Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita di Valentina Stella Il Dubbio, 27 gennaio 2017 Nel carcere di Padova il convegno di "Ristretti Orizzonti". "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita": questo il titolo del convegno organizzato da Ristretti Orizzonti, diretto da Ornella Favero, venerdì scorso nella casa di reclusione di Padova. Dunque l’ergastolo al centro della discussione, soprattutto l’abolizione di quello ostativo, ovvero la pena perpetua, prevista dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che viene comminata a chi si è macchiato di delitti particolarmente gravi, relativi, per la gran parte delle volte, a fatti di criminalità organizzata e terrorismo. Il solo modo che questi condannati hanno per uscire dal carcere è la collaborazione con lo Stato - in pratica divenire dei pentiti - a meno che essa non sia impossibile o inesigibile. "Dopo 25 anni da quel tragico 24 gennaio ho incontrato la persona che ha fatto parte del commando che ha ucciso mio padre" racconta Sabina Rossa, figlia di Guido, sindacalista ucciso dalle Brigate rosse nel 1979, "oggi è un uomo libero" prosegue "è una persona completamente diversa da quella di allora. Giustizia è proprio prendere atto che dopo tanti anni dai fatti criminosi le persone cambiano". Anche se con un messaggio scritto, le fa eco Agnese Moro, figlia di Aldo: "L’ergastolo uccide la speranza di esseri liberi, le persone sono più del loro reato". E il concetto di speranza è altresì al centro di quasi tutti gli interventi dei detenuti, ergastolani o condannati a pene molte lunghe: "Senza speranza è difficile il cambiamento, si vive nel vuoto, si regredisce, soprattutto se vieni condannato all’ergastolo quando hai 20 o 30 anni" dice Gaetano Fiandaca. Proprio ai detenuti del carcere di Padova è arrivato un messaggio di Papa Francesco: "Mi pare urgente una conversione culturale dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere. Perché se la dignità viene definitivamente incarcerata, non c’è più spazio nella società, per incominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". Anche per Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti: "l’ergastolo corrisponde all’annientamento dell’individuo. Purtroppo su questo argomento la responsabilità istituzionale si abbandona, per motivi di consenso, all’emotività dell’opinione pubblica". Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, dopo aver ribadito che egli ha cambiato idea sull’ergastolo solo grazie ad Alessandro Margara, il magistrato che trattava i detenuti come uomini, l’ispiratore della riforma penitenziaria, scomparso lo scorso luglio, mette invece in luce i quattro paradossi sul fine pena mai e sulla detenzione in generale: l’espressione "fine pena mai" è incostituzionale perché viola l’art. 27 della Costituzione per cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il secondo paradosso riguarda il fatto che la pena deve essere solo limitazione della libertà e si deve evitare di aggiungere alla sofferenza della detenzione ulteriori sofferenze in nome della sicurezza, come il 41bis o la condizione di sovraffollamento. Il terzo paradosso consiste nel fatto che è stato abolita la pena di morte, pur tuttavia, ricorda Flick, in carcere si continua a morire ad esempio per malasanità o per violenza. L’ultimo paradosso riguarda la custodia cautelare, "una pena senza processo, senza condanna che diviene omaggio al principio della paura". Proprio sul 41bis è intervenuto il senatore Luigi Manconi, chiarendo che in nessuna parte del nostro ordinamento esso è presentato come carcere duro. Il suo unico scopo è quello di interrompere i contatti tra i detenuti e l’associazione criminale, mentre oggi il 41bis si è tramutato "in un carcere fuori legge". Alla giornata di dialogo hanno partecipato anche l’ex magistrato Gherardo Colombo, il sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore, Renato Borzone, responsabile dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, Rita Bernardini per il Partito radicale, e molti altri parlamentari, esponenti delle istituzioni e esperti di diritto. Tutto il convegno è riascoltabile su Radio radicale. Rapporto Cedu 2016: per l’Italia meno cause a difesa dei diritti dell’Uomo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2017 L’Italia esce della "top five" degli Stati col maggior numero di casi pendenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Con 6.180 richieste, pari al 7,8% dei casi pendenti, l’Italia è sesta nella classifica degli Stati meno virtuosi nel rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel 2015 era quarta, con 7.567 ricorsi, pari all’11,69% del totale. Diminuisce anche il numero delle sentenze che riguardano l’Italia: nel 2015 erano 24, (20 condanne) mentre nel 2016 le sentenze sono 15 con 10 condanne. Nella "classifica" che si ricava dal Rapporto della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2016 la "maglia nera" va all’Ucraina con 18.171 "cause" pendenti, seguita dalla Turchia (12.575), dall’Ungheria (8.962) dalla Russia (7.821) e dalla Romania (7.402). Il trend positivo dell’Italia si conferma, rispetto allo scorso anno, ma il cambio di passo è decisamente evidente se il confronto avviene con il 2014. Nel 2015 i casi introdotti erano 1.885 a fronte dei 1.409 del 2016, mentre nel 2014 per l’Italia le richieste attribuite a una formazione giudiziaria erano 5.490. Positivamente in caduta libera, a dimostrazione della maggiore conoscenza dei meccanismi della Corte europea, il numero di ricorsi irricevibili che passa dai 4.438 del 2015 ai 2.695 di quest’anno (erano 9.625 nel 2014). "Il governo italiano ci ha messo molta buona volontà - spiega il presidente della Corte Guido Raimondi - si è incentivato l’uso del regolamento amichevole e della dichiarazione unilaterale". Per l’Italia pesa l’effetto delle leggi retroattive che, violando l’articolo 6 della Convenzione, hanno messo a rischio dei "diritti acquisiti", "incidono sul numero dei casi, i ricorsi per le cosiddette pensioni svizzere - afferma il presidente Raimondi - e quelli relativi al personale Ata. Per il resto il contenzioso non è ormai molto diverso da quello dei paesi della "vecchia" Europa. C’è pendente una questione importante sulle coppie omosessuali che si sono sposate all’estero, ma si tratta di casi precedenti la legge Cirinnà". Soddisfatto il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Siamo lieti che i nostri sforzi siano riconosciuti - afferma Orlando - ho sempre ritenuto inaccettabile che in una nazione considerata la culla del diritto potessero essere omessi, anche occasionalmente diritti fondamentali". In carcere si producono eccellenze, lettera aperta agli chef: usatele nei vostri ristoranti di Licia Granello La Repubblica, 27 gennaio 2017 Nelle prigioni italiane si moltiplicano le esperienze, il livello qualitativo del cibo prodotto è sempre più alto. I grandi cuochi facciano la loro parte: valorizzateli e fateli conoscere. Cari cuochi, come ogni inizio anno, il 2017 si annuncia gonfio di buoni propositi, anche nel mondo del cibo. In questi giorni, la Val Badia ha ospitato "Carès", manifestazione di alta cucina declinata con un occhio di riguardo ad ambiente, piccole produzione locali, rispetto della stagionalità, giusto compenso per chi lavora tra campo e tavola. Norbert Niederkofler e i suoi compagni di stelle si cimentano sul tema della sostenibilità, forti di un terroir dove ispirarsi è facile e quasi scontato. Lontano dalla maestosa bellezza delle Dolomiti, l’adesione alla cucina etica riesce più difficile. E le difficoltà si moltiplicano in modo esponenziale quando l’attività si svolge dentro le mura di un carcere. Il cibo prodotto dietro le sbarre assume significati più ampi: redenzione, restituzione di dignità, speranza, senso della vita. Negli anni, uomini e donne sottoposti a detenzione hanno ripreso in mano la loro esistenza attraverso il mestiere della tavola, alzando progressivamente l’asticella della qualità. Come abbiamo raccontato su questo sito nelle scorse settimane, l’Italia dell’emergenza carceri riesce comunque a esprimere eccellenze gastronomiche dal Piemonte alla Sicilia, dai grissini ai formaggi, dal panettone ai taralli, certificate e premiate senza bisogno di ricorrere alla carità pelosa che trasforma il mediocre in ottimo. Certo, si tratta di produzioni piccole, forzatamente contingentate, appesantite a volte da pastoie burocratiche e da qualche peccato di scarsa empatia. Ma ormai gli approvvigionamenti dei magnifici lievitati del carcere di Padova o delle ricotte di Rebibbia sono equiparabili a quelli di normalissime micro-aziende alimentari. Per questo sarebbe importante se a supportare quella che la fondatrice di "Made in carcere" Luciana Delle Donne definisce the second chance foste proprio voi, i grandi cuochi italiani. La seconda possibilità, tradotta in cibo squisito, da spendere nelle cucine stellate ed evidenziata sui menù, titolo di doppio merito, scelta di qualità e supporto sociale. Da realizzare pagando le forniture secondo i prezzi di mercato, offrendo stage nei vostri splendidi ristoranti, spendendo qualche ora nei laboratori delle case circondariali, organizzando cene "a tante mani". Lo so, siete sempre occupatissimi. Da una parte, la disponibilità di qualche spicciolo di giornata una tantum e l’inserimento nelle vostre cucine dei cibi fatti in carcere. Dall’altra, la possibilità reale di cambiare letteralmente la vita di chi ha sbagliato e cerca il modo di non sbagliare più. Per diventare chef a cento stelle, il massimo dei massimi, nei piatti e nella vita, con buona pace della guida Michelin. Attendiamo adesioni. Riforma del processo penale. Canzio propone più controlli sulle indagini di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2017 "Attesa", "incisiva", "urgente", "indifferibile". Accompagnata da diverse aggettivazioni, la riforma del processo penale (e la sua approvazione) risuona nell’aula magna del Palazzaccio nelle voci del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, del ministro della Giustizia Andrea Orlando e del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. E se per il guardasigilli e il numero due di Palazzo dei Marescialli si tratta di un ulteriore tassello del disegno riformatore che (su più fronti) sembra aver prodotto un’"inversione di tendenza" positiva nelle performance della giustizia italiana, secondo Canzio è anche un passaggio essenziale per "restaurare le linee fisiologiche del giusto processo" rispetto alle "distorsioni del processo mediatico", e per introdurre "talune significative finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini, piuttosto che prevedere interventi di tipo gerarchico o disciplinare". Una proposta alternativa a quella dell’avocazione del Procuratore generale della Corte d’appello quando il Pm non esercita l’azione penale entro tre mesi dal deposito degli atti, prevista dalla riforma penale bloccata al Senato, ma che insospettisce l’Anm ("I controlli già ci sono"), pur critica sull’avocazione. È stata una cerimonia all’insegna dell’"inversione di tendenza" quella che si è svolta ieri in Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, in un’aula affollata di autorità: dal Capo dello Stato Sergio Mattarella (affiancato dal predecessore Giorgio Napolitano) al premier Paolo Gentiloni, dal presidente della Consulta Grossi ai presidenti delle due Camere Boldrini e Grasso. In platea anche i ministri dello Sport Luca Lotti e della Pubblica amministrazione Marianna Madia. Una fila indietro, il sindaco di Roma Virginia Raggi e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Vuota, invece, la poltrona del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che ha disertato il tradizionale appuntamento istituzionale per protesta contro il decreto di proroga dell’età pensionabile dei soli vertici della Cassazione, considerato un "gravissimo vulnus" all’indipendenza dei giudici(si veda l’articolo a fianco). Il bilancio della giustizia nel 2016 non è molto diverso dall’anno precedente: una giustizia civile ancora zavorrata da un arretrato di 4.032.582 cause (-4,48% rispetto al 2015) con una durata media dei procedimenti di poco superiore, sia in primo che in secondo grado; meglio nel penale, dove le pendenze scendono del 6,9% ma superano sempre i 3 milioni(3.229.284) e con un’impennata delle prescrizioni (139.488; +3,3%). Neppure la Cassazione riesce a uscire dall’emergenza del civile, nonostante i magistrati smaltiscano più ricorsi di quanti ne entrano. Ed è proprio l’alta produttività del sistema (dovuto ai magistrati ma anche ad alcune riforme deflattive, nel civile e nel penale) la chiave "dell’inversione di tendenza" celebrata ieri in un clima quasi da "fine mandato" per chi vede avvicinarsi - come Orlando - la scadenza della legislatura o della carriera - come per Canzio e per il Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, che andranno in pensione a fine anno). Su alcuni temi, Canzio ha ribadito denunce e proposte dell’anno scorso: abolizione del reato di immigrazione clandestina; riforma della prescrizione (anche se in Cassazione si sono prescritti solo 767 processi, l’1,3% del totale, è "irragionevole" che l’estinzione del reato scatti nel corso del processo "pur dopo la condanna di primo grado"); un piano straordinario di abbattimento dell’arretrato tributario della Cassazione, pari al 47% delle cause pendenti, dal quale possono essere recuperate cospicue entrate per lo Stato. Si è soffermato sulla corruzione e sulla "diffusa percezione" che ne ha l’opinione pubblica ma che "non trova riscontro nelle statistiche giudiziarie" (solo 273 i processi definiti in Cassazione), il che impone misure "preventive e repressive" per far emergere il fenomeno nelle sue reali dimensioni anche nelle aule di giustizia". Ha rivendicato l’enorme apporto della giurisprudenza di Cassazione rispetto a riforme approvate o mai approvate ma ha anche richiamato il legislatore a colmare "vuoti normativi" su questioni di natura etico-sociale importanti, senza "demandarle in via esclusiva" alla giurisprudenza (come su stepchild adoption). Duro il suo j’accuse contro le "distorsioni" del processo mediatico, che crea aspettative colpevoliste nell’opinione pubblica con conseguente sfiducia nella giustizia quando l’esito è diverso. I tempi lunghi del processo non aiutano e neppure i rapporti dei media con i Pm titolari delle indagini e la loro "spiccata autoreferenzialità". Un forte richiamo ad evitare "fughe di notizie" sulle indagini in corso è venuto dal Pg Ciccolo perché "si rischia di ledere il principio costituzionale di non colpevolezza" ed è "obiettivamente difficile individuare le singole responsabilità". Il presidente della Cassazione Canzio: "controlli sulle indagini e i pm siano più riservati" di Leo Lancari Il Manifesto, 27 gennaio 2017 "No a fughe di notizie e ai processi mediatici". Una giustizia troppo lenta rispetto agli altri paesi europei, maggiori controlli sulle inchieste e un monito ai pubblici ministeri perché siano più riservati, evitando fughe di notizie capaci di condizionare l’opinione pubblica. Ma anche la necessità di approvare al più presto alla riforma penale, l’abolizione del reato di clandestinità, giudicato inutile, e un richiamo sulla prescrizione che andrebbe fermata dopo il giudizio di primo grado. Il primo presidente delle Corte di cassazione Giovanni Canzio inaugura l’anno giudiziario parlando davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una cerimonia alla quale le toghe arrivano divise, con l’Associazione nazionale magistrati che per la prima volta diserta l’appuntamento in segno di protesta contro il governo. In compenso, seduto nell’aula Magna del Palazzaccio, quest’anno c’è il premier Paolo Gentiloni che marca così un segno di differenza rispetto al suo predecessore Matteo Renzi che negli anni passati si fece notare per la sua assenza. Richiamo ai pm - "Merita di essere presa in seria considerazione la proposta - dice Canzio - di aprire talune, significative finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini, piuttosto che prevedere interventi di tipo gerarchico o disciplinare". Il presidenza della Corte di cassazione punta il dito contro le inchieste troppo lunghe e sulle fughe di notizie che caratterizzano spesso i procedimenti più importanti. Troppa "autoreferenzialità" da parte dei pm, prosegue, anche nei rapporti con la stampa. Il che porta l’opinione pubblica a "esprimere sentimenti di avversione" verso sentenze di proscioglimento o di condanna se giudicate troppo miti. Il che crea "una frattura tra gli esiti dell’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia". Prescrizione - Si tratta di un punto sul quale Canzio ha insistito anche nel suo discorso dell’anno passato. È "irragionevole - spiega - che la prescrizione continui a proiettare gli effetti estintivi del reato nel corso del processo, pur dopo la condanna di primo grado". Questo nonostante in Cassazione il numero delle prescrizioni sia "irrisorio" e nell’ultimo anno abbia riguardato circa 767 processi, pari all’1,3% del totale. Più corretto, per Canzio, sarebbe "intervenire con misure acceleratorie sulla durata dei giudizi di impugnazione". Reato di clandestinità - Per i primo presidente della cassazione è "inefficace" mentre "la configurazione di un illecito e di sanzioni amministrative, fino all’espulsione, darebbe risultati più concreti". Un concetto che Canzio ripete fin dal giorno della sua nomina, con il parlamento che aveva anche cominciato ad abolire il reato salvo poi fermarsi per un incrinare la tenuta della maggiorana. Oltre alla sua abolizione proprio al parlamento Canzio chiede invece leggi in grado di consentire più rapidamente l’esame delle domande di protezione internazionale, in particolare per i minori non accompagnati. Corruzione - Per Canzio occorrono misure più severe per combatterla perché, nonostante sia "fortemente avvertita nel paese sia nella Pubblica amministrazione che tra i privati", essa non trova riscontro nelle rilevazioni delle statistiche giudiziarie". Né in quelle nazionali né in quelle della Cassazione, dove i procedimenti del 2016 sono stati solo 273, pari allo 0,5% del totale di quelli trattati. Per Canzio occorre dunque "avviare una profonda riflessione sull’efficacia delle attuali misure, preventive, repressive, di contrasto al fenomeno". Terrorismo - Di fronte alle minacce del terrorismo internazionale occorre arrivare all’istituzione di una procura europea, fino a oggi bloccata dal prevalere di interessi nazionali, per consentire un maggiore coordinamento delle indagini, insieme "ad adeguate misure di polizia e prevenzione". Considerando anche la possibilità do configurare gli atti di violenza terroristica come crimini contro l’umanità. E massima attenzione anche a quanto avviene in rete e nelle carceri, luoghi nei quali avvengono l’arruolamento e la radicalizzazione. "Solo attraverso un trattamento carcerario più umano e finalizzato all’integrazione - avverte Canzio - può attenuarsi, almeno in parte, il rischio di pericolosi integralismi" Adozioni - Per quanto riguarda la stepchild adoption, Canzio ricorda come due sentenze della cassazione (n.12962 e n.19599) riconoscano sia la legittimità da parte del partner del genitore biologico che la legittimità del riconoscimento e della trascrizione dell’atto di nascita di un bambino nato all’estero da due madri grazie alla fecondazione assistita. "Emerge una ricostruzione dell’istituto della famiglia intesa come comunità di vita e di affetti" il cui "criterio guida resta quello dell’interesse preminente del minore". I giudici quindi, non si sottraggono ai loro compiti, sottolinea Canzio, sottolineando però come sia dovere del parlamento provvedere adesso a una legge. Rottura tra Canzio e Davigo, giustizia-show sotto accusa di Errico Novi Il Dubbio, 27 gennaio 2017 Non è solo l’inaugurazione di un nuovo anno giudiziario, è l’avvio di una frattura profonda nel mondo della giustizia. Nel giorno della cerimonia in Cassazione il primo presidente Giovanni Canzio muove attacchi precisi e secchi a una parte della magistratura: dalle "distorsioni del processo mediatico" addebitate anche "al pubblico ministero", alla necessità, mai segnalata prima, di un maggiore controllo giurisdizionale sulle indagini". Critiche nette alla "autoreferenzialità" di alcuni inquirenti, in particolare a chi tra loro "intesse un dialogo con i media" che accentua "il corto circuito tra rito mediatico e processo penale". Parole forti di una relazione introduttiva che segna la distanza rispetto a una parte dei magistrati, e in particolare rispetto al loro sindacato. E l’Anm non a caso è assente, come annunciato: non c’è il presidente Piercamillo Davigo, in segno di protesta contro un decreto che ha lasciato in servizio per un altro anno, tra gli altri, proprio Canzio. Lui e la sua giunta si riuniscono, terminata l’inaugurazione, al sesto piano dello stesso Palazzaccio, per tenere una conferenza stampa in cui muovono al governo l’accusa di "volersi scegliere i giudici". Nulla però sulle "distorsioni" di cui parla Canzio. Critiche alle toghe anche da Ciccolo e Mascherin - Tra i due momenti topici, le parole del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, del procuratore generale Pasquale Ciccolo e del presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Con i primi due che rivolgono appelli a "ricomporre lo strappo", mentre Ciccolo accentua con forza il richiamo al "riserbo" per chi conduce le indagini e Mascherin segnala il rischio provocato da chi vorrebbe "tracciare da solo la strada", tentazione in cui, osserva il presidente del Cnf, "è caduta anche la magistratura". Legnini e la fiducia indispensabile per i magistrati - Altre volte Canzio, anche da presidente della Corte d’Appello di Milano, aveva segnalato alcune patologie del sistema. Ma questa cerimonia inaugurale segna una divisione tra le toghe che solo in apparenza può essere ridotta a contrapposizione tra figure- chiave, come quelle dello stesso primo presidente e di Davigo. La distanza è su alcuni grandi temi della giustizia penale soprattutto, dietro cui si cela un nodo cruciale segnalato da Legnini: "I giudici non possono esercitare con effettività l’amministrazione della giustizia senza poter contare sulla fiducia dei cittadini". È proprio la sensazione di aver smarrito in parte quella fiducia che sembra spingere nervosamente l’Anm e alcuni settori dell’ordine giudiziario verso un conflitto aperto col governo, fino alla negazione di problemi che non si riducono alle carenze d’organico. Canzio cita indirettamente il "fallace" Davigo - Che comunque la polemica sia frontale lo si vede anche in alcuni dettagli della relazione con cui Canzio inaugura l’anno giudiziario. Dopo il ricordo commosso del suo predecessore Giorgio Santacroce e la presentazione degli "effetti dell’autoriforma" sull’attività della Suprema corte, il primo presidente passa all’alta percentuale delle pronunce di inammissibilità dei ricorsi in Cassazione: il 63.5%; poi segnala "il numero ancora elevato dei ricorsi personali dell’imputato, 11.432, e le sentenze di patteggiamento, 6.597, voci che messe insieme fanno un terzo dei giudizi davanti alla Corte, e a quel punto attacca indirettamente Davigo: "Si rivela pertanto fallace l’affermazione secondo cui la riforma penale, ferma al Senato nonostante i lodevoli sforzi del ministro di Giustizia, sarebbe "inutile se non dannosa". Quel ddl, ricorda Canzio, escludeva i ricorsi personali, quelli avverso il patteggiamento e semplifica la procedura di inammissibilità. Davigo dunque ha torto, e nella versione scritta consegnata ai cronisti, quei due aggettivi, "inutile se non dannosa", pronunciati a suo tempo dal leader Anm sono stampati in corsivo. Attacco a processo mediatico e pm autoreferenziali - Non è il solo passaggio aspro del discorso inaugurale. Quello sul processo mediatico è di una severità inaudita: ricorda la "frattura" tra gli esiti dei processi e "le aspettative di giustizia", che prescindono "da ogni valutazione sulla complessità dei fatti". Ricorda la patologia di un’opinione pubblica che esprime spesso "avversione su talune decisioni di proscioglimento o anche di condanna, se ritenute miti". Molto dipende dallo spazio temporale tra "le indagini, già di per sé troppo lunghe, che innescano un pregiudizio mediatico parallelo" e le sentenze. Ma qui interviene la "auto-referenzialità" mostrata "in alcuni casi" dai pm, che va riportata "nella cultura della giurisdizione". Migliucci: "Canzio invoca separazione delle carriere" - Sono passaggi notati soprattutto dal presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci: "Vanno letti come un richiamo di fatto all’urgenza della separazione delle carriere", in particolare sul "controllo giurisdizionale nel corso delle indagini". Il presidente della Cassazione ricorda alcune sentenze importanti, come quella sui "trojan horse", il cui utilizzo è stato ancorato, dalla Suprema corte, a una "rigorosa qualificazione del reato" che deve attenere a "delitti di criminalità organizzata". Solo sulla prescrizione è in linea con Davigo e giudica "irragionevole farla decorrere oltre la condanna di primo grado". Sulla corruzione nota che "il numero di giudizi è esiguo, lo 0,5% del contenzioso in Cassazione". Raffaele Cantone chiosa sulla "inopportunità" di nuovi interventi normativi in quel campo. Orlando: "lavoro straordinario dei giudici" - Il guardasigilli Orlando fornisce dati incoraggianti sulla riduzione dell’arretrato sia civile che penale: per quanto riguarda il primo, "le cause civili ultra triennali nei tribunali sono scese a 450mila", rispetto al "milione di processi pendenti nel 2013", comprese le pendenze ultra- triennali in appello e ultra- annuali in Cassazione. "Tra i molteplici fattori di questi progressi ve n’è uno che non può essere sottaciuto: il lavoro straordinario svolto dai magistrati". Che a volte neppure le statistiche riescono a misurare appieno: "Il rapporto Cepej dice che nel 2012 le decisioni erano state il 131% rispetto alle sopravvenienze, nel 2014 si è scesi al 119%", ma "è probabile che l’aggressione dell’arretrato, cioè delle cause più complesse, abbia ridotto il numero delle decisioni". Dati e parole di elogio dal guardasigilli che però all’Anm ha inflitto una delusione, due giorni prima, a proposito delle pensioni che non saranno prorogate per tutti. Non si vedono ombre invece nei riconoscimenti all’avvocatura: innanzitutto sulle "forme sintetiche di motivazione" dei giudizi presso la Suprema corte, a cui si è arrivati "anche grazie al confronto con il Cnf". E ancora quando ricorda "il dialogo con tutti i soggetti della giurisdizione" e dice "all’avvocatura in particolare" che intende "onorare l’impegno a presentare un ddl sull’equo compenso". L’Ocf apprezza Orlando sull’equo compenso - Un passaggio sul quale l’Organismo congressuale forense esprime "apprezzamento", così come sul "ruolo" che il ministro "riconosce all’avvocatura". Nella nota diffusa al termine dell’inaugurazione, l’Ocf, organismo che dopo il congresso forense di Rimini ha assunto la rappresentanza politica degli avvocati, esprime anche "piena condivisione dell’intervento del presidente del Consiglio nazionale forense". Mascherin: "si fa strada la necessità di camminare uniti" - Intervento, quello di Mascherin, che richiama anche la magistratura a un obiettivo da non nascondere dietro posizioni conflittuali: "Il Cnf ha la netta percezione che le cose stiano cambiando, che i protagonisti necessari alla tutela dei diritti si siano resi conto di dover procedere assieme per un unico sentiero". Che è la realtà opacizzata solo in parte dalla protesta dell’Anm. Quel cammino, ricorda Mascherin, è "in salita, stretto tra gli interessi di una finanza creativa globale, di un mercato senza regole, di un efficientismo economico spietato, di un linguaggio populista, di una ricerca del consenso che si nutre di paure". Lo si può solo affrontare insieme, per il presidente del Cnf. Ed è su questo che la magistratura, mai così lacerata come nella cerimonia di ieri, pare chiamata allo sforzo più impegnativo. In Cassazione 106mila cause pendenti, è record. 11mila nuovi procedimenti tributari di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2017 Dalle 104.561 cause civili pendenti nel 2015 alle 106.862 registrate a fine 2016. Per la Corte Suprema di Cassazione siamo al record, con un incremento che dà il senso di un’emergenza senza fine. Gli innegabili progressi organizzativi e di efficienza del Palazzaccio certo "tengono a bada" la marea dei ricorsi, ma non migliorano più di tanto il numero delle cause definite (27.394 nel 2016, 26.209 l’anno prima), con lenti passi in avanti anche in termini di durata media: 3 anni, 4 mesi e 7 giorni nel 2016, 3 anni 7 mesi e 26 giorni nel 2015. Comunque, il numero delle definizioni permette al primo presidente Giovanni Canzio di sottolineare il "netto miglioramento" ottenuto dalla Cassazione sia in termini di "contenimento" "della crescita della pendenza" che per "l’incremento della produttività" (220 cause definite per ogni toga, un numero che appare difficilmente superabile). Quest’anno, l’allarme lanciato da Canzio all’apertura dell’Anno giudiziario riguarda in particolare la sezione tributaria, dove sono approdati oltre 11mila nuovi procedimenti (il 38% del totale) e si "tratta" del 47% dell’intera pendenza civile. Un vicolo cieco che rende inutile ogni sforzo di aumentare le cause definite. Per Canzio, numeri che rischiano di "travolgere" l’assetto della Cassazione, e richiedono un Piano straordinario anti-arretrato e soprattutto una sezione tributaria bis, dotata di ulteriori giudici e personale. Le performance migliori, al Palazzaccio, le troviamo nel settore penale: migliorano le pendenze (30.349 nel 2016, 5.634 in meno rispetto al 2015), le definizioni (57.725, 6.216 in più), ma quella che peggiora è la durata media dei procedimenti: 240 giorni, tre settimane in più. Comunque sia, la lieve diminuzione delle pendenze (52.384) ha permesso una "significativa inversione di tendenza". I numeri contenuti nella Relazione Canzio raccontano il vero stato dell’arte della giustizia italiana, al di là delle parole che spesso rispecchiano le speranze ma non la realtà. E l’inaugurazione dell’Anno giudiziario è da sempre l’occasione per "leggere" la situazione dei nostri tribunali partendo dal confronto di un anno sull’altro. Per quanto riguarda la giustizia civile nel suo complesso, i procedimenti pendenti nei nostri tribunali al 30 giugno 2016 risultano 4.032.582, -4,48% sul 2015. L’arretramento c’è stato, ma molto meno rispetto agli anni precedenti, forse segno, a legislazione invariata e se non calano le nuove cause, che siamo vicini a un punto di equilibrio. La riduzione delle pendenze, altro dato preoccupante, è dovuto infatti più all’aumento delle definizioni (con sentenza o altro), in forte crescita negli ultimi due anni (+7,8% 2016, +8,87% 2015, +2,89% 2014) piuttosto che ad un calo delle sopravvenienze, che l’anno passato non c’è stato (3.637.742, +3,96). Il capitolo durata media delle cause civili vede una situazione di stallo: in tribunale, i 384 giorni medi di disposal time del 2014 sono scesi a 376 del 2016, uno in più rispetto al 2015. In Corte d’appello, i progressi ottenuti nel 2015 (819 giorni medi, 50 in meno rispetto al 2014) sono peggiorati di nove giorni: siamo a 828 giorni. Passando alla giustizia penale, le statistiche ministeriali confermano il sostanziale ottimismo dei vertici della magistratura, anche grazie ad un legislatore che ha dato retta ai suggerimenti emersi dalle inaugurazioni degli ultimi anni, vedi depenalizzazione di molti reati. Aumento della cause definite (+5,4%) e meno notizie di reato hanno così ridotto fortemente i procedimenti pendenti nel 2016: 3.229.284, -6,9 sul 2015. Rimane la crescita delle nuove cause (1.282.714, +2,1%) e il nodo mai sciolto delle prescrizioni: in attesa della riforma della processo penale che contiene norme sul tema, il 2016 vede quello che Canzio ha chiamato un "apprezzabile aumento" delle prescrizioni: 139.488 (+3,3%), rispetto alle 132.839 di due anni fa. Un altro promemoria per il legislatore annidato nelle pagine della relazione 2017. Il cortocircuito che incendia toghe e politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 gennaio 2017 Il Presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, ha aperto il nuovo anno giudiziario. Lo ha fatto con un discorso di stile brillante, che ha convertito la "rotten parchment", la pergamena avariata di tanti suoi predecessori, in un duttile libello di elegante solidità, elencando i dardi avvelenati che trafiggono il nostro indifeso sistema. Queste disfunzioni, tanto per restare nel linguaggio Shakespeariano, ricordano la sequenza del monologo di Amleto: "la contumelia dell’uomo superbo", ovvero gli eccessi di tanti Pm; "l’insolenza della carica", cioè i danni di un arrogante protagonismo invasivo, "lo scherno che il paziente merito riceve dagli indegni", cioè la fuga pilotata di notizie volte a "sputtanare" - come una volta disse efficacemente l’On. D’Alema - gli avversari; e naturalmente "the law’s delay", il ritardo delle leggi e dei processi, malattia endemica della nostra giustizia sgangherata. Non possiamo che plaudire a questo sincero e pragmatico garantismo, espresso in un contesto tanto solenne e in una forma tanto nobile. Tutti speriamo che i tempi delle cause vengano ridotti, che la presunzione di innocenza venga riaffermata, che tanti magistrati misurino le parole. E che finalmente cessi la vergogna delle intercettazioni selezionate e pubblicate secondo gli interessi personali e contingenti. Nondimeno, due circostanze tra loro connesse, hanno vulnerato, se non compromesso, questo quaderno di buone intenzioni. La prima è stato il recente atteggiamento del Ministro della Giustizia, dimostratosi disattento, se non addirittura estraneo ai problemi creati dal suo dicastero negli ultimi anni: pensionando anzitempo circa 500 magistrati anziani, e dilatando i tempi di trasferimento di quelli giovani, ha irritato gli uni e gli altri, decapitando una serie di uffici e, quel che è peggio, dando l’impressione di una funesta inaffidabilità. E qui veniamo alla seconda circostanza: la clamorosa assenza dell’Associazione Nazionale Magistrati al cerimonioso rituale di ieri mattina. Non era mai accaduto che il sindacato delle toghe polemizzasse in modo tanto irriverente. Certo, altre volte aveva rumoreggiato anche in modo turbolento, ma senza mai giungere ad isolarsi in uno sdegnoso Aventino davanti ai Capi del Governo e dello Stato. E questo per una ragione molto semplice: che la Magistratura era stata aggredita, talvolta in modo rude e grossolano, ma non era mai stata presa in giro. Questo invece è accaduto ora, con la violazione dei patti intercorsi con il presidente Davigo. È vero che l’accordo era stato fatto con Renzi premier, ma non ci sembra che la situazione sia sostanzialmente mutata. Concludo. È un peccato che le parole tanto sagge, ascoltate ieri, siano state affievolite, nella loro efficacia concreta, da un insanabile conflitto tra i giudici e la politica. Eppure, prima o dopo, questo doveva accadere, e la magistratura non dovrebbe esserne sorpresa. Perché essa ha spesso erroneamente visto nella politica una sorta di avversario competitivo, che mirava a limitarne la funzione e l’operatività in modo intenzionale. Come se, per esser chiari, esistesse o fosse esistito un preordinato disegno di ostacolarne il corso per fini innominabili. Mentre la realtà era, ed è, ben più grave: che non si tratta affatto di un complotto diabolico, contro il quale potrebbe anche trovarsi un rimedio, ma dell’assoluta incapacità di comprendere le componenti strutturali della crisi giudiziaria, in termini di risorse insufficienti e soprattutto di leggi inapplicabili e balorde. Forse la clamorosa protesta dell’Anm sarà stata uno scandalo, ma obbedisce a questa logica. Oportet ut scandala eveniant. La sola soluzione è cancellare l’azione penale obbligatoria di Giovanni Verde Il Mattino, 27 gennaio 2017 Nel suo discorso di inaugurazione dell’ anno giudiziario il primo Presidente della Corte di cassazione, dott. Giovanni Canzio, ha proseguito un discorso già iniziato lo scorso anno, allorquando aveva rivolto uno sguardo pensoso e preoccupato al delicato rapporto tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato in un contesto nel quale una chiara linea di demarcazione tra l’uno e l’altro rischia di andare perduta. È questo uno dei problemi, forse quello di maggiore spessore, riguardante l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, come già da anni sostengo anche sulle pagine del Mattino. Oggi il primo presidente ritorna sulla questione, affrontando di petto il problema delle indagini penali, ossia di quella delicatissima fase in cui non c’è ancora il processo in quanto l’azione non è stata ancora esercitata. È la zona nebbiosa, quasi un limbo, nella quale il pubblico ministero si può muovere con una libertà pressoché assoluta e difficilmente controllabile. Il presidente Canzio sembra non ritenere sufficienti e adeguati gli "interventi di tipo gerarchico o disciplinare" in singolare contrapposizione con quanto avantieri ha sostenuto il ministro, secondo il quale il problema è sotto controllo in virtù degli interventi dei capi degli uffici requirenti (e delle loro circolari) e degli ammonimenti del Csm. La coraggiosa denuncia del magistrato fa da controcanto alla preoccupata e timorosa prudenza del politico a riprova di ciò che da tempo sostengo: il pensiero dei Costituenti è stato ribaltato, in quanto oggi nel nostro Paese il vero potere forte è rappresentato dalla magistratura che, a differenza degli altri poteri dello Stato, gode del privilegio di una quasi totale assenza di responsabilità. Una riprova? Alla solenne inaugurazione, che si svolge dinanzi alle alte cariche dello Stato, l’Associazione nazionale dei magistrati non ha partecipato per protestare contro una legge che ha elevato il limite di età pensionabile soltanto per i magistrati che occupano posizioni apicali; là dove questa assenza ad una cerimonia simbolica non può che essere letta come la prova di forza di un potere contro altro potere dello Stato (e ciò qualunque cosa si pensi circa l’opportunità del provvedimento di proroga "ad personam"). L’analisi del primo presidente è stata puntuale e rigorosa. Egli ha criticato le indagini "già di per sé troppo lunghe"; la "spiccata autoreferenzialità" di alcuni pubblici ministeri; il disorientamento che "nasce dalla discrasia spazio-temporale fra l’ipotesi di accusa, formulata nelle indagini, il pregiudizio costruito nel processo mediatico parallelo che si instaura immediatamente, le ansie securitarie dei cittadini, da un lato, e le conclusioni dell’attività giudiziaria che seguono a distanza di tempo dalle indagini, già di per sé troppo lunghe"; dall’altro lato, il "pernicioso ribaltamento della presunzione di innocenza dell’imputato"; "il corto circuito tra il rito mediatico e il processo penale", che spesso trova causa o occasione nel dialogo tra il pubblico ministero titolare dell’indagine o l’avvocato difensore e i media. Di ciò abbiamo parlato molte volte e in tante, troppe occasioni. E ovvio che la prospettiva da cui il primo presidente osserva il fenomeno sia quella del magistrato. Di qui l’accento sulla questione della diffusione mediatica delle notizie riguardanti indagini in corso, quasi che il cuore del problema sia nella divulgazione delle notizie e non piuttosto in un esercizio eccessivo del potere di indagine o nell’uso incontrollato e incontrollabile dello strumento delle intercettazioni. Si tratta, tuttavia, di una prospettiva difficile da abbandonare dal momento che nel nostro Paese oramai è accettato, per effetto di una cultura giustizialista fondata sul sospetto, il principio secondo il quale "il fine giustifica i mezzi". Avviene, in tal modo, che anche una persona coraggiosa e competente, quale è il Presidente Canzio, non faccia seguire alla denuncia un’adeguata esposizione dei rimedi. Egli sottolinea che "di fronte a questa situazione occorre con urgenza un intervento riformatore diretto ad instaurare le linee fisiologiche del giusto processo". Nulla ci dice in ordine al tipo dell’intervento necessario, anche se lo lascia intuire. "Merita - egli dice - di essere presa in seria considerazione la proposta di aprire talune, significative finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini". L’affermazione è troppo sintetica o generica perché se ne possano trarre indicazioni. E, tuttavia, possibile un’illazione. Vi è la netta differenziazione tra controllo "giurisdizionale", ossia dei giudici, e "indagini", che costituiscono il nucleo essenziale dell’attività del pubblico ministero. Ed il primo presidente pensa che un potenziamento del controllo dei giudici sull’ attività dei pubblici ministeri possa essere uno strumento efficace. Che lo sia effettivamente è da dubitare, dal momento che il nostro Paese si è accomodato all’idea che al pubblico ministero come persona spettino le stesse garanzie di assoluta indipendenza e autonomia che spettano al giudice, così che è da escludere qualsiasi vincolo di tipo gerarchico con il capo dell’ufficio delle Procura ed è, al contempo, da escludere qualsiasi responsabilità di chicchessia per ciò che riguarda F esercizio (anche imprudente) dell’azione penale. È una conclusione che trova giustificazione nell’obbligatorietà dell’esercizio di questa azione. E fino a quando continueremo a ritenere che l’obbligatorietà rappresenta un principio irrinunciabile, è assai difficile trovare antidoti efficaci ai mali così chiaramente, e impietosamente, denunciati dal primo presidente. Cosimo Ferri: "non costruire verità mediatiche che allontanano la verità processuale" di Cristiana Mangani Il Messaggero, 27 gennaio 2017 Un’immagine della giustizia a più facce, tra le bacchettate ai pm e i progressi nel civile, tra la riforma penale sempre più necessaria e il rapporto Doing business che ci mette tra gli Stati fanalino di coda. Cosimo Ferri, Sottosegretario alla Giustizia, legge la relazione della Cassazione e si dice sicuro che "il percorso positivo compiuto grazie alle riforme, ci sta traghettando fuori dall’emergenza". Eppure il rapporto Doing Business 2017 ci colloca per le controversie commerciali, al posto 108 su 190 paesi. Quanto è lunga la strada da percorrere? "Si tratta di un dato che va in assoluto apprezzato e sta a indicare il percorso positivo compiuto grazie alle riforme di questi anni. Per la qualità del servizio giudiziario all’Italia è assegnato il punteggio di 13, superiore alla media dei Paesi più sviluppati, in considerazione dell’apprezzamento mostrato all’apertura del nostro ordinamento a recepire con convinzione il sistema di risoluzione alternativa delle controversie. Lo stesso rapporto peraltro ci riconosce di aver invertito il trend negativo". Il ministro Orlando ha denunciato che, a distanza di più di un anno dall’entrata in vigore dell’Ufficio del processo, poche corti e tribunali si sono effettivamente adeguati. Quali le ragioni? "Si tratta di una formula organizzativa innovativa che valorizza nuove professionalità nel processo a supporto del giudice. Possiamo dire che è entrata a regime nel 2016 e i dirigenti degli uffici stanno adoperandosi per renderla operativa. È destinata ad arricchirsi nel 2017 con la proroga del periodo di perfezionamento e delle borse di studio concessa a oltre 1000 tirocinanti con la legge di stabilità 2017 e con l’imminente attuazione della delega che ha riformato la magistratura onoraria". Il presidente Canzio lamenta l’eccessiva mediaticità dei processi e troppa autoreferenzialità da parte dei pm, non sarà eccessivo ipotizzare finestre di controllo sulle inchieste? "Occorre sempre buon senso e responsabilità. Il ruolo del pm non può prescindere dalla sua funzione giurisdizionale e deve contribuire alla ricerca della verità, che vuol dire cercare elementi a carico, ma anche a discarico dell’indagato. La mediaticità dei processi dipende talvolta da una serie di fattori che creano l’interesse dell’opinione pubblica: è giusto informare, ma è altrettanto doveroso non costruire verità mediatiche che spesso allontano la verità processuale". E "le finestre di controllo sulle indagini"? "Ho inteso "le finestre di controllo sulle indagini" come una riflessione su un tema affrontato dalla riforma del processo penale: non una soluzione gerarchica o disciplinare, ma uno stimolo per verificare i motivi di inerzia del pm in caso di eccessiva durata delle indagini". A proposito di Anm: è la prima volta nella storia che i magistrati non si presentano alla cerimonia in Cassazione. Cosa comporterà questo? "Interesse comune è quello di fare funzionare e di migliorare il servizio giustizia, e ritengo che la magistratura e anche l’avvocatura siano interlocutori essenziali. Il dialogo con l’Anm non si è mai interrotto e il Governo certamente darà risposte concrete e quanto più condivise, a iniziare dal riconoscimento delle giuste istanze dei giovani magistrati". Nella relazione annuale della Cassazione si evidenzia quanto il Paese percepisca una diffusa corruzione nella Pubblica amministrazione. Ritiene che il problema continui a essere sottovalutato? "Il Governo si è distinto concretamente nella lotta alla corruzione con interventi apprezzati anche a livello europeo, ha approvato la riforma degli appalti, puntando su semplificazione e trasparenza, in una logica non solo repressiva ma anche preventiva. Sta lavorando anche per estendere la punibilità della corruzione tra privati. È un tema centrale che va però accompagnato anche da un cambio culturale". Ancora il Guardasigilli ha parlato dell’indifferibilità della riforma penale, quali sono i tempi reali per l’approvazione? "È una riforma importante e necessaria, darà efficienza al processo penale. Il processo deve rispettare le garanzie delle parti, ma deve essere celere nell’interesse di tutti. Per esempio è essenziale semplificare il regime delle impugnazioni". Anna Canepa: "ci sono state storture, ma i cittadini vanno informati" di Marco Menduni La Stampa, 27 gennaio 2017 "Mantenere accesi i riflettori è servito a garantire la nostra indipendenza", la verità di Anna Canepa sta tutta qui: niente derive verso i processi mediatici, ma l’informazione è un diritto dei cittadini. Un diritto imprescindibile, anche durante le indagini. Magistrato della Direzione nazionale antimafia, ex segretario nazionale di Magistratura democratica, fra i pm italiani più noti e impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, Anna Canepa sintetizza così il suo pensiero dopo le dichiarazioni del primo presidente della Cassazione. Giovanni Canzio punta il dito sul "corto circuito tra rito mediatico e processo penale" che agita le "ansie securitarie". I cittadini si convincono che la verità sia quella che emerge nelle prime fasi dell’indagine, quella che più facilmente appaga il desiderio di sicurezza. La critica di Canzio è indirizzata ai processi mediatici, alla convinzione per cui i cittadini si convincono che la verità sia quella contenuta nelle prime fasi dell’indagine e non quella della sentenza, che arriva sovente dopo tempi lunghi. "Io credo sia fondamentale il diritto dei cittadini ad essere informati, soprattutto nel caso di grandi indagini che toccano interessi profondi. Il processo mediatico è sicuramente una distorsione del sistema, ma non si può negare agli italiani di conoscere almeno per sommi capi quel che succede durante un’inchiesta". Molti suoi colleghi hanno teorizzato che in alcune epoche recenti, con un preciso riferimento agli anni dei governi Berlusconi, il coinvolgimento dei media e quindi dell’opinione pubblica sia stata importante per difendere inchieste che potevano essere stoppate o soffocate dal sistema politico. "Non oggi, ma ci sono stati momenti in cui mantenere i riflettori accesi sul lavoro dei magistrati è stato un modo per mantenere e garantire la loro indipendenza". Resta, comunque, il tema dei tempi della giustizia. La constatazione che molte volte la sentenza arriva troppo tempo dopo l’inizio delle inchieste o il rinvio a giudizio è una realtà. "La marcia si è però invertita, gli ultimi dati forniti dal governo e dal ministro Orlando dimostrano che la giustizia italiana inizia a marciare più veloce. Poi c’è una realtà di fatto". Qual è? "I tempi delle indagini non sono un arbitrio del pm, ma sono regolati dalla legge". Poi si arriva al processo... "Per quanto attiene la lunghezza dei processi, non possiamo non tornare alla consueta constatazione. I processi sono rallentati dalla possibilità che le lungaggini portino alla prescrizione. La prescrizione è la causa stessa dei tempi lunghi per arrivare alle sentenze. Fino a quando ci sarà un preciso interesse di allungare i tempi per arrivare a questo traguardo non si riuscirà a intervenire in maniera davvero incisiva su questo problema". L’Anm: "Il governo non può scegliere i giudici". Lo strappo del sindacato delle toghe di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 gennaio 2017 "Il governo pensa di poter decidere chi deve fare il giudice ma questo non è consentito. I governi non possono decidere i giudici". Scaduto il tempo delle trattative, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, adegua i toni alla profondità del dissenso che ormai da settimane divide il sindacato delle toghe dall’esecutivo, accusato dai magistrati di non aver rispettato gli impegni politici, anche se a Palazzo Chigi non siede più Matteo Renzi con il quale erano cominciate le trattative. Come promesso fin da sabato scorso, per la prima volta l’Anm ha disertato la solenne cerimonia in Cassazione, spiegandone le ragioni subito dopo in conferenza stampa. "Noi abbiamo cercato una soluzione che riportasse nell’ambito costituzionale quanto era accaduto. Era stato preso un impegno formale, scritto, ma non è stato rispettato. Quello che è accaduto non può essere accettato perché è un vulnus che non ha precedenti nella storia della Repubblica, nella indipendenza e autonomia della magistratura. Questo è il punto in questione decisivo", ha aggiunto Davigo che si è detto però "disponibile" se il governo decidesse di voler "ricomporre lo strappo". Alla base dei motivi del dissenso con il governo, c’è in particolare la mancata modifica della norma che proroga le pensioni fino a 72 anni solo ai vertici della Cassazione, e provvisoriamente anche ai giudici di merito. Misure confezionate allo scopo di tamponare le carenze d’organico della magistratura. Viceversa, Davigo sarà presente domani all’apertura dell’anno giudiziario a Milano - e altri esponenti del sindacato in tutti i distretti di Corte d’Appello - per esprimere "vicinanza ai colleghi di tutta Italia che devono sopperire alle grandi carenze che in questo momento tutti viviamo", come ha spiegato il segretario Francesco Minisci. Al governo l’Anm chiede "non leggi di corto respiro ma riforme sistematiche per ridurre i tempi dei processi", ma oltre alle "adeguate risorse" per risolvere i problemi di organico, di digitalizzazione, di edilizia giudiziaria e di sicurezza delle aule di giustizia, si limita a chiedere "interventi per affrontare l’emergenza dei migranti". Ma l’altro punto di frizione dell’Anm, in particolare con il ministro Andrea Orlando sostenuto su questo punto dal primo presidente della Cassazione, è la riforma del processo penale. E alle parole di Giovanni Canzio, che ha esortato i pm ad una maggiore accuratezza nelle indagini per evitare le tante inchieste diventate processi mediatici e scoppiate poi come bolle di sapone alla verifica processuale, si sono aggiunte quelle del Guardasigilli che ha puntato il dito contro l’organizzazione delle Corti d’Appello, dove a causa del superamento dei tempi di prescrizione "vanno in fumo" buona parte dei processi. Davigo ribatte a Canzio: "I controlli giurisdizionali sull’attività delle procure ci sono già, la richiesta di proroga delle indagini, le misure cautelari reali o personali sono emesse o comunque ricorribili davanti a un giudice". In ogni caso, il presidente dell’Anm ricorda che il suo no alla riforma è dovuto soprattutto all’obbligo per il Procuratore generale di avocare le indagini delle procure dopo tre mesi nel caso non fosse chiusa la fase precedente al rinvio a giudizio o all’archiviazione. Una norma che, secondo Davigo, rischia di "trasferire il carico di lavoro da un ufficio giudiziario all’altro". Di tutt’altro avviso invece gli avvocati penalisti che, pur condividendo le parole di Canzio, propongono un passo ulteriore verso "la separazione delle carriere per terzietà del giudice", come dice il presidente dell’Ucp Beniamino Migliucci. Il quale ribadisce però un secco no alla proposta di Orlando di bloccare i tempi di prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Un plauso al discorso di Canzio "quando punta il dito sulla consuetudine tutta italiana di rimandare la soluzione su questioni etico-sociali "in via esclusiva" alla giurisdizione", viene infine dai Radicali italiani. Una prassi questa, spiega il segretario Riccardo Magi, "che consente a un legislatore pavido e irresponsabile di scaricare sui giudici decisioni fondamentali per le vite delle persone: dalle unioni civili al fine vita, dalla gestione del consumo di droghe alla fecondazione assistita". L’intervento del Cnf. La magistratura e l’avvocatura che amano il tribunale, non la tv... di Andrea Mascherin Il Dubbio, 27 gennaio 2017 Ognuno di questi tre soggetti ha tracciato una propria strada, individuando e ritagliandosi una propria meta, senza riconoscere negli altri i necessari compagni di viaggio. In questo cammino, fatto di sospetti, di presunzione e di pregiudizi, si è finito con lo smarrire quello strumento fondamentale di crescita intellettuale e democratica che è l’esercizio del dubbio, il dubbio che forse anche l’altro possa avere la sua parte di ragione, il dubbio che forse nessuno può essere detentore della verità, né può ergersi a censore, il dubbio che forse il sistema dei diritti fondamentali e la tutela dei soggetti deboli debba essere la meta di una sentiero comune agli attori del mondo della giustizia. Il Consiglio Nazionale Forense ha la netta percezione che le cose stiano cambiando, che i protagonisti necessari alla tutela dei diritti si siano resi conto di dover procedere assieme per un unico sentiero, un sentiero faticoso, un cammino in salita, stretto tra gli interessi di una finanza creativa globale, di un mercato senza regole, di un efficientismo economico spietato, di un linguaggio populista, di una ricerca del consenso che si nutre di paure, di rifiuto delle diversità, di delegittimazione. E così la giustizia penale rischia di ridursi a giustizialismo mediatico, il processo civile ad un lusso per pochi, le garanzie a fastidiosi ostacoli alla decisione celere, non importa se giusta o meno. E però le cose stanno cambiando, l’avvocatura istituzionale in questi ultimi periodi ha trovato un ascolto sereno da parte della politica, in tale direzione dobbiamo rimarcare l’impegno del ministro della giustizia per l’attuazione definitiva della legge professionale, per la centralità data al tema del carcere, per il disegno di legge sull’equo compenso che ridà dignità anche economica alla alta funzione del difensore, così come il tavolo costituito sul tema del sostegno alle colleghe e alle altre operatrici del diritto in maternità, e ancora il dovuto riconoscimento del ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari, la centralità data alla giurisdizione forense con la negoziazione assistita, strumento deflattivo che pone al centro la professionalità e l’affidabilità dell’avvocato, ovvero l’avvocatura come risorsa su cui investire, piuttosto che come problema da eliminare con forme di decimazione economica. Ovviamente, non sviluppo qui le osservazioni di natura tecnica ad altri provvedimenti normativi in itinere; richiamo solo l’attenzione sulla necessità che il processo civile rimanga processo di parte, senza essere sacrificato a percorsi eccessivamente sommari e che il processo penale, nella necessaria sintesi tra le diverse istanze, resti luogo di accertamento della responsabilità dell’imputato, nel rispetto dei gradi di giudizio e della necessaria dialettica, a garanzia di un procedimento che deve essere prima di tutto giusto. Serrato è anche il dialogo in corso con la Suprema Corte e con il Consiglio Superiore della Magistratura, con i quali sono stati stipulati protocolli operativi, concreti, fondati sul riconoscimento dei rispettivi ruoli, sull’incontro di aspettative ed anche di rinunce; insomma, sul progetto di una collaborazione di qualità, responsabile, non sindacalizzata, non autoreferenziale. L’avvocatura è determinata nella volontà di percorrere il sentiero dei diritti assieme alla politica e alla magistratura, forte di un sistema ordinistico consapevole del proprio ruolo sociale che, pur con le inevitabili imperfezioni, si rivela sempre più un riferimento non rinunciabile per i cittadini e fonte generosa di interventi diretti a supplire alle carenze dello Stato. Così come bisogna guardare con riconoscenza allo sforzo che stanno compiendo i consigli di disciplina per garantire la qualità anche deontologica della professione. Del resto, deve essere a tutti chiaro che vi è in atto uno strisciante fenomeno di erosione dei diritti deboli in quanto anti economici, che questa erosione non può che passare attraverso un attacco alla autonomia dei suoi attori, con la perdita di sovranità da parte dello Stato, di credibilità da parte della magistratura, della indipendenza dell’avvocatura dai potentati economici. Il pericolo è un piatto e acritico recepimento di modelli che non appartengono alla nostra cultura giuridica e alla nostra idea di Società solidale. Bisogna saper distinguere tra forme di ottimizzazione delle risorse e forme di efficientismo esasperato, destinate a sacrificare i diritti delle fasce più deboli della popolazione, e perciò, ad esempio, va prestata grande attenzione alla importanza del principio di prossimità in materie sensibili come la giustizia o anche la sanità. Gli avvocati e i magistrati italiani non hanno nulla, o assai poco, da imparare da altri modelli, di questo dobbiamo essere insieme consapevoli, dobbiamo essere uniti nella difesa della nostra straordinaria capacità di fare sintesi giuridica attraverso l’esercizio delle garanzie e della dialettica processuale. Certo, dobbiamo sempre più guardare a soluzioni operative migliorative, in linea con i progressi tecnologici e con nuovi modelli organizzativi, senza temere le innovazioni necessarie al mutare dei tempi, e per fare ciò la politica deve fidarsi di noi, deve fidarsi degli avvocati che ogni giorno calpestano le aule dei tribunali, dei magistrati che ogni giorno fanno udienze e sentenze, e se certamente non è questa l’avvocatura o la magistratura che frequenta media e studi televisivi, è sicuramente quella che dà voce alle istanze di giustizia, quella che non si nutre di teorie e costruzioni astratte, ma che sa quali siano i problemi di tutti i giorni. Questa avvocatura e questa magistratura possono davvero suggerire soluzioni operative alla politica, e allontanare il sospetto, che a volte pure si affaccia, che chi ha scritto quella norma non abbia piena confidenza con la pratica effettiva dei tribunali. E insieme dobbiamo vegliare e rifiutare l’idea che una componente del sistema giustizia possa fare da sola, o possa pensare d’essere migliore dell’altra. Dobbiamo combattere la spettacolarizzazione e la banalizzazione del processo penale. Dobbiamo contrastare le teorie di una Società fondata sul castigo e sul sospetto. L’ho detto all’inizio: noi avvocati vogliamo camminare, consapevoli del nostro insostituibile ruolo di custodi dei diritti, insieme ai magistrati e alla politica, percorrere lo stesso sentiero, senza temere di ascoltare i compagni di viaggio, senza aver paura di aprire la via o di abbattere gli ostacoli quando necessario. Forse ancora non tutti, tra avvocati, magistrati e politici ci seguiranno; in questo caso ci sia consentito il dubbio che siano costoro a sbagliare sentiero. "Ragionevole" il carcere per la madre, imputata di gravi reati, se i figli hanno più di 6 anni di Corbetta Stefano quotidianogiuridico.it, 27 gennaio 2017 Corte Costituzionale, sentenza, 24 gennaio 2017, n. 17. La Corte costituzionale promuove la disciplina prevista dal comma 4 dell’art. 275, comma 4, c.p.p., laddove prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni. Per il coimputato assolto la testimonianza è libera di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2017 Corte costituzionale, sentenza 26 gennaio 2017, n. 21. Piena attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato prosciolto con la formula liberatoria "perché il fatto non sussiste". La Consulta con la sentenza 21/2017depositata ieri, innescata dal tribunale monocratico di Macerata nell’ambito di una vicenda di droga, ha eliminato la situazione ambigua determinata nel 2006 da una precedente sentenza della Corte costituzionale. In quella decisione (sentenza 381) i giudici avevano differenziato la posizione del teste già coimputato o imputato in procedimento connesso nel frattempo sollevato dagli addebiti e assolto con sentenza definitiva, "per non aver commesso il fatto", stabilendo che quel tipo di testimone doveva essere apprezzato "liberamente" e non invece con il vincolo degli "altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità", vincolo riservato ai coimputati. Secondo la Consulta, non c’è ragione per non estendere oggi il giudizio di "neutralità" della testimonianza dell’ex coimputato a chi è stato nel frattempo assolto "perché il fatto non sussiste" formula, a voler esser precisi, certo non di minor portata rispetto al "non aver commesso il fatto". In entrambi i casi, sottolinea la Corte, l’indifferenza - cioè la mancanza di interesse - del dichiarante rispetto ai fatti per cui si procede è identica e quindi non è ragionevole mantenere un diverso regime (l’assistenza dell’avvocato) e soprattutto una diversa valutazione della prova, che ha minor pregio quando si ritiene "contaminata" dal ruolo di coimputato. In sostanza, argomenta l’estensore, se l’ex imputato in procedimento connesso viene assolto definitivamente "perché il fatto non sussiste" le sue dichiarazioni dovranno essere considerate alla stregua di quelle di un teste neutro "ab origine". Nel caso che ha innescato la Consulta, la Procura nell’ambito di un processo a più imputati per detenzione di droga a fini di spaccio aveva portato in aula un teste già imputato in un altro troncone ma poi assolto per la scriminante dell’uso personale; questa testimonianza accusatoria non sarebbe però bastata alla condanna dei 3 presunti soci in quanto era l’unica "arma" rimasta all’accusa. Prescrizione frodi Iva, la Consulta risolve il conflitto con le norme Ue di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2017 Corte costituzionale, ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24. Nell’affrontare il caso Taricco e il nodo della prescrizione nelle frodi Iva, la Corte costituzionale è interlocutoria nelle conclusioni, meno nelle motivazioni. Ieri è stata depositata l’ordinanza n. 24 scritta da Giorgio Lattanzi con la quale la Consulta ha deciso di chiamare in causa la Corte di giustizia europea per avere una risposta sulla forza cogente sia del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea sia della sentenza Taricco con la quale, l’8 settembre del 2015, la stessa corte Ue aveva considerato inefficace la disciplina italiana della prescrizione, in particolare per quanto riguarda il regime della sospensione: a venire compromessa sarebbe la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive per i casi di truffa Iva. Sia la Cassazione sia la Corte d’appello di Milano avevano sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa nazionale di ratifica ed esecuzione del Trattato e di quella parte interpretata dalla Corte Ue nel senso di imporre al giudice italiano la disapplicazione del Codice penale delle misure sulla prescrizione. La Consulta, rinvia sì alla Corte Ue, ma lo fa chiedendole di intervenire ulteriormente a chiarire se l’esigenza di disapplicazione è compatibile, come nel caso esaminato, con una base legale sufficientemente determinata e quando la prescrizione, come in Italia, è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità. Di più, se la disapplicazione deve essere imposta anche se in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione italiana. Insomma, una sollecitazione a chiarire meglio, sulla base tuttavia di una fortissima perplessità per le conclusioni della sentenza Taricco. La Corte costituzionale, infatti, mette in evidenza alcuni aspetti cruciali. Innanzitutto, sottolinea l’ordinanza, va ricordato che il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale: è perciò necessario che sia analiticamente descritto, come avviene per il reato e la sanzione, da una norma in vigore al tempo in cui il fatto è stato commesso. Si tratta di un istituto di diritto sostanziale e non processuale, che incide sulla punibilità della persona, collegato al grado di allarme sociale prodotto dal reato e all’idea che al trascorrere del tempo si attenuano le esigenze di punibilità e maturi una sorta di diritto all’oblio. Così anche le norme sulla prescrizione devono essere formulate in termini chiari precisi e stringenti, tali da permettere la conoscenza delle conseguenze delle condotte sul piano penale. Così, alla luce della pronuncia Taricco, la Consulta afferma di essere "convinta che la persona non potesse ragionevolmente pensare prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’articolo 325 del Tfue prescrivesse al giudice di non applicare agli articoli 160 ultimo comma e 161, secondo comma, Codice penale, ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in un numero considerevole di casi". E proprio con riferimento a quest’ultimo elemento della sentenza Taricco, la Corte costituzionale rafforza le sue perplessità. Perché il riferimento al "numero considerevole di casi" sembra affidare un potere discrezionale eccessivo all’autorità giudiziaria, chiamandola a decidere quasi caso per caso sull’applicazione di una norma penale, sostanziale appunto, come la prescrizione. "Non è possibile - avverte la Consulta - che il diritto dell’Unione fissi un obiettivo di risultato al giudice penale e che in difetto di una normativa che predefinisca analiticamente casi e condizioni, quest’ultimo sia tenuto a raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell’ordinamento". Alla Corte Ue poi la Consulta chiede di avere conferma di un suo convincimento e cioè che la regola che la sentenza Taricco ha fissato è applicabile solo se compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro chiamato a darvi esecuzione. In termini sistematici, la Corte costituzionale mette in evidenza poi come tutte le sue riserve alla disapplicazione della norma penale sulla prescrizione non rappresentano un ostacolo a un’applicazione uniforme del diritto dell’unione. La Consulta cioè non si fa portatrice di una lettura alternativa del diritto europeo, ma l’ostacolo alla sua applicazione, in questo caso, è data dalla qualificazione come di diritto penale sostanziale dell’istituto della prescrizione. In conclusione, si legge nell’ordinanza che "appare perciò proporzionato che l’Unione rispetti il più elevato livello di protezione accordato dalla Costituzione italiana agli imputati, visto che con ciò non viene sacrificato il primato del suo diritto". Molise: sciopero dei medici nelle tre carceri della Regione da mercoledì 1 febbraio primonumero.it, 27 gennaio 2017 Da mercoledì prossimo 1 febbraio inizierà uno sciopero ad oltranza dei medici penitenziari nelle carceri di Campobasso, Isernia e Larino. Lo annuncia il segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo. "La protesta - spiega il sindacalista - è dovuta alla grave situazione in cui versano le carceri molisane e per evidenziare i drastici tagli economici e di risorse umane". Intanto alle 10 di domani 27 gennaio una delegazione incontrerà il Prefetto. Teramo: "nessuna protesta", parola di detenuti. Il messaggio affidato a Rita Bernardini Il Dubbio, 27 gennaio 2017 Si era detto che nei giorni difficili che misero in ginocchio l’Abruzzo, nel carcere di Teramo i detenuti avrebbero tentato di scatenare una rivolta. Ma non solo. Il Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, in un comunicato nei giorni scorsi ha scritto che i detenuti si sarebbero ribellati a causa della mancanza di riscaldamento. La radicale Rita Bernardini, grazie alla visita del carcere teramano di Castrogno, ha potuto smentire categoricamente le notizie che si erano diffuse. "La verità è decisamente un’altra - spiega al Dubbio, i detenuti hanno in realtà collaborato con le guardie penitenziarie e hanno chiesto a me di poter smentire tali notizie". Inoltre si erano preoccupati quando arrivarono le notizie di una eventuale evacuazione (si parlava di 120 persone) visto che una parte di loro hanno i propri cari in Abruzzo. In realtà il giorno dopo le forti scosse di terremoto, furono evacuati solo 38 detenuti che erano situati al quarto piano, zona dove si avverte maggiormente l’oscillazione. "Alcuni sono stati trasferiti in altre carceri abruzzesi, altri tra quelle del Molise e del Lazio", spiega sempre Bernardini. L’esponente radicale ha spiegato che il direttore del carcere ha concesso delle telefonate in più, in maniera tale che i detenuti potessero riassicurare i loro cari visto il dramma di quei giorni. Dal punto di vista strutturale non sembra che l’edificio ne abbia risentito, però, secondo Bernardini il problema grave (e da risolvere) è il fatto che non ci siano vie di fuga in caso di eventi sismici gravi. Altro aspetto positivo che ha evidenziato è il fatto che le sezioni, anche quelle di Alta Sicurezza, siano a regime aperto. Anche il reparto femminile, segnala sempre la radicale, è poco seguito a livello sanitario e molte operazioni chirurgiche sono rimandate e i controlli sanitari scarseggiano. Un problema che riguarda la stragrande maggioranza delle carceri italiane. Rita Bernadini denuncia, poi, due casi limite. Uno riguarda una detenuta di 29 anni affetta da una grave malattia che chiede di essere riportata a Rebibbia, perché a Roma vive la madre. La sua è una storia di continui trasferimenti: da Rebibbia a Sollicciano, poi a Teramo nonostante il Garante di Firenze le avesse "garantito il ritorno a Rebibbia d’accordo con il direttore generale del Dap Piscitello". A Teramo non la curano mentre quando si trovava a Roma la tenevano sotto controllo. "Durante la visita piangeva e si disperava - spiega Bernardini -, il suo fine pena è fissato nel settembre 2019. L’altro caso riguarda una detenuta con una forte patologia psichiatrica. La radicale ha potuto leggere il referto del suo psichiatra curante dove c’era scritto che è nel modo più assoluto incompatibile con il regime carcerario. Altra criticità riguarda il discorso della territorialità della pena. Rita Bernardini spiega che "a seguito degli eventi metereologici e del sisma, i detenuti con quali ho potuto parlare si sono divisi in due categorie: quelli del luogo che temevano di essere trasferiti e quelli, però, di altre regioni che chiedevano a gran voce di essere trasferiti, almeno per un avvicinamento colloqui". Non mancano però dei casi virtuosi. L’università di Teramo ha stretto un accordo con la direzione del carcere di Castrogno per dare lavoro ai detenuti. "L’Università - spiega Rita Bernardini - permetterà di far lavorare alcuni ristretti nella mensa universitaria, quindi retribuiti con una paga adeguata, e in più avvierà dei corsi di formazione professionale per la cucina". Modena: il sottosegretario Migliore "al carcere di Sant’Anna non ci sarà il regime 41 bis" di Saverio Cioce Gazzetta di Modena, 27 gennaio 2017 "La sezione per carcerati di massima sicurezza al Sant’Anna di Modena si allontana". Così, con un verbo sfumato ma sufficientemente inequivocabile, il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore (Pd) butta nel cestino un incubo che si era materializzato nelle ultime ore, dopo l’allarme del senatore Vaccari (Pd) che aveva evocato un progetto riservato per portare a Modena mafiosi e camorristi. Niente sezione riservata per il 41 Bis, ha ripetuto migliore ieri in visita a Modena, sia al Procuratore che al presidente del Tribunale che al sindaco. E subito dopo anche ai vertici del carcere S. Anna e ai rappresentanti dei 190 agenti della Polizia penitenzia. Detto questo la visita di Migliore è stata approfondita; la mattina con i vertici della città, incassando anche il ringraziamento di Muzzarelli per l’eliminazione del supercarcere; per l’occasione il primo cittadino ha ripresentato un conticino in sospeso da tempo col ministero di Grazia e Giustizia: 24 milioni di euro in tutto, per gestione e manutenzione degli uffici giudiziari prima della nuova gestione nazionale accentrata a Roma. In più a Migliore è stato consegnato un documento da inserire nell’agenda del governo in cui si chiedono altri giudici a Modena per rendere più veloci i processi e anche nuovi spazi per gli uffici giudiziari; un punto, quest’ultimo, su cui i vertici giudiziari hanno confermato la disponibilità a una verifica con il Demanio. Non è dato sapere se nei suoi colloqui il sottosegretario abbia preso nota di un’urgenza che a Modena è nota da quando è stata aperta la nuova sede del carcere, ovvero l’esigenza di un’aula di giustizia all’interno dell’istituto di reclusione. Ogni giorno infatti, per portare alle udienze quel 70% dei 460 detenuti che aspettano convalide o libertà in attesa di giudizio, ci sono 26 persone a tempo pieno che si occupano del loro trasporto in corso Canal grande, dove ci sono gli uffici giudiziari. Il tema delle risorse a disposizione è stato il leit motiv su cui le sette sigle sindacali degli agenti hanno impostato il loro elenco di problemi gravi. A Migliore i rappresentanti degli uomini in divisa hanno parlato con una voce sola partendo da quello che hanno indicato come l’ostacolo maggiore, il rapporto inesistente con i dirigenti, il comandante Pellegrino e la direttrice Rosa Alba Casella. A riprova dell’esasperazione degli agenti hanno portato non solo le continue denunce, l’agitazione permanente e l’elenco degli agenti aggrediti ma soprattutto la richiesta di distacco da parte di due agenti su tre, 132 in tutto. "Sono pronti a lasciare famiglia e ad affrontare il pendolarismo per spostarsi in altre città pur di non lavorare più in queste condizioni" è stata la tesi dei sindacati che hanno poi aggiunto le altre questioni irrisolte, dal mancano funzionamento (decennale) delle poche telecamere sulle zone di passaggio nei bracci delle sezione all’inesistenza di strumenti di telecontrollo. Più in generale la questione della sicurezza "dentro" il carcere è stata centrale. Un esempio? La decisione, presa in tutta Italia per evitare le pesanti sanzioni della Cee, di aprire durante il giorno le celle (e risolvere statisticamente il sovraffollamento carcerario) ha rimesso in gioco le mafie e i gruppi criminali dietro le sbarre. Furti e prepotenze, con le celle aperte, innescano tensioni e scontri di tutti contro tutti. "Prendiamo atto delle segnalazioni - ha commentato Migliore. Va potenziato il potenziamento dei rapporti con il territorio, tra detenuti e associazioni, e affrontata la questione dell’adeguamento tecnologico per i controlli". Ivrea (To): dal Garante Nazionale dei detenuti precisazioni sulla situazione del carcere Agenpress, 27 gennaio 2017 Il Garante nazionale in relazione agli articoli usciti sulla situazione nel carcere di Ivrea, a seguito della pubblicazione del Rapporto del Garante stesso, conferma le valutazioni espresse in merito. Precisa però di non avere mai definito la situazione individuata "al limite della tortura", come riportato invece da alcuni organi di stampa. "Siamo molto cauti nell’uso di questo termine - precisa il presidente Mauro Palma - che nel diritto internazionale ha una sua definizione precisa e non può essere utilizzato per stigmatizzare pur gravissime condizioni contrarie alla dignità della persona". Il Garante nazionale, inoltre, prende atto con soddisfazione della risposta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al Rapporto, ricevuta oggi, e dell’azione del Capo Dipartimento volta alla rimozione di situazioni nel carcere di Ivrea assolutamente non accettabili. L’articolo 7 del decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, ha istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e gli attribuito il compito di vigilare affinché la custodia delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme nazionali e alle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia. Con legge del 9 novembre 2012 n. 195 è stata autorizzata la ratifica del protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002. A tal fine tutti gli stati aderenti sono chiamati a dotarsi di un meccanismo nazionale di prevenzione con poteri di visita di tutti i luoghi di privazione della libertà. Per l’Italia è stato individuato quale meccanismo nazionale il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. fatto a New York il 18 dicembre 2002. A tal fine tutti gli stati aderenti sono chiamati a dotarsi di un meccanismo nazionale di prevenzione con poteri di visita di tutti i luoghi di privazione della libertà. Per l’Italia è stato individuato quale meccanismo nazionale il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Aversa (Ce): il sottosegretario Ferri visita l’ex Opg "bisogna incrementare l’organico" di Antonio Arduino pupia.tv, 27 gennaio 2017 Visita a sorpresa del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri all’ex "Opg Filippo Saporito" diventato, a seguito del decreto del Ministro della Giustizia del 17 agosto 2016, che ha convertito la struttura in "Casa di Reclusione", un carcere a custodia attenuata, in cui sono presenti detenuti che scontano gli ultimi periodi della pena. È stato un giro veloce quello fatto dal sottosegretario insieme alla direttrice Elisabetta Palmieri e al comandante della Polizia penitenziaria Luigi Mosca. Un giro che ha toccato l’intera struttura carceraria, dalla cucina, alla lavanderia, al campo di calcio, all’area verde in cui i detenuti coltivano ortaggi e allevano e curano capre e galline, alla sala teatro dove viene celebrata anche la messa nei giorni delle festività religiose, ai reparti quelli già realizzati, ma ancora vuoti, e quelli ancora da realizzare, alle camerate dove ha potuto rendersi conto delle condizioni ottimali in cui vivono i detenuti, alla biblioteca, al museo criminologico dove si è soffermato in particolare a controllare alcuni degli strumenti utilizzati per il trattamento dei malati mentali come l’apparecchio per l’elettroshock. Ferri si è incuriosito per il craniostato usato per effettuare diagnosi mostrando, inoltre, particolare interesse per l’angolo dedicato alla tristemente famosa Bellentani, dove ha fatto risuonare le note del pianoforte usato dall’ammalata nel periodo di internamento. Al termine il sottosegretario ha espresso la sua soddisfazione per come è stata realizzata la trasformazione dell’Opg offrendo ai detenuti la possibilità di uscire dall’isolamento delle celle per rendersi utili realizzando anche opere murarie, così da inserirsi in qualche modo nel mondo esterno, facendo anche risparmiare denaro lo Stato. Stato che, su input del sottosegretario, interverrà, si spera in tempi brevi, per rinforzare l’organico della Polizia penitenziaria che con la prossima apertura di due padiglioni già ristrutturati, dovrebbe ospitare circa ottanta detenuti che andrebbero ad aggiungersi ai circa 130 oggi presenti. Per il sottosegretario il primo intervento da effettuare è proprio quello d’ incrementare al più presto l’organico dal momento che la struttura con i padiglioni che verranno aperti a breve e quelli che verranno aperti a medio termine potrebbe raggiungere una ricettività di oltre 400 detenuti che saranno ospitati in un "carcere" che rappresenta, come ha sottolineato, un modello per la realtà penitenziaria italiana. Aversa (Ce): altri detenuti in arrivo nell’ex Opg, nuova bufera politica Ignazio Riccio Il Mattino, 27 gennaio 2017 L’annuncio del sottosegretario Ferri di nuovi arrivi nella Casa di reclusione crea tensioni politiche. Villano (Pd): scelta calata dall’alto. "Quella del governo è una scelta sbagliata. Non si può, per ragioni di spending review, penalizzare un’intera città. Il nuovo carcere a custodia attenuata di Aversa va contro gli interessi della collettività e se il Sindaco, Enrico De Cristofaro, è pronto a dare battaglia, noi saremo al suo fianco, anche contro il nostro stesso partito". Il giorno dopo la visita del sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Maria Ferri, all’ex Ospedale psichiatrico giudiziario - oggi diventato casa di reclusione - e l’annuncio del trasferimento di altri detenuti nei prossimi mesi, divampa la polemica tra le forze politiche locali, Marco Villano, candidato sindaco alle ultime elezioni amministrative, capogruppo di minoranza del Pd, è sempre stato contrario alla trasformazione dell’ex Opg in carcere e lo ha fatto ponendosi in contrasto con i vertici nazionali del suo partito. "Sì tratta - dice - di una questione importante per Aversa. Noi proponevamo di aprire completamente alla cittadinanza gli spazi del dismesso Ospedale psichiatrico giudiziario, invece l’operazione casa dì reclusione è stata calata dall’alto. Un atto non condivisibile e per il quale abbiamo preso le distanze, pagandone le conseguenze in campagna elettorale, dai dirigenti di Roma del Partito democratico". Villano accusa anche il primo cittadino. "De Cristofaro - continua il consigliere d’opposizione - non ha mai coinvolto la città in questo processo di trasformazione dell’Opg. Ha subito, senza battere ciglio, le decisioni del ministero della Giustizia. Abbiamo chiesto, tempo fa, di aprire la strada di Santo Spirito, in modo da consegnare alla città almeno una parte degli spazi dell’ospedale psichiatrico giudiziario, ma tutto ciò è rimasto lettera morta. Abbia il coraggio il primo cittadino di rivedere le proprie decisioni e ci troverà suoi alleati nell’interesse collettivo". Critiche sono anche le associazioni aversane, che sui social network evidenziano la loro contrarietà alla crescita della casa dì reclusione in pieno centro storico cittadino. Meno drastico, invece, l’altro consigliere dì minoranza, Rosario Capasso. "Ormai il carcere c’è - dichiara - anche se non ci piace, e non si può tornare indietro. Quello che si deve fare adesso è investire risorse per il Tribunale di Napoli Nord, garantendo quei servizi che per il momento non esistono". Da parte sua, il sindaco De Cristofaro rispedisce al mittente le critiche del Pd, "È facile - commenta il primo cittadino - gettare la croce sull’amministrazione comunale per il nuovo carcere. Perché quando è stata presa questa decisione dal Ministero della Giustiziai democratici locali non h anno fatto pressioni sui loro leader nazionali? Anche noi eravamo contrari alla Casa di reclusione, ma di fronte a una decisione presa a livello governativo il mio compito è cercare di ottenere il massimo per la cittadinanza, e penso di esserci riuscito. Via Santo Spirito non potrà essere aperta perché ci vorrebbero milioni di euro di spesa, ma ho concordato con il governo di ottenere spazi verdi che appartengono all’exOpg, i quali verranno restituiti alla città e serviranno anche a realizzare servizi, come i parcheggi, necessari al miglioramento della vivibilità cittadina". Nuoro: il Consiglio comunale si trasferisce in carcere per discutere del reinserimento sociale La Nuova Sardegna, 27 gennaio 2017 Seduta straordinaria per discutere del reinserimento sociale dei detenuti. Il garante Oppo: "Finalmente chi ne ha diritto potrà lavorare all’esterno". Consiglio comunale straordinario domani pomeriggio a Badu e Carros. Dopo l’apertura dei lavori nella sala del Municipio (per formalizzare le dimissioni del consigliere Salvatore Siotto), la seduta proseguirà nel carcere. "È la prima volta che un consiglio comunale viene celebrato all’interno dell’istituto e ringrazio il sindaco Andrea Soddu e tutti i consiglieri comunali per l’attenzione e la sensibilità dimostrata nei confronti dei carcerati", dice il Garante dei detenuti Gianfranco Oppo che domani presenterà ai consiglieri comunali una relazione sulle condizioni carcerarie del penitenziario nuorese. Poi l’assemblea civica voterà una risoluzione per il reinserimento dei detenuti nel tessuto lavorativo e sociale nel comune di Nuoro. L’obiettivo è rendere concretamente riabilitativa la pena attraverso progetti di lavoro all’interno degli uffici comunali oppure nei servizi di pubblica utilità. "Nel nostro sistema il detenuto è spinto ad una altissima passività - spiega il garante - Solo una parte ha la possibilità di lavorare mentre è in carcere e il ricorso alle pene alternative è ostacolato dalla scarsa disponibilità di percorsi alternativi". Come ricorda Oppo, a Badu e Carros ci sono tre detenuti che potrebbero lavorare all’esterno, con l’obbligo di rientrare a dormire in carcere. "Purtroppo non si trova un’azienda disponibile ad accoglierli, non c’è collaborazione con le imprese locali - ammette il garante. E questo rende ancora più complicato il percorso di reinserimento di queste persone, una volta uscite dal carcere". L’iniziativa del Comune va in questa direzione: dare la possibilità ai detenuti di fare un’esperienza di lavoro. "L’iniziativa dell’amministrazione è lodevole - continua Oppo. Questo è uno dei modi per affrontare il sovraffollamento carcerario che si risolve non solo con le strutture ma anche con l’obiettivo del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti". Domani il garante farà anche il punto sulle condizioni del carcere di Badu e Carros. "La situazione è sotto controllo - dice il garante - Tra i 170 detenuti ci sono anche otto terroristi jihadisti, reclusi in una zona di alta sorveglianza, quella riservata ai boss della mafia. Le condizioni del carcere sono dure. I detenuti sono costretti a vivere in 4 o in 5 all’interno della stessa cella. Gli spazi sono molto angusti. A Badu e Carros non c’è una mensa e le aule dove poter studiare sono poche". Per non parlare dell’assistenza sanitaria. "Ci sono solo uno psichiatra e una psicologa per 170 detenuti". Milano: Consorzio VialeDeiMille, molto più di un negozio di Mara Cinquepalmi Vita, 27 gennaio 2017 Vende prodotti realizzati dai detenuti, ma è anche luogo di confronto e ascolto sui temi della vita in carcere. "Abbiamo voluto creare un posto dove fosse possibile far vedere attraverso i prodotti cosa possono fare i detenuti e cosa succede in carcere", spiega la presidente Luisa Della Morte. Dietro gli oggetti ci sono le storie, dietro gli oggetti del concept store del Consorzio VialeDeiMille ci sono le storie delle detenute che creano abiti e borse. A Milano in viale dei Mille 1, nei dintorni di piazzale Dateo, c’è il Consorzio VialeDeiMille, un luogo dove gli oggetti raccontano storie di donne e di uomini che cercano nuove opportunità. Nato nel 2015 su iniziativa del Comune di Milano, il Consorzio è formato da cinque cooperative sociali che operano nelle carceri di Milano-Bollate, Opera e San Vittore, unica esperienza del genere in Italia. Il Consorzio è il naturale sviluppo del progetto A.I.R. - Acceleratore di Impresa Ristretta, creato nel 2011, in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, ed ha come obiettivo quello di creare sinergie tra imprese e realtà del territorio per dare nuove opportunità di lavoro per i detenuti, favorendo il loro percorso di reinserimento nella società. "Abbiamo voluto creare un luogo dove fosse possibile far vedere attraverso i prodotti cosa possono fare e cosa succede in carcere", spiega Luisa Della Morte, presidente del Consorzio e responsabile della Cooperativa sociale Alice di San Vittore. Da qualche tempo la sede del Consorzio ospita un negozio dove si possono comprare i prodotti realizzati dai detenuti lavoratori delle cinque cooperative che hanno dato vita a questa iniziativa. Molti di questi prodotti sono realizzati da donne, "circa 20 - racconta Della Morte - alcune delle quali si trovano nel carcere di San Vittore, a Bollate ed altre che scontano misure alternative all’esterno. Quelle che hanno potuto visitare lo spazio sono state molto contente". Nel negozio sono in vendita borse, sacche, pochette e sporte per la spesa della linea "Borseggi", pigiami e abbigliamento per bambini di "Gatti Galeotti", abbigliamento da donna, giocattoli di legno, piante e fiori per la casa e il terrazzo, calendari, block notes, quaderni. Qui è possibile usufruire anche dei servizi delle cooperative e degli spazi messi a disposizione per altre realtà. Il negozio è anche un modo per aprirsi al quartiere, alla città grazie ad incontri durante i quali è possibile ascoltare musica o assistere a momenti di teatro, bere un bicchiere di vino "Sentenza" e allo stesso tempo riflettere sui temi più delicati o poco noti, come quelli della vita, prima dentro e poi fuori dal carcere, a cui il Consorzio dedica le sue energie. Quello di Viale dei Mille è uno spazio in gestione, ma il Consorzio vuole aprire ad altri soggetti, come ad esempio alle aziende che assumono persone detenute. "Nelle prossime settimane - continua Della Morte - sono in programma altri eventi aperti al pubblico. Stiamo collaborando con la libreria Centofiori, a due passi dal Consorzio. Un po’ alla volta allarghiamo il nostro raggio d’azione e cerchiamo di farci conoscere. Vogliamo essere un momento di raccordo per altri servizi pubblici e privati che in qualche modo si occupano di detenzione". Milano: laurearsi in carcere, 64 detenuti sono iscritti all’università di Caterina Maconi Avvenire, 27 gennaio 2017 Scienze giuridiche, giurisprudenza, sociologia e storia sono le facoltà più gettonate da chi decide di rimettersi a studiare in carcere. Sessantaquattro studenti dietro le sbarre. È questo il numero dei detenuti delle carceri milanesi iscritti a un corso di laurea. Quelli che godono dell’articolo 21 - che permette di uscire dall’istituto per lavorare - frequentano i corsi in aula. Gli altri invece si preparano agli esami come se fossero studenti non frequentanti, perché non possono lasciare la cella. Maria Siciliano del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria tratteggia la geografia e le preferenze dei corsi: "Tutti hanno scelto università milanesi, tranne cinque che optano per altri atenei lombardi o fuori regione". Mentre le facoltà più gettonate "sono scienze giuridiche e giurisprudenza, poi sociologia e storia", spiega. Seguono agraria, economia, psicologia, scienze dell’educazione, scienze dell’organizzazione. Ci sono anche quattro corsi universitari che prevedono lezioni all’interno del carcere. Due della Statale e due della Bicocca. Vi partecipano gli studenti esterni e quelli detenuti, o anche semplici curiosi: a Bollate è attivo "Storie di formazione e svolte educative" e "Libertà, giustizia e responsabilità", mentre a Opera "Le forme della mediazione dei conflitti" e "Criminologia e sicurezza stradale". La Bocconi nel settembre scorso invece ha inaugurato un corso sperimentale di laurea specifico per i carcerati, con una convenzione con il ministero di Giustizia. Prevede che alcune lezioni di Economi aziendale vengano filmate e poi passate all’istituto. Più in generale tutti gli atenei milanesi, dalla Cattolica, al Politecnico, all’Accademia di Brera, allo Iulm sono impegnati con attività in collaborazione con le case di reclusione. Negli anni sono stati attivati laboratori, tirocini e collaborazioni che hanno portato ad attivare corsi, spettacoli teatrali pubblicazioni di libri. "I tirocini sono consentiti da circa 20 anni", puntualizza Francesca Valenzi, direttore Ufficio detenuti e trattamento Prap Milano: "Nel tempo le iniziative sono aumentate e spesso sono le università a contattarci per proporle. Stipuliamo convenzioni in modo che i detenuti possano accedere a progetti coerenti con il loro percorso". Valenzi spiega come nascano sempre nuove idee e sinergie. Anche perché la volontà è quella di fare rete tra le varie istituzioni e strutture coinvolte. Per questo durante l’ultima sottocommissione Carceri a Palazzo Marino, lunedì scorso, tutti i rappresentanti delle iniziative che si tengono sul territorio si sono incontrati. Latina: chiuso parco quartiere Q4, a rischio progetto alternativo al carcere con i condannati ilcaffe.tv, 27 gennaio 2017 Parco chiuso, a rischio progetto alternativo al carcere con i condannati. Come è noto, il Parco Natura del quartiere Q4 di Latina è stato chiuso al pubblico da alcuni giorni. In Comune sono a lavoro per tentare di affidare temporaneamente la gestione del parco all’associazione di Protezione Civile "Noi ci siamo" fino al prossimo bando di gara, ma la questione appare complicata dal punto di vista burocratico. Nel frattempo, i volontari che in questo ultimo anno di attività hanno lavorato per ridare dignità al quartiere rendendo il parco un vero e proprio centro di aggregazione sociale, hanno avviato una petizione per ricevere il consenso dei cittadini. Ad oggi ci sono circa 500 firme cartacee e 100 online. Ma, oltre al rammarico per la chiusura del parco al pubblico, c’è un altro aspetto rilevante della vicenda ed è di tipo sociale. Nel maggio 2016, infatti, l’associazione di Protezione Civile "Noi ci Siamo" ed il Tribunale di Latina hanno firmato una convenzione che prevede, presso la sede, lo svolgimento di lavori di pubblica utilità come alternativa al carcere. Si tratta di una procedura prevista per legge che consiste nell’effettuare lavori non retribuiti in favore della collettività per un periodo non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, nel rispetto delle professionalità dell’imputato. Ad assegnarli può essere esclusivamente il giudice. È la prima volta nella storia di Latina che si è siglata una convenzione simile tra Tribunale ed un’associazione di Protezione Civile. Il contratto è stato siglato il 30 maggio del 2016 tra il presidente di Noi Ci Siamo Juri Iermini ed il presidente del Tribunale di Latina, Catello Pandolfi, e prevede una durata di cinque anni. Secondo quanto si legge da contratto, presso il Parco Natura possono essere impiegate massimo 10 persone contemporaneamente ma, date le possibilità lavorative e riabilitative, nel maggio 2017 probabilmente il numero sarebbe aumentato. Si tratta di attività di pulizia, sorveglianza del parco, assistenza degli ospiti ma soprattutto di reintegro nella società tramite il contatto con le persone. "La concessione non è scaduta - spiega Juri Iermini - ed attualmente le persone sono ancora impiegate nelle attività di prima. Noi volontari abbiamo la possibilità di entrare nel parco anche se è chiuso al pubblico ed effettuare lavori di manutenzione, coperti regolarmente da assicurazione. Ma non è la stessa cosa per gli imputati e rischiamo di perdere anche la parte sociale della nostra attività. Nel corso del tempo abbiamo seguito le persone in alcuni percorsi tramite un programma interno che prevede tre fasce: la conoscenza, il sociale e la sicurezza. Le persone che hanno svolto attività da noi si sono sempre trovate bene e sentite valorizzate, tanto da uscirne entusiaste. Le età e le storie sono diverse: fino ad ora ci sono capitati casi dai 20 anni a 49 anni, con precedenti di droga, furto, detenzione di armi. Iniziano sedendosi intorno ad un tavolino e cominciano ad ambientarsi conoscendo la famiglia della Protezione Civile. Poi proseguono cercando di capire il percorso più adatto tramite un racconto della propria esperienza e del proprio disagio nella società. Le attività che iniziano le svolgono parallelamente a noi fino ad arrivare ad essere un volontario di protezione civile a tutti gli effetti. Con questo programma - continua il presidente dell’associazione - si trovano bene ed hanno una buona relazione con l’esterno perché sono a contatto con bambini, anziani, famiglie. Il percorso di recupero ha portato alcuni di loro a trovare lavoro immediatamente. Uno ad aprile inizierà un impiego in un ristorante, uno ha trovato un’occupazione in Germania. Con la chiusura dei cancelli è tutto diverso: possono solamente svolgere lavori di manutenzione interna, senza entrare a contatto con il pubblico. Attualmente sono impiegati nella pulizia, o hanno verniciato giochi e tolto rami e erbacce da terra. In questo modo rischia di decadere il contratto perché non c’è più il punto di ritrovo per questi ragazzi. È un danno sociale". Dal momento che la convenzione è stata stipulata meno di un anno fa, non c’è ancora un parametro di statistiche a cui attenersi per verificare che lo svolgimento di lavori di pubblica utilità sia andato bene e abbia portato ai risultati. Ma i volontari sono sicuri di quello che dicono: "Da noi le persone che vengono non vengono messe all’angolo né utilizzate per svolgere mansioni fini a se stesse. Il percorso che svolgono è riabilitativo sotto tutti i punti di vista e un’amministrazione che ha puntato sul sociale non può non tenere conto di questo e lasciare che anche questo progetto decada". Rieti: il Partito Radicale dopo la visita all’istituto "il carcere è uno specchio della città" frontierarieti.com, 27 gennaio 2017 "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione". Nel quadro delle visite condotte dal Partito Radicale nelle carceri durante le festività, una delegazione radicale composta da Marco Arcangeli, Marco Giordani e Gianfranco Paris ha visitato il giorno 18 Gennaio il penitenziario reatino. Visitando il carcere di Rieti, Voltaire avrebbe una buona impressione di Rieti. Non si vive infatti male, nel carcere di Rieti. Tuttavia, scavando, si scopre che i detenuti, che dicono di pur star bene qui, desiderano andarsene. È perché, secondo l’intuizione di Voltaire, il carcere di Rieti è lo specchio della città che - pur ignorandolo - lo ospita: è un posto dove non si vive male se non hai problemi, ma dove, specie i più deboli, soffrono per una serie di carenze che affliggono anche la città: difficoltà nelle comunicazioni, mancanza di lavoro, sanità che non risponde ai bisogni/diritti degli utenti, marginalità nella organizzazione regionale (vedi magistrati di sorveglianza di base a Viterbo). Se poi aggiungiamo una situazione ambientale solo apparentemente sana, perché cela (e tomba con il cemento del carcere o con l’asfalto del deposito Cotral) inquinamenti da tutti conosciuti e dalla politica taciuti; se poi aggiungiamo le difficoltà dell’amministrazione comunale a concretizzare le buone intenzioni dichiarate, il quadro di un carcere e la sua città come specchio l’uno dell’altra è completo. Roma: i detenuti di Rebibbia e la birra artigianale "la nostra seconda possibilità" di Raffaele Nappi Il Messaggero, 27 gennaio 2017 Una birra per ricominciare. Una birra per sentirsi più liberi. Una birra per una seconda possibilità. Nasce così il marchio Vale la pena, un birrificio curato direttamente da 9 detenuti del carcere di Rebibbia, con birre artigianali prodotte, confezionate e vendute dagli stessi reclusi. Tutto è nato nel 2012 grazie all’impegno e alla buona volontà di un gruppo di fisioterapisti. "Abbiamo conosciuto il mondo della detenzione attraverso la nostra esperienza professionale - racconta Paolo Strano, responsabile del progetto - Abbiamo incontrato persone con talento e potenzialità inespresse: per questo ci siamo impegnati a fare qualcosa per loro". La Onlus si chiama Semi di libertà e ha l’obiettivo, tra gli altri, di ridurre il fenomeno delle recidive. "Volevamo dare ai detenuti la possibilità di non tornare più in carcere, coinvolgendoli in un progetto di lavoro". Porto Azzurro (Li): tenta il suicidio in carcere, l’agente lo salva quinewselba.it, 27 gennaio 2017 L’agente di sorveglianza sventa il suicidio di un detenuto che ha provato ad impiccarsi, il sindacato lo propone per una lode ministeriale. Se E.J., detenuto nel carcere di Porto Azzurro, è ancora vivo, lo deve alla prontezza di riflessi dell’agente Francesco Panico che, nella giornata di ieri, è intervenuto salvandogli la vita e sventando il tentativo di suicidio che l’uomo stava mettendo in pratica. Lo rende noto il Cosp, coordinamento sindacale di polizia penitenziaria, che fornisce maggiori dettagli sulla vicenda: "Il detenuto, confinato nel 3° Reparto, Sezione 13^ cella n. 7, poco dopo le 20 ha tentato l’ultimo estremo gesto con l’impiccamento legando alle sbarre della finestra della cella di detenzione uno straccio attorcigliato di colore rosso". L’agente Panico, attirato dalle urla dei ristretti e nonostante avesse ben due reparti da vigilare e controllare è intervenuto immediatamente soccorrendo il detenuto aiutato dagli altri colleghi giunti sul posto alle grida di allarme dell’agente, insieme lo hanno liberato sorreggendolo e trasportandolo all’infermeria dello stesso penitenziario per le cure del caso. Al termine della visita medica è stata disposta anche la sorveglianza a vista. Un intervento tempestivo che merita, secondo il Cosp, una lode ministeriale: "Il sindacato congratulandosi con l’agente Panico Francesco, esempio di alta professionalità e spirito di corpo, altruismo e coraggio nell’azione di sostegno e di aiuto, propone che l’amministrazione territoriale di Porto Azzurro e il comando di reparto, a cui vanno dal Cosp anche la gratitudine di tutti noi per aver formato agenti del temperamento del soccorritore, diano avvio alle procedure di legge per la ricompensa della lode ministeriale". La nota del sindacato prosegue poi criticando il carico di lavoro a cui è sottoposto il personale di polizia penitenziaria all’interno della casa di reclusione elbana: "Si salvano vite umane pur nella grande criticità della gestione dei reclusi, della situazione lavorativa e delle condizioni operative destinate al corpo della polizia penitenziaria da qualche anno a questa parte. L’agente era da solo nel 3° reparto a gestire 2 sezioni, mentre i detenuti in cella erano 2, nella 13° sezione sono in tutto 36 e nella 12° sezione sono circa 17. Mercoledì sera gli agenti di vigilanza si contavano sulle dita delle mani, uomini e donne che lavorano oramai da tempo in pochi ed in condizioni critiche per la collocazione del penitenziario storico e le condizioni atmosferiche, climatiche e strutturali del carcere". Bari: incrocia in carcere il sosia arrestato al suo posto e lo scagiona, libero dopo 5 mesi La Repubblica, 27 gennaio 2017 L’uomo, colto da un "forte rimorso di coscienza nel vedere un innocente padre di famiglia accusato di un reato con non ha commesso", ha ammesso di essere il vero autore del colpo a Sannicandro. È stato in carcere per cinque mesi per una rapina in gioielleria che avrebbe commesso un sosia. È la vicenda giudiziaria che coinvolge il pregiudicato 46enne di Bitonto (Bari) Vincenzo Mundo, scarcerato dopo essere stato scagionato dal vero autore del colpo, incontrato per caso in cella, che ha deciso di confessare. La rapina nella gioielleria di Sannicandro di Bari risale al primo marzo 2016. In tre, due dei quali con il volto coperto, entrano nel negozio armati con una pistola si fanno consegnare orologi, anelli con diamanti e collane in oro del valore di 20mila euro, facendo poi perdere le proprie tracce. Le indagini dei carabinieri, coordinate dal pm barese Fabio Buquicchio, consentono di identificare Mundo come l’unico rapinatore a volto scoperto, immortalato dalle telecamere della videosorveglianza interna. Il 2 settembre scorso il 46enne viene arrestato. In carcere, a Bari, incontra per caso il 45enne barese Riccardo Antonio Corsini, detenuto per un’altra rapina. I due si somigliano al punto che gli altri detenuti li scambiano per gemelli. Nelle scorse settimane Corsini, colto da un "forte rimorso di coscienza nel vedere un innocente padre di famiglia accusato di un reato con non ha commesso", come lui stesso ha poi dichiarato, decide di confessare di essere il vero autore di quella rapina. Scrive una lettera al magistrato, che lo interroga e apre un procedimento nei suoi confronti. Mundo e il suo sosia (entrambi detenuti e seduti l’uno accanto all’altro) sono comparsi dinanzi ai giudici del tribunale chiamati a processare la presunta vittima dell’errore giudiziario. In apertura di udienza il pm ha chiesto il proscioglimento dell’imputato, difeso dagli avvocati Nicola Quaranta e Massimo Roberto Chiusolo, e la sua immediata scarcerazione. Accogliendo la richiesta di immediata remissione in libertà, il tribunale ha però ritenuto di dover disporre una perizia antropometrica rinviando al prossimo 9 febbraio per l’affidamento dell’incarico al perito. Milano: carcere e mass media, l’8 febbraio corso formazione di Alg e Gruppo cronisti lombardi fnsi.it, 27 gennaio 2017 "Carcere e mass media: l’informazione tra diritti e doveri" è il tema al centro del corso di aggiornamento professionale che Associazione lombarda giornalisti e Gruppo cronisti lombardi organizzano, all’interno del carcere di San Vittore, in piazza Filangieri 2 a Milano, per mercoledì 8 febbraio. Il corso inizierà alle 10 con la relazione introduttiva del presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanni Di Rosa, e si concluderà alle 13. In programma gli interventi di Luigi Pagano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per Lombardia, Piemonte e Liguria; Gloria Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore e Icam Milano; Silvana Di Mauro, responsabile area educativa del carcere; Francesco Nigro, direttore sanitario di San Vittore; Manuela Federico, comandante polizia penitenziaria della struttura; Mario Consani, giornalista de Il Giorno, consigliere dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Moderano Cesare Giuzzi, giornalista Corriere della Sera, e Lorenza Pleuteri, giornalista freelance. Per comprensibili ragioni di sicurezza e di organizzazione i promotori raccomandano ai partecipanti la massima puntualità e di presentarsi muniti di Carta d’Identità e tesserino. Per iscriversi c’è tempo fino al 31 gennaio, tramite la consueta piattaforma Sigef. Volterra (Pi): Cene galeotte, da marzo chef e detenuti di nuovo ai fornelli seidifirenzese.it, 27 gennaio 2017 Fra le novità di questa edizione il coinvolgimento degli chef per lezioni di cucina ai detenuti iscritti al l’Istituto Alberghiero attivo dal 2012 all’interno del carcere. Dalla "prima" del 2005 oltre 14.000 i partecipanti. Tutto pronto per la nuova edizione delle Cene galeotte (cenegaleotte.it), iniziativa unica nel suo genere che da oltre dieci anni fa della Casa di Reclusione di Volterra (PI) un luogo di integrazione e solidarietà attraverso cene aperte al pubblico in programma dal 24 marzo all’11 agosto 2017, realizzate dai detenuti con il supporto di chef professionisti. E che torna quest’anno con una bellissima novità. Gli chef coinvolti infatti, come sempre a titolo gratuito, non solo affiancheranno i detenuti ai fornelli, ma terranno anche lezioni inserite nel calendario didattico dell’Istituto Alberghiero nato nel 2012 proprio all’interno del carcere di Volterra, con classi miste formate dai carcerati e dagli oltre venti ragazzi che ogni giorno varcano le porte della struttura per seguire il percorso formativo. Un successo crescente quello delle Cene galeotte raccontato dai numeri, con oltre 1.200 partecipanti la scorsa edizione e più di 14.000 visitatori dalla "prima" del 2005. L’evento rinnova anche il suo scopo solidale, con il ricavato (35 euro a persona) devoluto alla Fondazione Il Cuore si scioglie Onlus e ai progetti che, dal 2000, vengono realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti che, grazie al percorso formativo in sala e cucina, acquisiscono via via un vero e proprio bagaglio professionale. In ben sedici casi questa esperienza si è tradotta in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che fornisce le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti e assume i detenuti per i giorni in cui sono nella realizzazione dell’evento. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli per la selezione degli chef e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra (fisarvolterra.it), partner del progetto per la selezione delle aziende vinicole, il servizio dei vini ai tavoli e la formazione dei detenuti come sommelier. Grazie alla Fisar dieci detenuti hanno già positivamente svolto il corso base di avvicinamento al vino e seguiranno il percorso formativo per raggiungere la qualifica di sommelier professionali. Giornata della Memoria. Non un rito, una necessità di Enzo Collotti Il Manifesto, 27 gennaio 2017 Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro. Anche quest’anno si rinnova quello che non deve diventare un rito ma deve rimanere l’occasione per tornare a sottolineare la necessità di non dimenticare. Contro i dubbi sollevati da più parti sull’opportunità di mantenere il Giorno della Memoria. Va infatti ripetuto con forza che questa scadenza, il Giorno della Memoria, oggi è più necessaria che mai. Se da una parte la crescente distanza che ci separa dai fatti in cui si concretizzò lo sterminio degli ebrei contribuisce ad affievolirne la memoria, dall’altra la realtà nella quale viviamo sollecita la riflessione su una serie di circostanze che ricordano da vicino aspetti della cultura della quale si nutrì l’indifferenza dei tanti e che consentì la realizzazione quasi indolore dello sterminio. Nella crisi attuale dell’Europa il dilagare del populismo maschera a fatica il volto del razzismo che non è né vecchio né nuovo, è il razzismo di sempre, contro ogni minoranza e contro ogni eguaglianza tra i popoli. È chiaro che il passare delle generazioni produce cambiamenti nella memoria e nei modi di esprimerla e di rappresentarla, tanto più oggi che la testimonianza dei sopravvissuti incomincia a farsi sempre più rara per ovvie ragioni fisiologiche. Troppo spesso la tragedia delle migrazioni viene dissociata nell’attenzione e nella memoria dei più dalle derive degli anni 30 e 40 del secolo scorso. Dappertutto in Europa l’irresponsabile diffusione della minaccia di una invasione da parte di chi fugge da guerra e miseria genera confusione e oblio. Situazioni paradossali e insieme esemplari come quella dell’Ungheria di Viktor Orbán, che dimentica la catastrofe degli ebrei ungheresi e rifiuta l’accoglienza ai migranti con cinismo e crudeltà. Un comportamento che apparentemente dovrebbe isolare l’Ungheria dal resto d’Europa ma che in realtà rischia ormai di diffondersi al di là delle sue frontiere, in assenza tra l’altro di fratture interne che costringano Viktor Orbán a modificare o almeno a mitigare il rigore dei suoi rifiuti. Questo significa anche una frattura nella memoria collettiva dell’Europa che indebolisce la possibilità di una presa di coscienza non parcellizzata, solidale senza riserve. Il Giorno della Memoria dovrebbe servire a tenere viva la sensibilità di popoli e società verso problemi che ne hanno plasmato negativamente la storia ma che sono anche terribilmente attuali. Oggi la minaccia più insidiosa non è rappresentata dal negazionismo né dal neofascismo o dal neonazismo, ma piuttosto dall’acquiescenza diffusa a comportamenti di insofferenza se non di ostilità nei confronti dell’altro. Nessuno ha il coraggio di dirsi anti-semita o anti-musulmano, ma nei fatti il prevalere di una sorta di agnosticismo etico ci riporta al punto in cui tutto è incominciato, alla deresponsabilizzazione e all’indifferenza. È un problema politico e culturale di enorme portata che si inserisce nella crisi dell’Europa non meno che in quella della nostra democrazia. Stati Uniti. Tortura e prigioni segrete, l’America si divide sulla "violenza di Stato" di Carlo Bonini La Repubblica, 27 gennaio 2017 Quale che ne sarà l’esito politico, la bestemmia di Trump - "Il waterboarding? Funziona" - intollerabile all’ascolto tanto nella vecchia Inghilterra della conservatrice Theresa May, da ieri a Washington, ("La Gran Bretagna non giustifica la tortura in nessuna circostanza", dice ai Comuni il ministro inglese per la Brexit David Davis), quanto irricevibile dal sistema immunitario dello stesso partito Repubblicano ("La tortura è illegale e noi pensiamo che tale debba restare", taglia corto Paul Ryan, speaker del Congresso) e persino dal codice etico del "cane pazzo" James Mattis, segretario alla Difesa ("La sua posizione non è cambiata rispetto a quanto sostenuto durante la sua audizione al Congresso durante la quale si è detto contrario a modificare le attuali regole di interrogatorio dell’esercito americano che vietano l’uso di pratiche assimilabili alla tortura", ha reso noto ieri un portavoce del Pentagono), un effetto lo ha già avuto. Resuscitare dallo scantinato della storia recente americana il fantasma in cui l’aveva cacciato Barack Obama. Ridare un presente (nel dibattito pubblico) e un possibile futuro (con un ipotetico ordine esecutivo) a un album di famiglia impresso nella retina delle opinioni pubbliche del mondo intero. Che tiene insieme la silhouette del Cristo in tuta arancio incappucciato e collegato ad elettrodi della galera irachena di Abu Ghraib. La nudità di corpi portati al guinzaglio a quattro zampe. Le maschere da saldatori e le cuffie dei primi umiliati nelle stie del campo Xray, Guantánamo. E che ha conosciuto la geografia segreta dei voli utilizzati per le extraordinary renditions (i sequestri illegali di sospettati di terrorismo in Paesi terzi) e dei "black holes", dei "buchi neri", le prigioni segrete, disseminate in remoti angoli di mondo e persino nella democratica Europa dell’Est, nei Paesi dell’ex blocco sovietico, dove i nemici della war on terror sono stati "legalmente" umiliati nel corpo e nella psiche dalle "enhanced interrogation technigues", letteralmente le "tecniche aggiornate di interrogatorio", pudico eufemismo con cui l’amministrazione di George W. Bush, dopo l’11 Settembre, autorizzò la Cia a vincere i silenzi dei sospetti con un catalogo dell’orrore di cui conviene oggi rinfrescare la memoria. Waterboarding. Annegamento simulato. Walling, l’uso di un collare con cui scaraventare ripetutamente il prigioniero contro un muro. Alternanza di ipotermia e ipertermia, di gelo e fuoco. Umiliazione sessuale. Schiaffeggiamento. Privazione del sonno e annichilimento da rumore. Finta sepoltura in casse mortuarie di fortuna. Lavaggio rettale forzato. Uso di psicofarmaci. "Funzionano", dice ora lui, Donald Trump. "Non hanno contribuito ad acquisire intelligence di alcun rilievo per la sicurezza nazionale, né la collaborazione dei prigionieri", concluse il mastodontico rapporto di seimila pagine con cui, il 13 dicembre del 2012, a maggioranza (il voto contrario dei membri Repubblicani conobbe la sola eccezione della sola senatrice Susan. Collins), il Comitato di controllo sui Servizi Segreti del Senato americano concluse dopo tre anni di indagine e 6 milioni di documenti classificati esaminati, l’inchiesta sui metodi di detenzione e interrogatorio della Cia post 11 Settembre. Fatta eccezione per tre detenuti coinvolti nella mattanza delle Torri Gemelle e del Pentagono (Abu Zubaydah, Khaled Sheikh Mohammed, Mohammed al-Qahtani) e che la Cia riconobbe come "prigionieri sottoposti al "Programma", nessun documento ufficiale ha potuto stabilire con certezza quanti "enemy combatants", altro eufemismo legale per indicare la condizione di privazione delle garanzie costituzionali dei prigionieri della War on Terror, siano stati sottoposti nell’arco di cinque anni (tanto è durato "Il Programma" prima che, nel 2006, a obbligarne l’interruzione un’inchiesta della premio Pulitzer Dana Priest che ne svelava l’esistenza) a quelle che, nel 2009, Obama e il suo Attorney General Eric Holder ebbero la forza di chiamare con il loro nome: torture. Così come resta un dato per difetto quello accertato nel febbraio del 2007 dalla Commissione di inchiesta del Parlamento Europeo sul numero di prigionieri vittime delle "rendition" sul suolo Europeo. Almeno 100 (il nostro Paese conobbe il caso dell’imam egiziano Abu Omar, con il pieno coinvolgimento del nostro Servizio segreto militare, perseguito con coraggio dal procuratore Armando Spataro e mai sanzionato da condanne perché protetto da segreto di Stato), a fronte di 1245 voli clandestini effettuati da aerei della Cia nello spazio aereo dell’Unione. Mentre ha appunto la forza incontrovertibile dei fatti, così come documentati dal materiale classificato ottenuto in una estenuante battaglia con la stessa Cia, il principale dei venti "findings" di quel rapporto del dicembre 2012. Inumana e per giunta inefficace la tortura aveva precipitato l’America li dove si riteneva non fosse possibile. Un abisso su cui si immaginava non dovesse più tornare ad affacciarsi. Almeno fino a mercoledì 25 gennaio. Quinto giorno dell’era Trump e dei suoi "alternative facts", fatti alternativi, per dirla con il neologismo di Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca. Dei fatti, cioè, degradati a opinioni. E dove il "waterboarding", dunque, "funziona". Stati Uniti. La vita impossibile dei detenuti disabili in isolamento di Annalisa Lista west-info.eu, 27 gennaio 2017 22 ore al giorno in pochi metri quadri, senza assistenza e tra i rifiuti. È questa la vita dei detenuti disabili americani in isolamento. Un quadro denunciato dall’American Civil Liberties Union nel suo ultimo rapporto. Dal quale emergono dettagli deplorevoli. Sedie a rotelle spesso malandate e dalle misure non adatte al fisico del detenuto, barriere architettoniche come scalini, porte strette, spazi ridotti, indisponibilità di ausili vitali per ciechi e sordi, quali protesi, materiale scritto in Braille, interpreti e servizi in lingua dei segni. Oltre alla mancanza di assistenza nell’igiene e nella cura personale, che rende difficile, se non impossibile, ai disabili, muoversi ed espletare, senza farsi male e sporcarsi, le loro funzioni vitali. Senza dimenticare la totale assenza di iniziative, corsi e programmi per insegnare ai disabili mentali a comunicare. Di qui, l’appello urgente lanciato alle istituzioni per inserire questo problema nell’agenda delle priorità. Libia. L’Italia è arrivata a Tripoli, ma dietro di noi c’è il vuoto di Paolo Mieli Corriere della Sera, 27 gennaio 2017 l fatto che siamo il solo paese occidentale ad avere un’ambasciata appare una scelta che stride con la decisione di fare musica sempre nel "concerto europeo". Per quando è previsto l’arrivo in Libia di altri ambasciatori europei a testimoniare, assieme al nostro Giuseppe Perrone, l’impegno dell’Europa in quella tormentata città? Il 10 gennaio l’Italia ha aperto una propria sede diplomatica a Tripoli inviando un proprio rappresentante, Perrone appunto. A conforto di questa decisione, in quelle stesse ore è giunto nella capitale libica anche un altro italiano di rango, il ministro dell’Interno Marco Minniti. Trascorsi pochi giorni, un’autobomba a qualche centinaio di metri dalla nostra sede diplomatica ha salutato (fortunatamente senza provocare morti se non tra gli attentatori) l’evento. È stato un modo, l’apertura di un’ambasciata, per testimoniare sostegno a Fayez al Serraj, l’uomo che le Nazioni Unite hanno stabilito debba traghettare quel Paese verso un futuro accettabilmente pluralista. È stato un modo, quello degli attentatori, di manifestare disapprovazione alla nostra iniziativa. I terroristi purtroppo, però, non erano isolati. Contro di noi hanno reagito il governo di Tobruk che fa riferimento al generale Khalifa Haftar (sostenuto da Egitto, Russia, sottobanco dalla Francia) e quello che fa capo all’ex premier islamista Khalifa Ghwell. Quest’ultimo, per far meglio sentire la sua voce ostile, ha ordito perfino un rudimentale colpo di Stato che fortunatamente non ha avuto successo. Ghwell viene da una famiglia della resistenza che si batté contro l’occupazione italiana; tra il marzo 2015 e l’aprile 2016 guidò a Tripoli un governo a forte presenza islamista; dopo l’arrivo di Serraj, il 15 ottobre scorso si è posto a capo delle milizie di Misurata e qualche tempo fa aveva già tentato un golpe. A tre giorni dall’apertura della nostra ambasciata, i miliziani di Ghwell hanno occupato i ministeri del Lavoro, dei Martiri e della Difesa (che però da tempo era stato trasferito in un altro edificio). Al Serraj - in un intervista al Corriere concessa due giorni fa a Lorenzo Cremonesi - sostiene che quella di Ghwell è stata una "commedia ridicola" e che non è detto l’attentato fosse contro l’ambasciata italiana. Potrebbe esser stato, ha ipotizzato l’attuale premier, "un incidente". Il leader tripolino ha poi detto che sono i nostri servizi a "valutare correttamente" che l’Italia possa avere un ambasciata a Tripoli e in ogni caso ha messo qualche carro armato a difesa della stessa. Quanto ad Haftar, Serraj ha confidato a Cremonesi di averlo già incontrato e di volerlo rivedere nuovamente. Presto. Prima, si presume, dell’incontro che i leader europei terranno il 3 febbraio a Malta per decidere che le nostre navi entrino in acque libiche per "sostenere", su loro richiesta, la guardia costiera nella lotta a scafisti e trafficanti. Detto così sembra tutto normale. Ma il clima, come avrà modo di constatare Federica Mogherini quando la prossima settimana incontrerà Serraj, non è per niente sereno. Dopo il viaggio di Minniti a Tripoli e l’apertura della nostra sede diplomatica, Abdullah al-Thani primo ministro a Tobruk (la capitale di Haftar) ha dichiarato: "Una nave militare italiana, carica di soldati e munizioni, è entrata nelle acque territoriali libiche; si tratta di una chiara violazione della carta delle Nazioni Unite e la consideriamo una forma di rinnovata aggressione". Il governo di Tobruk ha nel contempo accusato quello tripolino di aver "consentito ai nipoti di Benito Mussolini di tornare in Libia". Un’obiezione che potrebbe essere estesa prossimamente anche alla Turchia (nel caso davvero intendesse aprire una propria ambasciata) che dominò su quelle terre fino al 1911. Lo stesso gabinetto di al-Thani ha poi definito "illegittimo" l’appalto concesso da Serraj a una ditta italiana per la ricostruzione dell’aeroporto di Tripoli. Ghweil, l’uomo del tentato golpe di cui si è detto all’inizio, ha chiesto la chiusura dell’ospedale militare italiano a Misurata (costruito nell’ambito della cosiddetta missione Ippocrate per la quale sono impegnati circa trecento nostri medici in divisa). E anche la milizia di Zintan, alleata di Haftar, minaccia di sabotare il gasdotto Greenstream dell’impianto Eni di Mellitah se non vengono ritirati gli italiani da quell’ospedale di Misurata. Gli umori di Haftar - protetto, ripetiamo, dall’Egitto - nei confronti del nostro Paese non sono buoni. Da molto tempo. Alla fine dell’aprile scorso ci furono in Cirenaica manifestazioni inneggianti ad Haftar che, con l’aiuto dei francesi, aveva appena riconquistato Bengasi. Lì per lì non si capì perché le persone in piazza, oltre a calpestare manifesti con il volto del delegato Onu Martin Kobler, avessero dato alle fiamme bandiere italiane. In seguito qualcuno di loro spiegò che si trattava di una risposta al ministro italiano della Difesa Roberta Pinotti colpevole solo di aver esortato Haftar a "sostenere" il governo Serraj. L’allora ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, capì l’antifona, lasciò passare qualche mese e, a fine settembre, dichiarò di "condividere" l’attenzione continua del governo egiziano alla situazione libica. Il Cairo, fece osservare Gentiloni, "ha sempre detto di sostenere il processo di stabilizzazione voluto dall’Onu, appoggia il governo Serraj, c’è la firma dell’Egitto sotto tutti i documenti che stanno segnando l’evoluzione di questo processo politico". Per questo Gentiloni auspicò che l’Egitto si attivasse "con la sua indubbia influenza" per favorire il dialogo dell’Est del Paese con Tripoli, con il governo Serraj. "E attenzione", aggiunse, "non credo che una Libia divisa aiuterebbe la sicurezza dell’Egitto; la Libia divisa entrerebbe in una fase di conflitto permanente, avrebbe effetti destabilizzanti su tutti i Paesi vicini". È interesse dell’Italia e dell’Egitto, concluse, "lavorare assieme per una Libia unita e stabile". Parole assai calibrate da cui è lecito desumere che anche i preparativi per l’apertura di un nostra ambasciata a Tripoli abbiano fatto parte della strategia italiana di "lavorare assieme" all’Egitto "per una Libia unita e stabile". Ma allora come si spiegano le indispettite reazioni dell’ "egiziano" Haftar? Quell’Haftar che, oltretutto, nei giorni dell’inaugurazione della nostra ambasciata era ospite della portaerei Kuznetsov da dove, in video conferenza, aveva ripreso con il ministro della Difesa moscovita Serghei Shoigu i termini del dialogo avviato a novembre con il capo del dicastero degli Esteri Serghei Lavrov per un "sostegno militare" russo alla causa di Tobruk. Nel frattempo Gentiloni, asceso dal ministero degli Esteri alla Presidenza del Consiglio, si è subito messo in luce per abilità, discrezione e prudenza. Doti, soprattutto l’ultima, per le quali sarebbe arduo supporre che l’apertura di un’ambasciata a Tripoli non sia stata concordata con il consesso europeo. Ma è sufficiente questa intuibile intesa che, peraltro, nessun ministro degli Esteri della Ue ha avvertito il bisogno di rendere esplicita? È evidente che un nostro ambasciatore a Tripoli aiuterà l’Italia a varare politiche più stringenti in materia di emigrazione e questo spiega la presenza del ministro Minniti nella capitale libica nei giorni in cui si è brindato per l’apertura della nostra sede diplomatica. Adesso, però, il fatto che l’Italia sia il solo paese occidentale ad aver lì un’ambasciata appare come una scelta che stride con la decisione di fare musica sempre e comunque nel "concerto europeo". Stride e pone interrogativi: non soltanto in tema di sicurezza (sarebbe da ipocriti non ricordare l’orrenda fine che fece nel 2012 l’ultimo ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens) ma per la curiosa circostanza che, dopo aver festeggiato tra di noi l’essere arrivati primi in quel di Tripoli, ci siamo voltati e non abbiamo visto presentarsi al traguardo né i secondi, né i terzi. "Benvenuto apripista!", si è congratulato Serraj con l’ambasciatore Perrone. Peccato che, ad oggi, dietro di lui la pista sia vuota. Russia. Il cacciatore di cyber-criminali arrestato per tradimento di Carola Frediani La Stampa, 27 gennaio 2017 La misteriosa vicenda di Ruslan Stoyanov riporta in primo piano gli hacker russi, fra cyber-crimine e servizi segreti. Un ricercatore russo di sicurezza informatica che per anni ha contribuito a smantellare intere gang cyber-criminali di suoi connazionali è stato arrestato dalle autorità di Mosca con l’accusa di tradimento. Ruslan Stoyanov, uno dei più brillanti investigatori informatici russi, per anni al Ministero dell’Interno e successivamente nella squadra di analisti dedicata all’indagine di minacce digitali della società di cyber-sicurezza Kaspersky, sarebbe stato arrestato già a dicembre, anche se la notizia è trapelata solo ieri sulla testata Kommersant e successivamente confermata. Il ruolo dell’Fsb - L’accusa rivolta a Stoyanov sembrerebbe essere legata a una indagine su Sergei Mikhailov, vicecapo della divisione cyber dell’Fsb - i servizi segreti interni eredi del Kgb - a sua volta arrestato a dicembre. L’indagine verterebbe su una fuga di informazioni verso aziende o entità straniere e su uno scambio di denaro. Il caso non riguarderebbe però la società per cui lavorava attualmente Stoyanov, ha dichiarato in una nota Kaspersky, colosso internazionale della cyber-sicurezza oltre che venditore di antivirus. "Il nostro dipendente, a capo della squadra investigativa sugli incidenti informatici, è sotto indagine per un periodo che precede il suo impiego da noi, al Kasperksy Lab", prosegue la nota. "E il lavoro svolto dalla nostra squadra di ricercatori, il Computer Incidents Investigation Team, non è coinvolto da questi sviluppi". Secondo quanto ci riferisce la stessa Kaspersky, Stoyanov avrebbe iniziato a lavorare per loro nel 2011. Se davvero l’indagine riguarda fatti pregressi, difficilmente potrebbe legarsi a una fuga di informazioni legata ai presunti attacchi russi contro i democratici americani della scorsa estate, come qualcuno ha ipotizzato. Anche se il tempismo degli arresti ha fatto pensare a un collegamento. Gli attacchi ai Democratici - Ricordiamo che, per gli attacchi contro il Comitato Nazionale Democratico e vari esponenti del Partito Democratico, l’intelligence e il governo Usa hanno accusato sia i servizi segreti interni russi Fsb (che si sarebbero mossi attraverso un gruppo di hacker soprannominati Cozy Bear o Apt29) sia i servizi militari Gru (che invece avrebbero agito mediante un altro gruppo noto come Fancy Bear o Apt28). Anche se i responsabili della diffusione vera e propria dei documenti e quindi di quella che è stata definita una guerra di informazione, sempre secondo la ricostruzione fatta da vari ricercatori e dal governo americano, sarebbero hacker al servizio di Gru e non dell’Fsb. Stoyanov e il giro di vite sui cyber-criminali - Tornando alla vicenda di Stoyanov, il suo arresto ha colpito molto la comunità di ricercatori di sicurezza informatica. Anche perché, dopo alcuni anni passati all’unità sul cyber-crimine del Ministero dell’Interno, e poi in altre due aziende del settore, l’uomo aveva messo a segno una serie di operazioni contro la cyber-criminalità russa, nota per essere tra le più vivaci, aggressive e organizzate - oltre che un possibile bacino di reclutamento dei servizi russi, secondo vari osservatori occidentali. Ancora lo scorso giugno, Stoyanov aveva guidato l’identificazione di una cinquantina di membri di un gruppo cyber-criminale russo, noto come Lurk, nella più grande retata del Paese contro hacker dediti a frodi finanziarie. La gang aveva rubato oltre 45 milioni di dollari a varie banche. Stoyanov, diversamente da altri suoi colleghi, seguiva soprattutto incidenti legati alla cyber-criminalità, più che al cyber-spionaggio di Stato. Lo stesso ricercatore, nel 2015, dava delle stime sull’underground russo: migliaia le persone coinvolte nella criminalità informatica, e in cima una élite composta da poche decine di hacker. Guerra interna fra agenzie? - Sulla vicenda che ora lo riguarda, mancano ancora molti dettagli per azzardare interpretazioni. Va però notato che pochi giorni fa la testata russa Kommersant aveva riferito delle possibili dimissioni di Andrei Gerasimov (da non confondere con il più noto generale Valery Gerasimov), capo della divisione cyber dell’Fsb dal 2009. L’impressione di alcuni osservatori è che questi ultimi avvenimenti possano essere il sottoprodotto di una guerra interna agli stessi apparati russi. Se il Gru è sospettato di aver diffuso i documenti dei democratici a danno di Hillary Clinton, qualcuno ha pensato invece a un coinvolgimento dell’Fsb nella diffusione del dossier con presunti materiali compromettenti su Trump. Oppure, come ipotizza il New York Times, Mikhailov e Stoyanov, con le loro attività, potrebbero aver interferito nei taciti accordi tra membri di alto profilo della cyber-criminalità russa e una parte dei servizi segreti. Al di là del caso specifico, l’arresto per tradimento di Stoyanov resta a suo modo emblematico del nuovo - e scivoloso - ruolo assunto da ricercatori di sicurezza informatica ad alto livello, quando possono trovarsi (volenti o meno) a gestire informazioni considerate di sicurezza nazionale, mentre i vari Stati si stanno riposizionando aggressivamente sulla scena.