non tornano di Irene Navaro alessandrianews.it, 28 gennaio 2017 Sospeso il trasferimento di tre agenti dal Don Soria a San Michele, in arrivo otto unità da Biella. Ma secondo la Uil-Pa "i conti non tornano" perché gli esuberi risulterebbero inferiori a quelli inizialmente previsti. È stato sospeso il trasferimento di tre agenti di polizia penitenziaria dal carcere "Cantiello e Gaeta" di piazza Don Soria a quello di San Michele, come richiesto dal sindacato autonomo Sappe. Vincente Santili, segretario regionale del Sappe, evidenziava, infatti, una carenza di personale di vigilanza per entrambe le strutture e lo spostamento di tre unità non avrebbe risolto il problema. Ne arriveranno, per contro, otto da Biella, in attesa di nuove assunzioni con il decreto Mille Proroghe. Queste le novità a seguito dell’incontro che si è tenuto ieri a Torino tra sindacati e Provveditore di Piemonte Liguria e Val D’Aosta. Rientra, pertanto, lo sciopero della mensa degli agenti al "Cantiello e Gaeta". I conti, però, ancora non tornano secondo il sindacato Uil-Pa. "L’istituto di San Michele, ci è stato detto, prevede nel ruolo agenti e assistenti un organico di 189 unità e vi sono amministrate ben 173 unità con quindi un organico in sofferenza di sole 16 unità. La consorella invece, la casa circondariale di Alessandria "Cantiello e Gaeta" di piazza Don Soria, consta, nello stesso ruolo, un organico previsto di 145 unità con 145 unità amministrate e una carenza d’organico pari allo 0", fa presente il segretario Salvatore Carbone. L’amministrazione carceraria avrebbe quindi sostenuto che "Alessandria non è una priorità". "Ci viene da chiederci, ma perché allora nei giorni scorsi sono state promesse 3 unità dalla casa circondariale cittadina, le 10 unità distaccate fuori distretto, le 7/8 unità promesse da Alba e un impianto tecnologico di video sorveglianza automatizzata per il recupero di altre unità? I conti ci danno un incremento di 20/21 unità da aggiungerne altre con quelle recuperate dalla tecnologia dinamica. Ma così facendo l’amministrazione regionale incrementerebbe l’istituto di 4/5 unità oltre l’organico previsto procurando un esubero di personale". Il sindacato chiede pertanto "l’immediata applicazione integrale dell’art. 5 dell’Intesa regionale sulla mobilità del 20 maggio 2010" in una lettera inviata al Ministro, al Capo dipartimento, al direttore generale del personale e delle risorse. Il sindacato chiede inoltre "il rispetto delle regole e degli accordi vigenti cui l’amministrazione si è impegnata con la sottoscrizione degli stessi. Ulteriori ingiustificati ritardi al rispetto degli impegni assunti verranno considerati come inadempienze contrattuali e pertanto degne di attenzioni giuridico-legali cui la scrivente si riserva di adire se non riceverà riscontro nei prossimi 15 giorni". Locri (Rc): delegazione dell’Anci Giovani in visita alla Casa circondariale di Danilo Loria strettoweb.com, 28 gennaio 2017 Accolti dalla direttrice dell’istituto Patrizia Delfino una delegazione composta dal consigliere metropolitano Antonino Castorina, dal vice sindaco di Mammola Lorena Ieraci, da Serena Minniti rappresentate degli studenti all’Università Mediterranea e da Stefania Porcino dell’Associazione "Leonardo". La visita rientra nel progetto "letture d’evasione" lanciato insieme all’Anci giovani e che ha portato la delegazione a donare all’istituto penitenziario dei volumi e dvd per arricchire la biblioteca interna al carcere. All’interno dell’istituto si è riscontrata una organizzazione impeccabile e l’avvio di diverse attività per il recupero dei detenuti, perfino il sistema sanitario è al passo con le varie esigenze del plesso. Tanto le attività di culto, che quelle sportive, ricreative e di formazione sono gradite e partecipate da tutti i detenuti. A Locri afferma Castorina, consigliere metropolitano a Reggio Calabria, è palese il fatto che il recupero dei detenuti è garantito sotto ogni punto di vista, come consigliere metropolitano afferma il giovane demcrat "sarò in supporto di tutte le attività che gli istituti penitenziari dell’area metropolitana possono svolgere per il recupero dei detenuti" come sarà necessario "avviare quanto prima l’iter per istituire anche a livello metropolitano la figura del garante dei diritti dei detenuti per realizzare a livello metropolitano i grandi risultati che il Garante di Reggio Agostino Siviglia ha realizzato nel comune capoluogo di provincia". Padova: detenuto morto di peritonite, l’inchiesta finisce in archivio Il Gazzettino, 28 gennaio 2017 L’inchiesta sulla morte di Francesco Amoruso, il 45enne detenuto calabrese ucciso l’8 marzo 2014 da una peritonite molto aggressiva, è stata archiviata. Il sostituto procuratore Francesco Tonon, se pure ha ravvisato alcune colpe mediche, queste però non hanno minimamente influito sul decesso del detenuto, morto di setticemia dopo che il sangue era stato infettato dalle sue stesse feci. In altri termini, pur in presenza di errori da parte dei cinque sanitari in servizio, che non hanno correttamente indagato le cause del persistente e grave malessere del detenuto, i presunti errori non hanno avuto una valenza causale di determinare il decesso. Anche gli eventuali approfondimenti diagnostici in ospedale, con un ricovero d’urgenza, non avrebbero evitato il verificarsi della perforazione intestinale. Era il 6marzo del 2014 quando Amoruso iniziò a sentirsi male. Lamentava forti dolori al ventre. Si sentiva l’addome bloccato e non riusciva ad andare in bagno. Aveva chiesto aiuto all’infermeria del carcere. Il medico di guardia non l’avrebbe visitato. Si sarebbe limitato a dire all’infermiera di fargli un’iniezione di Buscopan. È stata la stessa dipendente dell’Azienda ospedaliera, in quel periodo comandata di servizio in carcere, a rivelare la circostanza agli investigatori. Il pregiudicato calabrese era arrivato al Due Palazzi dal carcere romano di Rebibbia nel 2006. Doveva scontare una lunga condanna per omicidio, rapina e spaccio di stupefacenti. Sarebbe tornato in libertà il 15 luglio 2023. Teramo: il Sappe "mai parlato di rivolte" Il Dubbio, 28 gennaio 2017 Il segretario provinciale del Sappe di Teramo, Giuseppe Pallini, in riferimento all’articolo "A Teramo nessuna protesta. Parola di detenuti", pubblicato ieri, che riportava le dichiarazioni dell’esponente radicale Rita Bernardini precisa: "Questo Sindacato nello stigmatizzare tali affermazioni prive di fondamento e lesivi dell’onorabilità di questa associazione di categoria e del personale della Polizia Penitenziaria che anche in questa circostanza si è prodigata senza risparmio a salvaguardia dell’incolumità dei ristretti, mantenendo l’ordine e la sicurezza dell’istituto, sottolinea che non ha mai esternato né prima e né dopo il sisma di "rivolte" da parte di detenuti ma ha solo palesato il timore di possibili disordini in quanto il clima all’interno dell’istituto era molto teso, non solo per le scosse telluriche ma anche e soprattutto per la mancanza di energia elettrica e termosifoni guasti da diversi giorni, e chi vive giorno e notte tutti i giorni dell’anno il carcere sa benissimo che ogni problema anche il più piccolo e un pretesto per innescare caos". Teramo: la nuova mensa dell’Adsu, detenuti a lavoro e pasti per i meno abbienti cityrumors.it, 28 gennaio 2017 Rispetto per l’ambiente, alti standard qualitativi e attenzione per il sociale. Queste le tre caratteristiche che sono alla base della nuova gestione della Mensa del Campus universitario di Coste Sant’Agostino. L’Azienda per il diritto agli Studi Universitari di Teramo (Adsu), dopo aver espletato il bando di concorso, ha assegnato la gestione della Mensa alla cooperativa sociale Blue Line di Atessa, già da tempo impegnata in progetti di integrazione sociale. Ed è proprio questo uno degli aspetti salienti del nuovo progetto-mensa: accanto agli operatori della cooperativa, agli studenti che collaboreranno grazie alle borse-lavoro, ci saranno infatti anche tre detenuti del Carcere di Castrogno. L’iniziativa, che in base alle nostre informazioni è unica in Italia, nasce da una precisa volontà dell’Adsu di coniugare qualità del servizio e delle materie prime, con aspetti ambientali e sociali, caratteristiche, queste, che sono state inserite nel bando di gara. Del progetto fa parte anche la realizzazione di una mensa destinata alle persone meno abbienti, all’interno di un locale che sarà fornito dal Comune di Teramo: saranno gli studenti stessi, in qualità di volontari, ad occuparsi della distribuzione dei pasti, mentre alla cooperativa spetterà il compito di trasportarli. Questo sarà possibile grazie all’acquisto di una sigillatrice, che permette di realizzare pasti monoporzione e da asporto: l’efficacia di questo mezzo è stata testata durante l’emergenza legata al maltempo e al terremoto, durante la quale l’Adsu ha preparato circa 600 pasti al giorno per i volontari del soccorso e per gli universitari, attivando anche sei borse-lavoro per gli studenti dell’Università di Teramo. Le caratteristiche tecniche - Le materie prime saranno stagionali e, il più possibile, a chilometro zero. Ogni giorno sarà proposto, oltre all’offerta standard, anche un pasto per celiaci, uno per vegetariani e uno rispondente alle prescrizioni religiose (ad esempio quelle dei musulmani). Una volta al mese verrà proposto un piatto della tradizione teramana o abruzzese e un pasto interamente composto da prodotti biologici. I pasti che non verranno serviti verranno distribuiti ai meno abbienti (la cooperativa si è impegnata a cucinare espressamente se la domanda sarà superiore). Il cibo avanzato nei piatti non sarà gettato via, ma verrà in parte donato ad associazioni di volontariato, come la Lega del Cane e in parte sarà destinato alla compostiera dell’Università. È prevista inoltre un’attività di comunicazione e informazione sul mangiar sano, con convegni organizzati all’interno dell’Università, e un feedback continuo sul gradimento dei pasti, grazie anche all’utilizzo dei social. Secondo l’analisi dei flussi di accesso alla mensa dell’ultimo triennio si stima un’erogazione di oltre 35 mila pasti l’anno. Oltre alla mensa di Coste Sant’Agostino, la cooperativa gestirà anche quella di Piano D’Accio. Il costo unitario dei pasti è di 4,60 euro a carico dell’Adsu. Sono previste riduzioni, in base alle fasce di merito-reddito che utilizziamo come criterio per l’attribuzione di borse di studio, fino all’esenzione totale per le fasce più basse. Il costo massimo per ogni pasto, a carico dello studente, è di 3,30 euro. "Occasione straordinaria". L’inaugurazione del nuovo servizio mensa all’Adsu di Teramo "rappresenta un’occasione straordinaria per portare alla ribalta un’esperienza nuova che può essere punto di riferimento a livello nazionale". È il commento dell’assessore all’Istruzione Marinella Sclocco dopo che l’Adsu di Teramo ha affidato, a seguito di procedura ad evidenza pubblica, la gestione della mensa universitaria ad una cooperativa composta da detenuti e disabili. "È la dimostrazione - prosegue l’assessore Sclocco - che anche aziende pubbliche possono aprire senza remore il proprio mercato a società o cooperative composte da soggetti svantaggiati che cercano un importante riscatto sociale. La scelta dell’Adsu, figlia naturalmente delle migliori condizioni poste dalla cooperativa vincitrice della gara pubblica, mi trova perfettamente in linea con l’idea di missione sociale che cooperative di questa natura devono perseguire. Conosco infine la professionalità della cooperativa vincitrice e sono convinta che sarà in grado di erogare un servizio all’altezza e in linea con gli standard qualitativi dell’Università di Teramo". Caserta: "io, ex sindaco finito in carcere da innocente, la mia vita distrutta" di Marilù Musto Il Mattino, 28 gennaio 2017 "Io rispondo alla mia coscienza". Inizia così il lungo sfogo dell’ex sindaco Pio Del Gaudio, eletto nel 2011 e arrestato il 14 luglio del 2014 nell’operazione della Dda di Napoli "Medea". Ieri, dopo un anno e mezzo di indagini sul suo conto, il gip di Napoli ha deciso di archiviare il caso. Pesanti le accuse contestate e poi ritirate dalla Procura: corruzione e finanziamento illecito ai partiti in campagna elettorale con l’aggravante di aver agevolato il clan dei Casalesi negli appalti. Accuse cadute prima al Riesame e poi in Cassazione, dove i giudici hanno demolito la prima ordinanza emessa a luglio del 2015. "Sapevo di non aver fatto nulla - dice ancora Del Gaudio - mi ha fatto male vedere mio figlio scegliere di partecipare alla selezione universitaria per Medicina solo al Nord, che ha poi superato. Ho pianto da solo a casa, senza farmi vedere da nessuno in questi anni, ho perso un mio amico e collega che un giorno mi disse: scusami, ma tu sei seguito dai carabinieri, alcune deleghe mi sono state ritirate. In carcere però ho scoperto la solidarietà umana, la vicinanza del mio amico di cella, Mirko, e degli altri detenuti che mi dicevano: ma tu cosa ci fai qui? Ora ringrazio i miei avvocati, Dezio Ferraro e Giueppe Stellato". "È finito un incubo", dice ancora sollevato Del Gaudio. "La mia fortuna - conclude - è che nel mio caso i magistrati sono stati molto veloci, decidendo in un anno e mezzo, ma penso alle tante persone accusate ingiustamente, specie a quelle che sono in carcere, ma che non hanno la possibilità di difendersi. Voglio battermi per loro. Non ce l’ho con i magistrati, fanno il loro lavoro, ma dico che prima di arrestare qualcuno bisogna pensarci molto bene. Questa indagine ha rovinato la mia vita personale e professionale; faccio il commercialista e il mio studio, dopo il mio arresto, ha avuto un crollo. La cosa positiva è che quasi tutta la città già mi aveva assolto. Per ora non penso però a tornare in politica, e soprattutto non in questa politica dove non contano il merito e la competenza". La storia David, il detenuto che lavora per il cinema a Bologna di Emanuela Giampaoli La Repubblica, 28 gennaio 2017 Ha partecipato a "Ciak in carcere", il laboratorio di cinema organizzato alla Dozza dai registi bolognesi Angelita Fiore e Filippo Vendemmiati. Davide Paghenstecher, 48enne di origini milanesi, è uno stagista alla Smk Videofactory, casa di produzione audiovisiva indipendente di Bologna. Lavora dalle 10 alle 19 compresa la pausa pranzo tra le 13 e le 14. Il suo compito è portare avanti un’analisi giuridica su un centinaio di faldoni legati al cosiddetto "caso 7 aprile", quella serie di processi degli anni ‘70 e ‘80 contro militanti identificati nell’area cosiddetta "autonomia". Un lavoro che gli consente di mettere a frutto le sue due lauree - in scienze politiche e giurisprudenza - e i suoi studi di cinema. Poi, conclusa la giornata lavorativa, Davide fa ritorno alla Dozza, in carcere. Sì, perché Davide è un detenuto, che solo da qualche giorno ha ottenuto il regime di semilibertà, il primo dopo 23 anni trascorsi dietro le sbarre. È questo uno degli esiti straordinari della prima edizione di Ciak in carcere, il laboratorio di cinema organizzato lo scorso inverno alla Dozza dai registi bolognesi Angelita Fiore e Filippo Vendemmiati con la D-er. "Io - dice Paghenstecher - in quel corso ce l’ho messa tutta, tutto il mio spirito, la mia voglia di approfondire e conoscere, il mio interesse". E sono stati proprio l’interesse e la passione di Davide a convincere il magistrato di sorveglianza a prendere in considerazione l’ipotesi della semilibertà. "Naturalmente - prosegue il detenuto - dovevo prima cercarmi un lavoro. Devo tutto ad Angelita e Filippo, registi e docenti del corso, che mi hanno aiutato a mandare in porto lo stage alla Smk Videofactory grazie alla formazione conseguita nel corso del laboratorio. Io ho solo fatto il detenuto senza rapporti disciplinari". Nel frattempo alla Dozza da ottobre è partita la seconda edizione del corso per una quindicina di detenuti che ha già avuto tra i docenti i documentaristi Lorenzo Hendel e Ivan Grozny Compasso, il regista Giorgio Diritti e lo sceneggiatore Fabio Bonifacci. "I nostri allievi - spiega Fiore - sono rimasti molto affascinati dall’incontro con Diritti. Ci hanno chiesto di vedere "L’uomo che verrà" e presto saranno accontentati, Diritti ha anche parlato dei suoi prossimi progetti, tra i quali la storia di un detenuto, ex terrorista, oggi prete". Intanto si lavora per la seconda edizione di Cinevasioni, il primo festival di cinema in carcere che lo scorso maggio ha visto la prima edizione dentro all’istituto circondariale. "È stato davvero molto bello - conclude Davide - in quei giorni a noi giurati non è nemmeno sembrato di essere in carcere. Spero tanto che Angelita e Filippo riescano a portarlo avanti, perché è un’occasione unica, sia per chi sta dentro, sia per chi sta fuori, di conoscersi". Milano: "Sogno di una notte di mezza estate", con i giovani attori detenuti del Beccaria teatrionline.com, 28 gennaio 2017 Creato dai giovani attori detenuti del carcere minorile Beccaria con alcuni coetanei, sotto la direzione di Giuseppe Scutellà, il Sogno di Shakespeare diventa per i suoi interpreti l’occasione per conoscere altri mondi e per viaggiare oltre la situazione contingente. Puntozero è una compagnia anomala, composta per tre quarti da giovani attori detenuti. Le prove sono in carcere e carcere significa sbarre, ambienti angusti e ritmi vitali decisi da terzi. "In questo contesto il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, dove fantastico e reale si intrecciano, ci è sembrato potesse offrire un utile esercizio di fantasia che ha permesso agli attori di conoscere nuovi mondi" spiega il regista, Giuseppe Scutellà "È in questo recitare nuovi ruoli e creare nuovi contesti che il teatro in carcere esprime tutta la sua forza dirompente; iniziare dalle tavole del palcoscenico per spostarsi nel più grande teatro della vita". Dietro le quattro mura chiamate prigione la rieducazione del detenuto passa anche e soprattutto attraverso l’acquisizione di nuove competenze che permettono e facilitano la rielaborazione del reato. Il teatro è uno di questi strumenti facilitatori. Continua Scutellà "Come possiamo pensare di rinchiudere dei giovani e di chiedere loro di riflettere sul proprio agire senza dare gli strumenti utili e necessari per farlo? La nostra è una società complessa e poco trasparente, dove spesso l’eccesso di informazioni è confuso con la qualità delle stesse, dove diventa difficile dare le "giuste istruzioni" ai nostri figli per tenerli lontani dal rischio devianza ed è ingenuo pensare che il buon senso li tenga lontani dal reato. E una volta reclusi come si può pretendere che i giovani detenuti rielaborino il loro reato e si reinseriscano nella società senza indicar loro la strada? Strada che a volte neanche noi adulti sappiamo tracciare o prefigurarci. Allora dove cercare questi punti cardinali? Vent’anni di teatro e carcere avvallano quanto sopra. Fermamente convinti che la cultura possa essere chiave di volta per il cambiamento, noi proponiamo Shakespeare. Per noi mettere in scena Sogno è una buona occasione per scoprirci e indagare su ciò che siamo e su come agiamo. Da questo vogliamo imparare ad agire e non essere agiti dalle circostanze. Abbiamo cercato di dare una nostra lettura del Sogno, ma siamo sicuri che il dramma ci legga meglio di quanto noi stessi possiamo fare. Su questa strada ci siamo incamminati e ciò che ne è venuto fuori è uno spettacolo che si inserisce nel solco registico di scuola strehleriana dove la "tradizione" è di per sé sperimentalismo e dove la semplicità è il punto d’arrivo. Sotto l’egida di due mentori: Strehler e Bloom." In scena i giovani attori della compagnia Puntozero, attori detenuti e non, che con i loro vissuti danno forza e spessore ai personaggi e alle situazioni della commedia. L’associazione Puntozero ha potuto realizzare questo progetto anche grazie al prezioso lavoro e sostegno dell’Amministrazione della Giustizia Minorile. Al Piccolo Teatro Studio Melato (Via Rivoli, 6 - M2 Lanza), dall’1 al 5 febbraio 2017. "Un altro me", il docu-film di Claudio Casazza di Boris Sollazzo Il Dubbio, 28 gennaio 2017 Un viaggio nella banalità del male di stupratori e sex offender. Non è facile. E fa male. Un altro me è un film potentissimo, doloroso, vero. E si fa fatica ad accettarlo. Non è facile raccontare cosa sia, non è facile mantenere una lucidità critica ed emotiva. Non è facile arrivare fino alla fine. Ma dovete, dobbiamo. Perché Un altro me è un’opera necessaria, perché cinematograficamente è un lungometraggio dalla grammatica originale e lacerante, perché il regista si prende una montagna di responsabilità, morali e artistiche, e non ha sbagliato un colpo. Il film, che ha inaugurato il Festival dei Popoli nell’autunno scorso, passato al Trieste Film Festival domenica scorsa e che nella prossima settimana sarà visibile nell’ambito del "Mese del documentario" nelle principali città italiane, è uno sguardo impietoso e devastante sugli abusi contro le donne. Visti, però, guardando i colpevoli. Sì, loro. La banalità del male, la normalità che li attraversa, la meschinità che riconosciamo e magari ci ricorda tanti altri che abbiamo avuto accanto, per minuti, ore e giorni, e abbiamo sottovalutato. E, inevitabilmente, da maschio, ti costringe a osservarti. A vergognarti, anche se con loro non hai a che fare, perché ti rendi conto che forse avresti potuto capire, fermarli. Che forse, un tuo comportamento ti avvicina a loro, perché ne hai tollerato una battuta, un apprezzamento, un comportamento. Claudio Casazza, però, non si accontenta di un lungometraggio di testimonianze, di montaggio, lineare. No, usa il cinema per impedirci di porre distanza tra noi e loro. Ci porta in quel carcere, in quelle riunioni in cui gli stupratori, i sex offender, provano a essere recuperati. Perché il nostro sistema lo pretende. Ed è giusto, anche se fai fatica ad accettarlo. Lo fa prendendo delle scelte coraggiose, geniali, significative e significanti. Dopo 200 ore di girato e 2 anni di lavoro (4 mesi di montaggio puro). Loro, i maschi che hanno abusato della fiducia, dell’anima, del corpo di donne, sono sempre fuori fuoco. E se sono su un campo da gioco, fuori campo. Le facce che scorgiamo, nel loro lavoro difficilissimo e straordinario, sono quelle degli operatori che ci parlano, che provano ad approcciarli con l’analisi, l’autocoscienza, con un percorso di recupero che li prova: ce ne accorgiamo fissando i loro occhi, assistendo alle loro riunioni, ammirando come si controllino anche di fronte a parole e gesti, alle reazioni più insopportabili. E la macchina da presa così diventa discreta, pudica, elegante e allo stesso tempo li spoglia. Tutti: gli spettatori, costretti a non voltarsi dall’altra parte; le vittime, affidate alle parole di lettere e a una sola testimonianza diretta; i colpevoli, nella loro sincerità violenta come i loro atti, sfrontata, ma fragile di fronte a una donna forte, consapevole, che ha superato l’orrore e ha la capacità di fare ciò che tu, che guardi, non vuoi, non riesci. Avere fiducia in loro, sperare che sì, quegli errori possano portare a una vita migliore. Per loro, per chi avrà a che fare con loro. E ammiri quegli operator dell’Unità di Trattamento per autori di reati sessuali del Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) che ci credono, non mollano, resistono. Da dieci anni. Le domande, le risposte, le lettere, ci dicono tutto. Ci dicono che quello che loro hanno tolto alle loro vittime, quegli uomini non l’hanno mai avuto. Sono soli, squallidi, incapaci di provare sentimenti che vadano oltre le loro paranoie, ossessioni, ridicole autoassoluzioni. "Il fatto che una 14enne avesse quel potere su di me mi dà fastidio più del reato stesso", "era una puttanella da discoteca", "puntarle la pistola alla testa mentre la violentavo mi faceva sentire potente" sono frasi che rimangono addosso, fanno male per la naturalezza con cui vengono dette. E Casazza non cede mai alla tentazione di mostrarceli, di farceli odiare e disprezzare. Lui vuole spogliare il maschio in quanto tale, ciò che ha permesso loro, socialmente, di agire indisturbati magari per anni. Come quella famiglia che assolve il colpevole più di quanto faccia lui stesso. Stacca, regolarmente e raramente, su particolari del carcere, degli ambienti, della vita attuale e rinchiusa di chi ha abusato: prigionieri, come le loro vittime. E senza catarsi ci dice che quel progetto di recupero ha un senso. Non solo nel recupero (solo 7 dei 248 pazienti seguiti hanno commesso di nuovo un reato), ma come operazione culturale profonda. È un capolavoro Un altro me, perché abbiamo un cineasta che sa mostrarci l’inenarrabile e lo fa con una raffinatezza stilistica fuori dalla norma. E può cambiare molte vite. Migranti. Erdogan minaccia, ma rompere con l’Europa non gli conviene di Carlo Lania Il Manifesto, 28 gennaio 2017 Il patto con Bruxelles. Ankara rischia di aggravare ulteriormente la crisi economica del paese. La prima volta che la Turchia ha minacciato di rompere il patto sui migranti siglato con l’Unione europea è stato il 19 aprile dello scorso anno, esattamente un mese e un giorno dopo averlo firmato. Fu l’allora premier Amhet Davutoglu (dimissionato pochi giorni dopo dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan) ad avvertire Bruxelles che se non si fosse sbrigata ad approvare entro giugno la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi Ankara non avrebbe più trattenuto i tre milioni di profughi siriani presenti all’interno dei suoi confini. Periodicamente agitato da Erdogan, il fantasma di una ripresa massiccia degli sbarchi torna ancora una volta a inquietare l’Europa. Siglata il 18 marzo 2016, l’intesa prevede che la Turchia impedisca le partenze dei profughi verso le isole greche dell’Egeo in cambio di 6 miliardi di euro e alcune importanti concessioni politiche prima fra tutte, per l’appunto, la possibilità per i cittadini turchi di circolare senza restrizioni all’interno dell’area Schengen. Con grande soddisfazione di Bruxelles l’accordo finora ha funzionato, facendo registrare una flessione degli sbarchi in Grecia dai diecimila giornalieri (picco raggiunto nel 2015) ad appena qualche decina. Il tutto ovviamente a scapito di quanti sognavano e continuano a sognare l’Europa. Puntualmente, però, Erdogan chiede che gli venga saldato il conto: dei 6 miliardi di euro promessi, secondo Ankara sarebbero stati pagati solo 667 milioni (Bruxelles parla invece di 2,2 miliardi stanziati), ma soprattutto reclama quella liberalizzazione dei visti più volte promessa dal presidente turco ai suoi cittadini. Sulla quale però l’Europa ogni volta frena, giustamente preoccupata dalla repressione di Ankara verso chiunque si permetta di dissentire dalla politica del governo, a partire da giornalisti e intellettuali, e ulteriormente inasprita dopo il fallito golpe di luglio. Ma anche da un legge anti-terrorismo che Bruxelles vede più come un mezzo per far tacere l’opposizione interna. A ogni tentennamento di Bruxelles, arriva da parte di Ankara la minaccia di far saltare l’accordo. Minaccia che si ripete oggi dopo il rifiuto greco di estradare otto militari turchi accusati di aver preso parte a golpe di luglio. Anche se in questo caso limita le minacce alla cancellazione dell’accordo di riammissione dei migranti irregolari dalla Grecia. Minaccia relativa, visti i numeri relativamente bassi dei rinvii oltre l’Egeo. Ma davvero Erdogan sarebbe disposto a mettere fine all’intesa siglata con l’Unione europea? Di sicuro può far partire i migranti e le conseguenze sarebbero catastrofiche prima di tutto per la Grecia. Ma, per vari motivi, le ripercussioni di un simile atto potrebbero finire col pesare anche sulla stessa Turchia. I siriani rappresentano infatti un’importante fonte di ricchezza per la fragile economia turca. Nei primi tre mesi del 2016 i depositi bancari della media e alta borghesia siriana fuggita in Turchia a causa della guerra ammontavano a 360 milioni di euro, cifra abbondantemente superiore all’intera somma deposita nel 2015 e che ha continuato a crescere per tutto l’anno. A oltre 11 miliardi dollari ammonterebbe invece la cifra di denaro fatta arrivare in Turchia dalla Siria a partire dal 2011. L’Unione della camere di commercio turche ha inoltre registrato più di 4.000 imprese aperte dai siriani a partire sempre dal 2011, autonomamente o i società con imprenditori locali. Non a caso Erdogan ha più volte annunciato di voler concedere la cittadinanza turca ai profughi siriani. Ulteriormente indebolita dagli attacchi terroristici che hanno fatto crollare il turismo del 30% e con una disoccupazione intorno al 12%, per sopravvivere l’economia turca deve contare anche su quell’Europa che Erdogan minaccia. Il Sole24ore ha calcolato che dal 2002, hanno dell’arrivo al potere dell’Akp, il 75% degli investimenti esteri in Turchia è arrivato proprio dal Vecchio continente. Solo con l’Italia, quarto paese partner, l’interscambio ammonta a 17,5 miliardi di euro (dei quali 10,6 di import e 6,9 di export), cifra che Ankara spera di portare a 30 miliardi di euro entro i prossimi 3 anni. Davvero il presidente turco, che con la riforma della Costituzione appena approvata potrebbe restare altri dieci anni al potere, sarebbe disposto a rischiare una crisi con l’Europa? Resta da vedere adesso cosa farà Erdogan, ma una cosa è sicura: difficilmente la situazione di stallo che da mesi si è creata tra Turchia e Unione europea potrà durare ancora a lungo. Stati Uniti. Trump: "La tortura funziona". Il documento: "Cia riapra carceri segrete" di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2017 Nella sua prima intervista da presidente, il tycoon si dice disponibile a una reintroduzione dei metodi d’interrogatorio vietati nel 2009 dall’amministrazione Obama. Tutto mentre il Washington Post diffonde un "Ordine Esecutivo - Detenzione e Interrogatori di Combattenti Nemici" nel quale si ordina la riapertura dei "Black Sites". "Non è un nostro documento", ha dichiarato poi il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. Amnesty: "Con questa apologia della tortura, siamo tornati ai tempi di Bush". "Se penso che la tortura funzioni? Certo che funziona". Dopo aver alzato i toni firmando l’ordine per la costruzione di un muro al confine con il Messico, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, torna a far discutere su un tema storicamente caro ai cittadini statunitensi, quello della sicurezza. Nella sua prima intervista da inquilino della Casa Bianca, ai microfoni della Abc, il tycoon si dice disponibile a una reintroduzione dei metodi d’interrogatorio della Cia non contenuti nell’Army Field Manual e vietati nel 2009 dall’amministrazione Obama con due ordini esecutivi. Tutto mentre il Washington Post diffonde un documento di quattro pagine, un "Ordine Esecutivo - Detenzione e Interrogatori di Combattenti Nemici" proveniente, dicono, dagli uffici della Casa Bianca e nel quale si ordina la riapertura delle prigioni segrete della Central Intelligence Agency, i cosiddetti "Black Sites", e del campo di detenzione di Guantánamo per i prigionieri stranieri accusati di terrorismo. "Non è un nostro documento", ha dichiarato poi il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer. La notizia, però, ha scatenato la reazione delle organizzazioni umanitarie e della più importante alleata in Europa del nuovo Presidente americano, il Primo Ministro britannico Theresa May, che minaccia di interrompere i rapporti tra Regno Unito e l’intelligence Usa. Waterboarding, percosse, privazione del sonno. Le violenze nei "Black Sites" della Cia - I cosiddetti "Black Sites" sono strutture di detenzione e interrogatorio segrete nelle quali la Cia porta prigionieri sospettati di collegamenti con il terrorismo. Si tratta di strutture che nascono al di fuori dei confini nazionali, in seguito a un accordo tra i servizi segreti statunitensi e i Paesi ospitanti. La loro esistenza è stata confermata dall’ex Presidente americano, George W.Bush, solo nel 2006, dopo pressioni da parte di alcune organizzazioni non governative. Si è a conoscenza di prigioni segrete nei Paesi dell’est Europa, in alcuni campi di Guantánamo, in Afghanistan e in Tailandia. All’interno di queste strutture, l’intelligence Usa ha svolto interrogatori che violano le leggi internazionali sui diritti dell’uomo e le Convenzioni di Ginevra. Gli scandali nati dopo la pubblicazione di file desecretati e le testimonianze di alcuni ex detenuti hanno portato alla luce metodi di interrogatorio che prevedevano il ricorso alla pratica illegale del waterboarding, la privazione del sonno, il passaggio da luoghi estremamente caldi ad altri molto freddi, violenze e umiliazioni. In alcuni dei documenti desecretati, si legge che circa un quinto dei prigionieri dei Black Sites erano detenuti "per errori d’identità o investigativi". Come nel caso di Khaled el-Masri, cittadino tedesco e libanese dal nome simile a quello di uno dei presunti organizzatori dell’attacco alle Torri Gemelle del 2001, che è rimasto prigioniero dei servizi segreti americani e interrogato per cinque mesi, subendo violenze, waterboarding e sodomizzazioni. Ci sono poi altri casi eclatanti, come quello di Abu Zubaydah, sospettato di terrorismo e detenuto dai servizi di sicurezza americani da 14 anni senza essere stato processato. È stato probabilmente il primo prigioniero a subire la pratica del waterboarding, 83 volte in 12 giorni. Un accanimento che, in almeno un’occasione, lo ha ridotto in fin di vita. Durante la sua detenzione, Zubaydah ha anche perso l’uso dell’occhio sinistro, mentre altri prigionieri sono morti. Tutte pratiche, queste, che il neopresidente statunitense sembra ritenere legittime. L’ordine esecutivo, anche se venisse firmato dal Presidente, non può portare a una riapertura immediata dei Black Sites della Cia, ma la linea di Trump sembra comunque seguire una strada ben precisa. Oltre alle ultime dichiarazioni sull’efficacia della tortura e la sua disponibilità a reintrodurre i metodi d’interrogatorio "speciali" di cui si serviva la Cia, durante la campagna per le primarie repubblicane The Donald dichiarò di voler reintrodurre l’uso del waterboarding nei casi di prigionieri accusati di legami con il terrorismo internazionale. "E anche molto peggio - ha aggiunto - Non solo perché le torture funzionano, ma perché se non funzionano (questi prigionieri) se le meritano lo stesso". Da Abu Ghraib ai documenti desecretati: benzina nel serbatoio del jihad - Gli auspici di Trump, se davvero dovessero concretizzarsi, rischierebbero di tornare ad alimentare quel filone di scandali legati ai soprusi e alle violenze nei confronti dei prigionieri che ha coinvolto l’esercito e, soprattutto, i servizi segreti statunitensi. Gli ultimi file ad essere desecretati risalgono solo a pochi giorni fa e divulgano nuovi particolari sulle torture praticate dalla Cia durante i suoi interrogatori nelle carceri segrete. Questa serie di scandali ha come punto di partenza la pubblicazione, nel 2004, delle foto dei militari a stelle e strisce che umiliavano i prigionieri del carcere iracheno di Abu Ghraib. Un punto di non ritorno che ha innescato un meccanismo pericoloso proprio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e non solo. Se si ascoltano i messaggi propagandistici di al-Qaeda dopo queste rivelazioni o, più recentemente, si guardano i video diffusi dallo Stato Islamico, si noterà che racconti e fotografie di quello scandalo vengono ancora utilizzati per fomentare l’odio dei musulmani nei confronti degli invasori occidentali. Le torture nell’ex carcere iracheno, come quelle diffuse successivamente e riguardanti le prigioni segrete della Cia, sono andate a riempire il serbatoio del jihad che, così, è riuscito a reclutare un numero sempre maggiore di combattenti. Furono proprio le immagini di Abu Ghraib a far conoscere a tutto il mondo la faccia e i piani di Abu Musab al-Zarqawi, allora capo di al-Qaeda in Iraq e padre spirituale del futuro Stato Islamico. Fu per vendicare quei soprusi che, un mese dopo, il terrorista decapitò in video l’ostaggio americano Nicholas Berg, giurando vendetta per le torture subite dai prigionieri musulmani e invitando tutti i fedeli a unirsi alla causa del suo gruppo terroristico. Le reazioni: "Il terrorismo non si vince col terrorismo". E May minaccia lo stop alle relazioni con 007 Usa - Prima che tra i gruppi terroristici internazionali, le dichiarazioni di Donald Trump hanno scatenato la reazione delle organizzazioni umanitarie. "Con questa apologia della tortura, siamo tornati ai tempi di Bush - commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia - Quelle di Trump sono dichiarazioni completamente in contrasto con il divieto internazionale di tortura. Fatte in un periodo in cui la tortura è in forte aumento nel mondo". Mentre il Segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, dichiara che "Il terrorismo non si vince con altro terrorismo. Perché questo farebbe la tortura: terrorismo". La critica più dura, però, arriva dal Primo Ministro britannico, Theresa May, che minaccia di interrompere la collaborazione con l’agenzia di intelligence Usa nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero adottare la tortura per ottenere informazioni negli interrogatori. Stati Uniti. Trump ha deciso di reintrodurre la tortura e non è isolato di Valter Vecellio Il Dubbio, 28 gennaio 2017 Di Donald Trump, dal 20 gennaio 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America a tutti gli effetti, si può dire e pensare tutto quello che si vuole, ma non che faccia qualcosa di diverso da quello che ha sempre detto di voler fare; si può dubitare che pensi a quello che fa, non c’è dubbio che fa quello che pensa. Tra le cose dette e pensate, e che ora si accinge a fare, la legittimazione, la "codificazione" della tortura. È una pratica, questa, giustificata con un machiavellismo d’accatto che si riassume nella formula: "Il fine giustifica i mezzi". In realtà, i mezzi qualificano il fine. Cesare Beccaria nel suo ineguagliato Dei delitti e delle pene, dimostra che la tortura (al pari della pena di morte) è strumento non solo eticamente ripugnante, ma anche praticamente inefficace, contro- producente. Qui soccorrono due "classici": Michel de Montaigne, quando nei suoi Essais annota che "dopotutto è un mettere le proprie congetture a ben alto prezzo, il volere, per esse, far arrostire un uomo" (ai suoi tempi, ma anche ai nostri: non manca certo chi nutre smisurata considerazione delle proprie congetture; infatti è un fiorire di roghi). L’altro "classico" è Alessandro Manzoni: la sua Storia della colonna infame, è edificante, terrificante racconto sul dove conduce la tortura e il suo uso. Ma per tornare al presidente Trump: intervistato da Abc News, conferma quanto annunciato in campagna elettorale; il proposito di tornare all’utilizzo del waterboarding, e anzi, l’intenzione di andare oltre: non solo la tortura nei confronti di terroristi o presunti tali, ma la possibile uccisione dei familiari dei terroristi dello Stato islamico, contromisura per fermare i terroristi. L’Isis però non detiene il monopolio del terrorismo; dunque è da credere che la pratica, una volta messa in essere, sarà tranquillamente estesa, con devastante effetto ed evanescente limitazione. Il presidente Trump pare sia convinto che la cosa funzioni. Su cosa poggi questa sua convinzione non è dato sapere. Ci dice però che si baserà su quello che a loro volta valuteranno il futuro capo della Cia, Mike Pompeo, il responsabile della Difesa, James Mattis, e non meglio precisati collaboratori: "Se loro non vogliono, va bene. Se invece vorranno, mi impegnerò anche io". Mattis, che pure non è da iscrivere tra le "colombe, e che per i suoi trascorsi militari è soprannominato "Mad Dog", fa sapere di non credere che la tortura sia strumento affidabile, efficace. Per non parlare del presidente della commissione che al Senato si occupa delle Forze Armate, il repubblicano inossidabile John McCain: "Non riporteremo la tortura negli Stati Uniti". Radicale affermazione che probabilmente deriva anche dai suoi trascorsi di prigioniero nei gulag vietnamiti: lui sì, sa cosa sono le torture. Vedremo gli altri, come si esprimeranno; se si continuerà nella pratica, antica e solida (e non esclusiva degli americani), del "si fa ma non si dice"; oppure se si cercherà di dare a queste pratiche una qualche ulteriore parvenza legale. Il più che discutibile Patriot act, per esempio, attribuisce all’Attorney General poteri straordinari; tra i quali la possibilità di trattenere in stato di detenzione stranieri sospettati di terrorismo, senza che siano rivolte particolari accuse e senza dover rispettare le normali procedure. La prigione a cielo aperto di Guantánamo si legittima appunto con il Patriot act. Patriot act e waterboarding (vale a dire tortura, senza "se" e senza "ma"), sono figli di una tremenda "emergenza", le stragi del settembre 2001 alle Twin Towers e al Pentagono. Conseguenza, si può dire, di un tremendo attacco terroristico. Il presidente Trump ora però solleva la questione "preventivamente". Si dirà: è Trump. Già. Ma Trump ora è il presidente degli Stati Uniti d’America, "il comandante in capo". E la sua convinzione, probabilmente, è condivisa da tanti, e non solo nel suo "campo" politico. Alan Dershowitz è un famoso avvocato e giurista; docente ad Harvard, paladino dei diritti civili, protagonista di processi che hanno fatto epoca, dal caso Von Bulow a O. J. Simpson. È anche autore di Terror Tunnels, dove scrive: " Torture may be the only or best tactic for saving lives". La tortura può essere il solo e migliore strumento per salvare delle vite umane. Qual è la differenza tra il presidente Trump e il liberal Dershowitz? In nome della sicurezza nazionale Dershowitz giustifica i "targeted killings", gli assassinii mirati ed extragiudiziali: "la prevenzione del terrorismo richiede una scelta di mali". Come il presidente Trump che vorrebbe poter eliminare i familiari dei terroristi… Ve lo ricordate Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia? C’è un delitto, rivendicato dai terroristi "I figli dell’ 89". Il dubbio del commissario è: i figli dell’ 89 sono stati creati per uccidere, o si uccide per creare i figli dell’ 89? Lancinante interrogativo, sempre attuale. Di quei figli dell’ 89, riflette il commissario, " se ne sentiva il bisogno… Occorre che ci sia il diavolo perché l’acqua santa sia santa". Forse si è oltre: del diavolo c’è sempre meno bisogno… Marco Pannella, inascoltato, per anni, ci ha messo in guardia da una peste che dilaga, e tutto inquina, ammorba. Una sintesi della peste descritta da Manzoni, da Edgar Allan Poe, da Albert Camus. Forse oggi cominciamo ad accorgerci dei suoi micidiali effetti. Stati Uniti. Trump "congela" per 120 giorni l’immigrazione di Claudio Gerino La Repubblica, 28 gennaio 2017 Il presidente Usa firma due decreti esecutivi per "tenere fuori dall’America i terroristi" e per far crescere la potenza militare degli Stati Uniti. Bloccato il programma di accoglienza per i profughi. "Poi priorità solo ai rifugiati cristiani". Sospesi "sine die" gli ingressi di siriani. E per 3 mesi niente ingresso per qualsiasi cittadino libico, iraniano, iracheno, somalo, sudanese e yemenita. Nel 2017 potranno entrare in Usa solo 50 mila rifugiati. Cancellato il rinnovo automatico dei visti per tutti gli stranieri. Forze armate, "The Donald" le vuole sempre più potenti, ma risparmiando. In bilico il programma degli F-35. Rafforzamento dell’esercito e controlli più severi per impedire l’ingresso di terroristi islamici in Usa: Donald Trump procede come un rullo compressore per mantenere le sue promesse elettorali e firma altri due ordini esecutivi al Pentagono, dopo aver incontrato lo stato maggiore congiunto e partecipato alla cerimonia di giuramento del nuovo segretario alla difesa, il gen. James Mattis, "l’uomo giusto al posto giusto". Programma rifugiati "congelato". "Vogliamo mantenere i terroristi islamici radicali fuori dagli Usa", per garantire che non si ammetta nel Paese la stessa minaccia che i nostri soldati combattono all’estero, ha osservato. "Vogliamo ammettere nel nostro Paese solo coloro che lo sosterranno e ameranno profondamente la nostra gente", ha aggiunto, senza però spiegare direttamente i dettagli del provvedimento. Dettagli che sono emersi successivamente: Trump ha bloccato per 120 giorni il programma che prevedeva l’ingresso di rifugiati negli Stati Uniti, programma varato da Barack Obama. E ha deliberato che, dopo questo periodo, sarà data priorità innanzitutto alle "minoranze cristiane" perseguitate. Trump ha tagliato di oltre la metà il numero dei rifugiati che gli Stati Uniti prevedevano di accettare quest’anno, portandolo a 50mila. Stop a cittadini di 7 paesi musulmani. Ingresso negli Stati Uniti sospeso per tre mesi per i cittadini di sette paesi musulmani: Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen. Lo ha disposto il presidente Trump nel suo ordine esecutivo "per evitare di far entrare negli Usa terroristi stranieri". No ai profughi siriani. Nel suo ordine esecutivo sono bloccati fino a ulteriore comunicazione, quindi anche dopo i 120 giorni, gli ingressi di rifugiati siriani. Per quest’ultimi nel provvedimento non sembra esserci a "safe zone" (zone di sicurezza). "L’ingresso di cittadini e rifugiati siriani" è "dannoso per gli interessi del Paese", scrive il presidente degli stati Uniti, nell’ordine esecutivo in cui blocca i visti ai siriani e sospende a tempo indeterminato l’ingresso dei rifugiati provenienti dalla Siria. Trump ha chiesto al Pentagono e al Dipartimento di Stato un piano per creare "safe zone" dentro e intorno alla Siria per offrire protezione ai siriani che scappano dalla guerra. Stop a rinnovo automatico dei visti per lavoro. Nel suo giro di vite per difendere gli Stati Uniti dall’ingresso di terroristi islamici, il presidente Usa ha sospeso con effetto immediato il programma Visa interview waiver, che consentiva ai cittadini stranieri titolati di chiedere il rinnovo del visto per motivi di lavoro o per altro (escluso il turismo) senza affrontare il colloquio personale con le autorità diplomatiche Usa. Trump ha ordinato l’accelerazione dei programmi che permettono il tracciamento bio-metrico di tutti i viaggiatori in entrata o in uscita dagli Usa. Priorità a profughi cristiani. Nei giorni scorsi erano trapelate sue intenzioni di sospendere il flusso di rifugiati e i visti per le persone provenienti da alcuni Paesi a maggioranza islamica flagellati dal terrorismo, come Siria, Libia, Iraq, Somalia, Sudan e Yemen. In una intervista al Christian Broadcasting Network, Trump ha detto che tra i siriani che chiedono lo status di rifugiati dovrebbe essere data priorità ai cristiani, finora "trattati in modo orribile": "se eri un musulmano potevi entrare ma se eri un cristiano no, era quasi impossibile". Forze armate rafforzate, ma evitando sprechi. Parallelamente il presidente vuole rafforzare quello che è già il primo esercito del mondo, rischiando di rilanciare la corsa agli armamenti e di gonfiare il deficit pubblico. L’obiettivo, ha spiegato, "è iniziare una grande ricostruzione delle forze armate americane, per sviluppare un piano per nuovi aerei, nuove navi, nuove risorse e strumenti per i nostri uomini e le nostre donne in uniforme". Ma evitando sprechi. "Il nostro futuro - ha spiegato Trump - è quello di essere la guida del mondo". Revisione programmi per F-35. Mattis ha ordinato proprio oggi una revisione dei programmi per gli F-35 e l’Air Force One, già criticati da Trump come troppo costosi. Il capo del Pentagono ha chiesto al suo vice Robert Work di individuare i modi per ridurre significativamente il costo degli F-35, confrontandoli con gli F/A-18 Super Hornet e verificando se un Hornet modernizzato potrebbe rappresentare una valida alternativa. Mattis ha chiesto risparmi anche per i nuovi modelli dell’aereo presidenziale, prodotti dalla Boeing. Torture, il presidente Usa favorevole. Il segretario alla difesa avrà infine l’ultima parola sulla tortura. "Credo che la tortura, il waterboarding funzionino", ha ribadito Trump nella conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca gelando Theresa May. Ma poi l’ha rassicurata precisando che si atterrà alle decisioni dei capi del Pentagono e della Cia, che nelle loro audizioni sotto giuramento al Congresso si sono dichiarati contrari alla tortura, vietata peraltro anche dalle leggi Usa. Attacchi alla stampa. Il neo presidente ha continuato la sua guerra contro la stampa, sposando le controverse accuse del suo chief strategist Steve Bannon, secondo cui i media sono un partito di opposizione. "Non parlo di tutti, ma di una grande parte dei media... la loro disonestà, la loro totale truffa li rende certamente in parte un partito di opposizione", ha detto in una intervista alla Cbn. Oggi colloqui con Putin, Abe, Turnbull, Merkel e Hollande. Il presidente americano ha in programma oggi colloqui telefonici con il premier giapponese Shinzo Abe e con quello australiano Malcolm Turnbull. Sale così a cinque il numero di leader stranieri con cui Trump si sentirà nella giornata odierna: il tycoon aveva già in agenda telefonate col presidente russo Vladimir Putin, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande. Stati Uniti. All’origine del nuovo muro alla frontiera una scelta bipartisan di Manlio Dinucci Il Manifesto, 28 gennaio 2017 Usa-Messico. Fu il presidente democratico Bill Clinton a iniziare nel 1994 la costruzione. È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge "Secure Fence Act" presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di "barriere fisiche", fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli "ingressi illegali" di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota "No"; l’altro invece vota "Sì": il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano "Sì", facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady. È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di "libero" commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada. Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale. Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Stati uniti i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni. Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras. Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine. Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori. Attraversare il confine è come andare in guerra, per sfuggire agli elicotteri e ai droni, alle barriere di filo spinato, alle pattuglie armate (molte di veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan), addestrate dai militari con le tecniche usate nei teatri bellici. Emblematico il fatto che, per costruire alcuni tratti della barriera col Messico, l’amministrazione democratica Clinton usò negli anni Novanta le piattaforme metalliche delle piste da cui erano decollati gli aerei per bombardare l’Iraq nella prima guerra del Golfo, fatta dall’amministrazione repubblicana di George H.W. Bush. Utilizzando i materiali delle guerre successive, si può sicuramente completare la barriera bipartisan. Russia. Picchiare la moglie non è reato, depenalizzata la violenza in famiglia di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 28 gennaio 2017 Nel paese che forse fa segnare il maggior numero di donne uccise in famiglia, il parlamento ha depenalizzato la violenza "leggera" all’interno delle mura domestiche. Non appena ci saranno il sì della Camera alta e la firma di Putin picchiare il coniuge e i figli non sarà più un reato. E il colpevole sarà soggetto solo a una multa che potrà arrivare a 500 euro. Il punto di partenza di questa iniziativa che ha visto la Duma votare compatta è in realtà una criticata decisione della Corte Suprema dell’estate scorsa. La Corte ha stabilito che picchiare qualcuno non è più reato in Russia, a meno che la cosa non avvenga in famiglia. In sostanza oggi un padre che dà uno schiaffo al figlio è perseguibile penalmente, mentre se a menar le mani è un estraneo, la cosa non è più contro il codice penale. Così alcuni deputati conservatori del partito del presidente Putin ha presentato una "proposta-toppa" che appare quasi peggio del "buco" che si voleva sistemare. Chi usa le mani in famiglia, e non solo nei confronti dei figli ma anche del coniuge, rimane impunito se è la sua prima volta. Solo nel caso in cui l’aggressore torni ad attaccare lo stesso familiare potrà essere processato in sede penale e punito con il carcere, e in ogni caso solo se la vittima riuscirà a dimostrare i fatti, perché la giustizia non agirà d’ufficio. "Le vittime dovranno riunire da sé tutte le prove dell’aggressione e andare a tutte le udienze in tribunale per dimostrarla. È assurdo che non si agisca d’ufficio. In pratica l’aggredito deve indagare sul proprio caso", ha spiegato a Efe Mari Davtian, avvocata esperta di violenze di genere. Le proteste - Contro la legge sono insorti tutti i gruppi che si occupano di protezione delle donne e dell’infanzia. In Russia le statistiche non sono molto affidabili, ma secondo dati del 2010 diffusi dalle Nazioni Unite, la situazione è gravissima. Su 143 milioni di abitanti, 14 mila donne sarebbero state ammazzate da parenti o mariti in dodici mesi. Altre organizzazioni non governative forniscono cifre simili per i periodi successivi. Tanto per avere un’idea, in Italia le statistiche ufficiali parlano di 179 donne uccise nel 2013. Negli Stati Uniti, paese di 320 milioni di abitanti, le donne uccise in un anno sono attorno al migliaio. Ma le cifre russe non sono confermate dalle autorità che invece si rifanno a dati del ministero dell’Interno secondo i quali le donne uccise in 18 mesi sarebbero state meno di 600. In ogni caso, la questione della violenza domestica è percepita come molto seria nel paese. E qui non parliamo di un ceffone ai figli ma di quello che mariti spesso ubriachi compiono nei confronti delle mogli. Se la legge sarà approvata dalla Camera Alta, dovrà andare alla firma del presidente. E Putin poche settimane fa si è espresso chiaramente contro l’abitudine (non solo russa) di tirare sberle in famiglia: "Meglio non alzare le mani e non richiamarsi a questo tipo di tradizioni. Non è una buona idea e fa male alla famiglia". Yemen. Allarme dell’Onu, in arrivo la peggiore carestia mondiale di giordano stabile La Stampa, 28 gennaio 2017 Rapporto al Consiglio di Sicurezza: 14 milioni di persone alla fame, due milioni rischiano di morire. Nello Yemen è in corso la "più grave crisi alimentare mondiale" con 14 milioni di persone che non mangiano a sufficienza, e due milioni che rischiano di morire se non si interviene con urgenza. La denuncia viene da Stephen ÒBrien, capo delle operazioni umanitarie all’Onu. Che ha anche spiegato che ci sono "2,2 milioni di bambini" che soffrono la fame. ÒBrien ha parlato al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite: "Senza un intervento immediato - ha spiegato - nel 2017 assisteremo alla carestia". Circa l’80 per cento della popolazione non ha cibo a sufficienza. La situazione è critica soprattutto per i minori: "Un bambino sotto i dieci anni muore ogni dieci minuti per cause evitabili", come infezioni e diarrea causate dalla malnutrizione e dalla mancanza di medicinali di base. Lo Yemen del Nord è sotto assedio da parte della coalizione a guida saudita da due anni. Dopo la cacciata del legittimo presidente Mansour Hadi nel febbraio del 2015, i ribelli sciiti Houthi controllano la capitale Sanàa e la parte settentrionale del Paese. Hadi e gli alleati sunniti hanno ripreso Aden e parte del Sud, dove sono presenti anche Al-Qaeda e l’Isis. I ribelli Houthi sono però circondati, e stanno per perdere il più importante accesso verso l’esterno, il porto di Mokha sul Mar Rosso. L’assedio e i bombardamenti, anche su campi coltivati, hanno ridotto al minimo le riserve di cibo e medicinali. L’Italia ha chiesto che venga ripristinato subito il cessate-il-fuoco per consentire l’arrivo di aiuti umanitari. Gran Bretagna. Nuove sostanze psicoattive: è allarme nelle carceri fuoriluogo.it, 28 gennaio 2017 Le Nps fanno breccia nelle carceri inglesi, in sostituzione di eroina e cannabis. La questione delle nuove sostanze psicoattive è stata più volte affrontata su Fuoriluogo, in vari articoli fra cui vale la pena di citare l’articolo di Camoletto per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto di qualche mese fa e gli approfondimenti dell’inchiesta di fine 2014 pubblicati sempre su il Manifesto. Oggi, dando uno sguardo oltremanica, scopriamo come i cannabinoidi sintetici stiano sostituendo eroina e cannabis come sostanze maggiormente usate nelle prigioni inglesi. Le ragioni sono molteplici ma il maggior consumo è soprattutto influenzato dal fatto che è molto più semplice evitare i controlli con sostanze sintetiche che spesso sono inodori, incolori ed insapori rispetto alla tradizionale cannabis naturale. Inoltre le nuove sostanze hanno spesso uno status di sostanze non proibite finché non vengano riconosciute come tali, e godono di una relativa facilità di utilizzo potendo assumere diverse forme fra cui quella liquida. Ma le controindicazioni sono molteplici, soprattutto legate alla mancanza di informazioni certe su cosa si stia assumendo con ripercussioni sulle capacità di gestire gli effetti che si dimostrano spesso indesiderati e non previsti, se non addirittura tossici. L’incidenza degli interventi d’emergenza relativi all’uso dei cannabinoidi sintetici in Inghilterra sembra infatti una prassi che coinvolge almeno il 3,5% degli interventi droga correlati, percentuali che non si riscontrano nell’uso della cannabis naturale. Questo mentre l’uso continuativo sembra avere effetti collaterali non piacevoli nei consumatori. Per i detenuti inglesi la situazione è complicata dal fatto che l’approvazione ed entrata in vigore del Psychoactive Substances Act (Psa) nella scorsa primavera ha definito che qualsiasi sostanza che possa avere effetti psicoattivi o che sia usata per tale scopo possa essere considerata una droga vietata, il cui possesso per uso personale non è reato fuori dagli istituti di detenzione ma lo diventa per coloro che sono reclusi, adulti o minori. Nel Psychoactive Substances Act (Psa) sono citate ed escluse caffeina, alcol e nicotina, oltre ai medicinali.