Lettera aperta ai giornali e alle realtà dell’informazione dalle carceri Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2017 Sono ormai molti anni che in tante carceri operano importanti realtà dell’informazione, che vedono lavorare insieme persone detenute e volontari esterni. Osserviamo quotidianamente gli sforzi messi in campo da chi vorrebbe che le carceri diventassero davvero luoghi trasparenti e dignitosi per chi vi abita e per chi vi lavora, ma sappiamo anche quanto sia difficile riuscire a fare passi avanti, se la nostra battaglia per la trasparenza degli istituti di pena viene percepita come perdita di controllo, come perdita di potere. Ci piace al riguardo ricordare quanto affermava Filippo Turati, che "dove un superiore, pubblico interesse non imponga un momentaneo segreto, la casa dell’amministrazione dovrebbe essere di vetro", anche perché siamo convinti che il carcere dovrebbe essere doppiamente una casa di vetro, dal momento che ospita quei "cattivi" che fanno il doppio di fatica a veder riconosciuti i propri diritti. Cambiamento significa conquistare diritti, ma anche spazi di autonomia che bisogna gestire con responsabilità da parte di tutti, naturalmente anche da parte delle persone detenute, che sono spesso poco abituate ad avere occasioni di responsabilizzazione. Chi conosce le carceri sa che, in situazioni di privazione, ci sarà sempre quello che approfitterà degli spazi guadagnati, e tuttavia questo non può e non deve essere motivo di restrizione, e tantomeno di chiusura. Una redazione di un giornale non può essere un’attività ricreativa per detenuti autorizzata sotto stretto controllo, l’informazione dal carcere è un bene comune, una risorsa di civiltà utile soprattutto al territorio, che può così conoscere meglio qualcosa che gli appartiene. Un carcere dove volontari e detenuti fanno informazione ha molte più probabilità di diventare un carcere trasparente. E sappiamo che in tutte le istituzioni dove ci sono rapporti di potere fortemente sbilanciati, la trasparenza è l’unico strumento che garantisce il rispetto delle regole, e una qualità di vita e di lavoro migliore. Altrimenti le carceri rimangono luoghi opachi e nascosti dove è facile scivolare nell’arbitrio e nell’abuso. La redazione di un giornale o di una attività di informazione in carcere è importante e preziosa quanto qualsiasi altro giornale del territorio, e per questo invitiamo gli Ordini dei giornalisti del territorio a farsi sentire di più per tutelare queste realtà così fragili, ma anche così importanti. Occorre anche chiedere ai rappresentanti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di sedersi intorno ad un tavolo con le redazioni, riconoscere l’importanza della loro presenza nelle carceri, e stabilire insieme regole chiare, che permettano di lavorare con la serietà e l’onestà che hanno caratterizzato in questi anni l’attività di tanti giornali e altre realtà dell’informazione nati in carcere. Da parte delle redazioni, è importante rianimare il coordinamento di queste realtà e imparare finalmente a lavorare insieme, per dare forza ed efficacia al loro prezioso lavoro di informazione, ma anche di sensibilizzazione di un territorio, che altrimenti vive condizionato dalla paura e dall’ansia, indotte spesso da una informazione imprecisa e superficiale. Troviamoci allora il 23 marzo a Bologna, alla Salaborsa. Ci sarà spazio per esporre i nostri giornali e altre attività di informazione. Abbiamo invitato a intervenire rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione della Stampa. Organizziamo insieme la Giornata dell’informazione dalle carceri. L’iniziativa si svolgerà alla Biblioteca Salaborsa del Comune di Bologna il 23 marzo 2017 Piazza Nettuno, 3 - 40124 Bologna Per informazioni: progetti.ristretti@gmail.com Tel. 049.654233 "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita" di Michele Passione (Avvocato) giurisprudenzapenale.com, 26 gennaio 2017 Riceviamo e volentieri pubblichiamo un resoconto, a firma dell’Avvocato Michele Passione, del convegno organizzato da Ristretti Orizzonti, dal titolo "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita. Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, e con i loro figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle", tenutosi il 20 gennaio 2017 all’interno della Casa di reclusione di Padova. Sono una delle centinaia di persone che lo scorso 20 gennaio si sono messe in fila per entrare al Due Palazzi, e che per otto ore, nel freddo glaciale, hanno ascoltato parole di donne e uomini capaci di dire, senza infingimenti, pezzi di storie dolenti, ma piene di dignità e speranza. Questo non è un resoconto di quanto si è detto; come per il surrealismo di Magritte, che mette in discussione la possibilità rappresentativa dell’immagine, allo stesso modo a Padova ho assistito, semplicemente ascoltando, all’apparente paradosso di uno scambio in un luogo, un carcere, ove (come ha ricordato Luigi Manconi) "massimo è il rispetto per la legalità e l’amore per la Costituzione, dove più si ha fiducia nella Giustizia", che dunque consegna un quadro diverso da quello che si è abituati ad avere della realtà carceraria. Forse l’immagine che meglio restituisce l’intensità di quanto accaduto è quella della "palla di parole", disordinatamente evocativa di tutto quanto ha attraversato il tempo di questo incontro: impegno, inciampo, fatica, giustizia, riparazione, pena, partecipazione, conoscenza, dignità, proporzione, occasione, società, verità, racconto, ascolto. Senza voler tradire la premessa, ché un procedere per citazioni servirebbe a poco, e farebbe torto a tutti quelli che hanno detto parole tirate fuori con fatica (su tutti, i parenti dei prigionieri, anch’essi imprigionati), provo a riallacciare qualche filo. "L’idea che è necessaria una polizia nel carcere sottende il concetto che con l’esecuzione della pena non inizia il periodo di risoluzione del conflitto, ma vi è la prosecuzione di esso... la giustizia penale si struttura senza l’idea di un intervento sociale". A queste considerazioni, pienamente condivisibili (pronunciate da Francesco Cascini), la giornata del 20 gennaio restituisce non solo la forza del loro significato, ma per converso l’immagine di una platea composta da uomini in divisa accanto ai detenuti, che come loro, come noi tutti, hanno ascoltato per ore tutto ciò che accadeva, e che (sia pure intramoenia) hanno saputo essere intervento sociale. È emersa forte la necessità di superare automatismi ottusi, per dare spazio alle persone, ai loro percorsi di vita, ai loro inciampi, alla volontà di rialzarsi. Occorre trovare parole diverse per raccontare, che sappiano allo stesso modo disvelare il percorso compiuto, dall’inizio alla fine, da quando il patto sociale si è infranto a quando si è ricucito. È emersa l’esigenza, anche da parte della Politica, di trovare diverse risposte : ago e filo, capaci di ricucire ferite, cauterizzarle, senza cancellarle. Osare l’inosabile, Spes contra Spem; una Giustizia Riparativa, non solo punitiva. Piuttosto che ergastolo; parola terribile. "Sono contro l’ergastolo, innanzitutto perché non riesco a immaginarlo", diceva Pietro Ingrao. Eppure, le voci delle donne, madri, figlie, sorelle, hanno detto di vite spezzate, e private di ogni speranza, per le quali la violenza dello Stato è stata la risposta, uguale e contraria, al Comandamento violato. Altre, di chi ci è passato, e poi si è ripreso la sua vita, ci hanno detto della vicinanza della pena perpetua a quella capitale, perché anche la prima, come quella a morte, è totalmente nelle mani delle istituzioni; in fondo, per tornare ai paradossi, tutti sanno che l’ergastolo è ontologicamente contrario alla Carta, pur essendo stato ritenuto compatibile con essa perché tende a non esistere, per effetto di una potenziale, ipotetica, liberazione condizionale. I numeri dicono altro, e sono terribili. Essendo Giudice delle Leggi, non del fatto, forse bisognerebbe tornare a Corte. Detenuti, familiari, magistrati, avvocati, politici, garanti, professori, giovani e anziani; per ore, per una volta, si dice e si ascolta, senza urlare, con pazienza si pongono domande che hanno bisogno di tempo. Ornella dà spazio a tutti, ed a tutti chiede rispetto per la voce dell’altro ; emergono aporie, stimoli, condivisioni e contrasti, ma nessuno si parla addosso, e nulla sembra esaurirsi in quel che si è detto. Rimane prepotente il desiderio e l’esigenza di non disperdersi con la fine dell’incontro, secondo quanto richiesto da Ristretti, ma di tenere stretta la riflessione svolta. In fondo, fare Politica significa, proprio ed esattamente, creare le condizioni per il cambiamento. In molti, chiedono che il Governo stralci le norme penitenziarie dal DDl al Senato, convinti che sia giusto concentrarsi su quel che si può fare, hic et nunc, piuttosto che rimandare. Aggiungo una sola annotazione personale : realisticamente, sono d’accordo, ma da tempo sono convinto che l’esecuzione penale dovrebbe ricevere sempre una lettura di sistema, non essere considerata come un mondo a parte, poiché altrimenti si corre il rischio di non interrogarsi mai sulle cause, escogitando risposte che da queste prescindono. Usciamo alle 17, e c’è ancora luce. Oggi è San Sebastiano, che strappa un’ora all’inverno. Per aspera ad astra. Padova, 20 gennaio 2017: una giornata di dialogo contro la pena di morte viva di Stefania Amato (Avvocato) cplo.it, 26 gennaio 2017 "Ma se la pena deve avere come scopo la rieducazione della persona per restituirla migliore alla società, come la mettiamo con l’ergastolo?". Questa domanda ci viene posta dagli studenti più attenti, quando affrontiamo nelle scuole il nostro percorso sulla legalità attraverso i principi costituzionali. È una domanda semplice, tanto da apparire ovvia. Ma è una domanda a cui è molto difficile dare una risposta. Lo è se vogliamo provare a uscire, almeno noi, dall’equivoco e dalla finzione per cui l’ergastolo, in realtà, non esiste, perché tanto in Italia prima o poi escono tutti. Questa parabola, levata come uno scudo a difenderci dall’idea quasi inconcepibile della pena infinita, ha però trovato terreno per mettere radici nelle pronunce della Corte Costituzionale (a partire dalla sentenza n. 264/1974). L’argomento è noto: poiché il nostro sistema prevede l’accesso alla liberazione condizionale, anche all’ergastolano sarà consentito il reinserimento nel consorzio civile; dunque l’ergastolo non viola la Costituzione perché può non esistere nella realtà; in definitiva, in carcere tutta la vita non ci resta nessuno: l’ergastolo non è un problema. Non erano fantasmi, però, gli uomini che abbiamo incontrato venerdì 20 gennaio 2017 nella casa di reclusione di Padova - "Due Palazzi", in occasione della Giornata del Dialogo, contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita, organizzata dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Non erano fantasmi i loro familiari, giunti da tutta Italia per partecipare, insieme a centinaia di persone, ad un incontro lungo e intenso, a tratti commovente, di certo illuminante. L’incontro di voci diverse, delle istituzioni (tra gli altri, rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria, deputati, senatori, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il presidente del Collegio del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il sottosegretario al Ministero della Giustizia), della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati che hanno ragionato sul tema dell’ergastolo con approcci differenti, accomunati però da un chiaro punto di partenza: l’ergastolo esiste eccome. Ed è un problema, molto serio. Di ergastolo come "problema da risolvere" ha parlato anche Papa Francesco nella lettera di vicinanza e condivisione della speranza, consegnata a don Marco, il cappellano del carcere, che l’ha ricevuta dalle mani del Papa per portarla a Padova, consegnandola alla redazione di Ristretti dopo averla letta ai presenti. I detenuti ergastolani esistono, sono tanti (1.687 al 31 dicembre 2016, fonte: D.A.P., Ufficio per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato - sezione statistica) e sono in costante aumento (nel 2005 erano 1.224). Esistono perché la liberazione condizionale, come ci ha ricordato Linda Arata, Magistrato di Sorveglianza, non è affatto un beneficio concesso in via automatica, ma è subordinata ad una valutazione ampiamente discrezionale del Tribunale di Sorveglianza. Sono tanti anche gli "ergastolani senza scampo", espressione di Adriano Sofri che ha dato il titolo al testo di Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto (Gli ergastolani senza scampo - fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, con un’appendice di Davide Galliani, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016): sono i detenuti, condannati all’ergastolo, che la liberazione condizionale non l’avranno mai, così come mai potranno essere loro applicati altri istituti previsti dall’Ordinamento Penitenziario (per esempio la semilibertà), perché hanno commesso i reati più gravi di cui all’art. 4bis L. Ord. Pen. e non hanno collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58ter. Sono il 72,5% degli ergastolani, quasi 1.200 persone. Perché di persone si tratta: come dice Papa Francesco, "siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive". Perché "la dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un "premio per i buoni" e quindi non può essere tolta ai "cattivi"" (così Gaetano Silvestri, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, nella prefazione al libro di Pugiotto - Musumeci). Che, invece, l’ergastolo, specie quello "ostativo", uccida la dignità e privi le persone della speranza di un ritorno alla vita civile, una volta ottenuto quel cambiamento, quella rieducazione di cui parla la Costituzione; le privi della propria integrità di esseri umani e le riduca a un mezzo, anziché considerarle, in senso kantiano, un fine, ce lo hanno raccontato loro, gli ergastolani: uomini detenuti da lunghissimo tempo, alcuni in passato anche in regime di "41bis", per anni. Uomini che però sono andati avanti, passo dopo passo (come ci ha ricordato la figuretta proiettata da un video, per tutta la durata del convegno, sul muro bianco della palestra del carcere: due piedi che camminano), seguendo un percorso che li ha profondamente cambiati rispetto al momento in cui commisero il reato. Spesso salvati dalla cultura, attraverso l’incontro di educatori, volontari, insegnanti illuminati. O sperimentando percorsi di mediazione, anche in carcere. E che l’ergastolo lo scontino non solo loro, ma anche i loro familiari lo ha quasi gridato Ornella Favero, anima di Ristretti Orizzonti, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, le cui parole decise, quasi perentorie, sempre appassionate, hanno guidato l’intera giornata. Hanno parlato le donne: madri, sorelle, figlie di questi uomini; alcune di queste erano piccolissime quando hanno di fatto perso, non per loro colpa, uno dei genitori; talvolta perdendo poi anche la madre, risucchiata dalla depressione per una vita - non vita, spesa nel crescere da sole i figli, girando per le carceri di tutta l’Italia, a seconda dei trasferimenti, per i colloqui. All’obiezione che potrebbe muovere, come spesso muove, chi non considera l’ergastolo un problema, quella del dolore ancora maggiore dei figli delle vittime di questi detenuti, privati nella maniera più radicale dei loro cari, uccisi, ha risposto Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, sindacalista assassinato dai terroristi nel 1979: quando incontrò l’uomo che aveva ucciso suo padre, capì che i 23 anni da lui passati in carcere non avevano restituito nulla a lei, figlia schiacciata dal dolore; erano stati inutili. Non solo per lei, ma anche per chi si era trovato gettato nell’abisso della pena perpetua, il cui paradosso ben descrive Carmelo Musumeci nelle pagine del suo libro: in carcere, con una condanna all’ergastolo ostativo, si soffre per nulla; non si fa del bene neppure alle vittime dei nostri reati, perché è difficile pensare alla sofferenza degli altri se vivi ogni giorno la tua sofferenza, se subisci, per il male che hai compiuto, a tua volta un male: finisci, assurdamente, per sentirti tu vittima. Ecco, allora, illuminarsi una strada nuova, che per Sabina è da percorrere perché può ridare speranza agli autori e alle vittime di reato: quella della giustizia riparativa, che sottrae gli individui alla fissità di un fotogramma fermo sul momento del reato proiettandoli nel futuro. La giornata si è sviluppata a ritmo incalzante, con tanti interventi che hanno spaziato dalla recentissima sentenza della Grande Camera della Corte Edu "Hutchinson contro Regno Unito", del 17 gennaio 2017, che segna un grave arretramento della giurisprudenza dei giudici di Strasburgo (secondo Mauro Palma e Davide Galliani) in tema di compatibilità dell’ergastolo con l’art. 3 Cedu, alla disumanità del regime del 41bis (Sen. Ichino, avv. Maria Brucale della C.P. di Roma, avv. Fabio Federico), ai paradossi delle condizioni per la liberazione condizionale (Marcello Bortolato), all’errore giudiziario (Diego Olivieri, imprenditore detenuto ingiustamente in custodia cautelare fino alla sentenza di assoluzione, senza aver ottenuto neppure un ristoro economico), all’informazione giudiziaria (avv. Renato Borzone, responsabile del relativo Osservatorio Ucpi che ha richiamato il Libro bianco nato dalla collaborazione tra Ucpi e Università di Bologna), ai temi delicatissimi dell’affettività (Fernando Cascini) e della salute in carcere e a quelli dei permessi per gravi motivi familiari (da parametrarsi, secondo l’avv. Annamaria Alborghetti, sulla perpetuità della pena) e della mediazione come "ago e filo per ricucire" lo strappo con la società (Sen. Manconi e Gennaro Migliore, sottosegretario al Min. Giustizia). Su tutte, una parola frequente: "dignità" (su cui ha insistito Gherardo Colombo) ed una domanda ricorrente, ripetuta come un mantra: proprio quella dei nostri studenti di scuola superiore, "come può l’ergastolo essere compatibile con l’art. 27 della Costituzione?" Ed allora il lascito di questa giornata è un testimone passato a chi saprà afferrarlo, una sfida di civiltà per tutti i cittadini e un impegno per i tecnici: non solo i parlamentari che potranno proporre disegni di legge per l’abolizione dell’ergastolo, ma tutti gli avvocati e i magistrati, che dovranno fare in modo che la Corte Costituzionale torni a interrogarsi sulle tante criticità che l’ergastolo evidenzia rispetto alla Carta Fondamentale, in particolar modo nella sua forma "ostativa": come indica Andrea Pugiotto, non c’è solo il profilo di incostituzionalità della violazione dell’art. 27 comma 3, Cost.: l’ergastolo ostativo è incostituzionale perché pena perpetua non riducibile, in violazione dell’art. 117 comma 1, Cost. integrato dall’art. 3 CEDU; perché pena conseguente a illegittimo automatismo normativo, in violazione degli artt. 2, 3 comma 1, 19, 21 e 27 commi 1 e 3, Cost.; per irragionevolezza dell’equivalenza tra collaborazione e ravvedimento, in violazione degli artt. 3 comma 1, 27 comma 1, Cost.; per violazione del diritto alla difesa (art. 24 Cost.); perché pena fino alla morte (in violazione dell’art. 27 comma 4, Cost.); perché trattamento equivalente alla tortura (in violazione degli artt. 10 comma 1, 13 comma 4, 117 comma 1, Cost.). La nostra riflessione non si fermerà qui, perché gli ergastolani di Padova e i loro familiari ci hanno salutato con un’invocazione di speranza che è impossibile ignorare: la speranza che un giorno possa sparire dalla loro "posizione giuridica", stampata dai circuiti informatizzati del Ministero della Giustizia, quella dicitura assurda eppure imposta dal rigore cieco della burocrazia computerizzata: fine pena 31/12/9999. "Mistero della speranza" nel senso laico e religioso invocato da Carlo Maria Martini. E ancora speranza: Spes contra spem - Liberi dentro è il titolo del docu-film sull’ergastolo ostativo di Ambrogio Crespi, la cui proiezione la Camera Penale di Brescia sta organizzando per la prossima primavera. La registrazione integrale del convegno del 20 gennaio è disponibile sul sito di Radio Radicale Intervista a Cosimo Ferri: "Radicalismo in cella? La repressione non può bastare" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 gennaio 2017 "La battaglia contro il jihadismo non può risolversi solo nella pur necessaria attività di intelligence e di polizia. Dobbiamo partire dalle scuole". A distanza di un mese dall’uccisione del terrorista Anis Amri facciamo il punto con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri sul fenomeno della radicalizzazione nelle carceri. Signor sottosegretario, Amri dopo era stato nei Cie e in carcere girava libero in Europa. Che provvedimenti aveva preso all’epoca l’Italia? Sbarcato a Lampedusa Amri ha scontato quattro anni in carcere - prima a Catania e poi a Palermo - per avere partecipato ad una violenta rivolta nel centro di accoglienza migranti. Quando è uscito, il decreto di espulsione non è stato eseguito a causa di ritardi procedurali delle Autorità tunisine. L’Italia è stata obbligata a lasciarlo andare, non prima però di avere inserito i suoi dati nel database europeo. Questo è un aspetto molto attuale, ossia quello di comporre il controllo della situazione degli irregolari con l’accoglienza dei rifugiati mediante accordi con i paesi di provenienza. Quali sono le politiche del Governo per arginare il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri? La radicalizzazione è un fenomeno complesso. La battaglia contro il jihadismo non può risolversi solo nella pur necessaria attività di intelligence e di polizia. Senza una adeguata prevenzione gli sforzi del nostro, come degli altri Governi, può essere vano. L’obiettivo è quello di contrastare la radicalizzazione, islamista e non solo, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle carceri. Le misure sono volte a prevenire i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo religioso, oltre a provvedere al recupero umano, sociale, culturale e professionale di soggetti già coinvolti in fenomeni di radicalizzazione. Tale azione culturale e sociale di prevenzione si associa con quella di tipo repressivo, già intrapresa dal Governo e dal Parlamento con la legge 153 del 2016 (che ha ratificato cinque strumenti internazionali in materia di contrasto al terrorismo), e con il decreto legge 7/ 2015, che ha previsto nuove figure criminose, ha aumentato le condotte incriminabili ed ha anticipato la soglia di punibilità: una fra tutte, quella di propaganda di viaggi in territorio estero con scopi di terrorismo. Come si concilia il tema del rispetto dei diritti con la radicalizzazione? Il diritto alla professione della propria fede religiosa anche all’interno del carcere non solo va rispettato, ma è uno strumento "preventivo" proprio dei fenomeni di radicalizzazione: garantire la libertà di culto è un passaggio chiave per spuntare le ali alla propaganda radicale. In molte carceri, ad esempio in Sardegna, mancano interpreti e mediatori. Non è grave? Favorire i colloqui dei detenuti con gli educatori e gli assistenti sociali, incentivare i corsi di alfabetizzazione, scolastici e professionali, favorire opportunità di fruizione di permessi premio e di misure alternative, oltre facilitare i rapporti con le Autorità consolari, è senza dubbio la strada maestra per prevenire la fabbricazione di nuovi terroristi in casa. Su questo solco il Ministero si è mosso con gli Stati Generali sulla esecuzione penale che hanno dedicato più tavoli di lavoro su questi temi. Stiamo lavorando per risolvere anche il tema, fondamentale, del personale specializzato. Esistono studi su quanto la difficoltà comunicativa incida sulla radicalizzazione? Consiglio la lettura dell’ottimo saggio di Lorenzo Vidino "Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione". Questo lavoro fornisce una panoramica completa sulla questione, miscelando questioni sociali e teorie sociologiche con le esperienze vissute da giovani immigrati in Italia di seconda o terza generazione convertiti all’islam radicale. Le risultano casi di detenuti italiani che si sono converti all’Islam radicale? Nel 2016 si è stimato che sui 18.091 stranieri detenuti 11.029 provengono da Paesi tradizionalmente di religione musulmana, di cui 7.646 sono praticanti e 20 i convertiti all’Islam durante la detenzione; 34 sono i soggetti che sono stati poi espulsi per acclarata adesione alle ideologie estremiste. Il fenomeno della radicalizzazione, all’estero, è diffuso da anni. Esistono dei protocolli sul punto fra gli Stati europei e l’Italia? La Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa nel novembre del 2012 ha sollecitato i responsabili politici delle Amministrazioni della Giustizia sulla necessità di sforzi specifici per il trattamento dei detenuti stranieri che includano anche risorse umane e materiali e una adeguata formazione professionale del personale. È stata sottolineata la necessità di facilitare le relazioni dei detenuti stranieri con i loro congiunti e con l’ambiente esterno e, in particolare, la necessità di un impegno a migliorare il loro reinserimento sociale attraverso contatti con organismi appropriati. Non da ultimo, la necessità di garantire ai detenuti stranieri una adeguata informazione, nella loro lingua, sui loro diritti e doveri in ambito carcerario e sulla possibilità di ottenere il trasferimento verso altro Stato. È in atto un monitoraggio ad opera del Dap all’interno delle carceri, che suddivide gli individui "sospetti" in tre gruppi: monitorati, attenzionati e segnalati. I magistrati di sorveglianza come interagiscono con questo tipo di detenuti? I magistrati di sorveglianza prestano particolare attenzione a questa tipologia di detenuti, ad esempio, evitando di mettere insieme reclusi con storie criminali troppo omogenee. Lo sforzo è rompere la barriera che divide i ristretti a rischio radicalizzazione da quelli ‘ comunì e tentare, quindi, di offrire anche ai primi attività di trattamento significative. Ovviamente, per i più pericolosi resta applicabile il regime carcerario previsto dall’art. 41 bis, pensato per i capi mafia ed esteso anche al terrorismo internazionale Che pena lo Stato feroce! di Piero Sansonetti Il Dubbio, 26 gennaio 2017 Scusate se insistiamo su questo punto, magari saremo noiosi, però ci resta la speranza che a un certo punto qualcuno ci ascolterà: il concetto di "umanità" nei rapporti tra Stato e cittadino - anche di cittadini o cittadine colpevoli o sospettati di essere colpevoli - non è un fatto letterario ma è una precisa disposizione della Costituzione. La Costituzione non è semplicemente una carta che stabilisce come si vota. O come si eleggono i deputati e come ci si distribuisce il potere: è anche un testo che definisce in modo chiaro i "principi" essenziali della convivenza. Tra questi principi c’è l’umanità, verso i carcerati, prevista, e imposta, dall’articolo 27. L’umanità. Ora, ditemi quel che vi pare, ma tenere in prigione una bambina di 14 mesi, malata e che ha bisogno di cure continue, perché non si ritiene opportuno concedere gli arresti domiciliari alla mamma, che è accusata di reati non gravissimi e che ha altri due bambini piccoli da allevare, ditemi se vi pare che sia un comportamento che ha qualcosa a che fare con l’umanità. Proprio sul "Dubbio" di ieri abbiamo parlato di qualcosa di molto simile: il caso di un detenuto trentacinquenne, gravemente malato, morto da detenuto perché il tribunale aveva rinviato l’istanza di scarcerazione per motivi di salute avanzata dai suoi legali. Avevamo sollevato la stessa questione: l’umanità. Stavolta però il caso è ancora più clamoroso. Non stiamo parlando di una persona adulta, ma di una bambina piccola piccola. Non stiamo parlando di omicidio, ma di innocenza pura. E anche la mamma di questa bambina, prigioniera a Cagliari, non pare che sia una pericolosa assassina. E allora? Forse bisogna provare a intendersi su cosa è o cosa deve essere il carcere. Dovrebbe essere uno strumento estremo di difesa della società, che lo utilizza solo quando non ci sono altri mezzi per garantire la sicurezza della comunità. Dice la Costituzione che serve alla rieducazione dei colpevoli, e che questa è la sua missione. Ma quale diavolo di principio educativo si nasconde dietro la decisione di tenere in cella una neonata malata? Che lezione si impartisce ai carcerati offrendo loro una dimostrazione evidente e arrogante di ferocia? Il problema è che il carcere viene in realtà concepito da chi ha l’autorità, in modo del tutto diverso da quello che era stato immaginato dai "padri costituenti". La politica e i giornali, e le tv, lo concepiscono come un mezzo di punizione che accontenti l’opinione pubblica. Una parte della magistratura, spesso, lo utilizza come strumento di indagine. Le serve per far pressione sugli arrestati, farli parlare, convincerli ad aiutare le inchieste. Sono assolutamente minoritari, e quasi invisibili, quelli che cercano di far notare che esiste una Costituzione e che va rispettata anche quando difende i pezzi più deboli e vituperati della società. Un pugno di volenterosi operatori sociali, le associazioni degli avvocati, il partito radicale, una trentina tra giornalisti e intellettuali. Chiuso. E tutti costoro sono trattati in genere da rompicoglioni, se tutto va bene, altrimenti da complici. Mentre i mass media sono pronti ad indignarsi per qualunque episodio di ingiustizia commessa dal potere politico, ma se ne infischiano se l’ingiustizia colpisce i carcerati. Si è aperta sul carcere una gigantesca contraddizione e contrapposizione tra Costituzione materiale e Costituzione. Come mai? Forse la risposta sta in una osservazione che faceva mezzo secolo fa Piero Calamandrei. Diceva: "Vi è oggi nella vita pubblica italiana un elemento nuovo, che potrebbe essere decisivo per una fondamentale riforma delle carceri. Se nel 1904 gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono certamente centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori di diritto che hanno scontato più di cinque anni di reclusione per condanna del Tribunale fascista. Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta; se neanche questa volta si facesse qualcosa per cominciare a portare un po’ di luce di umanità nel buio delle carceri..." Proprio così. La Costituzione fu scritta da una classe dirigente che usciva dal fascismo e ne aveva sentito sulla pelle propria la ferocia. Oggi le classi dirigenti sono lontane mille miglia da quei problemi. E trovano nella ferocia un buon antidoto alla perdita di popolarità. Il sussurro del Pubblico Ministero: "Il carcere? Esperienza formativa" di Valer Vecellio lindro.it, 26 gennaio 2017 Questo episodio merita di essere segnalato al Consiglio Superiore della Magistratura. Merita di essere segnalato anche all’Associazione Nazionale dei Magistrati; al ministro della Giustizia; e magari ci fosse un qualche parlamentare che promuove una qualche iniziativa nell’ambito delle sue funzioni e prerogative. In buona sostanza accade questo: un giorno il responsabile di un ente pubblico sostiene che la firma che appare sotto un documento non è la sua. È stata falsificata, e l’autrice del falso è una sua dipendente. La cosa arriva sul tavolo di un Pubblico Ministero; l’ipotetico reato di firma falsa deve essere cosa particolarmente grave, i carabinieri piombano nel cuore della notte nell’abitazione della dipendente, e l’arrestano. Ora l’arresto di regola dovrebbe verificarsi di fronte a flagranza di reato; un pericolo di fuga; reiterazione del reato; inquinamento delle prove. Chissà quale dei quattro casi spinge il Pubblico Ministero a disporre un così tempestivo e drastico provvedimento. Fatto è che la signora finisce in carcere. Lei non sa bene di cosa è accusata, però come sempre accade, la notizia viene divulgata; e come sempre non si va tanto per il sottile: accusa significa condanna, e pazienza se la condanna non c’è, c’è solo un’accusa, tutta da provare. La signora finisce in carcere, reputazione rovinata, licenziamento e tutto quello che succede quando si finisce negli ingranaggi della giustizia e non si hanno santi da invocare e far intervenire. Così passano ventidue giorni. Finalmente viene disposta la cosa più naturale, che si sarebbe dovuta disporre immediatamente: la perizia calligrafica. La perizia stabilisce che l’accusata è innocente; non è lei ad aver messo quella firma; non è lei che doveva essere arrestata e lasciata in cella per ventidue giorni. Perché hanno aspettato ben ventidue giorni per fare questa perizia? Mistero. E qui viene in mente un film del 1971, quel Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy con Alberto Sordi: la storia di un ragioniere che lavora in Svezia e torna in Italia con la famiglia, per le vacanze. Alla frontiera lo arrestano e passa ogni tipo di guai, prima di essere scagionato. Il dialogo tra il ragioniere arrestato e solo alla fine scagionato, e il magistrato, è da manuale: "Cosa le hanno detto, quando l’hanno arrestato?", fa il magistrato. "Nulla", è la risposta. "Però sarebbe stato suo diritto, e suo dovere, chiedere copia del mandato di cattura", insiste il magistrato. "Io l’ho chiesto", è la risposta. "E che cosa le hanno comunicato?", chiede ancora il magistrato. "Che avevo ammazzato un tedesco… ma io non l’ho ammazzato". "Lasci stare", fa il magistrato. "Lei non ha ammazzato nessuno". "E chi l’ha ammazzato?", chiede a questo punto il geometra. "Nessuno. È morto da solo", dice il magistrato. Insomma, il geometra interpretato da Sordi viene arrestato, ma non ha ammazzato nessuno, non è colpevole di nulla, non ha alcuna responsabilità; però lo hanno arrestato. E infatti chiede: "Perché mi avete arrestato?". L’interrogativo resta senza risposta. Nel caso della signora della nostra storia, la realtà riesce a superare l’immaginazione degli sceneggiatori del film. Perché in Detenuto in attesa di giudizio il magistrato, alla domanda cruciale: "Perché mi avete arrestato", tace. Nella realtà, alla donna, il pubblico ministero sussurra: "Vede signorina, tutte le esperienze, nella vita servono, e fanno crescere: anche il carcere". Torna in mente quello che scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera, ed era, pensate, il 7 agosto del 1983: "Un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere fra i comuni detenuti, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza". Per Sciascia però è un paradossale rimedio alla "disinvoltura" dei magistrati, non esperienza formativa e per crescere per un cittadino. Comunque non sarebbe male se quel Pubblico Ministero applicasse innanzitutto a se stesso, quello che ha sussurrato alla donna ingiustamente incarcerata: certe esperienze potrebbe farle lui per primo; e chissà che non ne cresca davvero. Si può chiudere con una storia amara e tragica. La sintetizza l’avvocato Dario Vannetiello: "I giudici, pur a fronte di una certificazione sanitaria attestante che era in coma ed in imminente pericolo di vita, non gli hanno revocato il carcere a cui era sottoposto". È il caso di un detenuto di 37 anni, S.C.. Morto. Un calvario, dice l’avvocato Vannetiello: detenuto in quanto condannato in primo grado, a 23 anni di carcere per omicidio; fatti che risalgono al marzo 2013. A causa delle sue gravissime condizioni di salute, conseguenza, probabilmente, al protrarsi del rifiuto di alimentarsi, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel settembre scorso, ritiene che S.C. non può rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e ne decide il trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli - Secondigliano. Pochi giorni dopo il suo arrivo, a causa del peggioramento delle condizioni, si decide il trasferimento all’Ospedale Cardarelli, poi presso il Don Bosco di Napoli. I legali chiedono la revoca della misura cautelare o, in via subordinata, una decisione che consenta al detenuto di ricevere cure adeguate in un centro specializzato. L’avvocato, con un esposto al Tribunale di Roma spiega che il detenuto morirà se non si effettuano i giusti interventi e le opportune cure per il malato ormai in coma. E così, puntualmente, accade. Riforma della responsabilità civile: le toghe continuano a non pagare per i propri errori di Maurizio Tortorella Tempi, 26 gennaio 2017 È il governo a utilizzare l’aggettivo "insignificante" per descrivere il numero delle condanne: nemmeno una in tutto il 2015; e una sola condanna d’appello nel 2016. Quando nel febbraio 2015 il Parlamento varò la legge 18, che modificava la norma sulla responsabilità civile dei magistrati, quella riforma venne trionfalmente presentata dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi come una mezza rivoluzione: e cioè come l’intervento che avrebbe finalmente sbloccato l’anomalia italiana dell’assenza di sanzioni per i danni causati da una toga, e insieme la norma che avrebbe rimediato all’inganno legislativo rappresentato dalla legge Vassalli del 1988, che aveva ignominiosamente tradito il voto popolare rappresentato da una schiacciante maggioranza di consensi al referendum popolare proposto dai radicali. Va ricordato, infatti, che la Legge Vassalli era stata così pienamente ed eccessivamente garantista, nei confronti dei magistrati, che da11989 e fino a tutto il 2014 gli italiani avevano presentato in tutto 410 citazioni per responsabilità civile. Se si considera che in quei 26 anni soltanto i procedimenti penali aperti sono stati all’incirca 52 milioni, le citazioni presentate rappresentano appena lo 0,0008 per cento del totale. Ma gli italiani avevano piena ragione di essere scettici: le loro citazioni "ammesse" al vaglio dell’autorità giudiziaria furono appena 35, nemmeno una su dieci. E quelle che vennero reputate degne di essere accolte furono in tutto sette. Sette, in 26 lunghissimi anni. Nelle settimane precedenti all’entrata in vigore della riforma del febbraio 2015, l’Associazione nazionale magistrati manifestò tali spropositate reazioni ("un attacco mortale alla nostra autonomia"), che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, promise avrebbe messo in piedi un sistema per controllare che la riforma non straripasse in eccessi punitivi nei confronti della categoria. "Faremo un tagliando", garantì Orlando. Vale la pena di ricordare sommessamente che due anni fa, ascoltate le grida di giubilo da una parte, e le terrorizzate lamentele dall’altra, questa povera rubrichetta sostenne (pacatamente) che i magistrati non avevano nulla da temere e che i politici non avevano nulla da festeggiare, perché nulla in realtà sarebbe cambiato. Ora siamo arrivati a un primo redde rationem. Eccessi punitivi? Autonomia uccisa? Risate. A distanza di due anni, purtroppo, i dati danno ragione al pessimismo di chi qui scriveva nel 2015 e scrive oggi. Perché è vero che (udite, udite!) sono aumentate le azioni di responsabilità per "dolo o colpa grave" nei riguardi dei magistrati, ma il numero delle condanne resta del tutto insignificante. Dall’entrata in vigore della legge, gli esposti sono più che raddoppiati, passando da 35 (nel 2014) a 70 nel 2015 e a 80 del 2016. Ma il numero delle condanne, e finora parliamo di sentenze di Corte d’appello perché nessuna vicenda è ancora arrivata al giudizio finale, è pari allo 0,01 per cento. Il ministero della Giustizia, evidentemente dopo i controlli eseguiti in omaggio alla promessa di Orlando, rivela con evidente soddisfazione che "non si è, finora, verificato il temuto aumento esponenziale del contenzioso". Ed è sempre il governo a utilizzare l’aggettivo "insignificante" per descrivere il numero delle condanne: nemmeno una in tutto il 2015; e una sola condanna d’appello nel 2016. Insomma, la riforma della responsabilità civile si è risolta in una farsa, forse in un inganno anche peggiore rispetto a quella che era stata varata nel 1988. I magistrati dell’Anm possono quindi riposare in pace: l’autonomia della categoria non ha subìto alcun attacco, tantomeno un assalto mortale. E le toghe restano pienamente, inqualificabilmente irresponsabili. Promossi e contenti, malgrado gli errori di Annalisa Chirico Panorama, 26 gennaio 2017 Accusare e condannare un innocente non ha ricadute sulla carriera dei magistrati. Ma il successo di una trasmissione tv dimostra che gli italiani vogliono sapere. I riflettori restano puntati sulle vittime, primeggiano nomi e volti delle persone cui è stato strappato ingiustamente il diritto alla libertà. Mancano invece i nomi di pm e giudici che spesso per mera negligenza hanno travisato le prove, frainteso i fatti, confuso le identità sbattendo in carcere chi non avrebbe dovuto trascorrervi neppure un minuto. Si dice che in tv la giustizia non funzioni e invece la prima puntata di Sono innocente, in onda su Raitre, raccoglie davanti allo schermo un milione e mezzo di spettatori, con uno share del 5,6 per cento (poi ridimensionato, com’era ovvio, per l’agguerrita programmazione del sabato). Un risultato lusinghiero per il programma che, con il supporto del portale web Errori giudiziari, narra le storie di perfetti sconosciuti rimasti intrappolati nelle maglie della malagiustizia. La serie in dieci puntate, condotta dal giornalista Alberto Matano, mescola docufiction e interviste in studio. Il risultato è un ritratto impietoso della giustizia ingiusta. La parabola è nota: imputazione, carcere, assoluzione, un circolo infernale che ti violenta dentro e ti cambia per sempre. C’è chi si ammala, chi medita il suicidio, chi vive un calvario lungo trent’anni e chi appena nove giorni. Tutti, una volta assolti e liberati, non sono più gli stessi. Ma "questa" giustizia è innocente? "Noi non vogliamo fare un processo al processo" spiega a Panorama il conduttore Matano. "Senza puntare l’indice contro qualcuno, raccontiamo storie reali che suscitano inevitabilmente una riflessione. Serve un supplemento di responsabilità, anche da parte di noi giornalisti". "Ho 65 anni e sto rimettendo insieme i pezzi, piano piano". La quotidianità di Diego Olivieri s’interrompe il 22 ottobre 2007, alle tre e mezza di notte, quando la moglie accoglie sull’uscio il maresciallo dei carabinieri, l’amico delle serate a teatro. Diego è un mediatore di pellame, possiede una bella casa, una bella barca, una bella macchina, la sua è la classica famiglia dell’alta borghesia vicentina. Nel giro di poche ore si ritrova "in una cella grande come il mio bagno". Sconta un anno di carcere preventivo nella sezione di massima sicurezza. Gli inquirenti lo accusano di associazione per delinquere di stampo mafioso, narcotraffico, insider trading e riciclaggio di 600 milioni di dollari. "All’interrogatorio di garanzia il pm ha ritratto la mano dopo aver salutato gli avvocati. Mi ha puntato il dito ingiungendomi di stare seduto. "La intercettiamo da tre anni, sappiamo tutto di lei". Ai loro occhi ero il colletto bianco colluso con i mafiosi. Io non sapevo che dire, stavo in silenzio: quando sei innocente l’incubo ti ammutolisce". Gli investigatori giungono al nome di Olivieri mediante le dichiarazioni di un pentito secondo il quale il boss Nicola Nick Rizzuto e suo figlio Vito, pur reclusi nelle prigioni canadesi, continuerebbero a gestire il narcotraffico grazie alla collaborazione di un affiliato di Montreal, Felice Italiano, che spedirebbe in Italia pellame infarcito di droga. Al di qua dell’oceano Olivieri sarebbe il burattinaio italiano, "compagno di braccio" di criminali del calibro di Brusca e Greco. Cinque anni dopo, Olivieri è scagionato da ogni accusa. Assolto in primo grado, la procura non ricorre in appello. Il suo principale accusatore è un pm della Direzione distrettuale antimafia di Roma, già consulente della Commissione parlamentare antimafia, noto alle cronache per essere finito a sua volta processato, e assolto, per le presunte anomalie nell’interrogatorio di un teste. Il caso Olivieri è uno degli ultimi sulla sua scrivania prima di andare in pensione. Subito dopo collabora a un programma tv che si occupa di questioni giudiziarie. Così chi si è fidato delle parole in libertà di un pentito, senza adeguati riscontri, sulla base di prove inesistenti e intercettazioni travisate, non ha subito alcun danno e, anzi, è stato premiato in popolarità. Più drammatico è il racconto di Giovanni De Luise, classe 1981, per lui otto anni e otto mesi di cella da innocente. Condannato nel 2004, nel pieno della faida di Secondigliano, per l’omicidio di Massimo Marino, De Luise viene "salvato" da un pentito, Gennaro Puzella, che a distanza di troppi anni confessa: "Sono io il killer di Marino, ma al mio posto è stato condannato un innocente che sta in cella a scontare una condanna per un delitto che non ha commesso". De Luise torna libero. "Avevo 22 anni quando mi hanno arrestato. Ero incensurato, facevo lo spedizioniere a Scampia, mai un fermo, mai una contravvenzione". Ad accusarlo, in principio, è la sorella della vittima, Cinzia Marino, i due s’incontrano all’obitorio per piangere i propri congiunti: Cinzia ha perso il fratello Massimo, solo qualche ora prima Giovanni ha perso il fratello Antonio in un agguato mafioso. Per la donna Giovanni avrebbe ucciso per vendicare il familiare. "Quando ho visto le foto di Puzella ho capito tutto: era molto simile a me, una somiglianza che poteva trarre in inganno. Non provo rancore, non ce l’ho con la sorella del morto ma con un sistema in cui la nostra voce non è mai stata ascoltata. Non c’è parità tra accusa e difesa. Mi chiedo: se c’è la mia parola, poi c’è quella della teste, perché non si sono cercati altri riscontri? Tanto vale non farli i processi, lo dico pensando alle istanze presentate in questi anni e alla fine che hanno fatto i testimoni intervenuti in mio favore". Coloro che si presentano in aula per fornire un alibi a De Luise, ricostruendo luoghi e orari, sostenendo pubblicamente "Giovanni era con noi", vengono processati per falsa testimonianza, il datore di lavoro dell’imputato è arrestato perché ritenuto omertoso e colluso. A sostenere l’accusa nei confronti di De Luise è lo stesso pm che indaga sulla faida di Scampia nel 2004. Il pm rilascia interviste sugli scontri cruenti di quei giorni, Saviano s’ispira alle sue prodezze e quando Matteo Renzi invita il magistrato alla Leopolda lui sale sul treno diretto a Firenze. A un certo punto si vocifera che sarà Tanti de Magistris, pronto al salto nell’agone politico come candidato sindaco di Napoli, ma non se ne fa nulla. Oggi è tornato in procura a Napoli come sostituto procuratore. PS: Abbiamo omesso i nomi perché le toghe hanno la querela facile. Dal momento che a giudicare sono i loro colleghi, è meglio soprassedere. Accontentatevi dei fatti, parlano da sé. Terza data per il mandato d’arresto europeo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2017 Corte di Giustizia Ue, sentenza nella causa C-640/15. Via libera alla possibilità di fissare una terza data di consegna se l’autorità chiamata ad eseguire il mandato di arresto europeo non riesce a dare seguito alla misura per ben due volte a causa della resistenza opposta dal ricercato. È la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata ieri (C-640/15), a rafforzare gli spazi per una nuova esecuzione del mandato di arresto europeo favorendo una maggiore flessibilità nell’interpretazione della decisione quadro 2002/584 relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri (recepita in Italia con legge n. 69/2005). Sono stati i giudici irlandesi a rivolgersi a Lussemburgo. La questione riguardava la richiesta di consegna emessa dalle autorità lituane e le difficoltà incontrate da quelle irlandesi nell’effettiva esecuzione. Il destinatario della misura, infatti, proprio nel momento di imbarcarsi sul volo diretto in Lituania aveva opposto resistenza e, quindi, non era salito a bordo. Le autorità irlandesi avevano concesso altri dieci giorni di tempo, ma il copione si era ripetuto e così l’Alta Corte aveva imposto la scarcerazione. Il giudice di appello chiede a Lussemburgo di chiarire se sia possibile accordare un nuovo termine per procedere alla consegna. Per gli eurogiudici, considerando che le norme della decisione quadro devono essere interpretate tenendo conto del contesto e dello scopo perseguito, le autorità dello Stato di esecuzione possono accordare una nuova data per la consegna. D’altra parte, l’articolo 23 della decisione quadro, chiarito che il ricercato deve essere consegnato al più presto e, comunque, entro 10 giorni dall’adozione della decisione di esecuzione, ammette che le autorità coinvolte, per motivi di forza maggiore, concordino un altro termine. Per garantire l’efficacia della procedura, evitando i rischi collegati alle scarcerazioni, Lussemburgo ritiene possibile un ulteriore nuovo termine per la consegna. Questo a condizione, però, che la mancata consegna dipenda da causa di forza maggiore ossia da circostanze eccezionali e imprevedibili. La Corte, sul punto, riconosce che l’utilizzo dell’aereo come mezzo di trasporto costituiva una scelta rischiosa per le autorità nazionali che già avevano incontrato ostacoli nella prima consegna, ma lascia la valutazione al giudice nazionale che deve tener conto, per qualificare un evento come imprevedibile, di tutte le precauzioni impiegate dalle autorità di esecuzione. Scatta il rifiuto di atti d’ufficio solo per inerzia in rapporto a un atto dovuto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 25 gennaio 2017 n. 3799. Non è configurabile il reato di rifiuto di atti d’ufficio in assenza di un dovere cogente di adottarli. A maggior ragione non è imputabile di avere omesso l’adozione di un atto amministrativo il soggetto che non ne abbia la competenza. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 3799/2017, depositata ieri, ha specificato che non integra la fattispecie del rifiuto penalmente rilevante ai sensi del comma 1 dell’articolo 328 del Codice penale, la condotta del soggetto competente ad adottare l’atto se lo omette quando avrebbe potuto essere compiuto soltanto in base a una complessiva valutazione dell’azione amministrativa fondata sulle migliori prassi o in applicazione del principio di precauzione. La vicenda - Nel caso specifico al centro della vicenda penale c’erano le concessioni per l’installazione di strutture balneari sull’arenile napoletano prospiciente le ex aree industriali di Bagnoli. In conseguenza, veniva imputato, inizialmente per abuso d’ufficio e poi per rifiuto di atti d’ufficio, l’assessore all’ambiente del Comune di Napoli perché non aveva ostacolato le concessioni e anzi aveva dato parere favorevole al rilascio da parte del soggetto competente. Inoltre, era l’assessore era stato accusato di non aver emanato ordinanze di limitazione della balneazione e dell’utilizzo delle spiagge dal 2003 al 2005, anno in cui venivano effettivamente adottati provvedimenti di divieto da parte dell’amministrazione di Napoli. L’insussistenza del reato - Non spettava all’assessore comunale all’ambiente, ma all’Autorità portuale il rilascio delle concessioni contestate. Ciò da solo dice la Cassazione, è sufficiente a escludere l’imputabilità dell’assessore la cui condotta, cioè non aver ostacolato l’azione di altro soggetto amministrativo competente, poteva al limite configurare un abuso d’ufficio, ma non il rifiuto che scatta solo quando "l’atto doveva essere compiuto ed è stato, invece, omesso". L’urgenza sostanziale - La Cassazione ha dato seguito agli argomenti della difesa che contestavano la doverosità di un atto da parte dell’assessore comunale volto a impedire il rilascio delle concessioni in un’area nota per il rischio di inquinamento, ma non ancora valorizzato da studi. In generale poi l’individuazione dei tratti di costa non balneabili spetta in prima battuta alla Regione individuarli e successivamente al Comune tracciarne la delimitazione concreta. Al tempo dei fatti contestati le risultanze scientifiche sull’inquinamento dei siti oggetto di bonifica non erano ancora state acquisite da Regione e Comune. E, tale situazione non poteva quindi lasciar configurare la colpevole inerzia silente dell’assessore comunale all’ambiente di fronte a un’urgenza sostanziale che impone l’adozione immediata di atti del proprio ufficio. Tra l’altro sanzionabile quando a causa dell’assenza dell’atto si siano determinati eventi dannosi. Principio Ue di precauzione - I giudici avevano individuato anche nel principio Ue di precauzione ambientale l’insorgenza dell’obbligo di adottare misure amministrative ad hoc. Ma se la Cassazione, in queste attività di prevenzione contro il concretarsi di rischi per la popolazione, vede sicuramente una declinazione del principio di buon andamento dell’amministrazione non intravede, invece, la diretta spia di un reato, semmai un indizio. Modena: carcere Sant’Anna, la Sezione con spazi aperti sacrificata all’Alta sicurezza di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2017 Nel padiglione ricco di ambienti comuni, il Dap vuole mettere i reclusi al 41 bis. Ieri la visita del Sottosegretario Gennaro Migliore. La Camera penale: "sbagliato cancellare l’esperimento, anche se agli agenti richiede più impegno". Un caso esemplare: il carcere Sant’Anna di Modena è contemporaneamente laboratorio di innovazione e simbolo delle resistenze a quella stessa innovazione. Nell’istituto che attualmente ospita 449 detenuti (a fronte di una capienza di 372 posti) c’è un vecchio padiglione destinato a un regime di reclusione particolare: celle aperte, appunto, 50 carcerati a bassa pericolosità che trascorrono molte ore negli spazi comuni, coinvolti in attività organizzate dagli educatori con il volontariato. Un modello, insomma. E che prospettiva c’è ora, per questo esperimento romanticamente ribattezzato "Progetto Ulisse"? Spazzato via per far posto a una sezione di Alta sicurezza. Destinata dunque in via esclusiva, secondo le regole, ai detenuti in regime di 41 bis. Inspiegabile. Tanto che ieri a Modena c’è stata la visita del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, anche in seguito alle sollecitazioni del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale di Modena. Ha visitato la struttura, raccolto informazioni e soprattutto impressioni, di cui parlerà sia con il capo del Dap Santi Consolo che con il guardasigilli Andrea Orlando. In attesa di comprendere quale esito avrà la proposta di "riconversione" già vagliata da Dap e provveditorato competente, emergono dettagli che fanno capire l’origine delle resistenze a percorsi trattamentali innovativi. "Il problema è la posizione della polizia penitenziaria, che giudica in modo non del tutto positivo il Progetto Ulisse", osserva l’avvocato Enrico Fontana, presidente della Camera penale di Modena. "Con questo tipo di regime, le guardie sono costrette a un lavoro più complicato, naturalmente. Nessuno, sia chiaro, intende sottovalutare il disagio degli agenti, che spesso ha ragioni perfettamente analoghe a quello dei carcerati". Di fatto una "sezione aperta" come quella modenese impone un tipo di vigilanza nello stesso tempo più discreta e più reattiva. Maggiore fatica, dunque, a fronte di numeri che anche nel caso del "Sant’Anna" vedono la polizia penitenziaria sotto organico: "Secondo i dati a nostra disposizione, gli agenti di custodia effettivi sono 227 su un organico di 256, circa il 10% in meno", osserva ancora Fontana, "e teniamo conto che l’impegno per trasferimenti e traduzioni qui a Modena assorbe moltissime energie". Resta il fatto che nella città emiliana le guardie carcerarie si oppongono a un progetto d’avanguardia, "l’esperienza di maggiore respiro e significato di tutto il sistema penitenziario regionale", per il presidente della Camera penale. E questo nel pieno di spinte politiche che dovrebbero portare al rafforzamento delle misure alternative e della umanizzazione dei trattamenti. Proprio lo stato di disagio che si cela dietro le resistenze degli agenti svela, più di ogni altra analisi, una contraddizione: cambiare in meglio il carcere è spesso doloroso. Perché oltre ai progetti serve anche il rafforzamento degli organici, il miglioramento delle condizioni di lavoro degli agenti. La coperta è corta e le resistenze non segnalano solo culture retrive ma anche disagi reali, proprio come in questo caso. Eppure come dice Fontana, "portare nel vecchio padiglione i detenuti dell’Alta sicurezza significherebbe seppellire qui a Modena una nuova idea di carcere". Modena: il sindaco Muzzarelli "no ai detenuti del 41 bis al carcere di S. Anna" bologna2000.com, 26 gennaio 2017 La visita a Modena del Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia Gennaro Migliore è stata per il sindaco Gian Carlo Muzzarelli l’occasione per ribadire la contrarietà, già espressa dal senatore Vaccari, alla possibilità di ospitare al Carcere di S. Anna i detenuti nel regime carcerario del "41 bis". "Ho positivamente preso atto - precisa il sindaco - che su tale ipotesi anche le valutazioni del Ministero sono negative, non essendoci a Modena le condizioni di sicurezza richieste da un simile regime detentivo". Positive per il sindaco anche le rassicurazioni sull’arrivo nella sede del Tribunale di Modena di nuovi giudici. "Sarebbe un buon segnale ai fini del funzionamento della giustizia in città, e ci auguriamo che venga confermato dal completamento dell’organico anche per quanto riguarda i servizi di supporto", sottolinea Muzzarelli. Mentre per quanto riguarda l’edilizia giudiziaria, durante l’incontro, avvenuto in Municipio alla presenza del presidente del Tribunale di Modena Vittorio Zanichelli, il sindaco si è detto "disponibile a partecipare a un eventuale tavolo istituito dal Governo insieme a Tribunale e Demanio per valutare insieme la disponibilità di ulteriori spazi che consentano alla Giustizia di disporre di sedi adeguate alle funzioni". Per quanto attiene più strettamente ai rapporti tra Amministrazione comunale e Governo, il sindaco ha infine colto l’occasione per ribadire con il sottosegretario il tema tutt’ora aperto dei mancati rimborsi: per consentire il funzionamento della Giustizia il Comune di Modena ha sostenuto negli anni spese per circa 24 milioni di euro a fronte delle quali il Ministero di Grazia e Giustizia non ha finora riconosciuto rimborsi. Ivrea (To): "nel carcere non c’è dignità" rapporto choc del Garante nazionale dei detenuti di Giampiero Maggio La Stampa, 26 gennaio 2017 Il rapporto ora pubblico sarà inviato alla Procura della Repubblica. "La situazione del carcere di Ivrea è quella di una preoccupante conflittualità, con celle lisce, strutture decadenti e al di sotto della dignità umana". Lo sostiene il rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale sulla Casa circondariale di Ivrea. Il Garante precisa che già a fine novembre è stata compiuta una visita al carcere Eporediese, e da ieri il rapporto è pubblicato. La visita è stata compiuta da Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, insieme a Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte. Il Rapporto, relativo alla visita di fine novembre, e trasmesso un mese fa alla direzione della casa circondariale, al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, e al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala in dettaglio le anomalie ancora oggi esistenti. La delegazione aveva compiuto la visita per verificare l’attendibilità di segnalazioni ricevute circa azioni repressive condotte con un inappropriato uso della forza. Proprio per l’ufficialità dell’istituto stesso del Garante, la delegazione aveva potuto verificare la documentazione dei fatti, parlare con il personale e con i detenuti, visionare e valutare lo stato dei luoghi. "Senza entrare nel merito degli accertamenti della Procura - spiega Emilia Rossi - i due aspetti più inquietanti sono: la presenza di due celle di contenimento, una denominata "cella liscia" dallo stesso personale dell’Istituto, l’altra chiamata "acquario" dai detenuti, che oltre ad essere in condizioni strutturali e igieniche molto al disotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano e di integrare una violazione dei più elementari diritti delle persone detenute, costituiscono un elemento che accresce la tensione presente nell’Istituto". E poi c’è un secondo aspetto: riguarda l’assenza da oltre quattro anni di un comandante della polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla casa circondariale. "Questo elemento può, verosimilmente, contribuire al frequente riproporsi delle conflittualità segnalate", dice Rossi. Il Garante ha chiesto tuttavia che si metta fine alla "sottovalutazione" della situazione da parte della direzione dell’Istituto ed ha stigmatizzato "la mancanza di ricerca di soluzioni diverse dal ricorrente trasferimento in altre strutture delle persone detenute di difficile gestione". Il rapporto ora pubblico sarà inviato alla Procura della Repubblica di Ivrea: "Sarà un’integrazione del materiale di indagine nel procedimento sui fatti segnalati alla fine dello scorso mese di ottobre che risulta tuttora in corso, secondo quanto risulta anche dalle recenti dichiarazioni pubbliche del procuratore capo, Giuseppe Ferrando". Anche il Movimento 5 Stelle regionale torna sulla questione: "Viene confermato quanto evidenziato già nel corso del nostro precedente sopralluogo, ora chiederemo un’audizione in merito al garante regionale in commissione legalità", sottolinea Francesca Frediani, consigliere regionale pentastellato. Ivrea (To): punizioni, celle lisce e conflitti con gli agenti, interviene il Garante nazionale ilsussidiario.net, 26 gennaio 2017 A denunciare la situazione di grande conflittualità e soprattutto l’allarme per condizioni di vivibilità realmente scadenti all’intero del carcere di Ivrea è stato il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Già a novembre a recarsi nella Casa Circondariale di Ivrea erano stati Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, e Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte. Dal rapporto pubblicato ieri si evince che "i due aspetti più inquietanti sono: la presenza di due celle di contenimento - una denominata ‘cella liscià dallo stesso personale dell’Istituto, l’altra chiamata ‘acquariò dai detenuti - che oltre ad essere in condizioni strutturali e igieniche molto al disotto dei limiti di accettabilità nel rispetto della dignità dell’essere umano e di integrare una violazione dei più elementari diritti delle persone detenute, costituiscono un elemento che accresce la tensione presente nell’Istituto. Il secondo aspetto segnalato riguarda l’assenza da oltre quattro anni di un Comandante della Polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla Casa circondariale. Questo elemento può, verosimilmente, contribuire al frequente riproporsi delle conflittualità segnalate". Il Garante è intervenuto direttamente con la struttura direttiva del carcere di Ivrea "la mancanza di ricerca di soluzioni diverse dal ricorrente trasferimento in altre strutture delle persone detenute di difficile gestione". La tensione è alle stelle all’interno del carcere di Ivrea, dove continua a non scorrere buon sangue tra i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. Già ad ottobre e a novembre i carcerati avevano lamentato di aver subito dei veri e propri pestaggi quando avevano dato il via ad una protesta che i secondini hanno invece catalogato come rivolta. A far sì che non si possa avere una versione ufficiale dei fatti, è soprattutto il mancato funzionamento dell’impianto di videosorveglianza all’interno del carcere. Per questo motivo, come riportato da Quotidiano Canavese, Igor Boni e Silvja Manzi, esponenti della Direzione nazionale Radicali Italiani, hanno chiesto un rapido intervento al Ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando: "Abbiamo assunto la decisione di scrivere al Ministro in seguito alle difficoltà che abbiamo verificato con i nostri occhi all’interno della struttura. Inutile mettere sulla graticola chi lavora nel carcere di Ivrea se non vengono forniti dall’Amministrazione penitenziaria e dal Ministero strumenti sufficienti per svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Sovraffollamento, sottorganico degli agenti, mancanza di spazi di socializzazione, carenza di lavoro per i detenuti, sono purtroppo patrimonio di molte strutture detentive. Ma che dopo gli episodi di ottobre e novembre e i molti e gravi atti di autolesionismo che accadono frequentemente non si sia subito provveduto al ripristino della videosorveglianza interna non è francamente accettabile. Il preventivo di circa 40.000 euro dimostra che non si tratta di investimenti stratosferici. Riteniamo che si debba porre rimedio subito a questa mancanza, per consentire un recupero delle condizioni di sicurezza nell’immediato, in vista di investimenti strutturali di medio termine che possano ampliare gli spazi per i detenuti e ridurre le tensioni attuali. Attendiamo fiduciosi una risposta positiva del Ministro Orlando". Ivrea (To): i Radicali scrivono al ministro Orlando denunciano la situazione del carcere quotidianocanavese.it, 26 gennaio 2017 Chiesto impegno per sbloccare almeno i 40mila euro necessari alla sistemazione dell’impianto interno di videosorveglianza. In seguito alla visita svolta presso la Casa Circondariale di Ivrea nella giornata di ieri da Igor Boni e Silvja Manzi (Direzione nazionale Radicali Italiani) e dal Consigliere regionale del Piemonte, Marco Grimaldi (Capogruppo Sel) gli esponenti radicali hanno inviato una lettera urgente al Ministro di Grazia e Giustizia, Andrea Orlando, per sollecitare una presa di posizione immediata che consenta il ripristino della funzionalità dell’impianto di videosorveglianza interno del carcere che consentirebbe agli agenti di svolgere il proprio compito di controllo in modo assai più efficace. Dichiarazione dei due esponenti di Radicali Italiani: "Abbiamo assunto la decisone di scrivere al Ministro in seguito alle difficoltà che abbiamo verificato con i nostri occhi all’interno della struttura. Inutile mettere sulla graticola chi lavora nel carcere di Ivrea se non vengono forniti dall’Amministrazione penitenziaria e dal Ministero strumenti sufficienti per svolgere adeguatamente il proprio lavoro. Sovraffollamento, sottorganico degli agenti, mancanza di spazi di socializzazione, carenza di lavoro per i detenuti, sono purtroppo patrimonio di molte strutture detentive. Ma che dopo gli episodi di ottobre e novembre e i molti e gravi atti di autolesionismo che accadono frequentemente non si sia subito provveduto al ripristino della videosorveglianza interna non è francamente accettabile. Il preventivo di circa 40.000 euro dimostra che non si tratta di investimenti stratosferici. Riteniamo che si debba porre rimedio subito a questa mancanza, per consentire un recupero delle condizioni di sicurezza nell’immediato, in vista di investimenti strutturali di medio termine che possano ampliare gli spazi per i detenuti e ridurre le tensioni attuali. Attendiamo fiduciosi una risposta positiva del Ministro Orlando". Busto Arsizio: il Garante "carcere, numeri da tenere d’occhio, in media 360 presenze" di Stefano Tosi La Prealpina, 26 gennaio 2017 "Sinergie per favorire il reinserimento". Non solo una descrizione tecnica su come è organizzata la casa circondariale di Busto Arsizio e su chi ci vive: la relazione 2015 - 2016 del garante dei diritti dei detenuti per il Comune, Luca Cirigliano, contiene anche riflessioni maturate grazie al contatto con le persone private della libertà e una speranza personale: "Mi piacerebbe più sinergia. Vorrei avere l’occasione di collaborare con i vari servizi". Nel periodo preso in esame, in via per Cassano, tra sezioni di custodia ordinaria e regime di celle aperte, si sono registrate in media 360 presenze, un numero nettamente superiore a quello della capienza regolamentare (238) ma inferiore di circa 30 unità a quella tollerabile. Al 29 dicembre gli stranieri erano quasi il 60% (212 su 365), una percentuale dovuta, fra l’altro, al vicino aeroporto di Malpensa. I più numerosi erano i cittadini marocchini (40), seguiti da quelli provenienti da Albania (28), Tunisia (28), Romania (15), Nigeria (13), Pakistan(12) e Brasile (9). Posto che la detenzione deve anche preparare al reinserimento sociale, Cirigliano passa in rassegna le attività seguite dai detenuti: 45 frequentano la scuola media e 73 quella superiore, 41 seguono corsi di alfabetizzazione. "Voce libera" è il magazine realizzato con la 3B Cooperativa Sociale con l’obiettivo di fare conoscere il punto di vista da "dentro" rispetto a temi d’attualità. La redazione è composta da 7 detenuti. I progetti di teatro in carcere sono portati avanti con esperti del settore e vogliono creare occasioni di socializzazione, riflessione e sensibilizzazione, anche per chi sta fuori. Hanno coinvolto in tutto una ventina di partecipanti. Capitolo lavoro, strumento rieducativo per eccellenza. Il laboratorio di cioccolateria e pasticceria "Dolci in libertà" conta su 12 lavoratori stipendiati, altri 3 seguono percorsi di inserimento. Sono ammessi al lavoro all’esterno della struttura 10 carcerati, mentre sono 72 quelli che contribuiscono, a rotazione, ad amministrare la casa circondariale. Questi i numeri. Dietro ci sono le vite di tante persone che stanno pagando il loro debito con la giustizia e la società. Persone che magari esultano per un successo calcistico (il 7-4 rifilato in trasferta alla forte squadra di San Vittore), che si mettono al servizio della comunità nell’ambito dei lavori socialmente utili (tinteggiando la scuola di Gorla Maggiore) o vivono l’esperienza straordinaria di servire messa con Papa Francesco durante il Giubileo. "Ognuno con una storia diversa. - sottolinea Cirigliano - Dietro all’errore che per molti costa caro ho scoperto tanta umanità, tanta gioia e sofferenza. Purtroppo, nella vita, servono alcuni passaggi per capirne altri. In passato pensavo al carcere come a qualcosa di lontano. Oggi ho capito che dietro le sbarre esiste un mondo con cui confrontarsi". Napoli: bando da 824mila euro per riqualificare il carcere di Poggioreale di Alessandro Lerbini Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2017 Interessati dalla ristrutturazione i padiglioni Salerno, Napoli, Genova (completamento), Venezia, Italia. Termine: 7 marzo. A Napoli vanno in gara i servizi di ingegneria per riqualificare il carcere di Poggioreale. Il ministero delle Infrastrutture e trasporti - provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata - ha pubblicato il bando per la redazione del progetto definitivo e del progetto esecutivo dell’intervento di adeguamento al Dpr 230/2000 dei padiglioni Salerno, Napoli, Genova (completamento), Venezia, Italia presso la casa circondariale "G. Salvia". Il valore del servizio è di 824.065 euro. Come opzioni l’ente appaltante si riserva di affidare al soggetto aggiudicatario la direzione dei lavori e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione. La casa circondariale è un complesso che può ospitare circa 1600 detenuti distribuiti su sezioni maschili ubicate in strutture detentive dislocate sull’intera area delimitata e protetta da un muro di cinta. Oltre gli edifici strettamente detentivi trovano ubicazione all’interno altre strutture a servizio degli edifici stessi e zone destinate a centro clinico, a cortili di passeggio e ad attività sportive e svago. L’intervento non risulta presentare particolari difficoltà sotto il profilo della fattibilità. I padiglioni, oggetto degli interventi di adeguamento, sono costituiti da un piano seminterrato, da un piano terra in parte destinato a reparto detentivo e in parte ad ospitare locali per attività trattamentali e depositi e da ulteriori tre piani destinati a sezioni detentive con le camere di pernottamento e i locali per la socialità ed il tempo libero; ad ogni padiglione è associato il cortile di passeggio per le attività all’aperto. La gara rimane aperta fino al 7 marzo. Trento: una Compagnia di detenuti, al Museo diocesano il teatro di Punzo di Gabriella Brugnara Corriere del Trentino, 26 gennaio 2017 La Compagnia della Fortezza raccontata dal regista Punzo "una rivoluzione potentissima". Oggi al Museo diocesano la "storia di un’utopia realizzata" che coinvolge i detenuti della casa di reclusione di Volterra Il drammaturgo: "Il mio è un lusso incredibile Posso lavorare con attori provenienti da tutto il mondo" "Ho scelto questa strada quasi trent’anni fa. Venivo dal teatro e sentivo l’esigenza di costruire una compagnia alquanto anomala, in un luogo particolare. Il mio approccio sin dall’inizio non è stato di tipo educativo e ho scelto il "non professionismo" perché mi interessava innanzitutto lavorare con delle "persone". Si chiama Compagnia della Fortezza, nasce come progetto di laboratorio teatrale nella casa di reclusione di Volterra nell’agosto del 1988, a cura di Carte Blanche e con la direzione del regista e drammaturgo Armando Punzo, che ce ne racconta alcuni dei tratti più significativi. Li approfondirà per il pubblico oggi alle 20.30 al Museo diocesano tridentino nell’incontro La Compagnia della Fortezza: storia di un’utopia realizzata. L’iniziativa si colloca nell’ambito della mostra Fratelli e sorelle: racconti dal carcere, fino al 27 marzo visitabile presso lo stesso Diocesano. Da "La gatta di Cenerentola" del 1989 a "Dopo la tempesta" del 2016: cos’ha visto cambiare nelle carceri in quasi trent’anni? "Il carcere di Volterra era uno tra gli istituti più chiusi in Italia, e il teatro vi ha introdotto una rivoluzione. La trasformazione si è rivelata potentissima e quel luogo non è più riuscito a essere quello che era. Sin dal primo anno, l’esperienza ha significato un’apertura a giornalisti e critici, e il carcere ha cominciato a ripensarsi. Noi eravamo degli osservatori esterni, il nostro obiettivo era di creare le condizioni per riuscire a lavorarvi". Fare della cultura un fulcro per migliorare la vita in carcere è dunque possibile? "Il problema della cultura, dell’arte, del teatro non è legato al detenuto ma all’uomo, in regime di detenzione o libero, di qualsiasi sesso, religione, razza. La questione è che il teatro ha la sua efficacia, pone l’uomo al centro e la possibilità di ripensarsi, vedersi, riflettere su di sé e sul mondo. Il teatro è soprattutto un modo per allontanarsi da sé, poi certo "si ritorna", ma ci auguriamo non uguali a prima. Il mio lavoro, dunque, non è legato solo alla condizione di detenuto, si fonda sulle potenzialità enormi dell’uomo". Il carcere è diventato un crogiolo di culture, etnie, lingue, religioni. Come ha adeguato il progetto alla nuova condizione? "All’interno del carcere è recluso tutto il Sud del mondo, e questo già fa pensare che ci debba essere una ragione sociale ed economica di difficoltà alla base della condizione di detenuto. Mi è capitato così di avere una compagnia internazionale, un lusso incredibile: sono infatti pochi i registi che si possono permette di lavorare con attori di tante provenienze. A Volterra, carcere maschile, ci sono cinesi, rumeni, pakistani, marocchini, albanesi, cittadini del Ghana, del Cile, dell’Ucraina. Molte persone parlucchiano l’italiano e li aiutiamo per la comprensione dei testi. Tra di loro c’è molta collaborazione. Anche dal punto di vista delle religioni la convivenza è notevole". E per quanto riguarda gli spazi a disposizione? "La compagnia varia tra i 60 e gli 80 attori, lavoriamo in una stanza di tre metri per dodici, in estate invece utilizziamo anche gli spazi esterni. Per questo, da 15 anni portiamo avanti l’istanza di un teatro stabile e sembra ci sia interesse da parte del Ministero della giustizia. Dalle nove e mezzo all’una, dalle tre alle sette, tutti i giorni sono in carcere. Oggi, anche a seguito dell’impegno per convincere i detenuti a mantenere delle condizioni ottimali per fare teatro, Volterra è uno dei carceri più all’avanguardia in Italia". Portate i vostri spettacoli anche in altri luoghi? Penso al nuovo carcere di Trento. "Collaboriamo anche fuori dall’Italia, sono nate esperienze in Cile e in Libano. Dove siamo chiamati e ci sono occasioni per avviare progetti diamo la nostra disponibilità. Tutto dipende dalle amministrazioni locali. Come decidono per le strade o per la sanità, dovrebbero esprimersi sul tipo di istituto che si prefiggono: chiuso, punitivo, senza speranza o come opportunità di educazioni e socializzazione. Quanto è accaduto in Toscana non è un caso, c’è una tradizione che risale al granduca Leopoldo, primo al mondo ad avere abolito la pena di morte". Al Diocesano racconterà la storia della Compagnia della Fortezza. Tra le tante immagini di questi trent’anni ce ne regala una? "Mi viene in mente la vicenda di Aniello Arena, ergastolano al termine del suo percorso. Il regista Matteo Garrone lo ha visto e lo ha voluto come protagonista del film Reality. Aniello sta continuando a lavorare con noi ed è impegnato anche in altre produzioni". Roma: "studiando in cella mi sono salvato", laurea all’ex presidente della Sicilia Cuffaro di Giovanna Cavalli Corriere della Sera, 26 gennaio 2017 L’ex presidente della Sicilia si è laureato in giurisprudenza alla Sapienza, tesi sul sovraffollamento carcerario. "Ogni sera, a mezzanotte, mi mettevo a studiare in cella, con un tubo del rotolo di carta igienica infilato sulla lampadina del letto, per illuminare il libro senza disturbare gli altri quattro che dormivano", ricorda la matricola universitaria n. 1441654 Salvatore "Totò" Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia condannato per favoreggiamento alla mafia e tornato libero più di un anno fa, mentre nella calca di laureandi, amici e parenti davanti all’Aula delle Lauree, al piano terra della facoltà di Giurisprudenza della Sapienza, in completo blu da ex senatore, camicia celeste, cravatta e righe oblique blu e azzurrine, media del 29, aspetta il verdetto della commissione. "Perché la giornata bene o male passa, con le voci, le urla, chi cucina e chi canta, ma le notti in carcere sono interminabili, solo con te stesso. Lo studio mi ha salvato". Si riaffaccia il segretario: "Cuffaro! Può rientrare". I suoi quattro anni e undici mesi dietro le sbarre di Rebibbia sono racchiusi nelle 98 pagine di tesi sul "Contrasto al sovraffollamento carcerario" che tiene sottobraccio. "Quando ho dato il primo esame, nella sala della prigione, la vera emozione è stata rivedere un bagno con la tazza, chi non lo prova non può capire". I commissari in toga, con il tocco sul tavolo, presieduti dal professor Guido Alpa, gli assegnano "110 con lode". Strette di mano, ringraziamenti. "È stato un allievo molto bravo, uomo forte, saldo", riconosce il relatore Giorgio Spangher, docente di diritto processuale penale, triestino. Il neo-dottore di 59 anni, che è medico "ma allora con la laurea si chiudeva un’età di spensieratezza", bacia la moglie Giacoma e la figlia Ida ("Mi chiamavano vasa-vasa, no?"), mentre il figlio Raffaele lo abbraccia: "Sono orgoglioso di te" e il fratello Silvio, sindaco di Raffadali, che lo chiama ancora "presidente", gli mette in testa una corona di rosmarino e peperoncini rossi. "Viene dalla mia tenuta agricola, produco vino, erbe aromatiche e fichi d’india. L’alloro non l’ho voluto, è un segno di potere e io con quello ho chiuso". Resta interdetto dai pubblici uffici. Sulle scale, tra cori goliardici e selfie, salgono a congratularsi i conterranei Saverio Romano e Renato Schifani con in dono un librone su Papi e Giubilei: "Ci voleva la laurea per rivederti con la cravatta, Totò". Giorno della memoria. Il monito di Bauman sulla Shoah: "attenti, l’orrore resta in agguato" di Frediano Sessi Corriere della Sera, 26 gennaio 2017 Fu la cecità della burocrazia moderna a rendere possibile lo sterminio. Un veleno mai debellato che circola ancora nelle vene della nostra società. Ancora oggi, quando si parla dello sterminio degli ebrei nell’Europa nazista, sono in molti coloro che fanno ricorso all’idea di follia collettiva, per spiegare questo male assoluto. Una follia collettiva non riconosciuta dai testimoni diretti, se pensiamo che già Primo Levi, nel 1975, scriveva di avere incontrato ad Auschwitz, tra le file degli aguzzini, uomini come lui, né pazzi e nemmeno sadici. Uomini comuni. Eppure, davanti a quel che resta dell’universo concentrazionario di Auschwitz è ricorrente il pensiero rivolto a quella parte demoniaca degli uomini che è sempre pronta a emergere nella storia, quasi che in ciascuno di noi fosse incistato un "piccolo Hitler", pronto a prevalere su tutto al presentarsi di una buona occasione. Lo stesso Zygmunt Bauman, nell’introduzione al suo saggio Modernità e Olocausto(domani in edicola insieme al "Corriere", con la prefazione inedita di Donatella Di Cesare), confessa di avere osservato lo sterminio degli ebrei in modo distratto, come fosse un evento straordinario, lontano dal quotidiano, fino a che la moglie Janina, scrivendo la sua storia di sofferenza e persecuzione nel 1986 (Inverno nel mattino. Una ragazza nel ghetto di Varsavia, il Mulino, 1994) non gli suggerì un nuovo modo di guardare all’Olocausto. Una tragedia che aveva colpito gli ebrei, ma che riguardava tutti e, in particolare, il nostro modo di stare dentro il quotidiano; capace di condizionare il nostro agire, oltre che di incidere sul nostro pensiero e sulle nostre scelte. Quando Bauman comincia a scrivere il saggio (siamo alla fine degli anni Ottanta) già alcuni storici hanno tentato di dare una visione globale dello sterminio nazista degli ebrei, senza tuttavia interrogarsi sul "perché" fosse accaduto, ma soffermandosi in particolare a ricostruire il "come", vale a dire ricostruendo quei meccanismi amministrativi e burocratici che avevano reso possibile lo scatenarsi della violenza. In particolare, tra gli studi che Bauman sembra privilegiare, emerge il saggio storico di Raul Hilberg La distruzione degli ebrei d’Europa (che oggi torna in libreria in una nuova edizione Einaudi). Proprio l’intuizione di Hilberg di considerare in prevalenza i documenti di parte nazista per spiegare il lavoro dei burocrati, frammentato e a volte anche caotico, che andava oltre l’odio rivolto agli ebrei (dato che molti di loro non erano antisemiti), sarà alla base della straordinaria intuizione di Bauman, che scorge nella "modernità" il motore dell’Olocausto. La civiltà moderna, scrive Bauman, caratterizzata da uno sfruttamento razionale delle risorse, materiali e umane, dalla tecnologia in continua evoluzione e da una evidente cultura burocratica alla base del funzionamento dello Stato e della società; con le sue quattro burocrazie principali (delle istituzioni pubbliche, delle forze armate, dell’economia e del partito) "ha rappresentato senza alcun dubbio la condizione necessaria", senza la quale l’Olocausto sarebbe stato impensabile. In questo modo, il sociologo di origine polacca si incamminava verso la spiegazione del "perché" quel male assoluto fosse stato possibile in una Germania e in un’Europa che avevano raggiunto livelli di civiltà e di cultura elevati. E tuttavia, al di fuori da ogni equivoco o semplificazione (che spesso sono stati causa di critiche ingiuste al suo lavoro), Bauman precisa fin da subito: "Ciò non significa suggerire che la portata dell’Olocausto fu determinata dalla burocrazia moderna o dalla cultura della razionalità strumentale che essa incarna, e ancor meno che tale burocrazia debba necessariamente sfociare in fenomeni simili all’Olocausto. Vogliamo però effettivamente suggerire - conclude - che le regole della razionalità strumentale sono singolarmente incapaci di impedire fenomeni del genere". Le conseguenze da trarre, sono un monito: senza la civiltà moderna, non vi sarebbe stato alcun Olocausto, perché "la distruzione di massa degli ebrei non fu solo una forma estrema di antagonismo e di oppressione" o di odio collettivo. Non dimentichiamo che l’antisemitismo da solo, nella storia, non aveva mai portato a simili tragedie. E in secondo luogo, quando si giunge "all’omicidio di massa", a causa della frammentazione dei compiti che si differenziano e si articolano in varie istituzioni e burocrazie pubbliche e private, "le vittime si ritrovano sole". La guerra degli Alleati contro i nazisti non poteva deviare i suoi progetti, per fermare le deportazioni e distruggere gli impianti di sterminio; le nazioni democratiche, a causa della crisi economica e alimentare, non erano in grado accogliere gli ebrei in fuga; il Vaticano doveva difendere le proprie chiese e i propri conventi dalla furia hitleriana, così come la Croce Rossa internazionale doveva tutelare i militari internati più che occuparsi della salvezza degli ebrei. Sono solo alcuni esempi della cecità burocratica e politica intrisa di modernità che provocò, nei fatti, l’abbandono degli ebrei a se stessi. Esistono dunque ragioni di preoccupazione se questa analisi è vera, scrive Bauman, "poiché oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che rese possibile l’Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi". La storia può dunque ripetersi? Per Raul Hilberg, sulla cui opera si fonda in gran parte l’acuta riflessione di Bauman, la storia si è già ripetuta; "nell’indifferenza e sotto gli occhi delle democrazie occidentali, si è concretizzata, in Ruanda, la tragedia dei Tutsi". L’abisso si è aperto di nuovo di fronte all’intera umanità. E quali sono, oggi i segni premonitori che gli Stati democratici e opulenti non sanno o non vogliono leggere? Per questo, ci ammonisce Bauman con preoccupazione e passione, "è sempre più necessario studiare la lezione dell’Olocausto. È in gioco molto di più che il tributo alla memoria di milioni di vittime". Il suo saggio, allora, ritorna a essere necessario, perché interroga il nostro agire di uomini, posti di fronte alle nuove vittime. Bauman, scrive Donatella Di Cesare, "ha fatto della Shoah il caleidoscopio attraverso cui guardare nell’abisso disumano" della modernità, suggerendo che "la frantumazione delle responsabilità", capace di allontanarci dalle conseguenze delle nostre azioni, è una delle eredità avvelenate di Auschwitz. Migranti. Minniti: "Cruciale collaborare con le Regioni" di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2017 Un piano migranti per l’Italia in linea con l’azione dell’Unione europea. Ieri Marco Minniti ha presentato ai presidenti delle Regioni le linee d’azione del modello Anci (associazione nazionale comuni d’Italia): distribuisce su tutto il territorio gli immigrati in arrivo. Ma lo slogan di Minniti è duplice: "Più si è severi con le irregolarità e più è possibile l’integrazione". Nel suo programma c’è un Cie (centri di identificazione ed espulsione) in ogni regione, escluse le più piccole. E non solo l’allargamento della platea dei 2.600 Comuni oggi impegnati per l’accoglienza. I flussi degli sbarchi, nonostante il pieno inverno, non si placano: dall’inizio dell’anno sono arrivati 2.788 stranieri sulle coste di Sicilia e Calabria. Troppo presto per fare confronti con gli anni passati, certo il 2016 è stato l’anno record con 181.436 sbarchi e la tendenza è tuttora costante. Tanto che il piano Anci si basa su una stima di arrivi 2017 pari a 200mila persone. "Serve un’iniziativa coordinata di carattere nazionale e internazionale - nota Minniti - parleremo al vertice a Malta dei ministri dell’Interno" oggi in programma. "E se ne discuterà il 3 febbraio nella conferenza dei capi di Stato e di Governo europei, che al centro ha proprio l’immigrazione". Le reazioni dall’estero - In sede Ue arrivano segni inequivocabili. Alcuni Stati cominciano a criticare la flessibilità di bilancio accordata all’Italia per l’intensità delle migrazioni: il fenomeno, dicono, non è eccezionale ma strutturale e prevedibile. Ancora più espliciti i segnali cominciati il 12 gennaio con la diffusione a tutti gli Stati membri di un "non paper" - un documento informale - redatto dalla presidenza di turno, quella maltese. Un testo durissimo. Ricorda la cifra "record 181.000" di sbarchi, quella dell’Italia. Sottolinea "un flusso irregolare in prevalenza di migranti economici" provenienti "dall’Africa subsahariana". La proposta è netta: un "firewall", vale a dire una sorta di muro da erigere davanti ai porti di origine. Il muro è lo schieramento davanti alle coste di Tripoli delle unità navali dell’Ue, già da mesi in attività con l’operazione Sophia. Se ci fossero le condizioni, potrebbero entrare anche nelle acque libiche o comunque, propone il "non paper", lavorare d’intesa con la Guardia costiera di Tripoli. Le linee del documento, ufficioso e riservato, ora escono allo scoperto. Ieri il collegio dei commissari Ue ha approvato il piano preparato da Federica Mogherini e Commissione Ue. Il 3 febbraio sarà sul tavolo del vertice informale alla Valletta: punta a bloccare i flussi verso l’Italia, se possibile, entro l’estate. Misure a breve e medio termine con un finanziamento da 200 milioni di euro per il 2017. Nel piano varato ieri si punta a rafforzare la guardia costiera libica che la Ue ha cominciato ad addestrare in autunno, il primo gruppo terminerà la formazione a metà febbraio. La Ue ha intenzione di accelerare il programma e sbloccare la consegna dei mezzi navali per operare nelle acque territoriali in collegamento con un centro di coordinamento destinato a diventare operativo in primavera con le informazioni dell’operazione Sophia e di Italia, Malta, Grecia, Cipro, Francia, Spagna e Portogallo. In questo scenario si muove il ministro Minniti. È stato già a Tunisi, Tripoli e La Valletta: le intese di cooperazione con gli Stati di origine e di transito dei flussi sono una priorità. I posti disponibili - Ma il ministro deve dare anche segnali sul territorio italiano. I posti disponibili nei Cie, dagli attuali 360, dovrebbero arrivare al più presto a 1.500. Allo studio dei tecnici del Viminale c’è anche un provvedimento normativo urgente. Così i gradi di appello nei ricorsi contro il diniego all’istanza di protezione internazionale si riducono a uno: la presenza prolungata dei richiedenti asilo nel sistema di accoglienza si riduce. I migranti, poi, non potranno iscriversi più all’anagrafe se non avranno un titolo valido: non basta più la sola domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma serve un permesso di soggiorno. E Minniti intende incrementare espulsioni e rimpatri. "Il Governo - ha detto ieri il titolare del Viminale a Montecitorio - vuole sviluppare un’attività organica sui flussi, i rimpatri e l’accoglienza diffusa. Di qui la circolare del capo della Polizia, Franco Gabrielli, per i piani straordinari di controllo del territorio ai fini del contrasto all’immigrazione irregolare". Osserva Riccardo Magi (Radicali Italiani): "La severità va usata anche con le cause di irregolarità. Bisogna superare la legge Bossi-Fini e premiare chi intraprende un percorso positivo, impara l’italiano e si mette a disposizione delle forze sociali e produttive del territorio che lo accoglie. Il lavoro - sottolinea Magi - può diventare uno strumento di emersione dalla clandestinità e di governo efficace dei flussi migratori". E nulla può far escludere che una volta varate le azioni di tipo securitario invocate da Minniti, in un futuro ravvicinato - ma non certo a breve scadenza - il governo delinei anche un’ipotesi di emersione dei migranti dal lavoro irregolare. Il coinvolgimento dei Comuni - Ma oggi tiene banco la richiesta di impegno ad accogliere gli stranieri destinata a tutti i Comuni e presentata dall’esecutivo in Conferenza Stato Regioni. "Lavoreremo ancora insieme nei prossimi giorni, non mesi; i tempi delle scelte saranno rapidi" assicura Minniti. Il piano Anci è stato accolto da giudizi contrastanti: secondo il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, il modello presentato "non ha visto un’opposizione o proposte alternative. Ci saranno prossimi incontri anche per incidere su questioni sollevate da alcuni presidenti". Tra i governatori di centrodestra, che hanno indetto una conferenza stampa alla Camera, il presidente della Lombardia, Roberto Maroni, si è mostrato più perplesso. Il ministro "a Milano, nei giorni scorsi, aveva parlato di Cie e di misure severe - ha fatto notare - oggi vedo una retromarcia e non vorrei si ritornasse al libro delle buone intenzioni". Più favorevole il giudizio del presidente della Regione Liguria e vicepresidente della Conferenza delle Regioni, Giovanni Toti: "Il piano presentato dal ministro Minniti mi sembra organico, venire a sedersi con i presidenti delle Regioni è un fatto costruttivo". Duro il il presidente del Veneto, Luca Zaia: "Serve un cambiamento di rotta e un processo organizzato". La parola finale spetta ai Comuni:?la loro adesione al piano Anci è su base volontaria. Migranti. La Ue affida a Tripoli il compito di bloccare i profughi blindando le coste di Luca Fazio Il Manifesto, 26 gennaio 2017 La Commissione europea, in vista della riunione dei capi di stato e di governo che si terrà a Malta il 3 febbraio, ha illustrato un piano per respingere i migranti in mare. Il lavoro sporco verrà affidato alle autorità libiche, con pattugliamenti davanti alle coste e la blindatura delle frontiere a sud del paese. Nel frattempo ieri il ministro degli Interni Marco Minniti ha ricevuto l’ok dei presidenti delle regioni italiane al suo nuovo piano sui migranti. "Più severità uguale più integrazione", un’idea che non è dispiaciuta al trio anti immigrati Zaia-Maroni-Toti. Nel mare non si possono costruire muri. Si può fare di peggio. L’Europa ha deciso di blindare le coste libiche con l’obiettivo di bloccare le partenze dei migranti diretti in Italia e Malta già la prossima primavera. Questa operazione è stata presentata ieri a Bruxelles dalla Commissione europea e dall’Alta rappresentante della politica estera Ue, Federica Mogherini, in vista della riunione dei capi di stato che si terrà a Malta il 3 febbraio. Il documento finale contiene belle parole che non dispiacerebbero al Papa: "Gestire meglio la migrazione e salvare vite lungo la rotta del Mediterraneo centrale", si legge nel testo che specifica misure concrete e immediate. Li chiamano salvataggi ma non sono altro che respingimenti in mare. Un blocco navale ("line of protection") gestito da Tripoli davanti ai porti e alle spiagge. Il lavoro sporco verrà affidato alle autorità libiche anche sulla terraferma, dove l’Europa però si impegna a "migliorare le condizioni di vita dei migranti e dei rifugiati in Libia e nei paesi limitrofi". Sembra che ci sia una gran fretta di scongiurare una nuova emergenza in Europa - più politica che umanitaria - chiudendo quel braccio di mare dove l’anno scorso sono morte più di 5 mila persone. Nel 2016 hanno attraversato il canale di Sicilia 181 mila migranti, il 18% in più rispetto all’anno precedente. Sul piatto, per ora, ci sono la miseria di 200 milioni di euro per la formazione e l’equipaggiamento della guardia costiera libica e per "migliorare la condizione per i migranti e intensificare i ritorni volontari assistiti". Federica Mogherini ha illustrato un progetto politico ambizioso (e irrealizzabile) che per ora si concretizza solo in una doppia operazione di polizia - prima in mare e poi sul confine sud della Libia - che di fatto servirà a braccare ed imprigionare sul suolo africano migliaia di esseri umani in fuga da guerre e miseria. "Non ci sono formule magiche ma azioni concrete - ha precisato - prima di tutto pace e stabilità in Libia e sviluppo reale dell’Africa con un piano di investimenti esterni, compact e pacchetti di aiuto con cinque paesi chiave, nel frattempo abbiamo bisogno di misure immediate". Rinforzare il pattugliamento libico e "il lavoro alle frontiere meridionali, tra Ciad e Niger, dove bisogna gestire una frontiera complicata". Mogherini dice che l’Ue è impegnata a sostenere le associazioni umanitarie "nella loro capacità di lavorare all’interno della Libia", dove, ammette, "la situazione dei migranti è molto grave sui diritti umani, soprattutto delle donne". La presunta concretezza esibita dalla Ue, sostegno alla marina libica a parte, si risolve in alcuni obiettivi piuttosto generici e velleitari. "Intensificare la lotta contro gli scafisti e i trafficanti" garantendo che la rete Sea horse Mediterraneo sia operativa entro questa primavera. E, naturalmente, distruggere i barconi in partenza. Poi "proteggere i migranti", sostenendo in qualche modo il lavoro dell’Unhcr e dell’Oim in un paese totalmente fuori controllo (per erogare servizi di base alla popolazione libica, agli sfollati e ai migranti ci sarebbero 20 milioni di euro). E, infine, anche un impegno a "rafforzare il dialogo e la cooperazione operativa" con tutti i paesi dell’Africa settentrionale. Questo piano di chiusura e respingimenti della Ue dovrebbe essere sostenuto da tutti i governi europei, compresi quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che sono contrari alla redistribuzione dei profughi e spingono per una politica di blocco delle migrazioni all’origine. Accontentati. Nel frattempo, prima di volare a Malta per mostrare all’Europa il volto inflessibile dell’italica determinazione, ieri il ministro degli Interni Marco Minniti ha incontrato i presidenti delle Regioni per uno scambio di valutazioni sul piano immigrazione. La sintesi della Conferenza Stato-Regioni, già scritta e piuttosto scontata, è un coro che dice "più severità uguale più integrazione". L’approccio muscolare del ministro non è dispiaciuto a nessun governatore, tanto meno al trio anti migranti Zaia-Maroni-Toti. Tutti si sono detti ben disposti a collaborare. "Abbiamo fatto un primo passo illustrando un programma complessivo che tiene conto di due elementi - ha precisato il ministro - la severità nei confronti di coloro che sono irregolari e non rispettano le leggi e insieme l’integrazione verso coloro che sono regolari e rispettano le leggi. Abbiamo deciso di lavorare insieme nei prossimi giorni, i tempi delle decisioni saranno particolarmente rapidi". Sempre ieri, a Roma, davanti al Pantheon, alcune associazioni che lavorano sui diritti dei migranti hanno protestato contro la riapertura dei Cie e gli accordi con la Libia e per chiedere l’apertura di un canale umanitario. Al grido "la vita vale molto più di una frontiera". Egitto. La polizia voleva incastrare Regeni di Edoardo Izzo La Stampa, 26 gennaio 2017 La pubblica sicurezza preparò la trappola e chiese al sindacalista di filmare il ragazzo La Procura di Roma ora indaga su cinque agenti egiziani: "Significativi passi avanti". Il sospetto dei magistrati italiani è che Abdallah, denunciando Regeni, volesse ottenere un profitto personale ed accreditarsi come collaboratore privilegiato della polizia. Si alza poco a poco la cortina di bugie e depistaggi disseminati dalle forze di sicurezza egiziane intorno alla morte di Giulio Regeni. La telecamera miniaturizzata in un bottone, con la quale il sindacalista Mohamed Abdallah ha ripreso la loro ultima conversazione, per gli investigatori italiani è un elemento importante. Dal video (in una parte non trasmessa) emerge infatti che Abdallah, subito dopo l’incontro con Regeni, chiamò la Nacional Security chiedendo: "Ora venite a prendervi gli apparecchi". La richiesta prova che l’uomo era un informatore che agiva agli ordini dei funzionari. Anche il contenuto della conversazione - con le ripetute richieste di denaro e il fermo rifiuto di Giulio - dimostra, secondo gli inquirenti, che c’era un piano preciso per togliere di mezzo il giovane ricercatore italiano, arrestandolo con l’accusa di corruzione. E forse Regeni comportandosi in modo del tutto corretto ha firmato senza saperlo la sua condanna a morte: è possibile che, non avendo prove per giustificare l’arresto e la conseguente espulsione, abbiano deciso di usare le maniere forti finendo con l’ucciderlo. Gli agenti della National Security (Servizi Segreti civili egiziani) negano ovviamente di aver chiesto loro ad Abdallah di girare il video e sostengono invece che sarebbe stato lo stesso sindacalista a farlo col cellulare consegnandolo poi alla polizia. Una ricostruzione giudicata dagli inquirenti italiani assolutamente non credibile. I primi incontri tra Abdallah e Regeni risalgono al dicembre 2015 e la denuncia del sindacalista alla polizia egiziana arriva in conseguenza di questi primi incontri e non il 7 gennaio 2016 come detto dalla procura del Cairo. Il sospetto dei magistrati italiani è che Abdallah, denunciando Regeni, volesse ottenere un profitto personale ed accreditarsi come collaboratore privilegiato delle forze dell’ordine egiziane. Ad un anno dalla scomparsa di Giulio Regeni, dunque, gli inquirenti italiani stanno compiendo finalmente significativi passi avanti verso la verità sulla scomparsa, sulle torture e sulla morte del ricercatore. Contribuiscono a chiarire il quadro proprio gli ultimi documenti trasmessi dal Cairo, dopo l’estenuante trattativa portata avanti dalla Procura di Roma. In particolare pochi giorni fa sono arrivati i verbali dei due agenti che hanno pedinato Regeni tra il dicembre del 2015 e il gennaio dello scorso anno e il rapporto del colonnello che ha svolto la perquisizione del 24 marzo scorso nell’appartamento dove furono trovati i documenti del ricercatore. L’immobile era nella disponibilità della sorella di un componente della banda dei rapinatori uccisi in una sparatoria (che in un primo momento gli egiziani avevano provato a spacciare come gli autori dell’omicidio). I magistrati italiani ora puntano a individuare gli appartenenti alla National Security che hanno effettuato controlli su Giulio e quelli che sono entrati in possesso dei suoi documenti. Inoltre si attende l’esito di una perizia affidata ad un gruppo di esperti tedeschi incaricati di tentare di recuperare dai filmati delle stazioni della metropolitana del Cairo in cui il giovane ricercatore sarebbe transitato il 26 gennaio dello scorso anno prima di sparire nel nulla. "La Procura di Roma è impegnata in una ostinata ricerca della verità", spiegano a piazzale Clodio. "È un lento cammino ma ha permesso di registrare significativi passi avanti", sottolinea chi indaga e non dimentica che si è partiti da una ipotesi tutta di criminalità comune e attività poco chiara di Giulio. "Il ragazzo - danno atto i magistrati romani - era invece un onesto, serio, ricercatore che stava conducendo i suoi studi". Egitto. Io, torturato come Giulio Regeni, vi racconto i soprusi nelle carceri egiziane di Lara Tomasetta tpi.it, 26 gennaio 2017 Ahmed Said, chirurgo egiziano che oggi vive in Germania, racconta la prigionia, le violenze subite e di quando chiese la verità sulla morte del ricercatore italiano. Ahmed Said è un chirurgo, un attivista per i diritti umani e uno scrittore. Ha conosciuto la prigionia, le torture egiziane, la violenza e le ingiustizie del regime e si è battuto per essere un uomo libero. Ahmed vive da anni in Germania, ma dal 2011, ogni novembre, torna al Cairo, in Egitto, per un’occasione particolare: le manifestazioni in ricordo di 47 giovani uccisi dalla polizia durante uno scontro di piazza avvenuto sei anni fa nella capitale egiziana. Ma il viaggio del 2015 gli costò caro. Il 19 novembre di quell’anno Ahmed fu arrestato dalla polizia mentre curava i manifestanti feriti in piazza. Rimase in carcere per dodici mesi, nonostante la condanna iniziale fosse di due anni. Il suo arresto scatenò una mobilitazione internazionale. "Loro pensano veramente che sradicando le persone che credono in un’idea si possa uccidere l’idea stessa", scriveva Ahmed in una lettera pubblicata da Amnesty International per rendere noto il suo caso. "Ma io ho fatto ciò che ho fatto per essere un uomo libero, e per riprendermi la mia libertà prima che diventasse solo un ricordo". Durante la sua prigionia Ahmed venne a conoscenza dell’uccisione di Giulio Regeni e proprio per lui realizzò una maglietta che il 3 febbraio 2016 uscì clandestinamente dalla prigione di massima sicurezza di Tora, al Cairo. "A uccidere Giulio Regeni sono stati gli apparati di sicurezza egiziani, gli stessi che nel giugno 2010 massacrarono fino a renderlo irriconoscibile, un giovane egiziano (Khaled Said)", riportava un messaggio sulla maglietta. "E fu proprio dall’indignazione per la morte brutale di quel ragazzo che nacque la primavera egiziana del 2011". Ahmed Said racconta dei giorni di prigionia e del caso Regeni… Sono un chirurgo e un attivista, ho condiviso i principi della rivolta egiziana del 2011 e degli anni successivi e ho condiviso la lotta contro i Fratelli musulmani. Mi hanno arrestato il 19 novembre 2015 in piazza al Cairo, mentre prestavo soccorso a manifestanti rimasti feriti durante i tafferugli. Le motivazioni addotte per il mio arresto sono state "manifestazione senza permesso e minaccia per la sicurezza nazionale". La sentenza prevedeva due anni di carcere, ma sono stato rilasciato l’anno dopo. Hai subito torture durante il periodo di detenzione? Sì, con scosse elettriche e altre forme di violenza. Per esempio mi spegnevano le sigarette addosso. Chi erano gli autori delle torture? Un poliziotto dell’agenzia di sicurezza nazionale. Il periodo delle torture è durato molto? No, solo durante i primi giorni di detenzione, quattro per la precisione, poi la pressione dei media si è fatta più forte, proprio quando si è diffusa la notizia del mio arresto. Anche il ministero degli Esteri tedesco si è adoperato per la mia causa. Ma cosa volevano sapere, perché ti torturavano? Volevano informazioni riguardo gli attivisti egiziani e la mia possibile connessione con alcuni politici tedeschi. Te la sentiresti di raccontare il tipo di torture alle quali sei stato sottoposto? In realtà non mi piace ricordare quei momenti, ma ti assicuro che è stata un’esperienza orribile che non auguro a nessuno. Spero nessuno altro sia mai costretto a vivere tutto questo. Come sei sopravvissuto? Ancora non lo so in realtà, ma ho sempre pensato che non sarebbe durato per sempre, che presto tutto sarebbe finito. Durante la prigionia hai avuto modo di contattare un avvocato o l’ambasciata tedesca? No, non mi era permesso. In prigione non potevo nemmeno ricevere messaggi, libri o giornali. E chi ti ha aiutato? Quando si è venuto a sapere del mio caso moltissime persone e organizzazioni, dentro e fuori l’Egitto, hanno voluto aiutarmi. In tribunale c’erano esponenti dell’Assemblea generale dell’Onu, membri del parlamento e dell’ambasciata tedeschi, ma non potevano farmi visita né parlarmi. Com’è la situazione in Egitto oggi? Sono solito dire che oggi l’Egitto è sotto l’occupazione militare, e puoi immaginare quello che voglio dire. Conoscevi Giulio Regeni? Venni a sapere di Giulio mentre ero in prigione e scrissi sulla mia maglietta, nella parte interna, "Chi ha ucciso Giulio Regeni? Domanda Khalid". Cosa pensi del caso Regeni? Le persone prima di tutto devono sapere che chiunque può scomparire, essere torturato e ucciso in Egitto. Credo che Giulio sia stata una delle tante vittime della dittatura dei militari. È stato rapito e torturato dai funzionari egiziani del servizio di sicurezza, come accade ormai tutti i giorni ad altri egiziani. Regeni è un nuovo simbolo per noi, un simbolo dei diritti umani e dei difensori della libertà in Egitto. Ha pagato con la vita il prezzo di aver detto la verità su questo paese ed è nostro dovere lottare per far luce su quello che gli è accaduto. Stati Uniti. Human Rights Watch: "Trump vuole restaurare torture e carceri segrete" si24.it, 26 gennaio 2017 Secondo l’associazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch, Donald Trump vuole restaurare le torture. Si parla nello specifico di metodi di interrogatorio rafforzato da parte della Cia, in carceri segrete: "La bozza di decreto preparata dalla Casa Bianca autorizza la Cia a ripristinare il proprio programma di detenzione che è stato fonte di così tante torture da indebolire la sicurezza nazionale". Le associazioni esortano dunque il Congresso a intervenire e a "difendere la Costituzione e la legge internazionale sui diritti umani". Secondo HRW, il neo presidente "vuole riempire di nuovo Guantánamo e c’è la possibilità che riapra anche le carceri segrete in territori stranieri", soprannominate "dark sites". Secondo quanto riporta il Washington post, infatti, l’amministrazione Trump avrebbe siglato un ordine esecutivo in cui si chiede la revisione del programma di interrogatori della Cia, smantellato nel 2009, autorizzando l’agenzia di intelligence a riaprire le "carceri segrete" all’estero. Il decreto, secondo il quotidiano, revocherebbe la decisione dell’ex presidente Barack Obama di porre fine al programma della Cia e ripristinerebbe, allo stesso tempo, i metodi varati dal 2007 dall’allora presidente George W. Bush, ampiamente condannati e ritenuti metodi di tortura. Quanto al divieto temporaneo ai migranti di entrare nel Paese che Trump sta per imporre, Hrw parla di una politica "particolarmente brutta" che potrebbe anche violare la Costituzione Usa. Trump, secondo il leader Kenneth Roth "sta cercando di bloccare l’ingresso di migranti negli Stati Uniti apparentemente per motivi di sicurezza". In realtà, invece, lo starebbe facendo "per cercare di segnare un punto politico. È come se Trump fosse indifferente alla sofferenza che molti dei rifugiati hanno vissuto. Molte di queste persone sono in fuga dall’Isis o dagli equivalenti dell’Isis in tutto il mondo". Trump, intanto, ha siglato un ordine esecutivo per destinare fondi federali alla costruzione di un muro alla frontiera con il Messico e di più spazi detentivi lungo il confine. Un secondo ordine prevede lo stop alla politica del "cattura e libera" di Obama e ai finanziamenti alle "città-santuario" che proteggono gli illegali, oltre a un potenziamento dei rimpatri. Stati Uniti. La guerra agli stranieri della "nazione di immigrati" di Luca Celada Il Manifesto, 26 gennaio 2017 La linea dura sull’immigrazione è una vittoria per l’ala suprematista che fa capo a Steve Bannon. Al quinto giorno l’uomo forte si occupo’ di immigrazione. Il decreto esecutivo che prende di mira profughi di "paesi a rischio", le città "disobbedienti" e autorizza la costruzione del decantato muro di confine formalizza la guerra agli stranieri della "nazione di immigrati" e tiene fede a uno dei cardini della demagogia populista che ha portato Trump ad usurpare la Casa bianca. L’azione annunciata durante una visita al dipartimento di Homeland Security si sviluppa su diversi fronti. Innanzitutto blocca il rilascio di visti a cittadini di Irak, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, una mossa simbolica dato che all’atto pratico i visti rilasciati in quei paesi sono già quasi inesistenti. Lo stop all’asilo per i profughi siriani invece oltreché crudele è risibile visto che i rifugiati accolti ad oggi dagli Stati uniti sono una frazione di quelli degli altri paesi. L’anno scorso l’asilo è stato concesso a 10.000 siriani. Nello stesso periodo ne sono arrivati in Europa più di un milione. Il vicino Canada con una popolazione un decimo di quella degli Usa ne ha accolti 30.000. I dati non impediscono che nella narrazione "popolare" trumpista, si tratti invece di una marea di sospetti terroristi che valica la frontiera senza controllo alcuno per ingrossare cellule dormienti di Isis nelle città americane. Una palese fallacia innanzitutto perché il processo d’asilo è oltremodo severo e prevede molteplici verifiche, controlli strettissimi e numerose interviste. C’è poi il fatto che gli attacchi terroristici che si sono effettivamente verificati su suolo americano, compresi quelli di Boston, Orlando e New York, sono stati messi a segno non da profughi siriani ma da oriundi di seconda generazione. Tutti dati messi da parte dai "fatti alternativi" di Trump che motivano anche la famigerata muraglia del sud, caposaldo della campagna elettorale e la promessa più frequentemente ripetuta da Trump al suo zoccolo duro. Accolto con cori da stadio nei comizi elettorali, il muro che dovrebbe sigillare la frontiera col vicino meridionale verrebbe in realtà eretto in un periodo di stabile decrescita dell’immigrazione clandestina. Come rilevato dalle analisi del Pew Research Center il numero dei passaggi clandestini è iniziato diminuire stabilmente dal 2007, principalmente per effetto della crisi economica. Nel 2009 vi erano 6,4 milioni di messicani clandestinamente residenti nel paese, ora del 2014 erano scesi a 5,6 milioni e continuano ad essere più numerosi quelli che rientrano a casa di quelli che vanno verso nord. Sono solo dati statistici e quindi irrilevanti ai fini di una psicosi alimentata ad arte e che dalla notte dei tempi trova nello straniero invasore uno dei meccanismi più affidabili. Il rancore su cui fa leva non ammette logica, a partire dalle oggettive difficoltà logistiche per costruire il vallo anti invasione. Il confine attraversa infatti 3.200 km di terreno oltremodo accidentato che comprende tratti del Rio Grande, impervie catene montuose, terreni agricoli e agglomerati urbani oltre che sterminati tratti di deserto in Texas, New Mexico, Arizona e California. Il costo dell’opera faraonica viene stimato in 20 miliardi di dollari che rimangono da stanziare. Anche con un congresso favorevole, a maggioranza repubblicana la costruzione dovrà superare numerosi ostacoli di ingegneria e relativi all’esproprio di terreni privati (e alcune riserve indiane, come quella dei Tohono Odham in Arizona.) Anche su questo progetto pesa il lecito sospetto quindi di una operazione principalmente demagogica, tanto più che una legge sul completamento di una fence, un reticolato esiste già. Centinaia di chilometri di confine sono già protetti da una barriera fortificata ma il realtà è un deterrente meno efficace degli ostacoli naturali come il deserto che miete centinaia di vittime ogni anno. La linea dura sull’immigrazione rappresenta invece una vittoria per l’ala populista del governo Trump che fa capo a Steve Bannon, principale esponente Alt Right del gabinetto e suprematista "anti-multiculturale" per utilizzare un eufemismo. Torvamente significativo infatti è l’esplicito avvertimento alle "sanctuary cities", le numerose città che hanno già annunciato che non intendono collaborare con le retate anti-immigrati. Il giorno dopo aver paventato l’invio di "forze federali" a Chicago, la minaccia di ritorsioni contro le grandi città apre un altro fronte. Una guerra che Trump dichiara soprattutto agli ispanici, 12 milioni di clandestini, 750.000 studenti amnistiati da Obama ma anche i 56 milioni di residenti legali. Non è casuale il concomitante surreale capitolo che riguarda i presunti dilaganti brogli elettorali: la bizzarra decisione di Trump di continuare a rilanciare l’accusa su una mastodontica frode che dovrebbe spiegare come abbia perso il voto popolare per 2,7 milioni di preferenze. L’ipotesi della congiura di immigrati clandestini per inquinare le elezioni ricorre da tempo in ambienti complottisti estremisti salvo venire regolarmente smentita da ogni analisi e non solo "di sinistra". Un’inchiesta approfondita del Wall Street Journal ha di recente comprovato un totale di nove singole irregolarità rilevate su centinaia di milioni di voti. Il vero obbiettivo tuttavia è di alimentare la psicosi e di inibire l’accesso al voto delle minoranze. Per la destra si tratta di un obbiettivo storicamente cruciale. Il progetto comprende l’erosione del voting right act che per garantire il diritto di voto ai neri aveva commissariato gli stati ex confederati. Quella di Trump è un’accelerazione per chiudere un partita chiave per il futuro politico della destra; un’operazione che nell’America multietnica rischia di rivelarsi un pericoloso vaso di Pandora. L’altro ieri il governatore della California ha formulato così la risposta al presidente: "Voglio essere chiaro. Difenderemo ogni uomo donna e bambino giunto qui per alla ricerca di una vita migliore e per contribuire a migliorare il nostro stato. Oggi e per sempre!". Per coincidenza al Sundance lo stesso giorno si proiettava Bushwick un indie di fantapolitica in cui un esercito mercenario degli stati sudisti attacca New York provocando un bagno di sangue. Come accade ormai per molta "sci-fi" la metafora è parsa meno fantascientifica del previsto. Stati Uniti. Detenuto in attesa di giudizio... da 40 anni di Paolo Delgado Il Dubbio, 26 gennaio 2017 Forse è il caso di detenuto in attesa di giudizio più lungo della storia. Jerry Hartfield è accusato di un crimine commesso nel 1976 ed ha subìto un regolare processo solo nel 2015. Nel frattempo è rimasto in galera. Quando finalmente il processo è stato celebrato, le prove erano diventate irreperibili e i testimoni erano quasi tutti scomparsi. Il che non ha impedito alla giuria di emettere una sentenza di condanna che però è stata annullata nei giorni scorsi, come riporta "Nessuno tocchi Caino", l’associazione italiana che si batte contro la pena di morte. La Corte d’Appello del Texas per il 13° Distretto ha annullato tutte le accuse contro Hartfield, ex condannato a morte. Sessant’anni, nero, con Quoziente di intelliogenza molto basso, tra i 50 e i 60 punti, Hartfield era stato condannato a morte nel 1977 con l’accusa di aver molestato sessualmente e poi ucciso a scopo di rapina, il 17 settembre 1976, una bianca di 55 anni, Eunice Lowe. Tre anni dopo, nel 1980, il verdetto fu annullato dalla Texas Court of Criminal Appeals per irregolarità nella formazione della giuria popolare. La pubblica accusa impugnò l’annullamento del processo e della conseguente condanna. La sentenza di annullamento, però, venne confermata nel 1983. Di fatto, da quel momento, Hartfield si trova in carcere senza aver subìto un regolare processo e senza alcuna condanna. Poco prima che l’annullamento divenisse definitivo, infatti, l’allora governatore del Texas, Mark White, aveva commutato la condanna capitale in ergastolo senza condizionale. Una scelta umanitaria solo in apparenza. In realtà secondo molti esperti si trattava di una strategia studiata a tavolino dall’accusa per parare il colpo della sentenza annullata. La strategia funzionò. Hartfield fu letteralmente "dimenticato" in carcere per 23 anni, fino al 2006. L’equivoco di fondo, in assenza di una adeguata assistenza legale, era quello di far scontare una condanna all’ergastolo emessa dopo un processo dichiarato irregolare e che pertanto avrebbe dovuto essere ripetuto. In certi casi l’assistenza legale è tutto, e negli Usa anche più che altrove. Nel 2006 Hartfield riuscì a segnalare il suo assurdo caso solo grazie un compagno di detenzione che lo aiutò a scrivere (a mano) un ricorso, in cui chiedeva di essere riprocessato oppure liberato perché contro di lui non era stata rispettata la norma costituzionale che garantisce a ogni cittadino il diritto a "un processo in tempi rapidi". La Corte d’Appello lesse e rigettò il ricorso. La giudice federale Lynn Hughes, invece, prese la decisione opposta e accolse il ricorso. Riconobbe che l’annullamento del verdetto di colpevolezza aveva la precedenza sulla commutazione, che quindi doveva essere considerata nulla come nullo doveva essere l’ergastolo. Si trattava infatti di una condanna emessa in assenza di un verdetto di colpevolezza. La serie di ricorsi proseguì ancora per anni, tutti anni trascorsi da Hartfield nelle carceri del Texas. Solo nel giugno 2013 la Texas Court of Criminal Appeals confermò che, allo stato, Hartfield era detenuto senza una sentenza. E a quel punto la pubblica accusa si dichiarò pronta a ripetere il processo. Hartfield restò comunque in carcere. Nel 2014, infatti, un giudice statale (Craig Estlinbaum) negò di nuovo la scarcerazione sostenendo che il ritardo nel ripetere il processo era imputabile all’imputato. In fondo era stato lui a non averlo sollecitato per tempo. Quando finalmente il nuovo processo, cioè il primo regolare processo, si svolse, si concluse con un verdetto di colpevolezza, emesso nell’agosto 2015 dalla giuria popolare. Nei quasi tre decenni trascorsi dal primo processo però ci sono stati alcuni cambiamenti rilevanti. Condannare a morte un portatore di disabilità mentale è stato dichiarato incostituzionale, e quindi la pena capitale non poteva più essere chiesta. La pena dell’ergastolo senza condizionale, in compenso, non era prevista dal codice al momento del delitto. Quindi neppure questa condanna poteva essere richiesta. La pubblica accusa, anche nella speranza di smorzare le polemiche, si "accontentò" pertanto di chiedere, e ottenere, una condanna a 99 anni. A prima vista si potrebbe dire che finalmente Hartfield era in carcere a ragion veduta. Mica vero. Se la stessa condanna fosse stata emessa nel 1977, il detenuto avrebbe già ampiamente maturato i termini per la libertà condizionale. Così invece niente da fare: i precedenti 40 anni spesi in galera erano una specie di "bonus" carcerario. Ora però la Corte d’Appello ha deciso che le imputazioni devono essere lasciate cadere perché non si è mai visto nella storia del Texas un tale ritardo nel garantire un processo a un imputato. La Corte ha ricordato di essersi in precedenza occupata di casi in cui il ritardo contestato era di 3 anni, 6 anni, 8 anni. Ma un ritardo di 32 anni, partendo dalla conferma nel’ 83 dell’annullamento del primo processo, non si era mai vista. Non è chiaro se nel corso dei decenni i rappresentanti della pubblica accusa che si sono avvicendati nell’incarico siano stati consapevoli delle gravi irregolarità nel caso Hartfield. Consapevoli o meno, di certo c’è solo che nessuno ha fatto niente. La pubblica accusa, in occasione del processo del 2015, ha sostenuto che quella di rimanere in silenzio senza insistere per un nuovo processo fosse una lucida strategia adottata dall’imputato, che avrebbe preferito restare nel limbo piuttosto che rischiare di essere ri- condannato a morte. La verità è che i "vecchi" difensori d’ufficio di Hartfield lasciarono l’incarico nel 1993 convinti di aver esaurito il loro compito, e un nuovo avvocato gli venne assegnato solo nel 2008 da un giudice federale. Anche lo svolgimento dei processi presenta aspetti a dir poco discutibili. Il primo processo fu incentrato su una confessione (poi ritrattata) dell’imputato, e soprattutto sul fatto che, a dire degli inquirenti, Hartfield aveva dato informazioni utili per il ritrovamento dell’ automobile della vittima. I difensori all’epoca contestarono però il comportamento della polizia, sostenendo che il basso QI dell’imputato lo rendeva estremamente "manovrabile". Nel nuovo processo del 2015 la pubblica accusa è riuscita a riportare in aula solo uno dei 16 elementi probatori iniziali. L’arma del delitto (un’accetta) nel frattempo è stata smarrita, così come sono andati perduti i reperti fisiologici (sangue e sperma per eventuali test del dna mai effettuati), manca l’auto della vittima, i testimoni sono quasi tutti morti, e uno dei sopravvissuti è affetto da demenza senile. Eppure anche in simili condizioni Hartfield è stato di nuovo processato, e condannato. Ora quella sentenza è stata annullata, con l’obbligo per la pubblica accusa di ritirare tutte le imputazioni e se la decisione reggerà all’eventuale ricorso della pubblica accusa davanti alla Corte d’Appello di Stato (la corte d’appello di grado superiore rispetto alla corte d’appello distrettuale che ha deciso oggi), Hartfield sarà scarcerato. Per ora, comunque, resta dove è sta da una quarantina d’anni tonda: in galera. Palestina. Adel, il comico di Gaza arrestato per il suo video: "Hamas non sa ridere" di Davide Frattini Corriere della Sera, 26 gennaio 2017 Su Youtube la satira sull’elettricità che manca. E arrivano i poliziotti. Racconta che da ragazzino entrava nei negozi, indossava i vestiti che non poteva permettersi, si guardava allo specchio prima di toglierseli per riportare a casa il ricordo di quei dieci minuti alla moda. Ad Adel Meshoukhi il detto "ridere per non piangere" si adatta come i jeans provati nelle sue sfilate malinconiche, è uno dei comici più popolari perché quanto lui i palestinesi di Gaza sono ormai rassegnati a sogghignare delle loro miserie. Raccontano che sono venuti a prenderlo poche ore dopo il video pubblicato su Youtube, che i poliziotti si sono pressati dentro al vicolo come un tappo di divise per non lasciarlo parlare con i fratelli o i vicini di casa. "Se l’aspettava" dice Iyad Odeh, suo compagno di scuola alle elementari. Quel filmato in cui per un minuto e mezzo urla a squarciagola "elettricità, elettricità, elettricità" per finire "basta con Hamas" è stato visto in poco tempo da 150 mila persone, troppe per i fondamentalisti che spadroneggiano nella Striscia. Troppe e su una questione troppo sensibile: per mesi il gruppo al potere ha garantito solo tre ore di energia al giorno per i 2 milioni di abitanti ammassati tra Israele e il Mediterraneo. Adel è rimasto in carcere dall’11 gennaio fino a ieri, ogni giorno la madre si è presentata alla prigione di Ansar per chiedere che venisse rilasciato. "Aveva paura delle botte, di venire picchiato durante l’interrogatorio" spiega il fratello Ismail, undici in famiglia, il padre è morto due anni fa. "Non sopporta la violenza, era entrato nella polizia e dopo qualche mese si è sparato a un piede, forse per sbaglio, più probabile per essere congedato". Il comico è tornato e con lui qualche ora di elettricità in più, adesso sono otto, mai di fila. "Non è abbastanza", si lamenta Iyad che possiede un piccolo negozio. "Quando il frigorifero non funziona, devo buttare la merce". I clienti sono comunque pochi, Shabura - dov’è cresciuto con Adel - è uno dei quartieri più poveri di Rafah, cubi di cemento lanciati come un tiro di dadi sfortunato sulla sabbia del deserto al confine con l’Egitto. Di Che Guevara, così gli piace farsi chiamare, ha la barbetta scura e un berretto quasi rivoluzionario. Ne imita anche lo sguardo di sfida mentre tira fuori dalla tasca i quattro mandati d’arresto che i servizi di sicurezza hanno lasciato a casa sua, assieme al messaggio scandito al padre: "Tuo figlio lo ammazziamo". Negli stessi giorni in cui Adel girava con un telefonino il suo video, Mohammed Al Teluli era impegnato a organizzare quella che è diventata la più grande manifestazione anti-Hamas da quando l’organizzazione nel 2007 ha strappato il controllo di Gaza all’Autorità palestinese. Oltre cinquantamila persone hanno formato un corteo che dal campo rifugiati di Jabalia, dove trent’anni fa è scoppiata la prima intifada contro gli israeliani, ha marciato verso gli uffici dell’azienda elettrica. "Non ci siamo arrivati, i miliziani hanno cominciato a tirare pietre contro di noi e a caricarci con i bastoni". Gli arrestati sono stati duecento ormai quasi tutti liberati. Quello che preoccupa i capi di Hamas e i Paesi che li sostengono come il Qatar o la Turchia è quanto le proteste ricalchino i primi giorni delle rivolte arabe di sei anni fa. Mohammed, 25 anni e laureato in comunicazione, ha diffuso gli appelli via Facebook ("per far funzionare il wi-fi basta la batteria di un’auto") ed è sui social media che i palestinesi riversano il sarcasmo della disperazione. Mia moglie: "Quando torna l’elettricità?". Io: "Che cos’è?", scrive Musab Abu Toha. Oppure Gada Al Haddad: "Quali sono gli sforzi che i nostri governanti stanno compiendo per risolvere la crisi? Organizzarsi il prossimo banchetto". È anche la prima volta in cui il "nemico" Israele sembra restare fuori dalla rabbia e dai discorsi. I leader fondamentalisti sostengono che la colpa delle carenze di energia sia dell’embargo imposto dagli israeliani, che comunque forniscono il 26% del fabbisogno. Mahmoud Al-Zaq, politico indipendente, ha fatto invece i conti nelle casse di Hamas e sostiene che la crisi energetica sia pilotata dall’organizzazione. "È una strategia per premere sui Paesi donatori. Dopo le manifestazioni il Qatar ha subito sborsato 12 milioni di dollari, che però non verranno usati per l’elettricità". Elenca: "Hamas raccoglie ogni mese 28 milioni di shekel (quasi 7 milioni di euro) in bollette dalla povera gente e anche questi soldi non sono investiti nella centrale: basterebbero a far funzionare i due generatori fermi, sono stati riparati dopo essere stati distrutti dai bombardamenti israeliani. Un ministero potente come quello degli Affari religiosi, che gestisce 2.000 moschee, non sborsa nulla. Noi dobbiamo pagare la bolletta, cifra fissa anche quando restiamo al buio e al freddo".