Le carceri cambiano se cambiano gli italiani di Pietro Ichino (Senatore Pd) L’Unità, 25 gennaio 2017 Una delle piaghe della giustizia che abbiamo di fronte è la divaricazione impressionante tra la realtà sociale, nella quale la criminalità è fortunatamente in continua diminuzione da almeno dieci anni, e l’immagine del fenomeno diffusa dai media, soprattutto dalla televisione, che convince invece l’opinione pubblica di un aumento della criminalità, alimentando un senso crescente di insicurezza, di paura. Dal senso di insicurezza e di paura alla parola d’ordine "schiaffarli in galera e gettare la chiave" il passo è brevissimo. Al convegno di Padova, mentre parlava Giovanni Maria Flick, ispirato dalle sue parole ho fatto questo tweet: "Padova: G.M. Flick interviene sul paradosso dell’ergastolo, che la Consulta giudica costituzionale solo in quanto non venga applicato davvero". La prima risposta che ho ricevuto è questa: "Io sto con Abele, non con Caino. Dobbiamo pensare alle vittime, non ai criminali". Oggi la maggior parte della gente ragiona così. E questo si riflette sugli orientamenti di un ceto politico debole, incapace di svolgere autorevolmente un ruolo pedagogico, di guida, nei confronti dei propri elettori. Ne ho avuto la diretta percezione quando due anni fa, insieme ad altri senatori, scrivemmo una lettera al Presidente del Senato e al Presidente della Commissione Giustizia chiedendo che questa dedicasse un’audizione, nella sede di Palazzo Madama, a un gruppo di condannati all’ergastolo e detenuti in regime di articolo 41-bis. Nel presentare quella proposta osservavamo che il Parlamento ascolta tutte le categorie dei cittadini, tutti i segmenti della società civile: è dunque doveroso che esso ascolti anche queste persone, che sono in stato di detenzione nelle condizioni più dure, che fanno pur sempre parte anch’esse della società civile. La nostra proposta venne respinta sulla base di questo solo argomento: "La gente non capirebbe". Non valse a nulla la nostra replica: "Tocca a noi far capire alla gente perché compiamo questo gesto: ce lo impone l’articolo 27 della Costituzione". Orientare l’opinione pubblica Siamo dunque di fronte a un difetto della politica, che rinuncia a (perché non è capace di) orientare l’opinione pubblica in direzione della soluzione migliore dei problemi. In qualche misura il ministro Andrea Orlando, invece, lo ha fatto, nei giorni scorsi, quando nella sua relazione al Senato sullo stato della Giustizia in Italia ha indicato come risultato positivo conseguito e da rafforzare "un nuovo e più maturo equilibrio del rapporto fra presenze carcerarie ed esecuzione penale esterna, ormai quasi paritario" e "l’ampliamento dei presupposti per l’accesso alle misure alternative, l’introduzione dell’istituto della messa alla prova per gli adulti (...) un sistema di probation ampio ed effettivo", esteso a tutte le pene, senza preclusione per quelle di maggiore durata. Ma credo che si possa chiedere al Governo anche qualche cosa di più. Aspettiamo ancora una risposta all’interrogazione presentata esattamente un anno fa in tema di articolo 41-bis, per esplicitare in Parlamento le opinioni che su questo tema so essere condivise dallo stesso sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore e dal ministro Andrea Orlando. Quell’interrogazione, nata da un incontro nel carcere di Parma, a cui partecipavano vari detenuti in regime di 41-bis, denunciava che "là dove viene applicato il regime previsto da questa norma dell’ordinamento penitenziario, vengono invariabilmente disposte anche misure che appaiono - salvo casi particolari - incongrue rispetto alle esigenze di sicurezza che il regime deve soddisfare; in particolare: - la limitazione dell’orario dei colloqui con i familiari della persona detenuta a una sola ora al mese; - la regola della rigida invariabilità del giorno e dell’orario fissati dall’amministrazione penitenziaria per il colloquio coi familiari, per cui il colloquio salta anche quando questi ultimi abbiano subito un impedimento oggettivo a presenziare al colloquio (per esempio a causa di uno sciopero dei mezzi di trasporto); - la regola per cui le conversazioni telefoniche consentite tra la persona detenuta e i familiari possono avvenire soltanto a condizione che questi ultimi si facciano trovare per la chiamata presso un carcere; - il divieto di cucinare i propri alimenti in cella; e osservavamo che "la previsione legislativa rigida dei contenuti della misura, i quali non sono dunque più modulabili dal ministro a seconda delle circostanze concrete, ha indebitamente introdotto una rigidità del sistema (...); resta non previsto e non disciplinato il dovere di consentire anche ai detenuti in regime di 41-bis, nonostante le limitazioni necessarie, di usufruire di istituti e strumenti per intraprendere e proseguire il percorso rieducativo (cultura, istruzione, assistenza religiosa ove richiesta dalla persona interessata, osservazione e colloqui con gli educatori, contatti con persone esterne adeguatamente selezionate: i colloqui con persone diverse dai familiari sono autorizzati solo in via eccezionale, caso per caso, dalla Direzione); donde un profilo assai rilevante di possibile violazione dell’art. 27, comma 3, della Costituzione". Mi chiedo quindi perché non facciamo qualcosa di più per fornire all’opinione pubblica argomenti convincenti sul punto che nessuno sarà meno sicuro in Italia se a un detenuto in regime di 41-bis si consentirà di cucinarsi in cella i propri alimenti; se gli orari degli incontri con i familiari saranno stabiliti in modo meno rigido; se lo stesso regime verrà applicato in modo più strettamente correlato alle circostanze di ciascuna detenzione; se la permanenza di quelle circostanze sarà controllata periodicamente, con la dovuta frequenza, da un organo competente capace di verificarle in loco, e non da centinaia di chilometri di distanza; se si terrà conto delle situazioni nelle quali il detenuto è realmente recuperato alla convivenza civile, anche se non ha, perché non può più avere, nulla da offrire in termini di informazioni utili alla lotta dello Stato contro la criminalità organizzata. Chi deve fare la propria parte Dunque, la politica deve fare la sua parte. Ed è giusto criticarne la debolezza e i ritardi. Ma credo che anche la parte di società civile mobilitata su questo tema possa e debba fare la sua parte fino in fondo. Fare la propria parte fino in fondo, da parte di chi giustamente denuncia gli eccessi di durata delle pene e l’inutile durezza delle misure di sicurezza nella maggior parte in cui esse sono applicate, significa anche riconoscere che esistono tuttavia alcuni casi in cui esse si giustificano: non come vendetta della società nei confronti del reo, ma soltanto come misura di prevenzione di nuovi comportamenti criminosi da parte di detenuti che non hanno rinunciato affatto a ripeterli, che anche dopo venti o trent’anni di detenzione sono pronti a continuare anche dall’interno del carcere la loro guerra contro la società civile. Fare la propria parte fino in fondo significa non limitarsi a denunciare l’eccesso di rigore nell’esecuzione della pena, o la sua eccessiva durata, in tutti i casi in cui questo eccesso si manifesta, ma spingersi a parlare di tutto il cammino compiuto dalla persona che sta soffrendo di quell’eccesso, fin dall’inizio, fin dal momento in cui ha commesso il crimine per il quale la pena le è stata inflitta, proprio per mostrare come la riabilitazione si sia compiutamente realizzata e come proprio la sua riconciliazione con la società civile costituisca la garanzia di sicurezza migliore per la società stessa. Sostengo questo, perché di fronte a una opinione pubblica che per la maggior parte identifica la Giustizia soltanto con la spada che vendica tagliando, amputando, uccidendo, è necessario mostrare i successi della Giustizia che invece opera - in coerenza con l’articolo 27 della Costituzione - con l’ago e il filo, che ricuce, che risana. Per questo è necessario raccontare non soltanto la sofferenza indebita, incivile, oggi patita dal detenuto già compiutamente riabilitato, bensì raccontare tutta la sua storia, il percorso compiuto, il suo ritorno nel novero delle persone nelle quali si può riporre piena fiducia, quella che i teologi indicano come la sua "metanoia", la sua conversione. È solo questo il racconto che può produrre una conversione anche nell’opinione pubblica maggioritaria. Dall’altra parte del vetro di Francesca Romeo L’Unità, 25 gennaio 2017 Ero piccola e non riuscivo a capire perché il mio papà a ogni mio compleanno, a ogni Natale, a ogni Pasqua o al mio primo giorno di scuola non c’era. Mentre tutti gli altri bambini erano accompagnati dal proprio papà, io purtroppo ero quella diversa, quella senza un papà. Ho tanta rabbia dentro perché non riesco neanche a ricordarmi il mio papà dentro casa mia, non riesco a ricordare neanche il poco tempo che siamo riusciti a passare insieme perché ero troppo piccola, quanto vorrei ricordare! Stare rinchiuso in quattro mura per 24 anni e non si sa ancora quanti anni passeranno, è come essere sepolti vivi, questa è la mia rabbia perché io un padre ce l’ho ma è sepolto vivo, alla morte ci si rassegna al carcere a vita no. Ogni tanto penso tra me e me come sarebbe stata la mia vita con il mio papà accanto, ma invece purtroppo per passare qualche ora con mio padre devo fare un viaggio lunghissimo e vederlo in mezzo a persone che non conosco. Non mi ricordo il mio primo colloquio con mio papà, ma sicuramente uno non riuscirò mai a dimenticarlo, cioè il mio primo colloquio del 41-bis. Avevo solo 11 anni, eravamo abituate, io e mia sorella, a colloqui molto affettuosi pieni di abbracci e baci, e vedersi dietro un vetro blindato e non capire nemmeno cosa ti dice tuo padre è stato traumatico, poggiavamo la mano sul vetro per fare finta che ci toccassimo ma in realtà toccavamo un vetro freddo. Per sette anni non ho sentito il calore di mio padre, non ho potuto abbracciarlo né baciarlo né stare sulle sue gambe, cosa che faccio a tutt’oggi anche se ho 25 anni, forse per la troppa voglia di avere un papà come tutti gli altri. Il carcere secondo me deve essere una struttura che aiuti il detenuto a prendere coscienza dei propri errori e a essere reinserito al meglio nella società, e non come hanno fatto con mio padre che è entrato a causa dei suoi errori, ma poi hanno gettato la chiave. Per forza sono arrabbiata con il mondo intero, perché crescere con un padre in carcere non è stato facile, affrontare ogni mio problema da sola non è stato per niente facile, se sei la figlia di un detenuto la gente ignorante ti giudica, ti discrimina, ti emargina e ti addita come se essere figlia di un detenuto fosse colpa mia, quindi sì ce l’ho con il mondo intero. Testimonianza raccolta al convegno "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita" (Casa di Reclusione di Padova, 20 gennaio 2017) L’ergastolo esisterà fin quando lo faranno esistere gli stessi ergastolani di Carmelo Musumeci L’Unità, 25 gennaio 2017 All’inizio della mia lunga carcerazione avevo letto queste parole di Victor Hugo: "Coloro che vivono sono quelli che lottano". E io ho subito iniziato a lottare con il corpo, poi con la testa e alla fine con il cuore. Prima l’ho fatto per rimanere umano, dopo per sopravvivere, alla fine per vivere. Credetemi: lottare, pensare, sognare mi sono costati anni di regimi duri, punitivi e d’isolamento perché spesso per ritorsione mi impedivano persino di avere libri o una penna per scrivere. E in certi casi mi lasciavano la penna ma mi levavano la carta. Ad un certo punto, ho deciso di relazionarmi con la società esterna per smettere di parlare da solo con le pareti della mia cella. Una volta, infatti, lessi questa frase scritta tra le mura di un lager nazista: "Sono stato qui e nessuno lo saprà mai". Queste parole mi spronarono a scrivere per fare sapere all’opinione pubblica come vive e cosa pensa un uomo condannato ad essere cattivo, maledetto e colpevole per sempre. Pochi ergastolani, purtroppo, sono consapevoli che niente cambierà se non saranno loro stessi a far cambiare le cose; molti di loro, infatti, si cullano di illusioni e continuano a sognare e a sperare che un giorno qualcuno li libererà: il Papa, il Presidente della Repubblica, la misericordia degli umani, ecc... no! Molti di loro nessuno li libererà. Purtroppo, lo farà solo la morte. Per questo, in un quarto di secolo, ho spesso detto ai miei compagni: "L’ergastolo esisterà fin quando lo faranno esistere gli stessi ergastolani" perché di fronte a una pena così crudele bisogna ribellarsi. Lo si può fare in modo pacifico, sognando, scrivendo e urlando fra le sbarre delle vostre finestre, perché una società che mura una persona viva per sempre senza la compassione di ucciderla, aggiunge male ad altro male. L’Associazione Liberarsi, che da anni lotta per l’abolizione dell’ergastolo e del regime di tortura del 41 bis, ha deciso di mettere a disposizione di tutta la popolazione detenuta, in particolare dei condannati all’ergastolo e alle lunghe pene, il suo sito liberarsi.org e il suo periodico cartaceo "Mai dire mai". Mi ha incaricato inoltre, grazie al mio attuale regime di semilibertà, di curare una rubrica settimanale intitolata "Rassegna Stampa fine pena 9.999" per diffondere le notizie e le testimonianze che mi arriveranno direttamente dagli ergastolani, dai detenuti, dai loro familiari, dagli avvocati e da tutti gli addetti ai lavori. Chi volesse aderire al progetto per avere voce e luce può farlo scrivendomi al seguente indirizzo postale: Carmelo Musumeci, c/o Comunità Papa Giovanni XXIII. Via del Convento, 7. 06031 Bevagna (Perugia), oppure tramite i seguenti indirizzi email: zannablumusumeci@libero.it, ergastolani@gmail.com. Se sei in carcere la Costituzione non vale di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 gennaio 2017 Nessuna legge violata, nella vicenda di Stefano Crescenzi, lasciato morire da detenuto. Violato solo il senso di umanità previsto dall’articolo 27 della nostra Carta. C’è un signore che entra ed esce dal coma e vive attaccato al tubo dell’ossigeno. Ha poche probabilità di sopravvivere e queste probabilità sono legate alla possibilità di essere ricoverato in un centro specializzato. Però questo signore è un detenuto e quindi non può essere ricoverato se prima non viene scarcerato. Per fortuna è un detenuto in attesa di giudizio definitivo, dunque la scarcerazione è possibile e abbastanza semplice. Gli avvocati la chiedono con urgenza, i medici giurano che è l’unica possibilità di salvargli la vita. I giudici però dicono di no, perché c’è il rischio che reiteri il reato e inquini le prove. Quale reato? Omicidio. A voi sembra molto probabile che un signore attaccato al tubo dell’ossigeno e che esce ed entra dal coma vada in giro ad ammazzar la gente? O vi sembra possibile che possa fuggire all’estero in un paese senza estradizione per omicidio? Oppure credete che possa inquinare le prove, le quali sono state già tutte esibite e valutate in un processo di primo grado? No. E allora? Allora è accanimento giudiziario. Non è invece accanimento giudiziario ma semplice - come dire? - leggerezza, quella di un tribunale del riesame - al quale si sono rivolti gli avvocati dopo aver ricevuto il primo rifiuto della scarcerazione - il quale stabilisce che non c’è nessuna urgenza in questa pratica, e rinvia l’udienza. La realtà poi dimostra che l’urgenza c’era - come questo giornale, che ha sollevato il caso, sostiene dal mese di ottobre - perché il detenuto muore prima dell’udienza. E così Stefano Crescenzi da detenuto in attesa di giudizio si è trasformato in detenuto in attesa di morte. E ora la sentenza è stata eseguita. Probabilmente non c’è assolutamente niente di illegale in quello che è successo. Come non c’era niente di illegale nelle decisioni delle autorità che rifiutarono la scarcerazione al boss Provenzano, che da tre anni viveva in stato poco più che vegetativo. Nessuna norma specifica è stata violata dai magistrati, e il tribunale del riesame aveva pienamente diritto a rinviare. Il contrasto non è tra comportamento dei magistrati e legge, è tra il comportamento dei magistrati e senso dell’umanità. Oppure, se permettete questa piccola forzatura, tra comportamento dei magistrati e civiltà. Uno dei più grandi intellettuali di sempre, Fëdor Dostoevskij (che aveva sperimentato le prigioni russe) disse: "Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni". Se gli diamo retta dobbiamo convincerci che purtroppo l’Italia è un paese ancora poco civilizzato. Tuttavia, sebbene i magistrati coinvolti nel caso Crescenzi non abbiano in nessun modo violato le leggi dello Stato scritte nei codici (a meno che non vogliamo considerare violazione delle leggi l’uso esagerato della carcerazione preventiva, che però è abitudine vastissima in moltissime Procure) sicuramente hanno violato la nostra Costituzione. Pochi lo sanno, ma la Costituzione oltre ad avere un articolo 26 e un articolo 29, ha anche un articolo 27 e un articolo 28. Sebbene, di solito, questi articoli siano ignorati da quasi tutti, compresi molti costituzionalisti che non sono abituati ad esaltarli. Li ricopio qui. Dice l’articolo 27 (al terzo e quarto comma): "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Poi c’è l’articolo 28 che, al secondo comma, avverte minacciosamente: "I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti". E per la verità lo stesso concetto è espresso all’ultimo comma dell’articolo 13 della Costituzione ("È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà"). Non sono un costituzionalista, però me la cavo con l’italiano e un pochino con la logica. Negare a una persona morente (colpevole o innocente che sia, non cambia niente) il diritto ad essere curato in modo da poter salvare la vita, è o no una violazione dei diritti, e dunque una violazione dell’articolo 28? E non potersi curare mentre si è in fin di vita non vuol dire subire un trattamento contrario al senso di umanità, e cioè un trattamento proibito dall’articolo 26? Il problema è che su questi temi nessuno ha voglia di parlare, di discutere. Né tra i politici, né tra i giornalisti. Non portano voti, non fanno guadagnare copie, riguardano i diritti di una parte minoritaria della popolazione. Troverete sempre schiere di costituzionalisti pronti a indignarsi se qualcuno vuole abolire le province o il Senato. Cercatene in giro uno pronto a immolarsi per la difesa dell’articolo 27! Lasciate stare: è fatica sprecata. Più di 18mila detenuti stranieri nelle carceri italiane di Giovanni Vasso Il Giornale, 25 gennaio 2017 I dati del Ministero della Giustizia, nel 2016 presenze in lieve aumento dopo due anni. Il picco nel 2010 con quasi 25mila ospiti stranieri. Da dove arrivano. I detenuti stranieri nelle carceri italiane, al 31 dicembre 2016, sono 18.621. In aumento rispetto all’anno prima (nel 2015 erano quasi 1300 in meno) e in netta discesa rispetto al picco del 2010 quando ne furono censiti quasi 25mila. I dati relativi alla popolazione carceraria di nazionalità estera, elaboratori dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono stati pubblicati online dal ministero della Giustizia e si riferiscono alle statistiche degli ultimi dieci anni, dal 2007 fino a tutto il 2016. Il trend - I numeri complessivi indicano per l’anno appena trascorso un leggero aumento rispetto ai dati del biennio precedente. C’era stata, tra il 2013 e il 2014 una significativa diminuzione di presenze straniere in carcere. S’era passati da 21.894 detenuti a 17.462, cifre poi bissate da un ulteriore, ma piccolissimo, ribasso fino a 17.340 ospiti per il 2015. Nel 2016, invece, i detenuti stranieri sono tornati a crescere attestandosi più o meno agli stessi livelli del 2007, quando nelle carceri italiane erano ospitati 18.252 stranieri. I più numerosi sono i detenuti di origine africana (su tutti quelli provenienti dall’area del Maghreb, dal Marocco fino alla Tunisia, anche se si registra il deciso calo degli algerini in cella che passano dai 1.109 del 2008 ai 408 dell’anno scorso), poi ci sono quelli provenienti dai Paesi dell’area Ue (e quello del 2016 è il dato più basso di sempre). Le "proporzioni" nella provenienza è sempre rispettata anche nelle oscillazioni del dato complessivo relativo all’intero decennio. La situazione attuale - Risultano detenuti, nel 2016, 18.621 stranieri. Tra di loro, la maggior parte sono di origine africana (poco più di 9mila) ed europea (7.168). Seguono, a distanza, l’Asia (1.318) e le Americhe (poco più di mille). Rispetto alle nazionalità, il "primato" spetta ai cittadini provenienti dai Paesi dell’Unione Europea che sono 3.536. Segue il Marocco, con 3.283 detenuti e l’Albania con 2.429. Sono cittadini tunisini 1.998 detenuti mentre è in crescita il dato degli asiatici in carcere. Tolti i 233 detenuti provenienti dall’area del Medio Oriente, sono 1.085 quelli riportati sotto la dicitura "altri Paesi dell’Asia". È il dato più alto di sempre che viene anche prima dell’ultimo picco, registratosi nel 2012, quando in carcere vivevano 1.009 persone provenienti dal continente asiatico. Cassa ammende non solo per i detenuti di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2017 Via libera del Consiglio di Stato al decreto che riforma, dopo 85 anni, la Cassa delle ammende, costituita nel 1932 per favorire il reinserimento dei detenuti con programmi di assistenza per loro e le famiglie. Il provvedimento del ministero della Giustizia, che disegna lo statuto della Cassa, ha, però, bisogno di alcune precisazioni e correzioni. I giudici della sezione atti normativi del Consiglio di Stato ritengono "altamente apprezzabile" - così scrivono nel parere 183/2017 di ieri - la volontà del ministero della Giustizia di procedere, dopo tanti anni, a una riorganizzazione della Cassa. Anche perché, per quanto il legislatore sia intervenuto sulla legge istitutiva la (la 547 del 1932) sia nel 2008 sia nel 2016, la "gestione della Cassa è stata poco efficace, soprattutto a causa dell’assenza di una strategia di base e di un’adeguata programmazione, in grado di orientare in modo unitario l’attività di finanziamento". Insuccesso che risulta ancora più marcato se si guarda alla finalità rieducativa della pena sancita dall’articolo 27 della Costituzione e perseguita dalla Cassa. A tal proposito, il Consiglio di Stato condivide e sottoscrive l’intenzione del ministero di allargare il raggio d’azione della Cassa a tutti i soggetti sottoposti a misure di limitazione della libertà personale. Dunque, non solo "detenuti e internati", come prescrive la norma (articolo 4) del 1932, ma anche chi è ai domiciliari o si trova sottoposto ad altre misure alternative alla detenzione introdotte nel corso degli anni. Ci sono, poi, alcuni profili del decreto che vanno meglio specificati o modificati. Intanto, la necessità che sul futuro funzionamento della Cassa il ministero eserciti un costante monitoraggio. Inoltre, l’esigenza che il consiglio di amministrazione - costituito da cinque componenti (due rappresentanti della Giustizia, uno dell’Economia e uno del Lavoro) - si apra all’esterno. Almeno un componente - scrivono i giudici amministrativi - non dovrebbe appartenere ai ranghi dell’amministrazione, ma essere scelto tra esperti di psicologia, criminologia o dell’associazionismo nel settore dell’esecuzione penale, profili che possono dare un prezioso contributo alle questioni che la Cassa deve affrontare e risolvere. Il Ministro Costa: "la dignità degli innocenti viene prima delle ferie dei pm" di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 gennaio 2017 "Non può essere fisiologico spendere 42 milioni di euro nel 2016 per errori giudiziari, come invece ho sentito dire ad alcuni magistrati". Il ministro per gli Affari regionali e avvocato Enrico Costa commenta i dati sulla giustizia: "un risarcimento dopo 10 anni non vale nulla, perché nessuna cifra restituisce la dignità". "Questi numeri non possono essere fisiologici, anche se alcuni magistrati preferiscono considerarli tali". Il riferimento è ai 42 milioni di euro spesi nel 2016 dallo Stato, per risarcire ingiuste detenzioni ed errori giudiziari e, ad occuparsi di giustizia "ingiusta", è il ministro della Famiglia e degli Affari regionali e avvocato, Enrico Costa. Ministro, partiamo dai dati. I numeri crescono esponenzialmente: nel 1992 sono stati risarciti 2,5 milioni di euro per ingiusta detenzione, nel 2016 arriviamo a 31 milioni. Che cosa significa? Significa che esiste una patologia nel sistema e il dato non può essere considerato solo fisiologico, come invece ritengono alcuni magistrati. Anche perché voglio ricordare che dietro le cifre ci sono prima di tutto vite, storie e famiglie che attendono, tra l’altro, i tempi lunghissimi di queste decisioni. A proposito di questo, i tempi delle decisioni sono lunghi, anche per i risarcimenti dovuti a errori giudiziari... Anche questo non è normale. Penso soprattutto alle ingiuste detenzioni, che sono sostanzialmente carcerazioni preventive errate nei confronti di persone che invece non avrebbero dovuto finire in carcere. La decisione finale del risarcimento deve avvenire in fretta, perché i tempi contano moltissimo: se una persona finisce in carcere ingiustamente e, per ottenere giustizia, deve attendere 10 anni, il risarcimento non vale nulla. Nessuna cifra restituisce la dignità e la sofferenza patita. Anche la prescrizione è un tema caldo, oltre alla ragionevole durata dei processi... Il punto è uno: la prescrizione troppo lunga determina un allungamento dei tempi dei processi e comporta che una persona innocente si veda riconosciuta questa situazione anche dopo 10 anni. Lei è stato viceministro della Giustizia, il dibattito su questi temi è ancora molto aperto. Qualche luce in fondo al tunnel? Il ministro Orlando ha fatto un grandissimo lavoro, con provvedimenti utili sia nel campo penale che nel civile. Ora auspico che venga approvato al più presto il ddl sul processo penale pendente al Senato. Io credo, però, che l’elemento da mettere al centro sia l’attenzione al cittadino, che deve avere un rapporto civile con il sistema giustizia. Sia che si tratti della persona offesa che deve fare valere i propri diritti, sia che si tratti di un indagato che deve difendersi. Lei chiede di mettere i cittadini al centro, ma l’Anm minaccia lo sciopero all’apertura dell’anno giudiziario per problemi legati ai pensionamenti dei magistrati. C’è una gerarchia di principi da tutelare: la patologia della libertà personale ingiustamente sottratta non può essere messa sullo stesso piano delle ferie dei magistrati e dell’età pensionabile. A proposito di magistrati, i dati sulla giustizia "ingiusta" sono distribuiti a macchia di leopardo nel Paese. Per una corte d’Appello di Napoli con 145 casi di "malagiustizia" e una di Catanzaro con 104, ci sono Milano con 46 casi e Taranto con 4. Come lo spiega? La risposta è che ci sono tribunali che, evidentemente, sbagliano di più. Non compete a me cercarne le ragioni, lo faranno altri organismi. Il punto, però, è che non esistono norme che permettano di avviare un’azione disciplinare nei confronti di chi sbaglia. Alla fine paga solo lo Stato e questo è molto grave. Servirebbe una nuova norma, quindi? Il dato è che ad oggi manca una norma che preveda l’automatica trasmissione di questi provvedimenti di riparazione per ingiusta detenzione al titolare dell’azione disciplinare, per verificare se qualcuno ha sbagliato. Mi piacerebbe che nell’agenda dell’Anm ci fossero anche questi temi, che mi sembrano di civiltà giuridica, oltre alle pensioni. Lei ha frequentato i tribunali, prima di diventare ministro. Esiste davvero il problema dell’eccessiva mediatizzazione dei processi? Io registro il fatto che, quando i giornali affrontano questioni penali, l’unica campana che si ascolta è quella dell’accusa. Questo determina una presentazione mediatica sbilanciata. Detto questo, la giustizia si fa nei tribunali e i processi devono andare a sentenza il prima possibile. Ovviamente, però, è sotto gli occhi di tutti che in alcuni casi ci sia un cortocircuito. E quale sarebbe? Che l’accusa si rafforza anche grazie al palcoscenico mediatico e quindi si crea un nesso sbagliato tra magistratura e media. La ribalta mediatica, tra l’altro, in alcuni casi determina la popolarità di magistrati. Una popolarità costruita su vicende giudiziarie che diventa poi trampolino per entrare in politica. I nomi dei magistrati, però, sono intrinsecamente connessi al caso giudiziario... A questo proposito, ricordo che la precedente proposta di legge sulle intercettazioni conteneva un emendamento che inibiva la pubblicazione di nomi e fotografie dei magistrati competenti, relativamente ai casi di cronaca. Questa era una modalità votata dal Parlamento per evitare che alcuni esponenti della magistratura guadagnassero popolarità sulla pelle dei cittadini. Questa previsione, però, è finita su un binario morto? Sì, ma c’è sempre tempo per richiamarla, almeno come argomento di riflessione collettiva. Cybersecurity, più poteri a Palazzo Chigi di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2017 La struttura anti-cyber di palazzo Chigi è ormai pronta. Entro febbraio sarà varato il Dpcm (decreto del presidente del consiglio dei ministri) istitutivo. I poteri di controllo sono accentrati nel Dis (dipartimento informazioni e sicurezza). Un ruolo strategico è svolto dal Cirs (comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica). E presto il Dis e l’Aise (l’agenzia informazioni e sicurezza esterna) avranno ognuno un nuovo vicedirettore: si affiancherà ai due attuali e avrà una delega ad hoc proprio sulla cybersecurity. Ieri pomeriggio, nella prima audizione davanti al Copasir (comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica), guidato da Giacomo Stucchi, Paolo Gentiloni annuncia la svolta sull’intelligence. Il presidente del Consiglio in mattinata aveva presieduto il Cisr. Il comitato riunisce i ministri degli Affari esteri (Angelino Alfano), Interno (Marco Minniti), Difesa (Roberta Pinotti), Giustizia (Andrea Orlando), Economia (Pier Carlo Padoan) e Sviluppo economico (Carlo Calenda); segretario della riunione è il direttore del Dis, Alessandro Pansa. Gentiloni - finora ha tenuto per sé la delega sui servizi di informazione e sicurezza - per il varo del modello anti-cyber ha potuto avvalersi del lavoro svolto da Marco Minniti quando era autorità delegata con l’esecutivo guidato da Matteo Renzi. Prima dell’audizione al Copasir se ne è parlato proprio al Cisr. L’impulso alla nascita di una struttura moderna e organizzata contro le minacce informatiche, del resto, era partita proprio da Renzi. Ma il progetto si era impantanato tra le polemiche sulla nomina del suo amico Marco Carrai. Al di là del nominativo, poi superato, il testo del Dpcm era stato già definito. Adesso è alle ultime battute. Ancora da decidere se il provvedimento sarà un insieme di norme correttive del decreto Monti del gennaio 2013 o un testo autonomo. Il Dis, in ogni caso, diventa così la torre di controllo sulle minacce cyber. Un’azione già svolta in base ai protocolli di collaborazione con le cosiddette infrastrutture critiche. C’è un caso recente: al Dis, come alla Polizia Postale, arrivò la segnalazione dell’Enav di un’insidia informatica poi rivelatasi parte delle attività dell’ingegnere romano Giulio Occhionero finite nell’inchiesta della procura di Roma. In tema di cyber l’Aisi (agenzia informazioni e sicurezza interna), diretto da Mario Parente, ha già un reparto specifico mentre l’Aise, condotto da Alberto Manenti, avrà dunque un vicedirettore ad hoc. Osserva Stucchi: dopo il decreto 2013 "in questo campo quattro anni sono un’era geologica. Gentiloni però ha la consapevolezza di dover intervenire. Noi siamo pronti a esaminare un’eventuale proposta del Governo". Nota Angelo Tofalo (M5S): "Siamo sulla strada giusta. Ma va fatto anche un investimento serio: occorrono almeno due miliardi di euro l’anno". Il presidente del Consiglio al Copasir ha letto una relazione sulle minacce alla sicurezza dell’Italia. Per la Libia il premier ha parlato di situazione "delicata": sabato scorso un’autobomba è esplosa a poca distanza dall’ambasciata italiana appena riaperta a Tripoli. Traballa il governo di Fayez al Serray. Ma Roma, per ora, intende rimanere interlocutore privilegiato dell’unico esecutivo riconosciuto dall’Onu. Età pensionabile dei magistrati, pasticcio che si poteva evitare di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 25 gennaio 2017 La vicenda dell’età pensionabile dei magistrati dimostra in modo chiarissimo quanto poco il governo (tutti i governi del paese da Berlusconi a Gentiloni) sia interessato ai problemi della giustizia che pure dovrebbero essere al massimo dell’attenzione. Come molti ricordano, l’età pensionabile delle toghe era fissata a 70 anni e tale è rimasta per decenni. Per ragioni contingenti legate ad esigenze di servizio e alla mancanza di un adeguato, tempestivo ricambio fu portata a 72 anni. Il governo Berlusconi, si è detto, per ingraziarsi gli alti vertici della magistratura la portò a 75 anni e così rimase per anni, anche se non risulta che il premier o altri esponenti del governo allora in carica ne abbiano tratto effettivo vantaggio. Il governo Renzi ha voluto riportare il sistema al modello originario e così, di colpo, l’età pensionabile è stata di nuovo fissata a 70 anni. Ovviamente sono insorti problemi di ogni tipo legati alla mancanza di tempestivi ricambi e il governo è stato costretto a ricorrere a varie proroghe, rimedio pessimo che uno studio appena attento della situazione avrebbe fortemente consigliato di evitare. L’ultimo intervento si è avuto di recente quando il governo Renzi ha prorogato l’età pensionabile solo per i vertici della Cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti ignorando la situazione degli altri uffici in condizioni certamente peggiori. La precedente proroga con scadenza al 31-12-2016 è passata invano mentre tutti, anche in forza delle promesse anche formali, ne attendevano un’altra, e così molti magistrati si sono ritrovati in pensione quasi di sorpresa e parecchi uffici sono stati letteralmente decapitati. Per quanto riguarda gli uffici giudicanti si tratta di un inconveniente grave ma tollerabile, visto che i Presidenti dei grandi Tribunali e delle Corti svolgono compiti puramente amministrativi a cui i sostituti possono porre rimedio almeno per un certo periodo di tempo. Ben più grave la situazione delle Procure dove i titolari si occupano dell’organizzazione ma intervengono in modo incisivo anche sulle pratiche più importanti. Basterà ricordare la vicenda di Mani Pulite e l’impegno fattivo e importante di Borrelli e più recentemente quella del Mose a Venezia. In un sistema bene organizzato non dovrebbe mai accadere che una Procura rimanga senza titolare per molto tempo, e invece è proprio quanto accadrà, visto il tempo richiesto di norma per l’avvicendamento. L’Associazione Nazionale Magistrati, da tempo preoccupata, aveva proposto di portare l’età pensionabile per tutti i magistrati a 72 anni, ciò che avrebbe risolto il problema almeno al momento, lasciando però aperto il quesito circa la sistemazione definitiva della carriera che non può rimanere esposta alle iniziative più estemporanee. Tuttavia era il governo che doveva provvedere in modo definitivo avanzando le più opportune proposte, e invece il ministro della Giustizia, che pure si sta dando da fare, anche se senza grandi risultati, ha detto di riservarsi di procedere con una nuova proroga, appena possibile. In definitiva si va avanti con espedienti di dubbio valore e di effetti limitati mentre la giustizia ha bisogno assoluto di interventi di sistema. Si pensi solo che non si svolge un concorso per l’assunzione di cancellieri da decenni e si tratta di funzionari importanti come i magistrati, se non di più. Vedremo che cosa accadrà in futuro, ma sinceramente non riesco ad essere fiducioso visti i precedenti che ho cercato in parte di sintetizzare e che danno un’idea alquanto precisa di una situazione che sembra sfuggire al controllo. Chiunque segua le vicende della Giustizia sa bene che tutta l’organizzazione esige in modo assoluto sistematicità e tempestività negli avvicendamenti, altrimenti la sporadicità o addirittura la saltuarietà degli interventi rischiano di riflettersi sulla qualità dei provvedimenti, inconveniente certamente da evitare con la massima cura ma che non sembra preoccupare il governo, almeno nella misura necessaria. Delitto di Garlasco, la Corte d’Appello rinvia la decisione sul processo bis Corriere della Sera, 25 gennaio 2017 Le indagini difensive avrebbero accertato la presenza del Dna di un amico del fratello della vittima sotto le unghie di Chiara. La Corte d’Appello di Brescia, incaricata dalla Procura generale di Milano, è ancora in attesa di esaminare l’istanza di revisione del processo sull’omicidio di Chiara Poggi per il quale l’ex fidanzato Alberto Stasi, detenuto nel carcere di Bollate da tredici mesi, sta scontando una condanna definitiva a 16 anni. A riaprire il caso sono stati a dicembre gli avvocati dello stesso Stasi, sulla base di nuovi elementi acquisiti grazie all’indagine condotta da una società di investigazioni di Milano. Il "dossier" del supplemento di indagine ha accertato la presenza del Dna di un amico del fratello della vittima sotto le unghie di Chiara. Ora toccherà ai legali presentare la richiesta di revisione e di analizzare la posizione di Andrea Sempio, 28 anni, all’epoca assiduo frequentatore della villetta di Garlasco dove avvenne l’omicidio e dopo le ultime rivelazioni indagato dalla Procura di Pavia. Contro di lui ci sarebbe l’associazione tra il suo profilo genetico e i frammenti di Dna isolati sulle unghie della vittima. La famiglia di Chiara, più volte, ha ribadito che un colpevole già c’è e che è inutile continuare a cercare presunte novità. Lo studio Giarda, che difende Stasi, oltre alla comparazione genetica ha posto l’attenzione sull’alibi, per la mattina del delitto, di Sempio, su alcuni suoi "strani" post messi sul profilo Facebook, sulla evidente distanza tra la posizione dichiarata sempre per quella mattina e le verità delle celle telefoniche agganciate dal cellulare che invece lo posizionavano proprio a Garlasco. Adesso si attendono le nuove mosse. Come si legge nel provvedimento della Corte d’Appello di Brescia, la dichiarazione a non procedere è conseguenza della "semplice ragione che non risulta avanzata al riguardo alcuna istanza da parte dei soggetti eventualmente legittimati". Ovvero gli avvocati di Stasi. La nota dei legali di Stasi - "In relazione alle notizie apparse nella tarda mattinata di oggi secondo le quali la Corte d’Appello di Brescia avrebbe respinto l’istanza di revisione presentata dai Legali di Alberto Stasi, occorre precisare che l’ordinanza emessa dalla Corte d’Appello di Brescia di non luogo a provvedere si fonda sulla "semplice ragione che non risulta avanzata al riguardo alcuna istanza da parte dei soggetti eventualmente legittimati e che il codice di rito non contempla alcun potere ufficioso in capo all’Autorità Giudiziaria astrattamente competente" per la revisione. Come più volte evidenziato, e come noto a tutte le parti processuali, la difesa di Alberto Stasi non ha mai avanzato alcuna istanza di revisione ma ha depositato l’esito dell’attività di indagine difensiva alla Procura Generale di Milano, sollecitando quest’ultima, all’esito delle indagini indicate, a valutare la sussistenza dei presupposti per l’attivazione dei poteri di revisione da parte della Procura Generale stessa. Quest’ultima ha inviato per competenza gli atti alla Procura di Pavia chiedendo altresì di essere notiziata degli esiti al fine di valutare la formulazione di autonoma istanza di revisione. Il provvedimento della Corte d’Appello di Brescia pertanto prende semplicemente atto, allo stato, della impossibilità di decidere non essendo stata presentata davanti all’Autorità Giudiziaria di Brescia alcuna istanza di revisione da nessuna delle parti legittimate. Le notizie apparse, pertanto, appaiono del tutto destituite di fondamento, posto che la Corte d’Appello di Brescia non può aver respinto l’istanza di revisione per la semplice ragione che ad oggi non esiste alcuna istanza; ciò "inibisce allo stato qualsiasi vaglio anche di natura preliminare". Detenuti, missive sacre. La Consulta: non sono intercettabili di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 25 gennaio 2017 Le lettere del detenuto non sono intercettabili. O si sequestrano o altrimenti godono di un regime di segretezza, che appartiene al residuo di sfera privata da garantire anche alla persona ristretta in carcere. E, quindi, il contenuto della corrispondenza cartacea non è utilizzabile in giudizio. La Corte costituzionale con la sentenza n. 20/2017, depositata il 24 gennaio 2017, ha salvato l’articolo 266 del codice di procedura penale e articoli 18 e 18-ter dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975). Nel caso specifico, si trattava di un processo penale basato su intercettazioni telefoniche e ambientali, e anche di missive spedite e ricevute in carcere dall’imputato. Dalle lettere è emersa la progettazione di numerosi delitti di ‘ndrangheta. Però è venuto fuori un inghippo procedurale: la corrispondenza scritta non è stata sequestrata ai sensi dell’articolo 254 codice di procedura penale, ma solo copiata dalla polizia giudiziaria, previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, senza quindi che i destinatari potessero conoscere l’attività investigativa compiuta. Sono utilizzabili in giudizio queste copiature? La Cassazione dopo alcune aperture è arrivata a dire di no, ma la questione si è posta davanti alla Corte costituzionale. Il problema portato al vaglio della Consulta riguarda il fatto che l’ordinamento penitenziario da un lato consente l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche e le altre forme di telecomunicazione mentre non consente l’intercettazione della corrispondenza epistolare del detenuto. La Corte, nella sentenza in esame, ha distinto tra lettere cartacee e telefonate e ha ritenuto di non poter rendere utilizzabili le missive cartacee. L’ordinamento penitenziario consente di limitare il flusso delle lettere e anche il visto sulla busta della lettera del carcerato, ma non la lettura della medesima. Se il parlamento vorrà, potrà modificare l’assetto attuale, ma la Consulta non può sostituirsi al legislatore. Di conseguenza, allo stato attuale, le lettere cartacee intercettate non sono utilizzabili come prove in giudizio. Incompatibilità. Con la sentenza n. 18/2017 la Consulta ha escluso l’incompatibilità alla funzione di trattazione della udienza preliminare per il giudice che, nel corso della stessa, abbia ravvisato un fatto diverso da quello contestato e abbia invitato il pubblico ministero alla modifica dell’imputazione e questi abbia aderito. Nel caso specifico il processo è iniziato con le accuse di divulgazione di materiale pornografico minorile e di tentata violenza privata ed è proseguito per i reati di produzione di materiale pornografico minorile e di atti persecutori. Il problema è se può essere imparziale un giudice che invita a una diversa contestazione dei fatti. La risposta della Consulta è affermativa. Non c’è incompatibilità. Per esserci incompatibilità si presuppone che un giudice si sia già pronunciato in una precedente e distinta fase del procedimento. Se, invece, un giudice si esprime nel corso del medesimo procedimento che gli è affidato, non si ha una anticipazione della sentenza, ma regolare uso del potere decisionale. Carcere preventivo. Con la sentenza n. 17/2017 la Consulta non ha ritenuto estensibile il divieto della custodia cautelare in carcere nel caso di imputati per gravi reati (come reati associativi) i genitori di minori di età superiore a sei anni. Nel caso specifico una mamma è stata portata in carcere al compimento del sesto anno di età della figlia, il cui padre anche era sottoposto a custodia cautelare. La Corte costituzionale ha salvato il codice di procedura penale, considerando che il sesto anno coincide con l’assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l’inizio di un processo di relativa autonomizzazione rispetto alla madre. Per i minori di sei anni, invece, il legislatore ha ritenuto prevalente la necessità di salvaguardare l’integrità psicofisica della prole, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari. Ma si tratta di scelte del legislatore, sulle quali non può incidere il giudizio della Corte costituzionale. Videoriprese, per la misura cautelare valutazione giudiziale completa di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2017 Corte di cassazione sentenza 24 gennaio 2017 n. 3624. Se la difesa presenta delle confutazioni del quadro indiziario, il Tribunale del riesame non può confermare la misura cautelare della custodia in carcere disposta nei confronti di un indagato - nel caso, per coltivazione di cannabis - identificato unicamente in base ad una comparazione tra fermi immagini, estratti da videoriprese, e fotografie operata dalla polizia giudiziaria. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 24 gennaio 2017 n. 3624, annullando l’ordinanza e chiarendo che la conferma ottenuta da una consulenza tecnica disposta dal Pm non cambia le cose. Il ricorrente, fra l’altro, aveva contestato la possibilità di desumere gravi indizi di colpevolezza da immagini estrapolate da un filmato non allegato alla richiesta cautelare, in quanto il giudice non sarebbe stato posto nelle condizioni di valutarne direttamente il contenuto. All’origine della questione, dunque, scrive la Cassazione vi è il dato incontestato che i filmati non sono stati allegati agli atti trasmessi al Tribunale dei Riesame ma neanche al GIP e "probabilmente neppure al PM", essendo stati visti solo dal personale di polizia giudiziaria. Tuttavia, prosegue la sentenza, i giudici di legittimità sul punto hanno affermato che "non costituisce violazione dell’art. 309 co. 5 c.p.p. la circostanza che il PM, selezionando gli atti da produrre a sostegno della richiesta di applicazione della misura cautelare, abbia trasmesso, in luogo della video registrazione, annotazioni di servizio in cui erano riportati i dati relativi a quanto videoregistrato (n. 39923/2008)". Mentre in tema di intercettazioni telefoniche hanno chiarito che qualora sia contestata l’identificazione delle persone colloquianti, "non è indispensabile disporre perizia fonica per il relativo accertamento, ben potendo il giudice trarre il suo convincimento da altri elementi che consentano di risalire all’identità degli interlocutori" (n. 16432/2008), ivi comprese "le dichiarazioni degli agenti di polizia giudiziaria" (n 18453/2012) e che "tale valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se correttamente motivata" (n. 17619/2008). Nel caso specifico, però, prosegue la sentenza, la valutazione è stata demandata ad un consulente tecnico dell’accusa. E la cosa ha fatto ritenere "superfluo" l’esame da parte del Gip e del Tribunale proprio in considerazione della natura qualificata del soggetto che ha operato la valutazione. Con una conseguente "grave omissione argomentativa" da parte del Tribunale "che ha liquidato le considerazioni critiche svolte dalla difesa con il conforto di una propria consulenza di parte alle scarne e anodine notazioni dell’ordinanza". Dunque, conclude la Cassazione, nel caso in esame non è in discussione, come sostiene il ricorrente, "l’effettività del controllo giudiziale sul contenuto degli atti posti a sostegno della domanda cautelare", che vi è stato nei termini anzidetti, "quanto la completezza della valutazione giudiziale". Completezza che non può prescindere dalla "considerazione e approfondita valutazione di quegli elementi di critica e confutazione del quadro indiziario provenienti dalla difesa dello indagato". E la cui omissione "comporta violazione dell’art. 292, co. 2-ter c.p.p. ove concernenti "specifiche allegazioni difensive oggettivamente contrastanti con gli elementi accusatori", come tali distinte da generiche deduzioni o indicazioni di elementi ritenuti favorevoli dalla difesa e la cui specifica confutazione s’impone, pertanto, al giudice della cautela così come a quello del riesame". Stalking, braccialetto elettronico al molestatore e alla vittima Corriere della Sera, 25 gennaio 2017 Per evitare altre aggressioni la donna ha accettato di indossare il dispositivo, che si attiva quando il "gemello" è a meno di 250 metri. È uno dei primi casi in Italia Pur di avere la sicurezza di non essere più molestata dall’ex marito, ha accettato anche lei di indossare un braccialetto elettronico, in modo che se l’ex coniuge, accusato di comportamenti persecutori, si dovesse avvicinare, l’allarme suonerà nella sala operativa delle forze dell’ordine facendo scattare i soccorsi. È uno dei primi casi in Italia quello autorizzato dal giudice di Venezia Irene Casol. All’imputato, un imbianchino di 48 anni residente in un comune del Miranese, era già stato applicato il braccialetto elettronico un paio di settimane fa in modo da controllare che non lasciasse gli arresti domiciliari disposti dopo l’ennesima aggressione ai danni della donna. L’episodio avvenne nel luglio scorso e costò l’arresto all’uomo da parte dei Carabinieri di Mirano. Dopo sei mesi il legale ha presentato un’istanza per ottenere per il suo assistito una misura cautelare meno gravosa, quella del divieto di avvicinamento alla ex moglie e ai luoghi che lei frequenta. Il giudice ha accolto la richiesta ma, per evitare rischi, considerando che già in passato l’imbianchino ha violato il divieto di avvicinamento, ha ottenuto dalla donna la disponibilità a indossare un braccialetto elettronico "gemello". I due dispositivi sono stati tarati in modo da attivare l’allarme se dovessero avvicinarsi a meno di 250 metri. All’uomo è stato anche vietato di comunicare con qualunque mezzo con la ex moglie. Modena: Gibertoni (M5S) "troppe criticità al Sant’Anna, impossibile sezione 41-bis" movimento5stelle.it, 25 gennaio 2017 "Il carcere Sant’Anna di Modena al momento è la struttura meno indicata per riuscire ad accogliere e gestire i detenuti del 41bis. In un contesto dove le criticità, strutturali ed organizzative, sono ancora moltissime sarebbe da veri irresponsabili aggiungerne altre". È questo il commento di Giulia Gibertoni riguardo all’ipotesi avanzata dall’amministrazione penitenziaria di utilizzare una sezione del carcere di Modena per ospitare i detenuti in regime di 41-bis. "Come abbiamo segnalato più volte attraverso il nostro lavoro in Regione, la situazione all’interno del Sant’Anna è di completa emergenza, sotto tutti i punti di vista - spiega Giulia Gibertoni - Le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria sono ormai da tempo critiche e le loro dimostranze restano inspiegabilmente inascoltate da parte dei vertici della struttura. Ormai da molti mesi la direzione dell’istituto penitenziario non comunica con le sigle sindacali. A questo contesto di assoluta criticità adesso c’è qualcuno che vuole aggiungerne delle altre con l’accoglimento dei detenuti mafiosi. Un’idea assurda che di certo non risolverà i problemi che da tempo segnaliamo ma che, anzi, sarà destinata ad aggravarli". Per questo Giulia Gibertoni chiede che sulla vicenda venga fatta chiarezza al più presto invitando l’amministrazione penitenziaria ad abbandonare il progetto. "Modena non può e non è in grado di farsi carico di questo ulteriore caso. La priorità in questo momento - conclude Giulia Gibertoni - è quella di risolvere i problemi che da tempo denunciano i sindacati. Tutto il resto deve passare in secondo piano". Trani: la denuncia del Sappe "condizioni disumane, la Sezione Blu deve essere chiusa" molfettaviva.it, 25 gennaio 2017 Federico Pilagatti, segretario nazionale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria: "La sezione "Blu" deve essere chiusa". "La sezione "Blu" del carcere di Trani deve essere chiusa immediatamente poiché offende la dignità e la privacy dei detenuti ristretti e costringe i poliziotti penitenziari a lavorare in ambienti squallidi, freddi, fatiscenti, con muri pieni di muffa e gonfi di acqua per infiltrazioni mai riparate". A chiederlo è il segretario nazionale del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Federico Pilagatti, che in una nota denuncia lo stato generale di criticità del carcere maschile di Trani dove vengono condotti tutti gli arrestati nel territorio di Molfetta e dove, lunedì scorso, un ispettore di polizia è stato aggredito da un detenuto e, in particolare, le condizioni disumane di una sezione, "dove ci sono i bagni sono a vista, in ambienti angusti, meno di tre metri per uno e mezzo". "Celle in cui i detenuti - afferma il Sappe - mangiano, dormono e trascorrono la maggior parte della giornata. Da mesi - continua Pilagatti - quanto avviene lì dentro viene comunicato ai vertici dell’amministrazione penitenziaria regionale e nazionale e, finalmente, ha portato all’intervento del Provveditore regionale che ha iniziato una accurata ispezione presso il carcere tranese". Pilagatti sottolinea come tutto ciò avvenga "in barba alle sentenze della Corte Europea che, più volte, ha condannato l’Italia proprio per questi motivi". Sassari: dal carcere al reinserimento, corso professionale per 12 detenuti sardegnaoggi.it, 25 gennaio 2017 Grazie a una convenzione siglata tra Comune, Casa circondariale e Istituto "Pellegrini" di Sassari. L’obiettivo è formare alcune figure professionali di manutentore elettromeccanico, con conoscenze in elettronica ed elettrotecnica. Ancor di più, consentire a chi consegue l’attestato, la possibilità di spendere la propria competenza nella società. Si tratta del corso di manutentori elettromeccanici che sta impegnando dodici persone detenute nella casa circondariale di Bancali. Il ciclo di lezioni, 210 ore di attività didattica e laboratoriale di elettrotecnica, meccanica e termotecnica, è iniziato a settembre e si concluderà nel mese di febbraio. Il corso nasce grazie a una convenzione stipulata tra il Comune di Sassari con il sindaco Nicola Sanna, il carcere di Bancali con la direttrice Patrizia Incollu e l’istituto statale di istruzione superiore "Pellegrini" di Sassari con il dirigente Paolo Acone. Un intervento che mira al reinserimento sociale delle persone, puntando all’istruzione e alla formazione considerate come indispensabili per la promozione della crescita personale, culturale e socio economica. È convinzione, infatti, che il ritorno delle persone detenute nelle comunità di appartenenza è spesso difficile e complesso. Il reinserimento sociale è complicato, soprattutto per i pregiudizi presenti nella singole comunità ma ancora di più dalla mancanza di una qualifica professionale di chi ha trascorso un lungo periodo in carcere senza poter frequentare una scuola. All’uscita, in particolare, servono competenze di immediata fruibilità che consentano un inserimento lavorativo di lungo periodo. L’attivazione del corso risponde all’esigenza di fornire una base tecnico-professionale a persone interessate a lavorare nel settore. Le lezioni, poi, costituiscono anche il primo passo per programmare un corso di formazione superiore che permetterebbe di avere diplomati particolarmente qualificati. Il mestiere di manutentore elettromeccanico abbina le competenze del meccanico con quelle di un operatore elettrotecnico o elettronico quindi con quelle tipiche del meccanico manutentore. Numerosi gli ambiti di impiego dei soggetti qualificati: dall’impiantistica civile a quella industriale, dall’assemblaggio all’installazione e riparazione di apparecchiature e sistemi elettrici o elettronici. A essere coinvolti anche i docenti del "Pellegrini" che in questo periodo, da lunedì al venerdì per 15-20 ore settimanali, si sono alternati nei vari laboratori: Antonello Sassu, Mario Falchi e Francesco Sircana. Alla loro attività si aggiunge quella svolta dall’educatrice della casa circondariale di Bancali, Francesca Mastino. Torino: a Druento il progetto Lav.Or.A.re, azioni per il reinserimento dei detenuti di Fabio Artesi obiettivonews.it, 25 gennaio 2017 Presentato ieri a Druento (To), un progetto ideato dal Comune insieme all’Ente Parco La Mandria, al Patto Territoriale della Zona Ovest e con il finanziamento della Compagnia di San Paolo, nell’ambito del bando "Programma Libero". Il progetto, denominato "Lav.Or.A.re" consiste in sei detenuti in regime di lavoro esterno (ex art 21 O.P.) che nei prossimi sei mesi (potranno diventare dodici), aiuteranno il Comune di Druento e l’Ente parco La Mandria in lavori di manutenzione sul territorio cittadino e all’interno del parco stesso. Druento Lavorare (1)All’interno del parco, i detenuti effettueranno lavori di manutenzione di immobili, arredi del parco e viabilità; tinteggiature, piccoli interventi da muratore, buche sulle strade, ripristino e manutenzione panchine ecc, nonché manutenzione del verde come piccole potature, decespugliamento, siepi, fossi e attraversamenti; realizzazione aiuole fiorite, rimozione neve e accudimento delle scuderie. Analogo lavoro verrà svolto presso il comune di Druento: taglio erba, manutenzione e pulizie delle aree verdi localizzate nell’area antistante l’accesso al parco regionale La Mandria e in altre parti del territorio; pulizia fossi delle strade comunali, di griglie e caditoie da fogliame e detriti; piccoli lavori di tinteggiatura di staccionate, ringhiere, cancelli, locali e piccoli lavori di muratura. "Ancora una volta Druento è parte attiva in progetti di inclusione socio lavorativa di soggetti detenuti - ha affermato il Sindaco Sergio Bussone - già in passato, con progetti simili, ma più contenuti, la nostra città è riuscita da un lato ad aiutare delle persone nel loro processo di reinserimento sociale. E per noi è motivo di grande orgoglio sapere come il progetto Lav.Or.A.re sia uno dei tre progetti ideati da Comuni ad essere finanziati dalla Compagnia di San Paolo, segno tangibile del grande lavoro di squadra messo in atto nei mesi scorsi assieme all’Ente Parco della Mandria e al Patto Territoriale della Zona Ovest". Un esempio virtuoso di collaborazione che non può che generare una positiva ricaduta sul territorio. Lucca: Garante dei diritti dei detenuti, ecco il bilancio di un anno di attività di Nico Venturi Gazzetta di Lucca, 25 gennaio 2017 A un anno di distanza dalla sua nomina, il garante dei detenuti del comune di Lucca, Angela Mia Pisano, ha portato in consiglio comunale il suo resoconto. "I problemi ci sono sempre, mancanza di personale e carenza di ore di sostegno psicologico per i detenuti sono i punti critici, ma il carcere è passato da 136 detenuti a 79 quindi questo è un aspetto positivo". L’impegno dell’amministrazione carceraria c’è ed è tangibile, sono stati aumentati e migliorati i colloqui con i detenuto e sono stati avviati nuovi percorsi di reinserimento nella società. A breve, infatti, i detenuti inizieranno un progetto con il canile di Pontetetto, avvicinandosi agli animali ospitati nella struttura. Altro punto positivo è la restaurazione dell’ottava sezione del carcere di San Giorgio, che sarà adibita a spazio sociale, ma la sua apertura dovrà essere associata all’assunzione di nuove guardie carcerarie che dovranno vigilare sul corretto funzionamento dello spazio. È stata rifatta anche la sala dei colloqui, togliendo le barriere tra i detenuti e chi viene a trovarli, inoltre il carcere si è dotato di una sala per i bambini allo scopo di favorire la genitorialità dei detenuti, che sono soprattutto stranieri. Oltre alle note positive, purtroppo, si registrano ancora diverse criticità, che sono state elencate proprio dal garante Angela Mia Pisano, nel corso del consiglio comunale. "Il 2016 è stato un anno segnato da due morti tra le sbarre - afferma la Pisano. La prima a febbraio, quando un giovane uomo è stato trovato morto in cella, a causa delle inalazioni di gas fuoriuscite da un fornello. Nei mesi successi, invece, c’è stato addirittura un suicidio di un uomo straniero. In merito a questo vorrei dire che, a mio parere, il suicidio non è dipeso da carenze da parte della struttura o del personale, ma derivano dalla situazione difficile di quella specifica persona. Detto questo è chiaro che bisognerà aumentare le ore di sostegno psicologico ai carcerati - continua la garante - e dovranno essere assunte nuove guardie carcerarie per colmare alcune lacune. Tornando ai punti positivi non sono mancate le attività formative. Sono stati avviati infatti corsi di cucina e percorsi di formazione per il reinserimento delle persone quando usciranno dal carcere. A breve partirà un progetto di laboratorio teatrale mentre, ed è stata organizzata un’attività di cineforum e di palestra. I detenuti hanno a disposizione anche una biblioteca, ma devo dire che non ha riscosso molto successo". Il vice sindaco Ilaria Vietina ha rinnovato l’appoggio dell’amministrazione al progetto e tutto il consiglio comunale si è congratulato con la Pisano per gli ottimi risultati ottenuti durante il suo primo anno. Lucca: la Garante "al carcere San Giorgio calano i detenuti, ma restano le criticità" luccaindiretta.it, 25 gennaio 2017 Un carcere meno affollato, ma con ancora diverse criticità: carenza di personale prima di tutto, poi il deficit delle ore di sostegno psicologico ai detenuti. Ma l’impegno dell’amministrazione carceraria c’è tutto e sono state già introdotte migliorie. È in estrema sintesi il quadro tracciato stasera (24 gennaio) in consiglio comunale dal Garante dei detenuti del comune di Lucca, Angela Mia Pisano, ad un anno dalla sua nomina. Dodici mesi in cui, ha spiegato, sono stati intensificati i colloqui con i detenuti e, contemporaneamente, attivati nuovi percorsi per il reinserimento, come il prossimo che partirà a breve e che prevede di avvicinare i detenuti agli animali ospiti del canile di Pontetetto. Certo, le criticità non mancano e le elenca senza problemi il garante dei detenuti, ma il primo dato è positivo ed è quello che riguarda la popolazione carceraria ristretta alla casa circondariale San Giorgio: si è passati, ha detto Pisano, da 136 detenuti di un anno fa ai 79 dell’ultimo mese. Purtroppo il 2016 è stato un anno contrassegnato anche da due morti tra le sbarre: la prima a febbraio: un giovane uomo trovato morto in cella, per le inalazioni di gas sprigionate da un fornello e, nei mesi successi, un suicidio. C’è poi la questione delle guardie carcerarie il cui numero dovrà aumentare con l’apertura del nuovo spazio per la socialità nell’ottava sezione ristrutturata. "Il mio approccio iniziale è stato quello conoscitivo: ho voluto vagliare personalmente quale fosse la situazione. Per questo ho avviato dei colloqui con i detenuti che all’inizio sono stati visti con qualche diffidenza ma poi sono diventati un momento importante per molti, con una media di due incontri al mese che hanno riguardato soprattutto problemi dei detenuti nel rapporto con i familiari, con i loro legali o con il vitto". Poi i dati sulla popolazione carceraria. "Parlando di numeri - ha aggiunto il garante - c’è stato sfollamento della struttura, passata da 132 detenuti circa quando mi sono insediata ai 79 detenuti attuali. Parallelamente ci sono state migliorie alla struttura, è stata rifatta la sala dei colloqui togliendo le barriere tra i detenuti e chi viene a trovarli. È stata fatta anche una sala per i bambini per favorire la genitorialità dei detenuti che sono soprattutto stranieri". Non sono mancate le attività formative: "All’interno del San Giorgio si svolgono corsi di cucina e percorsi di formazione per il reinserimento delle persone quando usciranno dal carcere. Tra poco partirà un progetto di laboratorio teatrale mentre è stata organizzata un’attività di cineforum e di palestra, anche se andrà meglio attrezzata. C’è anche una biblioteca, ma si deve registrare purtroppo un interesse limitato da parte dei detenuti. È in fase di ultimazione come ha assicurato il direttore Ruello una nuova area socialità per l’ottava sezione. L’arrivo di questa nuova sezione comporterà l’arrivo di nuove guardie carcerarie, per cui sarà necessario che ci si doti di nuovo personale. Questo è un altro problema che andrà affrontato". Non mancano però le criticità: "Purtroppo ci sono stati due decessi: un detenuto italiano e l’altro un detenuto straniero con un percorso di inserimento difficile e che si è suicidato. L’incidenza dei suicidi negli ultimi anni si è andata comunque affievolendo, anche se c’è necessità di potenziare le ore per il supporto psicologico dei detenuti. Questi episodi avvenuti a Lucca non sono da legare alla struttura del carcere e alla sua gestione, bensì a situazioni difficili ma personali dei detenuti coinvolti", ha sostenuto Pisano. "Quest’anno per me è stato molto proficuo perché mi ha arricchito personalmente - ha spiegato il garante dei detenuti -: adesso mi dedicherò all’avvicinamento dei detenuti agli animali in collaborazione con il canile di Pontetetto. È un progetto a costo zero che, credo, possa arricchire i detenuti e contribuire a migliorare anche la vita degli animali". Si prevede di agevolare l’ingresso degli animali all’interno del carcere e consentire ai detenuti che hanno il permesso di uscire di portare i cani a passeggio. Dai consiglieri comunali è stato espresso apprezzamento per il quadro tracciato da Pisano. In particolare dal capogruppo del Pd, Francesco Battistini, che ha invitato a incentivare e studiare forme per accrescere la socialità dei detenuti, al consigliere di Liberi e Responsabili Pietro Fazzi. Il vicesindaco Ilaria Vietina ha rinnovato l’impegno dell’amministrazione comunale nel favorire il percorso di comunicazione tra carcere e città: "Nel suo ruolo ha realizzato uno degli obiettivi dell’amministrazione - ha detto: nella nostra città è necessario che siano attivate le forme possibili di comunicazione e collaborazione fra la casa circondariale e il resto della città. Nel corso degli anni sono aumentate le richieste di organizzare attività culturali. Per noi è un percorso che avevamo già attivato con la commissione sociale, sia nell’ascolto del direttore sia sul fronte della collaborazione di riduzione del numero dei detenuti.È stato importante anche il lavoro di coinvolgimento delle associazioni di volontariato da parte del garante che è stato anche il collegamento con la direzione del carcere. Vogliamo aumentare il numero delle associazioni di volontariato che operino all’interno e monitorare ulteriori lavori di recupero e ristrutturazione. Importante dovrà essere anche il coinvolgimento delle scuole: in questo modo è possibile evidenziare il ruolo rieducativo del carcere". Cagliari: Caligaris (Sdr) "da una settimana bimba 14 mesi dietro le sbarre a Uta" Ristretti Orizzonti, 25 gennaio 2017 "Una bimba di appena 14 mesi da una settimana è rinchiusa con la giovane madre nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. La piccola, che ha subito di recente un intervento chirurgico di labiopalatoschisi, necessita di particolari condizioni igienico-sanitarie e nutrizionali. La sua permanenza in carcere, nonostante l’impegno delle Agenti, dei Medici e degli Infermieri, risulta inaccettabile. Le Istituzioni devono farsi carico di trovare una sistemazione alternativa alla donna e alla bambina". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme, con riferimento alla vicenda giudiziaria di una donna di 34 anni di etnia Rom e della figlioletta con cui condivide la cella. "Madre e figlia - sottolinea Caligaris - sono assistite con professionalità e tenerezza ma la situazione è tuttavia molto delicata perché la bimba deve essere costantemente monitorata e le visite pediatriche in Ospedale possono avvenire solo con la scorta in un momento in cui peraltro il numero del personale penitenziario è ridotto all’osso". "Per quanto possano esservi esigenze cautelari gravi una madre con una creatura di 14 mesi, e altri due bambini in tenera età, non può stare in carcere. Le Istituzioni devono farsi carico di trovare delle strutture a custodia attenuata. L’Icam è dislocato purtroppo in una località periferica e richiede la presenza costante di Agenti della Polizia Penitenziaria ma esistono - ricorda la presidente di Sdr - alternative alla detenzione carceraria che non possono essere ignorate. Tra l’altro il braccialetto elettronico consentirebbe alle forze dell’ordine di monitorare costantemente la donna nella dimora assegnatale e alla piccola di usufruire di un ambiente idoneo a ridurre i rischi di eventuali pericolose crisi. Insomma si può far scontare la pena alla madre e rispettare i bisogni dei bambini". Brindisi: il sindaco Carluccio incontra la direttrice della Casa circondariale pugliapress.org, 25 gennaio 2017 L’Amministrazione comunale di Brindisi conferma la propria collaborazione con la Casa circondariale nei progetti di recupero e reinserimento dei detenuti: lo ha ribadito questa mattina il sindaco di Brindisi Angela Carluccio che si è recata presso l’istituto giudiziario di via Appia per incontrare la direttrice Anna Maria Dello Preite. La sindaca ha partecipato a una riunione in cui sono state gettate le basi per il nuovo Progetto d’istituto e ha annunciato il passaggio nella fase pratica della convenzione sottoscritta a settembre che prevede l’utilizzo di un detenuto che svolgerà per quattro ore giornaliere lavori gratuiti per l’Amministrazione comunale. Tra i progetti che la sindaca si è detta disponibile a supportare, quello relativo al sostegno della genitorialità, incentrato soprattutto sui detenuti che hanno figli in minore età. Reggio Calabria: "pessime condizioni di lavoro", sciopero della mensa per gli agenti di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 25 gennaio 2017 Il Co.s.p. - Coordinamento sindacale penitenziario - denuncia che dalla giornata ieri 23.1.2017 tutta la polizia penitenziaria del carcere di Arghillà, compatti con il sindacato Cosp, protestano per le pessime condizioni di lavoro e scarso benessere alloggiativa, situazioni, stante la denuncia del Segretario regionale Cosp Barbera, che si registrano all’interno della struttura penitenziaria causa carenza cronica di uomini, circa 100 unità rispetto alle dotazioni organiche d.m. giugno 2013. I poliziotti si astengono dalla consumazione dei pasti, pranzo e cena, nella totalità delle adesioni, come già avvenuto in tutta la giornata di ieri, con il prosieguo fino alla data del 26 gennaio 2017, per sollecitare l’amministrazione centrale ad istituire una caserma agenti, oggi, 105 unità donne e uomini vengono allocati nelle celle dei detenuti in un separato plesso che doveva essere destinato a piano detentivo invece ci dormono i poliziotti. La situazione del carcere di Arghillà - denunciano Mastrulli e Barbera - è all’estremo delle forze, poliziotti nel mese scorso durante le festività e anche dopo le festività, costretto a rimanere in servizio per 8, 10, 12 ore continuative senza alcuna sosta, senza alcuna interruzione neanche pausa caffè o pranzo, consumerebbero un panino o un pezzo di pizza all’interno del reparto dove lavorano per vigilare i detenuti questo, per mancanza di personale che doveva effettuare il cambio della guardia. L’azione democratica, pacifica sindacale rivendicativa avviata dalla segreteria regionale della Calabria dal Segretario Luigi Barbera che rappresenta come sindacato Cosp una tra le più consistenti numeriche forze sindacali all’interno della nuova struttura penitenziaria, Barbera luigi, un rappresentante della "base" che si impegna per tutelare i diritti del personale del comparto sicurezza e del comparto ministeri, aggiunge Mastrulli e che saprà certamente, con l’avvallo della segreteria generale "portare all’attenzione delle istituzioni e del governo centrale la delicata profonda mortificazione in cui versa il distaccamento di Polizia penitenziaria e il settore comparto ministeri della Calabria come della sede di Arghillà". Per il giorno 27 gennaio è prevista un’assemblea congiunta alla visita del parlamentare on. Angelo Attaguile. Alessandria: protesta degli agenti, al Don Soria niente pasti in mensa alessandrianews.it, 25 gennaio 2017 Anche gli agenti della casa circondariale Don Soria non consumano i pasti della mensa per protesta. Il Sappe, sindacato autonomo, chiede alla direzione di fermare il trasferimento dei tre agenti a San Michele. La Uil-Pa sollecita la direzione sulla donazione dei pasti alla Caritas. Lo sciopero della mensa era partito nel mese di dicembre 2016 dalla casa di reclusione di San Michele, dove i sindacati denunciavano da tempo una situazione critica dovuta alla mancanza di agenti di Polizia penitenziaria. Dopo l’incontro tra la direzione del carcere e il Provveditore regionale Luigi Pagano erano state individuate alcune soluzioni tampone, tra le quali il trasferimento di tre unità dal Don Soria a San Michele e la dotazione di presidi di vigilanza elettronici. Sembra però che gli agenti della casa circondariale Don Soria non se la passino meglio, tanto che il personale in servizio si è unito alla protesta dei colleghi, astenendosi dal consumare i pasti in mensa. Non solo: il sindacato autonomo Sappe chiede anche di "sospendere il provvedimento di invio delle 3 unità alla casa di reclusione San Michele e di adottare nuove soluzioni". "Attualmente il personale in forza alla Casa circondariale è di 161 unità di cui 22 unità distaccati a vario titolo e 12 unità a disposizione dell’ospedale militare - spiega Vincente Santilli del Sappe - le unità necessarie devono essere di 130, ma in realtà il personale utilizzato è di 61. Nei turni notturni molti reparti vengono accoppiati, non sullo stesso piano, ma sopra e sotto, può capitare di notte che una sola unità copre un blocco intero di 140 detenuti su quattro piani". Giovedì 26 gennaio i rappresentanti sindacali saranno convocati a Torino dal Provveditore per discutere delle misure individuate. I sindacati annunciano "battaglia". Anche Salvatore Carobone della Uil-Pa chiede "soluzioni chiare" e sollecita un segnale di attenzione da parte della direzione del San Michele alla proposta spontanea degli agenti di donare i pasti non consumati della mensa alla Caritas. Erano stati infatti presi accordi con la vicina parrocchia per il trasporto del cibo, che deve essere effettuato secondo precise normative. Occorreva il via libera della direzione per consentire ai volontari della parrocchia di entrare in carcere e prelevare i pasti. "Ma come sempre, tutto tace, nulla muta e tutto resta come prima", fa presente Carbone. Bologna: ciak in carcere, seconda edizione del laboratorio di cinema per i detenuti di Ambra Notari Redattore Sociale, 25 gennaio 2017 Sono ricominciate le lezioni di cinema organizzate dall’associazione Documentaristi dell’Emilia-Romagna nel carcere bolognese. Una quindicina gli studenti. Fiore (direttore scientifico): "Tre dei nostri vecchi studenti oggi sono in semilibertà: ci mancheranno, ma siamo felici per loro". "Abbiamo perso tre studenti bravi e appassionati. Ci mancheranno molto, ma non possiamo che essere felici per loro". Angelita Fiore, direttore scientifico di Ciak in carcere, annuncia così la partenza della seconda edizione del laboratorio cinematografico organizzato dall’associazione Documentaristi dell’Emilia-Romagna nel carcere bolognese della Dozza. Il primo studente è Catalin, romeno di 42 anni, che proprio durante le giornate di Cinevasioni ha ricevuto la notizia della semilibertà; l’ultimo in ordine di tempo è Davide, semilibero da tre giorni, in stage presso la Smk Videofactory proprio grazie alla formazione maturata grazie al laboratorio. La loro nuova condizione fa sì che non possano più seguire le lezioni all’interno dell’istituto penitenziario. "Avevamo promesso ai ragazzi di mantenere la vecchia classe. Così abbiamo fatto, ma ci sono stati nuovi innesti. Ed è giusto, perché la possibilità di frequentare il corso non deve essere negata a nessuno. Anche quest’anno siamo una quindicina: il nuovo gruppo di lavoro, di conseguenza, è ancora più eterogeneo". Ci sono laureati e semianalfabeti, ragazzi che già conoscono il linguaggio del cinema e altri alle prime armi: "L’aspetto che sin dall’inizio mi ha colpito di più riguarda i rapporti umani che si instaurano: gli studenti mi considerano un pò la loro sorella minore. Insieme lavoriamo per abbattere le barriere tra dentro e fuori". La prima lezione, tenuta da Lorenzo Hendel, è stata dedicata alla storia del cinema e alla drammaturgia del cinema documentario (dal titolo del libro di Hendel). Poi si è parlato di inchiesta televisiva e giornalismo con Franz Giordano; del ruolo dei freelance e del rapporto tra video e scrittura con Ivan Grozny Compasso, autore del libro "Kobane dentro. Diario di guerra sulla difesa del Rojava"; di fotografia con Andrea Dal Pian. "Durante l’ultimo incontro è venuto a trovarci Giorgio Diritti: i ragazzi ne sono rimasti affascinati. Ci hanno chiesto di potere vedere "L’uomo che verrà", e presto saranno accontentati, Diritti ha anche parlato dei suoi prossimi progetti, tra i quali la storia di un detenuto, ex terrorista, oggi prete". "Con Ciak in carcere e Cinevasioni abbiamo voluto portare un pò di ‘fuorì dentro alle mura del carcere. Oggi, Catalin e Davide sono fuori, e da lì parlano agli amici rimasti dentro. Chi l’avrebbe detto che la nostra avventura ci avrebbe regalato tutto questo?". Bologna: la storia di Davide, da detenuto a professore di cinema in cella di Ambra Notari Redattore Sociale, 25 gennaio 2017 La storia di Davide: più di 20 anni di carcere alle spalle, due lauree, una specializzazione. Ora la semilibertà e un lavoro da professore di cinema in carcere. "Mi sento un pò un alieno, mi devo ancora abituare a questa routine che sta iniziando. Sai, dopo alcuni anni di chiusura totale". Davide Pagenstecher è in pausa pranzo, in attesa di tornare al lavoro. Risponde da un cellulare appena comprato "che sembra una bistecchiera, rispetto all’ultimo usato 5 anni fa: "Potrei stare fuori ancora un pò, ma fa troppo freddo. Credo rientrerò prima". Davide Pagenstecher, 48enne di origini milanesi, ora è in semilibertà, dopo 23 anni passati tra decine di carceri italiane. Dall’autunno del 2001 è alla Casa circondariale Dozza di Bologna, ed è lì che torna ogni sera alle 20.30, dopo una giornata di lavoro presso la Smk Videofactory. "Mi sveglio alle 8 e per le 10 sono al lavoro. La pausa pranzo è tra le 13 e le 14, per le 15 torno in sede e ci resto fino alle 19. Poi rientro in Dozza. Il sabato resto in carcere, la domenica ho il permesso per andare a messa, magari nel tempo che ho a disposizione riesco anche a farci stare dentro un panino al bar". Per Smk Videofactory, casa di produzione audiovisiva indipendente, Davide porta avanti un’analisi giuridica di un centinaio di faldoni legati al cosiddetto "caso 7 aprile", quella serie di processi tra gli anni Settanta e Ottanta contro militanti identificati nell’area della cosiddetta "autonomia". "La finalità del mio percorso è arrivare alla produzione di un testo scritto. Poi chissà, magari ci saranno anche altri sviluppi". Gli strumenti per realizzare questa ‘analisi giuridicà a Davide sono stati forniti dalla sua seconda laurea in Giurisprudenza, conseguita in Dozza nel 2009. La prima, nel 2005, era in Scienze politiche. Il suo percorso di studi si è chiuso - per ora - con una specializzazione in Scienze dell’organizzazione avanzata, che lo ha portato anche a collaborare con Terres des Hommes e con il Rie, Ricerche industriali energetiche, di Bologna. "Mi fa sorridere, ma sai come mi chiamano in carcere? L’avvocato. Quello che è certo è che quando ho cominciato a studiare ho distaccato totalmente la mente dai pensieri criminali", ammette Pagenstecher. La seconda vita di Davide, cominciata sui libri, ha avuto una nuova svolta con la sua partecipazione alla prima edizione di Ciak in carcere, il laboratorio di cinema organizzato lo scorso inverno in Dozza dall’associazione Documentaristi dell’Emilia-Romagna (Der). "Filippo Vendemmiati e Angelita Fiore ci hanno convocato e ci hanno raccontato l’idea che avevano in mente. Io in quel corso ce l’ho messa tutta: tutto il mio spirito, la mia voglia di approfondire e conoscere, il mio interesse. È stato davvero molto bello. E poi, Cinevasioni: in quei giorni a noi giurati non è nemmeno sembrato di essere in carcere". Si emoziona, Davide, quando ricorda Cinevasioni, il primo festival del cinema in carcere, andato in scena lo scorso maggio in Dozza: "Spero tanto che Angelita e Filippo riescano a portarlo avanti, perché è un’occasione unica, sia per chi sta dentro, sia per chi sta fuori, di conoscersi". Un interesse e una passione così forti, quelli di Davide, che tra aprile e maggio 2016 convincono il magistrato di sorveglianza a prendere in considerazione l’ipotesi della sua semilibertà: "Naturalmente prima dovevo cercarmi un lavoro: mi è venuto in mente Vendemmiati, e tutti insieme abbiamo lavorato per mandare in porto questo stage a Smk Videofactory". "Per lui ho grandi progetti - annuncia Angelita Fiore, responsabile con Vendemmiati del corso di cinema -. Voglio che mi aiuti a portare avanti la nuova edizione di Ciak in carcere. Gli studenti mi danno i compiti: giusto oggi mi hanno chiesto di raccogliere informazioni sul cinema americano e sullo star system, per parlarne insieme. Chiederò a Davide di accompagnarmi in questo percorso di ricerca: dobbiamo rimboccarci le maniche tutti. Anche per noi questa è una cosa nuova: lo appoggeremo e lo seguiremo, non vogliamo tradire le sue aspettative". "Me lo ripeto sempre - conclude Davide, mentre si riveste per tornare al lavoro, incredulo del freddo che avvolge la città ("d’altro canto in carcere mica avevo bisogno di abiti troppo pesanti: non ero più abituato all’aria aperta") - è inutile piangere sul nostro passato, meglio reagire nella maniera giusta e guardare avanti, con convinzione. A me resterebbero ancora 7 anni e 4 mesi da scontare, ma chissà, le cose potrebbero andare ancora meglio. Io non smetto di crederci". Ferrara: "Il mio vicino", uno spettacolo racconta il teatro in carcere cronacacomune.it, 25 gennaio 2017 Sabato 11 febbraio ore 21, "Il mio vicino", Ferrara Off, viale Alfonso I d’Este 13, Ferrara. Testo e regia di Horacio Czertok con Horacio Czertok e Moncef Aissa, musiche di Andrea Amaducci, produzione Teatro Nucleo. "Spesso mi chiedono perché faccio teatro in carcere. Perché ci ostiniamo nel tenere vivo lì il laboratorio teatrale? Perché accettare questa durezza che ogni giorno il carcere impone a noi come a tutti quelli che sono lì a fare la loro parte? Mi sono trovato a rispondere: queste persone qui, i detenuti, prima o poi usciranno. E verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa? La legge ci autorizza a partecipare nel percorso trattamentale da normali cittadini, che è poi quello che siamo in carcere, con l’autorevolezza che la nostra pratica ha guadagnato sul campo. Abbiamo pensato che se possiamo, allora dobbiamo farlo. Così, durante circa tre anni ho lavorato in carcere con Moncef Aissa, un cittadino tunisino detenuto. Insieme abbiamo fatto un buon percorso. Un bel giorno esco da casa e chi ti trovo lì per strada in bicicletta? Moncef. Gli dico: cosa ci fai qui? Sei scappato di prigione? No, risponde, sono libero ora. Ma cosa ci fai qui? Ah, io qui ci vivo. Sulla mia strada. A trenta metri da casa mia. Così è nato questo spettacolo: sul filo del racconto delle tante cose che ci siamo trovati a vivere con il teatro nel carcere e che ci hanno fatto crescere, storie e poesia arabe e Totò, che vogliamo condividere per capirle meglio, perché solo nella condivisione si capisce di cosa siamo fatti per davvero. Il Laboratorio Teatrale della Casa Circondariale di Ferrara è sostenuto dal Comune di Ferrara-ASP, dal Coordinamento Regionale Teatro Carcere, dalla Regione Emilia-Romagna. È sede di un partenariato strategico Erasmus Plus 2015-2018. Ferrara Off, viale Alfonso I d’Este 13, Ferrara, ingresso: 8 € soci 2017, 5 € ridotto under-20, 10 € non soci (inclusa tessera associativa). "Shakk. Il Mediterraneo che scoppia". Accogliere è un dovere affaritaliani.it, 25 gennaio 2017 Lo scrittore Antonio G. D’Errico parla del suo libro "Shakk - Il Mediterraneo che scoppia" e dell’emergenza migranti. Il Mediterraneo scoppia. Scoppia di migranti, come vengono comunemente chiamati. Ma in realtà scoppia di persone. E di storie. Raccontate nel libro "Shakk - Il Mediterraneo che scoppia". Affaritaliani.it ha intervistato l’autore, Antonio G. D’Errico. Shakk in arabo significa dubbio. Qual è il dubbio al quale si fa riferimento nel titolo del suo libro? In realtà il titolo propone una forma di nome collettivo, perché nel dubbio ci sono tanti dubbi. Ci sono le angosce e le paure di tutti, di coloro che arrivano dal mare stipati all’interno di navigli carichi, pesanti e pericolanti e ci sono le angosce e le paure di chi, da terra, vede in quegli arrivi il presagio di un arrembaggio senza fine. I dubbi sono il presagio di un futuro incerto in un mondo nuovo che non si incontra, che non ha possibilità di comprensione vicendevole. Il dubbio è l’ignoranza di chi teme la sopraffazione. Il dubbio è il sospetto di chi si sente avvilito in una terra straniera ma anche di chi, in casa propria, teme l’estinzione, come si predica spregiudicatamente da più parti. Da che cosa nasce questo libro? Perché la scelta di raccontare la storia di due migranti? La storia dei migranti è la storia dell’umanità, dagli albori primordiali fino ai nostri giorni. La storia del mondo insegna. I migranti sono espressione della vita nel suo divenire. Senza voler ricordare nei dettagli le grandi migrazioni italiane di fine Ottocento, primi del Novecento verso l’America o quelle avvenute nel dopoguerra verso la Francia, la Germania, il Benelux, ricordo che attualmente centomila giovani italiani ogni anno espatriano per cercare lavoro all’estero, sperando di dare un senso alla propria vita. Le migrazioni sono anche attualità della popolazione italiana: comprenderne l’intima natura è un bene oltre che un dovere. I migranti italiani all’estero, ad esempio solo nella vicina Inghilterra, creano veri e propri problemi sociali tra i sudditi della Corona britannica. I migranti sono un pericolo? No, non sono un pericolo, a mio avviso. Naturalmente, a questo punto, dopo quanto ho detto poco prima, dipende da quale parte viene la domanda e verso chi è rivolta. Ogni volta che si verifica un attentato in Europa, e in particolare dopo il caso di Anis Amri, c’è chi chiede una chiusura dei confini. Secondo lei sarebbe una risposta adeguata? Terrorismo e migranti sono in qualche modo collegati? Ma nella società globale o globalizzata davvero si ritiene di poter porre un vincolo alle idee e alle speranze di chi è disposto a tutto per dare compiutezza alla sua vita? Chi immagina il proprio futuro fuori dalla sua terra, dalla sua condizione di nascita, chi crede che la sua vita abbia una possibilità di realizzazione da un’altra parte del mondo, lontano da miserie, sofferenze, guerre, carestie, sono certo che niente e nessuno potrà fermarlo da questa sua volontà e necessità. Tre quarti dell’Africa, per inciso, scappa da carestie, pestilenze, guerre, persecuzioni. Infine, mi sembra scontato che il terrorismo non sia in relazione alle migrazioni. Il terrorista segue una sua ispirazione, intima, violenta, assassina che cerca di perseguire con ogni mezzo. E sicuramente il barcone non è il mezzo più idoneo che immagina possa aiutarlo nello scopo. In che cosa dovrebbe cambiare il sistema di accoglienza italiano ed europeo? L’emergenza profughi è una vera e propria emergenza: un momento di crisi, di transizione, un accentuarsi di difficoltà. Anche se le difficoltà maggiori sono vissute da chi è in fuga, chilometri e chilometri a piedi, in mezzo al fango, con i bambini piccoli in braccio, cercando di evitare la morte sotto le bombe di una guerra che non risparmia nessuno. Non parlo solo dei siriani, iracheni, curdi. Anche in Africa ci sono le guerre tra bande armate che fanno capo a gruppi di fanatici che si rifanno ad Al Qaeda e all’Isis. Arrivano da noi. L’Italia li accoglie. È il minimo gesto umano e cristiano che si possa fare. Poi, sicuramente, bisognerà creare un coordinamento europeo. Se escludiamo la Germania e la Francia, dove al pari dell’Italia l’accoglienza viene realizzata, lo stesso dicasi della Grecia, certamente i muri di filo spinato non aiutano a far fronte all’emergenza. E ribadisco la condizione di emergenza del fenomeno. Recenti casi di cronaca, come quello di Gorino, hanno mostrato spaventosi casi di intolleranza. Per non parlare della vicenda del Cpa Veneto, con 1.500 persone ammassate perché nessun comune accetta i profughi. Secondo lei l’Italia è un paese razzista o quantomeno c’è il rischio che esplodano ancora più forti tensioni sociali? In un paese organizzato e capace di far fronte all’emergenza non ci saranno tensioni sociali future. Non a caso, l’Italia non è stata toccata da violenze e fatti terroristici. In Veneto, come dice bene nella domanda, c’è stata una concentrazione eccesiva di persone nel centro di prima accoglienza di Cona perché i sindaci dei comuni del Nordest si sono rifiutati di accogliere profughi e migranti di qualsiasi provenienza. Non è questo l’atteggiamento di chi vuole evitare crisi di sorta e tensioni. Ciononostante, a mio avviso, l’Italia non è un paese estremamente razzista. Lo dimostra l’opera quotidiana svolta da tante persone intente a salvare vite umane in pericolo. Spesso la vita di queste persone in fuga dalla guerra o da situazioni disperate viene trattata come un numero, come quando si fa il bollettino del numero dei morti in mare. Leggere questo libro può essere un modo per capire che dietro quei numeri ci sono persone e vite come tutte le nostre? Il mio libro indaga nelle vite dei personaggi, esplorando le verità insite nelle culture a confronto. Approfondisce le questioni sui temi religiosi, sulle barriere culturali e le condizioni per superarle. Rappresenta le inquietudini di chi si sente bersaglio di questi tempi. Nel libro descrivo gli atti terroristici francesi, che hanno recato morte tra i giovani del Bataclan, tra cui la ricercatrice italiana Valeria Solesin. Ho cercato di rappresentare le vite dei molti che soffrono la realtà di questi tempi: le rotte africane della speranza, il dramma dell’arresto dei profughi nei centri di accoglienza sulle coste libiche. Ho rappresentato la realtà di molte vite che, naturalmente, a tratti, si somigliano nei loro aspetti sostanziali. L’Ue: "Rinviamo i migranti in Libia" di Carlo Lania Il Manifesto, 25 gennaio 2017 Una doppia "linea di protezione" per impedire ai migranti di raggiungere l’Europa. La prima, in acque territoriali libiche, sarà messa in atto dalla guardia costiera di Tripoli e avrà il compito di fermare alla partenza i barconi carichi di disperati, mentre in acque internazionali opereranno le navi della missione europea. La seconda sarà invece a terra, lungo la linea di confine che separa la Libia dal Niger e servirà a fermare quanti fuggono da guerre e miseria prima che riescano ad entrare nel paese nordafricano. Obiettivo che Bruxelles conta di raggiungere anche grazie a una maggiore collaborazione con Mali, Ciad ed Egitto. L’Europa ha fretta e Malta, a cui spetta la presidenza di turno, accelera al massimo per trovare una soluzione che metta la parola fine alla crisi dei migranti. Anche perché, sottolineano a Bruxelles - ma anche a Roma e La Valletta - la primavera si avvicina e con essa un prevedibile e forte aumento degli sbarchi. Brexit a parte, immigrazione e sicurezza sono due punti sui quali il premier laburista di Malta Jospeh Muscat ha detto fin da subito di voler puntare. "Ci sarà una nuova crisi di migranti nei prossimi mesi e i numeri potrebbero essere peggiori del 2016", ha spiegato pochi giorni fa al termine di un vertice con il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker. Oggi proprio Juncker, insieme al commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini, annuncerà a Bruxelles un nuovo pacchetto di misure mirate ad arginare i flussi di migranti attraverso il Mediterraneo e che verranno discusse al prossimo vertice di Malta del 3 febbraio. Già da qualche giorno, però, circola un documento informale messo a punto dalla presidenza maltese in cui si chiede agli stati membri di cominciare a ragionare sulla "creazione di una linea di protezione" volta a fermare i migranti "molto più vicina ai porti di origine, nelle acque territoriali libiche". Questa linea, prosegue il documento, si farebbe "con le forze libiche come operatori di prima linea ma con un sostegno europeo forte e duraturo". A questa conclusione Malta sarebbe giunta vista l’impossibilità di poter contare sulla collaborazione attiva del governo del premier al Serraj, considerato troppo instabile. Compito degli europei, prosegue il documento, sarebbe quello di garantire che i migranti intercettati dai libici siano "sbarcati" in Libia "in condizioni adeguate", cosa che dovrebbe essere garantita dalla presenza di organizzazioni come l’Oim e l’Unhcr. Cardine di tutta l’operazione sarebbe la futura Guardia costiera libica il cui addestramento, compiuto dalla missione europea Sophia, è ormai quasi giunto al termine. Sembra chiaro che, seppure camuffati da operazioni di salvataggio, quelli che Bruxelles si preparerebbe a mettere in pratica sono di fatto respingimenti in mare. Respingimenti già condannati in passato dalla Corte di Strasburgo, ma che questa volta non potranno essere definiti così perché compiuti dalle autorità libiche. Migranti. Ius soli, rivolta nel Pd. "Niente inciuci, la legge va approvata" di Giovanna Casadio La Repubblica, 25 gennaio 2017 Cuperlo: se passa il baratto con la Lega mi dimetto. La relatrice Lo Moro: porteremo la riforma a casa. "Se un partito di sinistra, il Pd, il mio partito, contrabbandasse una legge di civiltà come lo "ius soli" con un accordo sulla legge elettorale, quella sarebbe una delle ragioni per abbandonare quel partito". Gianni Cuperlo, leader della sinistra interna, esprime il disagio che cresce tra i democratici. Il rischio che la riforma della cittadinanza ai nuovi italiani finisca nella palude, in cambio di un assist della Lega sulla legge elettorale per andare alle elezioni a giugno, agita il Pd. E la rivolta non è solo della minoranza dem contro la realpolitik renziana, ma si allarga dentro il partito. Sarebbe un "pactum sceleris", un patto scellerato: lo definisce Roberto Cociancich, senatore renzianissimo, che ha guidato il comitato per il Sì al referendum costituzionale. "Lo stesso Matteo ha sempre detto che la riforma della cittadinanza era insieme con quella sulle unioni civili, uno dei provvedimenti che dà dignità a questa legislatura. Una legge elettorale non sta sullo stesso piano di una legge di civiltà come questa". Il Pd ha ritenuto la cittadinanza ai bambini nati in Italia figli di immigrati, uno spartiacque di modernità e di diritti. Così da archiviare lo "ius sanguinis", la cittadinanza italiana per diritto di sangue. Pierluigi Bersani, l’ex segretario del Partito democratico, ne aveva fatto il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale. Adesso lo ricorda: "Alla domanda su cosa avrei fatto per prima cosa se fossi andato a Palazzo Chigi, io rispondevo: "Se tocca a me si comincia dal primo giorno a chiamare italiani i figli di immigrati che studiano qui e che oggi non sono né italiani, né immigrati". Avverte: "Questo è l’impegno che avevamo preso con gli elettori". Dal quale non si può derogare. Del resto era stato riconfermato da Enrico Letta diventando premier ("Sarà un provvedimento dei primi 100 giorni del mio governo") e rilanciato da Renzi. E ora? Ieri nell’ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato il dossier "ius soli" è stato aperto da Doris Lo Moro. Relatrice della riforma, capogruppo in commissione, Lo Moro ex magistrata, dice di essere determinata: "Porterò a casa la legge sulla cittadinanza a tutti i costi. I lavori vanno velocizzati". Ammette che sì, "in questi giorni si sente che c’è qualcosa che non va. Credo sia collegato alla sentenza della Consulta e alle sue conseguenze: se si va al voto prima dell’estate o meno. Comunque non mi sembra credibile l’ipotesi di voto anticipato con tutti i problemi sul tavolo. E con la Lega non abbiamo nulla che ci accomuni, non vedo neppure affinità sulla legge elettorale". Capitolo Lega. Roberto Calderoli, leader del Carroccio e vice presidente del Senato, è convinto che la riforma della cittadinanza non vada più da nessuna parte. "Se approda in aula presenterò non gli 8 mila emendamenti già depositati in commissione, ma milioni. Faremo su questo la campagna elettorale". Per novecentomila ragazzi, italiani di fatto, nati, cresciuti in Italia, la speranza è appesa al filo della politica. La commissione Affari costituzionali al Senato è senza presidente, perché Anna Finocchiaro, che la guidava, è diventata ministra dei Rapporti con il Parlamento. Anche questo non aiuta a portare avanti i provvedimenti. Salvo Torrisi, alfaniano, in queste settimane presidente temporaneo, commenta: "Il tema è la durata della legislatura. Se si va a votare a giugno, sarà molto difficile approvare una riforma così divisiva". 1113 ottobre del 2015 la Camera dei deputati ha dato il primo via libera allo "iu soli", dopo un decennio di annunci bloccati. La comunità di Sant’Egidio aveva presentato una proposta di legge nel 2004. Al Senato la riforma della cittadinanza si è impantanata. Partecipando al convegno organizzato da Emma Bonino sull’immigrazione, il presidente Pietro Grasso ha assicurato il suo impegno: "È una priorità". Migranti. Ius soli, il patto scellerato contro i diritti di Chiara Saraceno La Repubblica, 25 gennaio 2017 Sacrificati sull’altare di un possibile compromesso sulla legge elettorale e della rincorsa populistica, i figli di migranti nati e cresciuti in Italia devono rinunciare ad acquisire la cittadinanza italiana senza dover attendere il compimento della maggiore età. Il progetto di legge già approvato alla Camera oltre un anno fa sembra definitivamente insabbiato al Senato. Rimandato nei lunghi mesi della campagna referendaria, fermo alla Commissione Affari costituzionali per l’opposizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nel disinteresse dei Cinque Stelle, ora sembra diventato, merce di scambio per l’accordo sulla legge elettorale. Renzi, che da segretario del Pd e presidente del Consiglio aveva, all’inizio del mandato e prima di entrare nel girone infernale della riforma costituzionale, ne aveva fatto uno dei fiori all’occhiello del suo programma, non solo lo ha lasciato al suo destino, non si oppone (per non pensare il peggio) che venga scambiato per ciò che ora gli sta più a cuore: arrivare alle elezioni il più presto possibile, a costo di rimandare sine die una legge di civiltà. Con grande felicità della Lega, che in questo modo coglie due piccioni con una fava - elezioni subito e contrasto duro ai migranti, inclusi quelli che migranti non sono perché nati e cresciuti qui. Un successo che saranno la Lega e gli altri partiti di destra a sbandierare nelle elezioni prossime-future come difesa dell’italianità rispetto all’odiato straniero. E l’intero iter legislativo dovrà ricominciare da capo, rendendo inutile il lungo processo di mediazione e i molti compromessi restrittivi che avevano portato alla legge approvata alla Camera. Nel frattempo, i ragazzi nati e cresciuti qui, o arrivati da piccoli e andati a scuola qui, dovranno continuare a vivere da stranieri nel Paese che conoscono meglio, in cui vanno a scuola e di cui parlano la lingua a volte meglio di quella del Paese dei loro genitori. Stranieri in casa propria, verrebbe da dire, in bilico tra due mondi cui per motivi diversi non sono pienamente appartenenti: l’Italia, perché rifiuta di riconoscerli come propri cittadini, il Paese d’origine, perché lo conoscono solo in via mediata. Esclusi dall’appartenenza, dovranno anche stare attenti a non fare passi falsi nella lunga attesa della maggiore età. Se i genitori, come sta capitando in questi anni di crisi, li mandano temporaneamente a vivere con i nonni nel Paese d’origine, rischieranno di perdere il diritto ad accedere a una corsia privilegiata per ottenere la cittadinanza una volta divenuti maggiorenni. A differenza dei loro coetanei italiani, non potranno partecipare a scambi culturali che prevedono mesi all’estero, perché ciò potrebbe inficiare il requisito della residenza ininterrotta in Italia. Se non in possesso di un documento di identità del Paese d’origine (cosa difficile per i rifugiati, ma anche per molti migranti economici ), non potranno recarsi all’estero con la loro classe. È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente. Deludendo sistematicamente le attese legittime di una giovane generazione di stranieri e dichiarandone implicitamente ed esplicitamente l’irrilevanza, si aliena la fiducia di chi potrebbe concorrere sia agli equilibri demografici, sia alla costruzione di una società più integrata e meno divisa in gruppi non comunicanti. L’unico modo che hanno il Pd e il suo segretario di smentire i sospetti di un patto scellerato è che tutti ì suoi senatori chiedano l’immediata calendarizzazione del provvedimento, assumendosi la responsabilità di argomentarne le buone ragioni anche al proprio interno, verso i propri alleati di governo e verso il proprio elettorato, senza farsi ricattare dalle minacce di Calderoli di seppellirli di emendamenti. Altrimenti, oltre al sospetto di cinismo, si avallerà anche quello che il Pd voglia non già affrontare le questioni che, in assenza di attenzione e risposte credibili, alimentano i populismi, bensì cercare di competere su quel terreno con le stesse armi e argomenti di chi ci sta da anni e ne ha fatto la propria cifra. La sospensione dei diritti degli stranieri e dei migranti (si pensi al progetto di rivitalizzare i Cie o di ridurre le possibilità di appellarsi a decisioni di rigetto della domanda di asilo ) come carta da giocare nella competizione politica. Una scelta suicida, perché il terreno è già occupato da giocatori più esperti e spregiudicati. Droghe. La Relazione senza politica di Salvina Rissa Il Manifesto, 25 gennaio 2017 Un documento passato sotto silenzio. Ancora una volta, nonostante gli sforzi, manca l’obiettivo istituzionale principale. La Relazione annuale sulle droghe è stata presentata al Parlamento nel dicembre 2016 dall’allora ministra per le riforme costituzionali Elena Boschi: un documento teoricamente importante, passato tuttavia sotto silenzio stampa. Già a un primo sguardo, si capisce perché. Per la quarta volta consecutiva da quando la legge Jervolino Vassalli (1990) introdusse l’obbligo di riferire al Parlamento, la Relazione non è preceduta dall’introduzione di un responsabile governativo, che indichi un indirizzo politico a partire dai dati esposti. E neppure contiene una presentazione che offra una cornice interpretativa dei dati contenuti, in modo che la Relazione possa rispondere alle domande fondamentali del legislatore: i dati raccolti sono davvero quelli più utili per indirizzare le politiche? Se sì, confermano o smentiscono gli indirizzi sin qui seguiti? Perché la Relazione è, o dovrebbe essere, uno strumento per i policy maker di verifica, valutazione, pianificazione delle politiche pubbliche - vale la pena di ricordarlo e sottolinearlo. Niente di tutto ciò è presente nella Relazione, che si apre con una semplice enunciazione dei contenuti dell’Indice. Ancora una volta, nonostante gli sforzi, il documento manca il suo obiettivo istituzionale principale. Nonostante gli sforzi, ripeto. Perché è vero che nel 2016 il Dipartimento antidroga aveva fatto interessanti aperture alla società civile, coinvolgendo il mondo dell’associazionismo nella preparazione e nella stesura della Relazione. Non solo: aveva inaugurato un dialogo con le Ong anche su questioni politiche cruciali come il dibattito in vista dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe, che si è svolta a New York nell’aprile scorso (Ungass 2016). Ma la tela di rapporti fra società civile e istituzioni è stata in gran parte lacerata dalla non politica, ossia dalla mancanza di trasparenza nelle scelte politiche, che si è riflessa negativamente sul carattere stesso della Relazione. Alcuni esempi di sforzi vanificati. Le molte pagine dedicate a Ungass fanno appena menzione della consultazione delle Ong italiane in vista dell’assise di New York. Eppure l’interlocuzione col governo aveva permesso di mettere a fuoco il rapporto fra il quadro internazionale e le politiche in Italia. Così, quando il ministro Orlando, parlando a New York, sostiene che "le condotte di minore gravità non siano da punire necessariamente con severe sanzioni penali" (p. XXXII), ci si può chiedere che cosa significhi applicare questa linea in Italia e quali modifiche legislative coinvolga. E questo era stato per l’appunto uno dei temi più discussi nella consultazione, di cui si è persa traccia nella Relazione. Come peraltro si è persa traccia delle indicazioni di riforma offerte dagli Stati Generali della Giustizia, promossi dallo stesso Ministero. Il paradosso si tocca nella parte sulla Riduzione del danno, direttamente curata da Forum Droghe e Cnca, le due Ong che più si erano spese perché la Riduzione del danno avesse finalmente il posto che merita fra i "pilastri" delle politiche sociosanitarie in tema di droga. Ma nel testo pubblicato, il riferimento a Forum Droghe è scomparso, mentre il Cnca è stato declassato a mero rilevatore di dati sui servizi esistenti. Ancora più grave, nella presentazione della Relazione non sono riprese e valorizzate le indicazioni operative ai policy maker: come superare i limiti storici dell’attuale offerta e introdurre nuovi indispensabili interventi, come sviluppare in maniera coerente il monitoraggio e la ricerca. Insomma, il lettore si ritrova in mano un tomo di 489 pagine che sembra fatto apposta per non operare alcuna scelta politica sulle droghe. Oggi è la Giornata internazionale degli avvocati in pericolo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 gennaio 2017 Si celebra oggi l’ottava Giornata internazionale degli avvocati in pericolo. Nata nel 2009 su iniziativa di un gruppo di organizzazioni, avvocati e docenti universitari europei, quest’anno la Giornata si rivolge al governo cinese per chiedere la fine della persecuzione ai danni degli avvocati che si occupano di diritti umani. La più recente ondata repressiva è scattata il 9 luglio 2015: nel giro di pochi giorni, 248 avvocati per i diritti umani furono convocati per interrogatori o posti agli arresti. Da allora, la maggior parte di loro è stata rilasciata ma tre avvocati rischiano una lunga condanna e un quarto è stato già condannato. Si tratta di Zhou Shifeng, direttore dello studio legale Fengrui della città di Tianjin, condannato nel 2016 a sette anni di carcere per "sovversione". Per lo stesso reato rischiano una lunga pena l’avvocato Li Heping, detenuto nella prigione n. 1 di Tianjin e ancora in attesa del processo, e l’avvocato Wang Quanzhang, compagno di prigionia del collega Zhou. Le pressioni delle organizzazioni legali e per i diritti umani hanno ottenuto, proprio una settimana fa, il rilascio su cauzione del fratello minore di Li Heping, Li Chunfu. Un anno e mezzo di carcere gli ha tuttavia rovinato la salute. Sempre per sovversione, ma nel suo caso anche per non aver rispettato un’ordinanza di tribunale, potrebbe essere presto condannato l’avvocato Xie Yang, detenuto nella prigione n. 2 di Changsha. Un ulteriore avvocato per i diritti umani, Jiang Tianyong, è trattenuto sotto stretta sorveglianza in un’abitazione in una località sconosciuta. Egitto. Caso Regeni: giustizia non è fatta, un anno di depistaggi di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 gennaio 2017 A un anno esatto dal suo rapimento, nel giorno dell’anniversario di piazza Tahrir, un video mostra Giulio Regeni mentre svolgeva il proprio lavoro. Girato dalla polizia. Dall’incidente stradale alla banda criminale, le piste false e le bugie fino ai riflettori puntati di recente su Abdallah. Lo abbiamo rivisto appena qualche giorno fa, Giulio Regeni, in un video che, al di là dei motivi per cui è stato diffuso (dalla procura egiziana, prima ancora che da quella italiana), mostra un ragazzo che il 15 gennaio scorso avrebbe compiuto 29 anni appassionato del proprio lavoro, rigoroso, professionale, e insieme empatico, umano. A un anno esatto dal suo rapimento - oggi, anniversario dei moti di Piazza Tahrir - dal quel giorno in cui sparì a pochi metri dalla sua abitazione al Cairo dopo l’ultimo contatto telefonico avuto con il suo amico Gennaro Gervasio alle 19:41, il ricercatore friulano ritrovato morto sulla strada per Alessandria il 3 febbraio 2016 è riapparso in quelle immagini inedite girate con una telecamera nascosta dal sindacalista degli ambulanti cairoti, Mohammed Abdallah, l’uomo che per sua stessa ammissione consegnò Regeni "agli Interni". La procura di Roma, che è in possesso di quella lunga registrazione (un’ora e 55 minuti) dall’ultimo vertice con gli inquirenti egiziani a Roma, all’inizio di dicembre, ha sempre sospettato che quel video (girato il 6 gennaio 2016) fosse stato realizzato grazie a microspie fornite dalla stessa polizia egiziana al capo degli ambulanti. A dimostrazione del fatto che anche riguardo la durata delle indagini svolte dagli inquirenti cairoti su Regeni ("dal 7 gennaio, dopo la segnalazione di Abdallah, e per soli tre giorni", aveva assicurato il procuratore generale Sadek) non sia mai emersa tutta la verità. Ma le autorità giudiziarie di Al Sisi ci hanno abituato a depistaggi e bugie malgrado le promesse di "collaborazione". Tanto che suona quasi una beffa il recente via libera della procura egiziana dato finalmente - e dopo molti rifiuti - alla richiesta dei magistrati italiani di inviare al Cairo Ros e Sco, insieme agli esperti di un’azienda tedesca specializzata nel recupero dei dati delle telecamere di sorveglianza, per analizzare gli impianti delle stazioni metropolitane della zona di Dokki, il quartiere dove Giulio viveva e dove passò (secondo i dati delle celle telefoniche) prima di sparire, il giorno dell’anniversario della caduta di Hosni Mubarak. I depistaggi iniziarono subito, appena poche ore dopo il ritrovamento del cadavere orrendamente martoriato del ricercatore, a poche centinaia di metri da una prigione dei servizi segreti. In quelle ore Al Sisi riceveva la ministra delle Attività produttive Federica Guidi, in visita istituzionale per tutelare gli affari di centinaia di imprese italiane nel Paese nordafricano. Di "incidente stradale" parla subito il capo della polizia di Giza, Shalaby, un servitore dello Stato condannato in via definitiva nel 2003 per aver torturato un detenuto. Da quel giorno in poi le "piste" fatte trapelare dagli ambienti giudiziari cairoti e accreditate sui media egiziani (e non solo) sono le più disparate: un gioco omosessuale finito male, il linciaggio di un depravato, un atto di criminalità comune, un omicidio passionale, un regolamento di conti tra spacciatori e drogati (anche se nel corpo di Regeni non venne trovata traccia di sostanze stupefacenti), l’eliminazione di una spia, il risultato di una faida interna ai sindacati o ai movimenti di sinistra, il tradimento di un dirigente della Oxford Analytica, la società alla quale il ricercatore prestava la propria collaborazione… Tutto fuorché il "movente politico". Anzi, il movente politico a un certo punto viene fuori: il governo egiziano paventa prima un sabotaggio messo in atto dai Fratelli musulmani, poi, all’inizio di marzo, una "fonte di alto rango della presidenza egiziana" prova ad accollare la responsabilità dell’omicidio di Giulio direttamente allo Stato Islamico. In fondo, sarebbe stata una verità di comodo per tutti, italiani, europei ed egiziani. E se non fosse stato per la forza e la dignità della famiglia Regeni, per l’attenzione sollevata dalle associazioni per i diritti umani, Amnesty in testa, per il battage della stampa internazionale e della comunità accademica, e per il rigore del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, forse qualcuno anche in Italia sarebbe stato disposto a chiudere un occhio e ad accettare la pista più accreditata da Al Sisi. Ma nessuno abbocca, anzi, la campagna "Verità per Giulio Regeni" prende piede ogni giorno di più, con la denuncia puntuale della violazione sistematica dei diritti umani sotto il regime del generale golpista. Il 24 marzo allora viene messa in scena il più teatrale dei depistaggi: cinque criminali comuni vengono trucidati in un conflitto a fuoco con la polizia egiziana e in uno dei loro "covi" verranno poi fotografati su un piatto d’argento, tra oggetti che non gli appartenevano, anche il passaporto, due tesserini universitari e il bancomat di Giulio. Si prova così a chiudere il caso dando tutta la colpa alla "banda specializzata in sequestri di stranieri". Anche se invece l’episodio rivelerà alla procura di Roma - che ancora ieri dissentiva dalla versione egiziana - il coinvolgimento di agenti della National Security nella pianificazione dei depistaggi. "Il caso giungerà presto a conclusione, siamo vicini a una svolta", avevano fatto trapelare qualche settimana fa gli uomini vicini ad Al Sisi. E di nuovo ieri il presidente della commissione Affari esteri egiziana, Ahmed Said, a margine di un’audizione in Parlamento europeo, ha rilanciato: "Presto mi aspetto annunci, tra uno o due mesi. Siamo disposti a fare tutto il possibile perché la questione si risolva una volta per tutte". Staremo a vedere in che modo, ma la verità è scritta - purtroppo - sul corpo di Giulio. "L’ho riconosciuto solo dalla punta del naso", disse sua madre, Paola Deffendi, minacciando di pubblicare le foto di quel volto se il governo italiano non avesse messo alle strette le autorità cairote. "Hanno usato il suo corpo come una lavagna", riferì mesi dopo quando le vennero trasmessi gli ultimi risultati dell’autopsia italiana, che naturalmente non combaciavano affatto con quelli egiziani. "Abbiamo visto e stiamo vedendo proprio tutto il male del mondo. Questo male continua a svelarsi pian piano", ha ribadito ieri commentando gli ultimi tentativi di spostare l’attenzione sul ruolo di Abdallah. C’è una sola verità da tenere a mente: Giulio è stato ucciso da "esperti torturatori", come spiegò il prof. Fineschi che eseguì l’esame autoptico. Un "lavoro" non certo da mercanti ambulanti. Egitto. Caso Regeni, il verbale dell’ambulante che inchioda i servizi segreti del Cairo di Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 25 gennaio 2017 Mohammed Abdallah, "capo" dei venditori ambulanti, ha dichiarato lo scorso dicembre all’"Huffington Post": "Sì, ho denunciato Regeni, ogni buon egiziano l’avrebbe fatto". "Qui ho finito di registrare, venitemi a togliere l’apparecchiatura", si sente dire dall’ex capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah, in coda al filmato in cui discute con Giulio Regeni. È il 6 gennaio 2016. La voce dell’egiziano che telefona a chi gli ha messo addosso la microcamera, rimasta incisa sullo stesso nastro, è l’ulteriore prova che dietro quella ripresa rubata c’era la National Security Agency, organismo che raccoglie polizia e servizi segreti egiziani. Nel verbale d’interrogatorio reso alla Procura generale della Repubblica araba, l’ex leader degli ambulanti racconta quella giornata per intero, e aggiunge dettagli a una testimonianza in cui svela il ruolo degli apparati di sicurezza, mettendone in luce le bugie. Abdallah spiega che l’appuntamento con il capitano della Nsa che teneva i rapporti con lui, quel giorno, era fissato a mezzogiorno. All’incontro si presentò un tecnico della polizia, che portava con sé una camicia nera, fatta indossare al sindacalista al posto di quella a righe bianche e rosse che aveva addosso. Un’accortezza per nascondere meglio la micro-camera camuffata da un bottone, quasi uguale ai bottoni veri della nuova camicia. In più gli venne consegnata una scheda simile a quelle telefoniche, che mise in tasca per migliorare la qualità della registrazione. Poi l’ambulante andò all’incontro con Giulio, registrò il colloquio e alla fine chiamò chi lo aveva vestito e attrezzato da spia. Oltre alle dichiarazioni di Abdallah e alla telefonata registrata, proprio la micro-camera chiama in causa i mandanti del filmato, ma nei verbali trasmessi alla Procura di Roma due ufficiali ascoltati nei mesi scorsi hanno cercato di accreditare l’idea che quel video fosse un’iniziativa personale del sindacalista; il quale, per riprendere Regeni avrebbe utilizzato il suo telefonino. Versione evidentemente incompatibile con la qualità della registrazione. Non è tutto. Il giorno successivo, il 7 gennaio, ancora Abdallah chiamò al telefono il capitano della Nsa che ormai era divenuto il suo punto di riferimento. Anche questo è un dettaglio che lascia poco spazio ai dubbi sul rapporto fra i due: il militare gli spiegò che in ufficio tutti erano soddisfatti della missione portata a termine, e che anche lui, Abdallah, doveva ritenersi soddisfatto e orgoglioso del lavoro svolto. È un dettaglio importante: l’ambulante aveva dato prova di essere affidabile, e di questo il capitano avrebbe tenuto conto. Decidendo di proseguire i contatti: nei giorni seguenti - l’8, l’11 e il 14 gennaio - risultano altre telefonate dal centralino della Nsa verso il cellulare del sindacalista. Tutto però doveva rimanere segreto. Giulio Regeni sparì il 25 gennaio e una settimana più tardi, il 3 febbraio, il suo cadavere venne ritrovato sul ciglio di una strada alla periferia del Cairo. Una volta emersi i contatti avuti con il leader degli ambulanti, Abdallah venne convocato dagli inquirenti egiziani, e a quel punto cercò il "suo" capitano per chiedere gli istruzioni su come comportarsi. Ricevette una risposta decisa: racconta tutto, ma lasciaci fuori, non dire nulla dei rapporti con me né con l’Agenzia. È sempre il sindacalista a sostenerlo nell’ultimo interrogatorio reso alla Procura generale egiziana, scoperchiando anche su questo punto i depistaggi della polizia. Pure il capitano è stato ascoltato al Cairo, ma ha dichiarato che nessuna attività è stata svolta sul conto di Giulio dopo il 7 gennaio: affermazione inverosimile e smentita da Abdallah che afferma di averlo chiamato l’ultima volta il 23 gennaio. Aveva ricevuto istruzione di avvertire se Regeni lo avesse nuovamente cercato, e quel giorno Giulio gli telefonò per chiedergli un appuntamento con un giornalista egiziano free lance in contatto con il sindacalista; lui organizzò l’incontro per il 26, e subito avvisò il capitano. Il 25 gennaio il ricercatore friulano venne rapito, poi torturato e ucciso. Secondo il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco ce ne sarebbe abbastanza perché la magistratura egiziana inquisisse i sette poliziotti e agenti segreti mandanti di Abdallah e coinvolti nell’esecuzione dei criminali comuni falsamente accusati dell’omicidio Regeni. Nell’attesa, hanno chiesto al Cairo una rogatoria per interrogarli. Libia. Fayez Sarraj: "l’Italia apripista per la Pace" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 25 gennaio 2017 Intervista al premier libico nella sua residenza di Tripoli. In una capitale in difficoltà, elettricità col contagocce, code ai distributori di benzina, banche prive di contanti, l’ambasciata italiana ha riaperto i battenti e tre giorni fa è stata sfiorata da un attentato. "Grazie all’Italia per il suo ruolo coraggioso da apripista per la stabilizzazione della Libia". Lo ripete più volte Fayez Sarraj in quasi 50 minuti d’intervista. Il premier del governo di unità nazionale libico insediatosi lo scorso fine marzo a Tripoli ci riceve nella sua residenza: una villa non diversa da quelle che la circondano in un quartiere residenziale del centro con una presenza discreta di guardie del corpo, a contraddire chi lo descrive come sempre blindato nella base della marina militare di Abu Sitta. Sono tempi difficili nella capitale. Corrente elettrica col contagocce, lunghe code ai benzinai, banche prive di contante, un ex premier legato ai partiti islamici che parla di colpo di Stato e definisce Sarraj "illegittimo", rapimenti, violenze, milizie spesso in lotta tra loro con poco o nullo controllo da parte del governo centrale. Ma Sarraj è rassicurante, ottimista, sorride, conferma che "tra poco" incontrerà al Cairo il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, e ribadisce di continuare a credere nel dialogo politico quale "unica via" per uscire dalla crisi. In Italia crescono le critiche alle scelte del nostro governo in Libia. C’è chi afferma che riaprire per primi la nostra ambasciata a Tripoli è stato un azzardo e prende corpo l’ipotesi di offrire con più determinazione un ruolo ad Haftar. Cosa risponde? "Tra Italia e Libia c’è sempre stata una relazione privilegiata e speciale. Per motivi geografici, storici, culturali voi ci siete vicinissimi, siete il più prossimo dei Paesi europei. L’Onu e l’Europa hanno sostenuto il nostro governo sin dalla sua nascita, ma l’Italia è sempre stata la più attiva e coerente nel darci il suo incondizionato appoggio. Ve ne sono infinitamente grato: ci aiutate nella lotta al terrorismo, avete inviato un ospedale a Misurata, avete ricoverato nelle vostre strutture mediche in Italia i nostri feriti più gravi nei combattimenti contro Isis a Sirte, create occasioni di cooperazione economica, ci garantite il vostro sostegno diplomatico. Quella di riaprire per primi l’ambasciata è stata una mossa importantissima. Non è affatto un punto di debolezza, anzi, vi dà forza sul territorio. Noi abbiamo un estremo bisogno del sostegno internazionale e l’Italia fa da apripista. Un messaggio positivo e una luce verde agli altri Paesi europei affinché a loro volta riaprano le ambasciate. I vostri servizi militari hanno ben studiato la situazione a Tripoli e hanno correttamente valutato che la situazione è abbastanza sicura per mandare il vostro ambasciatore". Eppure sabato scorso c’è stata un’esplosione a soli 400 metri dall’ambasciata. Forse un auto bomba con due kamikaze. C’è chi ricorda il caso dell’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi nel 2012. "L’esplosione è avvenuta di fronte al ministero della Pianificazione. Nella zona ci sono altre sedi diplomatiche e altri possibili obbiettivi. Non sappiamo neppure se sia stato un attentato o un incidente. Forse la vostra ambasciata non c’entra nulla. Ci sono molti aspetti contradditori. È aperta un’inchiesta, attendo le conclusioni. Vorrei ricordare comunque che anche nelle capitali europee ci sono stati episodi di violenza e terrorismo, e molto più gravi di questo. Ma ciò non può fermarci, non possiamo scappare e nasconderci. Dobbiamo continuare a lottare assieme contro chi vuole destabilizzarci. Ci sono forze che mirano a seminare il panico, a enfatizzare l’insicurezza". Solo pochi giorni dopo l’annuncio della riapertura dell’ambasciata italiana l’ex premier Khalifa Ghwell ha mandato i suoi fedelissimi ad occupare cinque ministeri, pare una sorta di colpo di Stato strisciante. Lei però resta nei suoi uffici. Che accade? "Tutta propaganda. Una commedia ridicola e senza alcun fondamento. Non è affatto chiaro cosa stia facendo Ghwell, se non provare a creare caos e destabilizzazione politica. Un pugno di suoi seguaci si muove per la città, entra ed esce da qualche ministero, dove comunque si continua a lavorare normalmente. Quella di Ghwell è una finzione fatta di annunci altisonanti, una sorta di golpe mediatico, che però non incide sulla realtà del Paese". Come valuterebbe una mossa di apertura italiana nei confronti di Haftar, per esempio rimettendo in funzione il consolato italiano a Bengasi? "Noi incoraggiamo ogni Paese ad riallacciare qualsiasi tipo di contatto con tutti gli elementi della società libica. Vorremmo quindi che non solo l’Italia, ma tutti i partner europei e della regione riaprissero i loro consolati a Bengasi. È sano, positivo. Sempre che ciò avvenga in accordo con il nostro governo legittimo qui a Tripoli. Gli italiani in particolare hanno i mezzi per valutare la situazione della sicurezza e Bengasi. Nel caso volessero riaprire la loro sede in loco, ci aspettiamo dunque che si coordinino con noi" L’Egitto, forte anche del nuovo rapporto con la Russia, sta organizzando un incontro tra lei a Haftar al Cairo. Conferma? "Confermo, dovrebbe avvenire presto, credo prima di un mese, forse tra pochi giorni, la data va ancora definita. Le nostre relazioni con l’Egitto sono ottime, siamo amici, abbiamo rapporti antichi e forti. Io stesso ho visto al Cairo il presidente al Sisi poche settimane fa. Mi ha confermato di essere interessato ad una Libia unita, forte, indipendente e sovrana. E ciò indipendentemente dal suo rapporto con la Russia. Su queste basi al Cairo stanno lavorando al mio colloquio con Haftar, che credo sarà a quattr’occhi, diretto, senza altri mediatori. Io sono senz’altro pronto a cercare con lui una soluzione per la Libia, assieme possiamo farlo". A Roma c’è l’inquietudine che la crescita del ruolo russo possa in qualche modo marginalizzare quello italiano. "Non siamo noi ad organizzare l’incontro del Cairo. Ma non avrei alcun problema se altri partner internazionali volessero collaborare al suo successo". Tutto il mondo guarda a Trump e alla sua politica estera. "Anch’io, certamente". Il presidente Obama stava con l’Italia nel sostenere il suo governo a Tripoli. Ora lei teme che Trump possa appoggiare la politica russa, che sembra più prossima ad Haftar? "Si tratta di un nodo importantissimo. Confermo: l’ex amministrazione americana ci è stata molto amica, ha legittimato il nostro governo e la lotta al terrorismo. Nel contempo guardo con attenzione alle dichiarazioni di Trump, che a sua volta mostra la più netta determinazione a combattere Isis. Mi augurio che ciò prosegua, come del resto che tra Roma e Washington continui la piena coordinazione delle rispettive politiche nei confronti della Libia". In un’intervista al Corriere della Sera il primo di gennaio lo stesso Haftar ha sostenuto che questo è il momento di fare la guerra a Isis e di smantellare le milizie, non quello della politica. Ha aggiunto che lei sarebbe il benvenuto, se volesse unirsi a lui. Cosa risponde? "Ho parlato molte volte con Haftar. L’ho incontrato personalmente a Marja (in Cirenaica, ndr.) un anno fa. L’ho invitato a unirsi al nostro governo legittimo, sotto il nostro ombrello politico, in qualità di militare, di alto ufficiale. Lui si è battuto contro Isis a Bengasi, noi a Sirte. Possiamo unire la nostre forze, noi come autorità politica e lui in quanto militare di grande esperienza. Oggi lo invito ancora alla piena cooperazione, abbiamo un nemico comune". Però Haftar sembra poco propenso a sottomettersi ad un autorità politica superiore. Sostiene di controllare l’80 per cento della Libia, grazia anche alla sua alleanza con Zintan in Tripolitania, si presenta come il più forte. "Non credo che quella cifra sia davvero fedele alla realtà. Ma poco importa. Noi siamo il governo legittimo, sostenuti all’estero e da varie componenti della società libica in tutto il Paese. Va però aggiunto che non esiste una soluzione militare. Il rischio è altissimo. Insistere solo sul potere delle armi ci farebbe precipitare in una sanguinosa guerra civile con massacri e anarchia ancora più gravi. Ci sarebbero attori esterni pronti ad intervenire facendo leva sui loro alleati locali ben contenti di menare le mani. La situazione sarebbe fuori controllo. Haftar è padronissimo di avere le sue ambizioni personali. Ma qui stiamo parlando del futuro collettivo del nostro Paese, occorre lavorare e trovare compromessi per pacificarlo". Lei ha già un piano? Conferma che intende proporre ad Haftar il ruolo di capo supremo dell’esercito unificato tra est e ovest? "Non intendo esagerare i problemi. Trovo sbagliato parlare in termini di Tripolitania e Cirenaica. Occorre però creare istituzioni unificate. Un esercito comune sarebbe tra l’altro fondamentale contro chi gonfia le differenze tra est e ovest del Paese". Lei ha appena firmato un nuovo accordo con l’Italia per il controllo dei flussi migratori. Quali le difficoltà? "Il problema centrale riguarda il controllo dei nostri confini meridionali. I barconi che partono dalle nostre coste verso nord sono solo la conseguenza della mancanza di coordinamento con i Paesi limitrofi. Ne abbiamo appena parlato con il vostro ministro degli Interni Minniti durante la sua visita a Tripoli. Noi siamo solo un Paese di transito. Occorrono accordi in particolare con Ciad, Niger, Mali, Sudan. L’Italia offre mezzi e aiuti importanti. Ma le questioni sul tavolo sono gigantesche e riguardano anche la necessità di fermare i flussi migratori stabilizzando i Paesi di partenza. La Libia da sola può fare poco. Però appena abbiamo i mezzi funzioniamo bene. Lo dimostra il fatto che nonostante tante difficoltà siamo tornati a produrre oltre 700.000 barili di greggio al giorno. All’Eni sanno bene che anche Zintan sta cooperando favorendo l’apertura di nuovi pozzi". Romania. L’amnistia per i resti di corruzione sarà sottoposta a referendum Ansa, 25 gennaio 2017 Il Presidente Iohannis: dopo le proteste la questione diventa nazionale. In seguito all’ondata di protesta che nei giorni scorsi ha portato migliaia di persone in piazza in diverse città della Romania nel tentativo di bloccare l’iniziativa del governo di alleggerire le leggi anticorruzione, il presidente della Repubblica Klaus Iohannis ha annunciato di volere sottoporre a referendum popolare i provvedimenti dell’esecutivo. La scorsa settimana il Consiglio dei ministri romeno aveva manifestato la propria volontà di volere modificare mediante decreti d’urgenza il codice penale e cancellare così migliaia di condanne inferiori a cinque anni, nel tentativo di fare fronte al sovraffollamento delle carceri. L’obiettivo dell’esecutivo insediatosi in dicembre è anche quello di depenalizzare il reato di abuso di potere, riguardante circa un terzo delle indagini in corso contro la corruzione. "La questione - ha detto il capo dello Stato - è diventata di interesse nazionale. Per questo intendo sottoporre la questione al dibattito pubblico e al voto popolare" i provvedimenti del governo. L’alleggerimento delle pene legate a reati di corruzione, ha precisato, "non erano nel programma di governo del Psd". Ora, ha concluso, quel che vorrei è una Romania forte e fiera guidata da politici onesti e competenti".