È il tempo per un dialogo sull’abolizione dell’ergastolo di Agnese Moro La Stampa, 24 gennaio 2017 È epoca di cambiamenti nel mondo della amministrazione della Giustizia. Ne ha parlato al Parlamento il ministro Orlando, presentando nei giorni scorsi la sua relazione sul 2016. Ci sono stati importanti cambiamenti organizzativi, altri sono in cantiere. Si è utilizzato lo strumento degli Stati generali per un’ampia consultazione con esperti e rappresentanti di tutti i soggetti interessati, per mettere a punto nuovi indirizzi per l’esecuzione penale; servirà anche per altre questioni, come quella della lotta alla criminalità organizzata. C’è chi si chiede, però, se sia possibile che questi importanti cambiamenti, vissuti all’interno del mondo della giustizia, possano essere sostenuti, totalmente o in parte, dall’insieme della nostra società. Non è una questione oziosa. Ci sono mutamenti legislativi importanti per la vita delle persone detenute - e delle loro famiglie - che nessun parlamento affronterà mai senza un minimo, o un massimo, di apertura da parte della società. È il caso dell’abolizione dell’ergastolo e delle pene detentive lunghissime, postoci dalla redazione di Ristretti Orizzonti, l’organo di stampa e di promozione sociale attivo da anni nel carcere Due Palazzi di Padova. "Da tempo, la redazione di Ristretti Orizzonti - scrivono - pensava a una giornata di dialogo sull’ergastolo, ma anche sulle pene lunghe, che uccidono perfino i sogni di una vita libera; una giornata che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone detenute, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte unicamente sulla persona punita, ma annienta tutta la famiglia. Per anni, siamo rimasti intrappolati in questa logica che "i tempi non sono maturi" per parlare di abolizione dell’ergastolo". In effetti, l’ergastolo è un nonsenso giuridico: per la nostra Costituzione (art. 27), le pene non servono a punire o a annientare chi ha sbagliato, ma a rieducarlo, perché possa tornare tra noi. Personalmente sono ottimista sulla prospettiva di un confronto serio, serrato, rispettoso e diffuso sull’argomento. Ho visto in tanti luoghi del nostro Paese che è possibile discutere, in sale piene di persone normali, di argomenti spinosi come la riconciliazione tra vittime e colpevoli nel quadro della giustizia ripartiva. Lo spazio non manca. Basta farlo. Opg: slitta ancora la chiusura definitiva, ritardi in Sicilia Redattore Sociale, 24 gennaio 2017 Per raggiungere l’obiettivo fissato dalla legge 81 del 2014, anche se con due anni di ritardo, mancano ancora gli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto, ma in Toscana è questione di giorni. In Sicilia, invece, si rischia di arrivare a maggio. Corleone: "Dalla regione ancora nessuna risposta". La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari in Italia rischia di slittare ancora e stavolta non di qualche giorno ma di mesi. A lanciare l’allarme è la campagna StopOpg a quasi due anni dalla data fissata per la loro chiusura dalla legge n. 81 del 2014. A frenare il percorso seguito in questi ultimi mesi dal Commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone, è la Sicilia, regione non commissariata, ma che rischia di dettare i tempi per la chiusura definitiva sul territorio nazionale. "Ci risulta che nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto siano ancora internate 13 persone, di cui 8 con misura di sicurezza definitiva e 5 con misura di sicurezza provvisoria", si legge nella lettera di StopOpg inviata oltre che al commissario Corleone, anche al presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, ai ministri della Salute e della Giustizia e al Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria. "Le 13 persone ancora in Opg con misura di sicurezza, all’inizio di gennaio 2017, sarebbero dovute transitare nella seconda Rems di Caltagirone dell’Asl di Catania - continua la lettera. Sembra invece che l’apertura della seconda Rems capace ad accogliere nove uomini e nove donne, non potrà avvenire che nel mese di maggio 2017. Tutto questo significa che le 13 persone restano ancora internate ingiustamente nell’ex Opg mentre potrebbero già oggi essere prese in carico dai Dsm di appartenenza nelle proprie residenze, oppure potrebbero transitare nelle due Rems già operative ogni qual volta viene dimesso un soggetto al posto di persone con misura di sicurezza del territorio". Difficoltà confermate anche dal commissario Corleone che a dicembre 2016, in una intervista a Redattore sociale, auspicava la chiusura definitiva degli Opg su tutto il territorio nazionale entro gennaio 2017. "Mi avevano assicurato che per il 20 dicembre la Rems di Caltagirone avrebbe potuto accogliere gli altri dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, poi ci sono stati problemi e quindi i ritardi. All’assessore alla Salute della Regione Sicilia, Baldo Gucciardi, ho inviato già due lettere, ma ancora non c’è nessuna risposta ufficiale". Una soluzione, però, ci sarebbe e permetterebbe di chiudere l’Opg siciliano prima di quanto paventato da StopOpg. "A detta del direttore dell’Opg - spiega Corleone, le 13 persone non sono neppure da Rems, ma da comunità terapeutica. Per fare una cosa del genere, però, bisogna modificare i piani terapeutici individualizzati e poi il magistrato di sorveglianza può cambiare la misura. Un percorso che ha comunque i suoi tempi. A quel punto si può anche immaginare una soluzione straordinaria: quella di mettere le ultime persone in alcune Rems che hanno dei posti disponibili, per favorire la chiusura dell’Opg siciliano". Intanto si avvicina la scadenza del mandato del Commissario Corleone, fissata al 19 febbraio. Un mandato, già prorogato di sei mesi, su cui circola l’ipotesi di un nuovo prolungamento. Ma Corleone lo esclude. "Non ha senso - afferma. Il commissariamento è sulle regioni e ha riguardato Veneto, Abruzzo, Puglia, Calabria, Toscana e Piemonte. Bisognerebbe fare un provvedimento solo sulla Sicilia, perché il mandato corrente ha ormai esaurito il suo compito. Si sono aperte tutte le Rems previste o sono in via di apertura, come nel caso della Toscana. L’Opg di Montelupo verrà chiuso a breve. Ormai ci sono solo tre persone. È questione di giorni". Orlando: "La riforma penale si farà. Prescrizione, il patto non si cambia più" di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 24 gennaio 2017 "Penso che la riforma del penale si riuscirà a farla" entro questa legislatura. Lo ha detto ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, nel corso della trasmissione Cartabianca su Rai3. Il ministro ha aggiunto che "è stato trovato un punto di equilibrio sulla riforma della prescrizione, la riforma del penale riprende il suo percorso". A proposito di prescrizioni, "ci sono tribunali che ne hanno del 2- 3% ed altri del 25%". Quindi occorre "dare più risorse, informatizzare i processi". Orlando ha anche ricordato che lo scorso anno i processi sono scesi del 7% e quanto all’appello, "c’è un abuso ma non lo cancellerei". Il tutto alla vigilia dell’incontro di questa mattina fra la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati e il ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’appuntamento è fissato per le ore 10 al ministero di via Arenula. È la prima volta dopo l’approvazione del decreto "mille proroghe", avvenuto senza i correttivi richiesti dalle toghe, che la Giunta torna ad incontrare Orlando. Come si ricorderà, lo scorso 26 ottobre, in un incontro svoltosi anche alla presenza dell’allora premier Matteo Renzi, il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo aveva "strappato" al governo la promessa che la norma che abbassava da 75 a 70 anni l’età massima per il trattenimento in servizio delle toghe sarebbe stata modificata. 72 anni il compromesso che era stato raggiunto. Oltre a ciò, sarebbe stato riportato agli originali 3 anni, dagli attuali 4, il periodo minimo di permanenza in una sede giudiziaria prima di poter essere legittimati a presentare domanda di trasferimento. Nel frattempo la sconfitta del Sì al referendum e le conseguenti dimissioni di Matteo Renzi hanno rimescolato le carte, mettendo in discussione l’accordo raggiunto. La reazione della magistratura associata era stata molto violenta. Autonomia & Indipendenza, la corrente di Davigo, puntava allo sciopero, accusando apertamente l’esecutivo di essersi rimangiato la parola data. "Inaffidabile" era il termine più usato dalle correnti per descrivere l’atteggiamento tenuto dal governo. Solo dopo una lunga mediazione, complice anche il periodo festivo, il Comitato direttivo dell’Anm, il "parlamento" delle toghe, aveva optato, la scorsa settimana, per disertare la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Cassazione prevista per il prossimo giovedì 26 gennaio. Una scelta da tutti definita di alto valore simbolico considerato che non esistono precedenti al riguardo. Tale forma di protesta, come dichiarato dal vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, potrebbe però avere l’effetto di "delegittimare" la stessa Corte di Cassazione. Oggi, dunque, l’incontro. Sul cui esito, va detto, nessuno fra i magistrati ripone particolari speranze. Per portare a 72 anni l’età massima per il trattenimento in servizio servirebbe, a questo punto, una legge ad hoc. Molto difficilmente ciò potrebbe essere realizzato con uno specifico emendamento in sede di conversione del decreto "mille proroghe". Senza considerare che un provvedimento del genere, "ad togam", aprirebbe un fronte anche con gli altri dipendenti della pubblica amministrazione che si sono visti modificare le soglie per il trattenimento in servizio. Sul periodo minimo di legittimazione, invece, il governo, per bocca dello stesso ministro Orlando, si è detto nelle scorse settimane disponibile a venire incontro alle richieste delle toghe. La modifica è particolarmente attesa dai giovani magistrati. Considerati i margini di trattativa alquanto ristretti, molti magistrati in queste ore stanno esprimendo il proprio disagio. La rassegnazione ha ormai preso il sopravvento ed in pochi vedono di buon occhio l’incontro di oggi. Secondo alcuni si tratterebbe di una "presa in giro", di una "perdita di tempo" per altri. Non è da escludersi, quindi, qualche colpo di scena dell’ultima ora. Dal femminicidio allo stalking, leggi inutili fatte per l’audience di Francesco Bonazzi La Verità, 24 gennaio 2017 Femminicidio, stalking, omicidio stradale: tutte norme nate su pressione dei media. Ma nel codice c’è già quello che serve. Prima inventano i reati, sempre nuovi reati. Poi fanno la commissione parlamentare d’inchiesta per capirci qualcosa. Il tutto sotto la pressione delle campagne mediatiche di turno, a seguito delle quali una classe politica in drammatica crisi di rappresentatività trasforma il codice penale in un emporio di norme punitive prêt-à-porter. Mercoledì il Senato ha approvato, quasi all’unanimità, l’istituzione di una commissione d’inchiesta che avrà un anno di tempo per indagare meglio il fenomeno del femminicidio, fattispecie penale introdotta nell’autunno del 2013 in un decreto sulla sicurezza talmente disinteressato da contenere anche norme contro i No Tav. L’ennesimo crimine-marketing, al pari dell’omicidio stradale, dello stalking e del negazionismo, reato d’opinione introdotto quest’estate a completamento di quell’altro bel capolavoro di civiltà giuridica che è il cosiddetto pacchetto Mancino. Prima firmataria della commissione d’inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere è la piddina Valeria Fedeli, la ministra dell’Istruzione diversamente istruita (niente laurea, ma diploma di assistente sociale). E già qui potremmo chiudere il discorso e andare tutti alla più vicina agenzia di viaggio per far contento anche il nuovo teorico dell’emigrazione, il ministro del (non) lavoro Giuliano Poletti. Ma non bisogna personalizzare, specie quando è in ballo il diritto penale. All’articolo 2 della legge istitutiva si legge che scopo della commissione è innanzitutto "svolgere indagini sulle reali dimensioni, condizioni, qualità e cause del femminicidio, inteso come uccisione di una donna, basata sul genere, e, più in generale di ogni forma di violenza di genere". Ma diamine, cari deputati, avete approvato una legge nuova di zecca solo tre anni fa e lo studio del fenomeno lo volete fare adesso? Eravamo convinti che sapeste già tutto su femminicidio e violenza di genere. A scuola ci avevano insegnato che prima si studia e poi si agisce. Qui invece sembra che vi siate diplomati tutti con la Fedeli. Ma andiamo avanti, perché adesso arriva il momento della fuffa mondialista, visto che il secondo scopo della commissione è "monitorare la concreta attuazione" della convenzione del Consiglio d’Europa di Istanbul del 2001, da noi sollecitamente recepita nel 2013, "e di ogni altro accordo internazionale e sovranazionale in materia". Roba forte, roba che se hai un marito violento ti salva la vita. Tra gli scopi della commissione, che durerà in carica un anno, c’è poi quello di "accertare le possibilità incongruità e carenze della normativa rispetto al fine di tutelare la vittima della violenza e gli eventuali minori coinvolti". Anche qui un’evidente presa di coscienza rispetto alla qualità delle norme introdotte da questo stesso Senato nel 2013. E poi, ancora, si investighi con maggior determinazione e acume sui fatti di cronaca, "analizzando gli episodi di femminicidio, verificatisi a partire dal 2011, per accertare se siano riscontrabili condizioni o comportamenti ricorrenti, valutabili sul piano statistico, allo scopo di orientare l’azione di prevenzione". Già, le statistiche, vere o presunte, fonte di qualsiasi seria discussione da bar. I dati Istat parlano di 157 donne uccise nel 2012; 179 nel 2013; 136 nel 2014; 128 nel 2015 e 116 nei primi 11 mesi del 2016. Il picco del 2013 ha sicuramente prodotto, a livello mediatico, quell’attenzione sul tema che spinse il governo di Enrico Letta a intervenire per decreto legge introducendo il reato di femminicidio. I numeri degli anni seguenti per fortuna mostrano un calo, ma ovviamente possono essere letti in vario modo. Si può dire che la nuova legge ha funzionato e funziona (e allora a che serve la commissione d’inchiesta?), oppure che il fenomeno della violenza sulle donne ha una dinamica completamente a se stante, come l’hanno quei reati efferati, frutto di rabbia, odio e, in alcuni casi, autentica follia. È chiaro che un omicidio di particolare atrocità, come dare fuoco a una persona, va punito con la massima severità. Ma è difficile immaginare che il reo, prima di riempire una tanica di benzina, studi attentamente il gioco delle aggravanti e dei minimi edittali per valutare come gli convenga procedere. Già, le aggravanti. C’erano già tutte, nel codice penale: dalle motivazioni abiette o futili, alla particolare crudeltà, al contesto familiare. Basta saperle usare e non emettere sentenze scandalosamente miti. Ciò detto, non si può dimenticare come la legge sul femminicidio sia passata a maggioranza, con il voto contrario di pochi, sparuti, garantisti. Il dibattito politico fu di una miseria sconsolante, perché esprimere dubbi sul femminicidio è politicamente scorretto, perché i partiti sono ansiosi di raccattare qualche voto tra le donne e solo l’Unione delle camere penali, insomma, gli avvocati, misero in guardia dall’ennesimo intervento populista e sensazionalista sui codici. Eppure dovrebbe essere evidente che discriminare i cittadini in base al sesso, alla razza o allo stato civile è sempre sbagliato e pericoloso. Che punire maggiormente i reati, se commessi contro le donne, è lesivo della stessa dignità femminile. E le donne che si dicono di sinistra, come la Fedeli e Anna Finocchiaro (cofirmataria della proposta), dovrebbero avere ben chiari, nel proprio bagaglio politico, i rischi di una proliferazione dei reati, dell’ossessione per la sicurezza e dell’ingresso di prefetti e questori tra le mura domestiche. Non solo, ma quando si inventano nuove fattispecie criminose per "pettinare" il popolo (televisivo) si corrono rischi. Prendete separazioni e divorzi: sono situazioni in cui spesso, purtroppo, avvengono violenze psicologiche di ogni tipo, i figli vengono usati come arma di ricatto e pressione, abbondano le minacce "legali" e le denunce di soprusi inesistenti. Il giorno che l’associazione Padri separati fosse così forte da ottenere il reato di "falsa denuncia coniugale" non sarebbe un bel giorno. Sarebbe la festa dell’imbecillità giuridica, perché il codice già punisce le false denunce. La realtà è che bisognerebbe educare meglio i ragazzi e le ragazze al rispetto, all’amore reciproco e alla condivisione. E che bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che la mercificazione della donna è un fenomeno che forse non scatena la violenza, ma certo aiuta a spiegarla. Purtroppo è lecito dubitare che una commissione parlamentare d’inchiesta possa riflettere con profondità su questi temi. Non è falsa attestazione fornire più volte finte generalità di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2017 Tribunale Torino, Sezione 4 penale - Sentenza 5880/2016. Non basta fornire più volte finte generalità, per rispondere del reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull’identità o su qualità personali proprie o di altri. Per rispondere del reato, infatti, occorre accertare quali tra le dichiarazioni rese siano davvero mendaci per individuare se, anche nel caso specifico, l’imputato abbia dichiarato il falso. Lo precisa il Tribunale di Torino, con sentenza n. 5880 del 7 novembre 2016. Protagonista, uno straniero che, presentatosi spontaneamente presso l’ufficio immigrazione della questura - per manifestare la volontà di richiedere asilo politico - attestava false generalità agli ufficiali di polizia giudiziaria che procedevano alla sua identificazione. A provarlo, il carteggio compilato dall’uomo, da cui risultava un nome diverso da quello emerso da uno specifico accertamento. Di qui, il procedimento aperto a suo carico per il reato previsto e punito dall’art. 495 del Codice Penale. Ma il Tribunale lo assolve. Le fonti di prova che avrebbero dovuto inchiodarlo - marca il giudice torinese - erano costituite dalle dichiarazioni dell’agente in servizio presso l’ufficio immigrazione e dalle produzioni documentali del Pubblico Ministero, costituite da precedenti dattiloscopici e scheda di identificazione multilingue. Documenti da cui, si rileva, emergeva solo che una persona si era presentata in ufficio per chiedere asilo e che, nel compilare il modulo, dichiarava il proprio nome. Nome non corrispondente, è vero, a quello abbinato ad una precedente foto segnaletica. Tuttavia - spiega il Tribunale - non era stato possibile accertare, vista la mancanza di passaporto, quale delle due generalità declinate fosse quella esatta. Incertezza che impediva di raggiungere la "piena prova della falsità delle dichiarazioni rese" in quella precisa occasione e di affermare, di conseguenza, la responsabilità penale dell’uomo. Per condannarlo, conclude, sarebbe servito un accertamento preciso sulla sua reale identità o su altri elementi che avrebbero potuto dimostrare che - anche nel caso portato a giudizio - l’immigrato avesse dichiarato il falso. Nel sostenerlo, il Tribunale si allinea alla tesi della Cassazione per cui la condotta di colui che renda molteplici dichiarazioni, tutte fra loro diverse, in merito alle proprie generalità, non è sufficiente ad integrare il reato di cui all’art. 495 c.p. "non potendo ritenersi, in mancanza di un accertamento di quali tra esse siano realmente mendaci, che anche nell’occasione dalla quale muove l’addebito l’imputato abbia reso false generalità" (Cass. 41774/14). Orientamento, cui si associa la sentenza torinese, che si contrappone a quello fermo a sostenere che il reato risulta comunque integrato dalla condotta di chi fornisca ogni volta un nome diverso "non rilevando, a tal fine, il fatto che non sia stato possibile accertare le vere generalità del dichiarante e che questi, in una sola delle molteplici occasioni, possa, eventualmente, avere detto il vero" (Cass. 7712/15). Ecco che, non essendovi prova che l’imputato, anche nel caso specifico, avesse indicato false generalità, il Tribunale, aderendo al pensiero più garantista, ha ritenuto di doverlo assolvere, non essendo stata raggiunta, oltre ogni ragionevole dubbio, la prova della sua colpevolezza. Profili penali del certificato medico affetto da falsità ideologica. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2017 Reati contro la fede pubblica - Falsità ideologica in atto pubblico - Certificato medico recante falsa attestazione dell’orario di visita - Utilizzo strumentale dello stesso - Circostanza aggravante. Può essere dichiarata in sentenza la sussistenza della fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico ex articolo 476, comma 2, c.p. qualora la caratteristica "fidefacente" dell’atto ritenuto falso (nella fattispecie: certificato medico di malattia) - pur non essendo stata espressamente contestata nel capo di imputazione - emerga in maniera inequivoca dagli elementi di fatto dedotti in giudizio. Infatti, per la contestazione di una circostanza aggravante non è necessaria né l’adozione di una formula specifica né il richiamo della norma di legge che la preveda, essendo al contrario sufficiente, in base al principio di correlazione tra accusa e decisione, la sola enunciazione di fatto della falsità, oltre che la piena cognizione della stessa da parte dell’imputato, il quale in tal modo è posto nelle condizioni di espletare adeguatamente la propria difesa. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 20 gennaio 2017, n. 2712 Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti - In atti pubblici - Falso per induzione - Certificato medico rilasciato per finalità non contenziose - Simulazione di patologia psichiatrica - Reato di falso ideologico in atto pubblico ex articolo 480 cod. pen. - Configurabilità. Integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico, mediante induzione in errore del pubblico ufficiale, la condotta di chi, simulando disturbi di rilevanza psichiatrica, induce il sanitario a redigere certificazione relativa ad una malattia inesistente per finalità non contenziose. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 12 gennaio 2015 n. 896. Reati contro la fede pubblica - Delitti - Falsità in atti pubblici - Certificazioni sanitarie - Accertamento diagnostico, effettuato in forma prognostica, anziché, come richiesto, in relazione alle condizioni attuali dell’interessato - Elemento soggettivo - Sussistenza - Ragioni. Nel reato di falso ideologico, è da ricondurre all’area del dolo e non a quella dell’errore professionale, la condotta del medico che, ai fini del rilascio del certificato relativo alla capacità a deambulare delle persone richiedenti il contrassegno necessario per i parcheggi preferenziali, invece di effettuare un accertamento diagnostico sulla "attuale" capacità di deambulazione del soggetto interessato, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 381 del d.P.R. n. 495 del 1992, effettua una valutazione in forma prognostica sul decadimento futuro delle facoltà motorie, in quanto la percezione della differenza tra i due accertamenti (quello attuale e quello prognostico) non necessita di particolari competenze specialistiche e non richiede l’esercizio di alcuna discrezionalità tecnica. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 27 gennaio 2015, n. 3718. Falso ideologico - Certificato medico di malattia - Mancata verifica oggettiva. Configura reato di falso ideologico la proroga da parte del medico della prognosi di decorso di una malattia di un paziente senza visita. La falsa attestazione attribuita al medico non attiene tanto alle condizioni di salute del paziente, quanto piuttosto al fatto che egli ha emesso il certificato senza effettuare una previa visita e senza alcuna verifica oggettiva delle sue condizioni di salute, non essendo consentito al sanitario effettuare valutazioni o prescrizioni semplicemente sulla base di dichiarazioni effettuate per telefono dai suoi assistiti. Ciò rende irrilevanti le considerazioni sulla effettiva sussistenza della malattia o sulla induzione in errore da parte della paziente. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 15 maggio 2012, n. 18687. Falsità in atti - Falsità ideologica in certificato medico - Rilascio di certificato medico senza previa visita del paziente - Reato - Sussistenza. Commette il reato di falso ideologico ex articolo 480 del Cp il medico convenzionato con il servizio sanitario che rilasci un certificato (nella specie, di proroga della prognosi di malattia) a favore di un paziente senza averlo previamente visitato, e, quindi, senza alcuna verifica obiettiva delle condizioni di salute; essendo, a tal riguardo, irrilevante anche, in ipotesi, l’effettiva sussistenza della malattia. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 15 maggio 2012, n. 18687. Una camicia di forza invisibile di Piero Tony Il Foglio, 24 gennaio 2017 Basta parlare della durata delle ferie e dell’età pensionabile. La riforma della giustizia penale inizia con la separazione e la specializzazione delle carriere. I media riferiscono in questi giorni che dopo ampio dibattito l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di protestare disertando, sabato prossimo, l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 e che, conclusa la pausa natalizia, il governo in carica potrebbe finalmente far calendarizzare la riforma del processo penale di cui alla legge delega di quasi tre anni fa. Riforma malauguratamente timida, sia chiaro, del tutto priva di abiti epistemologici ancorati alla realtà e limitata ai soliti annosi problemi domestici di contorno, da anni ferma all’orizzonte e, a ben vedere, non solo inadeguata ma già superata da eventi che, quasi in un parità rei accelerato, proliferano e si rincorrono sotto gli occhi di tutti. Problemi di ordinarissima amministrazione, per esempio il periodo di permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio (che da quattro anni vorrebbero si riportasse a tre) oppure l’età del pensionamento o la durata delle ferie, i termini antistallo (art. 415 bis cp.p.) pena l’avocazione. Basti pensare che quello ritenuto da tutti il problema più importante e spinoso non si riferisce alle separazione delle carriere che le Camere Penali - e non da sole - invocano da decenni, e nemmeno alla esiziale lentezza di un rito accusatorio smaccatamente tradito. Ma neanche alla vorace tirannide delle interminabili indagini preliminari (che secondo il codice dovrebbero essere brevi e servire solo a decidere se archiviare o meno) spesso sostenute solo da consenso sociale più o meno mediatizzate, né alle nomine che continuano a essere fatte a pacchetti da un imperterrito Csm secondo le tradizionali alchimie correntizie. Non v’è traccia nemmeno del surreale diritto del pm di impugnare le sentenze di assoluzione, né ai gustosi ma massacranti bignè di prima pagina confezionati al di fuori di qualsiasi previsione di legge, e così via... le criticità del sistema giustizia sono troppe per un articolo di giornale. Il problema più importante e più spinoso della riforma - quello che peraltro pare ne sia divenuto il fulcro e abbia determinato suoi numerosi rinvii - si riferisce all’antico polveroso tema dei termini di prescrizione, tema per niente complesso anzi quisquilia in quanto per la sua soluzione basterebbe davvero un briciolo di avvedutezza per fare una scelta di campo giusta. Mentre il campo è diviso tra quelli che ritengono che dovrebbe essere messo a riposo il pm che non riesce a ottenere un giudizio definitivo sulla tua responsabilità senza farti incanutire per invecchiamento e fotterti la vita, e il campo di quelli che, invece, se ne fregano che si allunghino i tempi del calvario purché il bradi-procedimento possa, calvario o non calvario, arrivare comunque in porto. Il paese ha bisogno non dei soliti pannicelli caldi ma di una svolta radicale e ristrutturante. In anni di transizione epocale come quelli che stiamo vivendo, una svolta che consenta di essere pronti ad affrontare tutti i problemi appostati dietro l’angolo. Sarebbe magnifico se almeno questa volta i nostri governanti non si facessero cogliere impreparati e, senza dover confidare nell’abnegazione dei magistrati e nella capacità di sopportazione dei cittadini, riuscissero a governare gli eventi senza ricorrere ancora una volta a scalcinate improvvisazioni emergenziali. Come prima cosa dovrebbero chiedersi se è vero o no che oggi il mondo è in continuo divenire. Che ogni giorno cambia qualcosa nel suo profondo. Dovrebbero chiedersi se è vero o no che la società liquida preconizzata da Bauman si è da tempo inverata nella globalizzazione, in quella condizione di incontrollata e forse incontrollabile interdipendenza socioeconomica e tecno-culturale. Con forbice sociale sempre più larga, individualismo competitivo fino al cinismo, assenza di qualsiasi punto di riferimento etico o di tradizione, valori sconosciuti annegati nell’imperante emergenza, viviamo in un magma ribollente di disgregati tornaconti personali. E in caso di risposta affermativa i nostri governanti dovrebbero ancora chiedersi se è azzardato prevedere che, siccome da sempre i mutamenti di strutture e sovrastrutture devono procedere di conserva, pena il cortocircuito, gli apparati istituzionali domestici non potranno fare a meno di tararsi con il resto del mondo, prima o dopo, sui sottostanti fermenti e contesti sociali. Ecco perché da tempo si ritiene che la nostra giustizia potrebbe essere destinata a perdere il suo dna domestico e che ci si debba premunire per tempo con riforme organiche anziché tentare di oliare meccanismi rugginosi e obsoleti. Con una svolta che tenga conto di quanto, con la globalizzazione anche tecnologica, le esigenze della giustizia penale stiano ormai realisticamente convergendo verso un modello giudiziario unico e internazionalizzato - che già fa capolino, per intenderci, nell’Eurojust e nelle proposte di procure sempre più sovranazionali, nel Tribunale penale internazionale e negli assetti investigativi a vocazione planetaria. Ecco perché non pare seriamente pensabile poter affrontare le nuove realtà con un obsoleto sistema giustizia cucito addosso a una società che non esiste più, con procedure calibrate sulla stanzialità e sui rinvii di anni e sull’attesa, con magistrati non specializzati nel giudicare o nel dirigere le indagini in quanto tutti accomunati e operanti, controllore giudice e controllato pm, in una generica e svogliata e indifferenziata carriera. Ecco, il primo passo per allinearsi al resto del mondo in maniera organica non può che essere la separazione delle carriere, tra quella di chi propone e quella di chi deve decidere. Nell’incombenza di una schiacciante cultura di polizia tecno-informatica e di concentrazioni economiche brade, di ora in ora più invasive, solo il concreto e tempestivo governo della legge da parte di una magistratura efficiente e al passo tecnologico può preservare la sfera di autonomia personale in una società liberale. Non è supposizione ma realtà: la popolazione mondiale dagli 800 milioni circa del 1800 è passata ai quasi 7 miliardi di oggi, e pare destinata a superare i 9 miliardi tra trent’anni. Il che vuol dire sovraffollamento e "criticità diffuse", con sempre più angusti spazi fisici e giuridici per l’individuo. A tal proposito: molti "scettici blu" ritengono che i cambiamenti climatici in corso siano non di causa antropica ma solo gli ultimi di una lunga serie nella storia del pianeta. Sarà, ma i gas serra - condannati all’aumento di pari passo con la pur giusta estensione del modello tecnologico occidentale (automobile, frigoriferi etc., etc.) a popolazioni per ora escluse - al di là delle parole sono realtà concretamente misurabile nella sua espansione e contenibile con appropriati controlli e sanzioni. Non è supposizione ma fatto che oggi pressoché ogni persona del pianeta potrebbe essere minuziosamente e continuamente osservata e controllata. Un pianeta globalizzato e - mi si passi la raffigurazione - in camicia di forza. Di certo non occorreva il recente scandalo dei fratelli Occhionero per capire che, al pari di Dodo Mauritius, anche la privacy personale è ormai da tempo irrimediabilmente estinta, restando esigibile - forse - solo il divieto di utilizzo di dati a scopo personale. Siamo tutti controllabili, per via non solo delle intercettazioni e della videosorveglianza ogni giorno più diffusa, non solo per il web e i social network, ma anche, ed è questo il dato preoccupante, per via di infiniti marchingegni sempre più diffusi e sofisticati, cyber-crime fatto da assatanati ascolti remotizzati chissà dove, di trojan, malware, ransomware, big data zeppi di incroci di database ma spesso anche di qualsiasi ciarpame e marciume. Imperversano attentati terroristici barbari ed efferati, contro la quotidianità e ovunque. Ma il pianeta è economicamente e finanziariamente globalizzato, ormai irreversibilmente e a dispetto dei penosi tentativi politici di deglobalizzare con muri fili spinati e sanzioni. Per non parlare della criminalità organizzata, ormai prevalentemente sovranazionale. Sempre di più le disuguaglianze socioeconomiche (è azzardato ritenerle quantomeno concausa degli irrefrenabili flussi migratori in corso da anni?) sono macroscopiche, dicono che circa l’I per cento della popolazione mondiale continui a essere padrone di tutte le cose ricche e belle e che il resto del mondo si accontenti di qualche briciola. Non so se sia esatto e chi/come abbia conteggiato, resta il fatto stra-noto da decenni che un quarto della gente boccheggia di colesterolo e tre quarti soffre di denutrizione, che ogni giorno migliaia di bambini muoiono di fame e incuria, che gli sguardi dei profughi sono sempre drammaticamente seri e sgomenti - sarà per paura, radici alle spalle e l’ignoto avanti a sé? Sarà perché avrebbero preferito restare in patria? Sarà che fame o guerra fa lo stesso al cospetto della mortale disperazione? Come quelli dei condannati al patibolo o alle camere a gas. Il sacro istinto di sopravvivenza non riconosce ragioni mentre l’eventuale accoglienza prima o dopo arriva al colmo. Occorrono tempi infiniti per aiutarli a far tornare abitabili i loro paesi con una seria cooperazione allo sviluppo, alla quale però nessuno dà concretamente il via, perché darlo significherebbe rinunciare ai privilegi e, quel che più conta, penalizzare i mercanti del mercato Far West compresi quelli di armi ossia di morte, avvoltoi che attizzano e organizzano e sfruttano. È un fatto che in codesto magma le persone dabbene hanno paura, e che sempre più appaiono urgere esigenze internazionali di sicurezza tanto pressanti da rendere purtroppo trascurabili le garanzie per l’individuo persona, perfino quelle fondamentali. Potrebbe essere diversamente di fronte a violenze e attentati pressoché quotidiani, di fronte alle infinite vittime, assolutamente inermi, di criminali senza scrupoli e fanatici fino all’ebetudine? Di fronte all’impossibilità di vivere una vita normale, in quanti oserebbero criticare interventi di sicurezza "solo" perché sommari o lesivi dei princìpi di un giusto processo? Perché "garantismo è attenzione per la sorte processuale di uno solo, mentre sicurezza è attenzione per la sorte esistenziale di tanti", si sente dire a ogni canto, saranno chiacchiere da bar ma proprio nessuno le contesta. Oppure: "Necessitano norme speciali perché la situazione è speciale, di guerra, e dunque ben venga qualsiasi misura di prevenzione, ben vengano leggi speciali e, perché no? Tante Guantánamo e la tortura per chi non parla e la pena di morte per chi ha ucciso". Oppure: "Bando alle chiacchiere garantiste, è stato di necessità anzi... concorso esterno nella legittima difesa". E si indugia in disquisizioni che più capziose non possono essere: è o non è guerra di religione?, come se, per rispondere, non bastassero le rivendicazioni suffragate da una sorta di autocertificazione mediante fatti concludenti quali l’appartenenza religiosa, il sacrificio di se stessi che non può non sottendere aspettative metafisiche più o meno virginali e, dulcis in fundo, il fatidico ultimo grido di evviva con nome e cognome. Lo dissi e lo sentii dire all’epoca dei primi attentati beoti, qualcosa tipo "mi cospargo il capo di cenere ma più del dolore per le vittime mi affliggono le prevedibili limitazioni - in nome della sicurezza - della libertà, della privacy e degli altri diritti fondamentali". E allora? Allora riassumiamo. Tenendo presente che, se tale emergenza si rivelerà transitoria come si spera, in ogni caso il boomerang verso l’orticello dietro casa potrà concludere il suo percorso solo in tempi generazionali. Nel frattempo basta con le riformette sull’età per andare in pensione o sulla durata delle ferie. Occorre che il paese si attrezzi con una magistratura requirente specializzata allo spasimo che possa dialogare con il resto del mondo, che sappia organizzare e controllare atti-vita di intelligenze e big data e operazioni sotto copertura e fare gli occhi alle pulci nelle materie tecno-scientifiche investigative e sceverare con professionale prontezza il credibile dall’incredibile e sia maestra nei giudizi prognostici sul procedimento (art. 125 disp. Att. c.p.p.) onde contemperare, per quanto possibile, esigenze di sicurezza e quel che resta dei diritti fondamentali. Perché ve ne sarete accorti, quando si parla di indagini e processi oramai ci si riferisce solo o quasi a quei dati tecno-scientifici sopra accennati: big data, intercettazioni telefoniche/ambientali, consulenze tecniche, tabulati più o meno triangolati, sistemi trojan di vario tipo, videoriprese ed esami dattiloscopici e del dna oltre che, naturalmente, alle dichiarazioni dei cosiddetti "pentiti". Fermo restando che codeste ultime rappresentano un capitolo a sé di cui tanto si è scritto e detto - e tanto si scriverà e si dirà, visto che ancor oggi continuano spesso a essere utilizzate acriticamente non già come fonte o principio di prova ma come oro colato che vale come prova autonoma e sufficiente - è lecito rabbrividire se si pensa agli eventuali svarioni informatici anche da hackeraggio o ai riconoscimenti facciali fasulli o alla possibile evoluzione dell’arresto in flagranza (se ne parla eccome!) da flagranza sotto gli occhi di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria a flagranza videoregistrata da remoto. È lecito rabbrividire ma anche augurarsi - lo si ripete - che pm e giudici possano essere aiutati ad affinare di giorno in giorno le rispettive specializzazioni professionali. A tal punto, se consentite, voglio parlare di una mia speranza o forse fantasticheria e iniziare con una domanda-indovinello: il bicchiere lo vedete mezzo pieno o mezzo vuoto? Personalmente sento una struggente nostalgia per il mondo di quand’ero giovane, ed è la parte vuota. E quello mezzo pieno? Vedo anche questo, ma vi avverto che sono un inguaribile ottimista. D’altra parte si suol dire "quando è tempesta ogni pertugio diventa un porto", e io mi spiego: 1) una riforma seria cioè ordinamentale, con separazione delle carriere e un pm professionalmente specializzato, ci potrebbe aiutare rispetto al pericolo, che si può intravedere dietro l’angolo, di una giurisdizione - scusate l’ossimoro - di prevenzione e forse di polizia che, nel rispetto dei protocolli tecno-scientifici e con buona pace per la logica sillogistica di Aristotele, usando il Dio algoritmo potrebbe provocare domattina la tua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Non solo, l’allineamento della nostra cultura giudiziaria a quella di tutte le altre costringerebbe i nostri governanti a capire, finalmente, che per realizzare il principio di legalità sono necessari effettività della pena e uno sfoltimento delle migliaia di norme vigenti (300.000?). Sulla considerazione che ogni norma penale e ogni aggravamento di pena edittale, per condotte sia di micro che di macro offensività, disposti senza che siano prima assicurati controllo ed effettiva sanzione - è dato di comune esperienza e già lo affermava il filosofo del diritto Hans Kelsen quasi cento anni fa - sono disposizioni non solo inutili in quanto privi di deterrenza ma fortemente dannosi. Perché oltre a rendere "pagante" la loro violazione ci rendono assuefatti all’impunità e finiscono con l’attizzare la funesta cultura di furbizia e connivenza e soddisfazione per la conquistata impunità. A conferma, se vi residuano dubbi, ricordo che recentemente perfino le neuroscienze, a proposito di codesta assuefazione, avrebbero registrato addirittura con risonanza magnetica la correlazione tra l’aggravarsi delle condotte recidivanti e una progressiva riduzione dell’attività dell’amigdala organo preposto al controllo delle emozioni). Vi pare poco per un mezzo bicchiere pieno? Si aggiunga che l’agognata ristrutturazione ordinamentale non potrebbe non porre fine, in un contesto sempre più chiaro e tecnico, alle rabdomantiche indagini che in passato hanno consentito di processare per decenni, con esiti per fortuna quasi sempre nulli, condotte solo dis-etiche e convinzioni solo devianti e comportamenti fuori norma e teoremi e perfino ipotesi formulate a furor di media. E finalmente ciascuno di noi sarebbe libero, se rispettoso delle poche e chiare norme sopravvissute, di vivere serenamente la propria vita. 2) Altro barlume di ottimismo può derivare dal fatto che, in uno scenario così capillarmente e incessantemente controllato - quasi radiografato - da quella sorta di camicia di forza ossia di "grande fratello" a tutela della sicurezza, dovrebbero sparire o almeno diminuire i grandi crimini finanziari, commerciali, economici, fiscali, ambientali, gli anemizzanti accumuli patrimoniali delle mafie, le spudorate offshore e gli incroci societari anonimi di quell’1 per cento di cui parlavo prima. Almeno diminuire. 3) Sfoltiti gli avvoltoi sotto il sapiente controllo di una magistratura requirente professionalmente specializzata, di sicuro diminuirebbero povertà e conflitti e potremmo tornare a occuparci dell’orticello dietro casa coltivando le neonate pianticelle: mobilitazione morale, politiche sociali, bene comune, giustizia e dignità. Si potrebbero anche aumentare gli sforzi per una seria cooperazione allo sviluppo. I migranti ritornerebbero in patria, sicuramente tirando un respiro di sollievo. E quelli come Salvini vivrebbero felici e contenti. Speranze, fantasticherie o fantascienza? Chissà. Ivrea (To): denuncia di Sel e Radicali "questo carcere è uno dei peggiori di tutta Italia" di Giampiero Maggio La Stampa, 24 gennaio 2017 Sovraffollamento, scarsa igiene e abuso di psicofarmaci. Il carcere di Ivrea è una polveriera pronta ad esplodere. I numeri sono impressionati, perché oltre ad un problema di sovraffollamento e di carenza di personale, si sommano questioni di ordine pubblico da un lato e di precarie condizioni di salute dall’altra. È il quadro che emerge dopo il sopralluogo effettuato nel penitenziario eporediese, ieri mattina, da Igor Boni e Silvia Manzi della direzione nazionale dei Radicali e dal capogruppo Sel Piemonte, Marco Grimaldi. "Ogni giorno - sottolineano - si verificano almeno 3 o 4 casi di autolesionismo, detenuti che si tagliano la pancia o i polsi perché vogliono essere trasferiti altrove, episodi che non dovrebbero accadere". Abuso di psicofarmaci Allora eccoli i numeri della casa circondariale di Ivrea, costruita negli anni Ottanta per essere un carcere di massima sicurezza. Iniziamo dal sovraffollamento, uno dei problemi che da almeno un anno e mezzo affligge la struttura: sono 192 i posti disponibili, eppure da metà 2015 il numero è lievitato fino a toccare quota 244, con il 41% di presenze costituito da stranieri e detenuti costretti a convivere in 4 all’interno di celle che potrebbero contenerne al massimo due. Un aspetto più volte denunciato dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Perché poi, a caduta, il problema si riflette anche sul personale in servizio. Anche in questo caso i numeri non sono confortanti: gli agenti effettivi dovrebbero essere 156 mentre in organico sono soltanto 144. "In più - denuncia l’Osapp - manca un comandante e spesso ci sono problemi di gestione della struttura". Infine c’è un’altra questione che inquieta. E lo denuncia Boni: "Abbiamo verificato che su 244 detenuti almeno 240 di loro fanno uso di psicofarmaci e ansiolitici, mentre almeno una sessantina usa droghe". Dati e numeri che fanno dire ai portavoce dei Radicali e all’esponente di Sel "che su 50 strutture visionate quella di Ivrea è certamente la peggiore". L’inchiesta della procura In realtà la situazione è già ampiamente monitorata da parte delle istituzioni. Non a caso la magistratura ha aperto diversi fascicoli per maltrattamenti dopo le denunce arrivate sul tavolo del procuratore capo, Giuseppe Ferrando, lo scorso autunno. "Abbiamo aperto un’inchiesta e c’è massima attenzione al problema - sottolinea il numero uno della Procura. Per il momento non ci sono indagati e si procede contro ignoti". Il racconto dei pestaggi era apparso su un blog online ed erano state almeno tre le denunce piovute in Procura. Nella lettera si parlava di cinque detenuti che tra il 24 e il 25 ottobre "hanno subito abusi e pestaggi dallo Stato che doveva tutelarli, riducendo quasi in fin di vita" due di loro. Episodi smentiti, per altro, dalla direttrice della casa circondariale, Assuntina Di Rienzo. Le soluzioni Basterebbe poco per mitigare una situazione allarmante sostiene Grimaldi: "Un investimento da parte dell’amministrazione, più spazi per i detenuti, decongestionare la struttura e maggiori servizi per chi è dietro le sbarre". Ivrea (To): i reclusi sono tanti e imbottiti di psicofarmaci di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2017 Ieri visita ispettiva di Sel e Radicali Italiani per verificare la situazione della struttura. Sovraffollamento, abuso abnorme di psicofarmaci o ansiolitici, telecamere di sicurezza non funzionati, tossicodipendenti curati non adeguatamente, operatori sotto organico. Questo è il quadro che emerge dopo la visita ispettiva al carcere di Ivrea, effettuata ieri mattina, da parte di Marco Grimaldi, consigliere regionale di Sel, Silvia Manzi e Igor Boni della direzione nazionale dei Radicali Italiani. La visita è nata con lo scopo di verificare l’attuale situazione nella struttura carceraria, anche a seguito di diverse segnalazioni e degli episodi di violenza di fine ottobre e novembre dello scorso anno riportate anche da Il Dubbio, dopo una lettera di un detenuto che ha denunciato abusi da parte della polizia penitenziaria. L’associazione radicale torinese Adelaide Aglietta, con un comunicato, ha riportato tutte le criticità che i radicali e il consigliere del Sel hanno potuto riscontrare. "I fatti balzati agli onori delle cronache dei giornali non sono che il pixel di una fotografia ben più complessa e cruda", dichiarano nella nota i membri della delegazione. Il carcere ha una capienza di 192 posti "regolamentari", mentre alle ore 00,00 del 22 gennaio 2017 ospitava 244 detenuti di cui 102 stranieri (41,80%). Per quanto riguarda il personale della Casa circondariale, delle 220 unità ottimali 183 sono in pianta organica, ma solo 144 sono effettivamente a disposizione della direttrice Assuntina Di Rienzo. La delegazione piemontese si è fermata a discutere a lungo con la direttrice e con gli operatori non solo in merito ai gravi fatti avvenuti di recente, ma anche a proposito delle carenze strutturali del carcere. Negli ultimi mesi, all’aumento delle presenze (passate dai 190 detenuti del luglio 2015 agli attuali 244) si è sommato l’arrivo di diversi casi di detenuti trasferiti da altri istituti, per lo più a causa di sanzioni disciplinari. Questa delicata situazione si scontra con la carenza di organico e con gli scarsi strumenti che la struttura ha a disposizione. Una gestione meno conflittuale e più promiscua dei detenuti avrebbe bisogno di aree comuni e, da subito, di un impianto di videosorveglianza che consenta agli agenti un minor carico di lavoro. La delegazione ha visitato le diverse aree, a partire dall’infermeria nella quale era ricoverato un caso di autolesionismo (dei tre avvenuti nello stesso giorno). Qui i rappresentanti di Sel- Sinistra Italiana e dei Radicali hanno potuto parlare con gli operatori sanitari e del Sert, appurando che dei 244 detenuti ben 240 fanno uso di psicofarmaci, dai semplici analgesici a terapie più importanti. Una guardia medica è presente h 24, mentre lo psicologo è attivo solo 24 ore al mese e lo psichiatra 2 ore a settimana. Vi sono inoltre 64 tossicodipendenti, tutti in terapia di mantenimento (a lievi dosi scalari). "Facciamo appello al ministero di Grazia e Giustizia e al dipartimento di Amministrazione penitenziaria affinché non siano più sottovalutati da un lato i casi di insofferenza dei detenuti, dall’altro le difficili condizioni lavorative in cui si trovano gli agenti penitenziari - dichiara l’esponente di Sinistra Italiana Marco Grimaldi, il sovraffollamento e il calo dell’organico sono solo una parte di un problema che ha bisogno di investimenti certi per una migliore gestione delle aree comuni e dei diversi piani, a partire da un nuovo impianto di videosorveglianza, che costerebbe solo 40mila euro". I radicali Silvia Manzi e Igor Boni hanno infine denunciato: "Se il caso di fine ottobre è stato scatenato dall’assenza di televisioni e di canali di intrattenimento, l’abuso di psicofarmaci e la scarsità di attività ricreative, di studio o lavorative (solo 80 detenuti hanno la possibilità di svolgere un lavoro) richiederebbe ben altro investimento da parte delle istituzioni locali e del governo". Sui presunti pestaggi avvenuti al carcere di Ivrea per sedare la protesta si interessò anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. A Il Dubbio aveva spiegato che appena è venuto a conoscenza della denuncia, si era attivato consultando Armando Michelizza, il Garante dei detenuti del comune di Ivrea. Michelizza ha confermato al Garante nazionale che da tempo nel carcere di Ivrea vige un clima di tensione a causa della mala gestione della direzione, che giunge a sfociare in episodi di violenza ai danni dei detenuti. Sempre Michelizza non ha nascosto il problema della grande difficoltà che ha nello svolgere la sua funzione rispetto alle esasperazioni delle spinte securitarie all’interno dell’istituto. Il Garante dei detenuti del carcere di Ivrea ha inoltre confermato di aver visitato due detenuti coperti di lividi su tutto il corpo. Nel frattempo, sempre da fonti del nostro giornale, trapela l’ipotesi che nel carcere di Ivrea esisterebbe una "cella zero" come ai tempi del carcere di Poggioreale. Sarebbe una cella "liscia", che nell’ambiente carcerario eporediese viene soprannominata "L’acquario". In quella cella verrebbero isolati e maltrattati i detenuti considerati irrequieti. Bologna: la Camera penale denuncia "prima arriva la sentenza poi si svolge l’udienza" di Errico Novi Il Dubbio, 24 gennaio 2017 Il Tribunale del Riesame invia la decisione all’avvocato il giorno prima di discutere il fascicolo. Prima l’ordinanza, poi l’udienza. Prima decidiamo: poi, se volete, vi facciamo pure parlare. Così, tanto per darvi soddisfazione. Sembra la scena di una corte seicentesca, ai limiti del premoderno. Invece è successo nella dotta Bologna, a un avvocato che difendeva uno straniero accusato di furto, e nel Tribunale presieduto da Francesco Caruso, il magistrato che collocò i sostenitori del sì al referendum "inesorabilmente dalla parte sbagliata, come chi nel 1943 scelse male, pur in buona fede". Ed è successo precisamente che il 28 novembre scorso un collegio del Riesame presso il tribunale distrettuale di Bologna abbia notificato al difensore un’ordinanza su una misura cautelare il giorno prima dell’udienza. Ebbene sì, il giorno prima: quando cioè il collegio non si era ancora riunito e neppure il pm non si era presentato a spiegare le ragioni del suo ricorso, cioè il motivo per cui riteneva di doversi opporre all’ordinanza del gip. Il quale giudice per le indagini preliminari aveva deciso di respingere la richiesta di custodia cautelare nei confronti di uno straniero accusato di furto all’aeroporto del capoluogo emiliano. E ancora, quella notifica al difensore è stata trasmessa quando lui, il difensore stesso, ovviamente non aveva ancora varcato la porta dell’aula né aveva esposto al collegio del Riesame le osservazioni in base alle quali riteneva infondato il ricorso del pm. Il caso è deflagrato la settimana scorsa, grazie alla segnalazione della Camera penale di Bologna. Che ne ha fatto un esposto indirizzato al ministro della Giustizia, al procuratore generale presso la Corte di Cassazione, al Csm, al procuratore generale di Bologna e al presidente del Tribunale, il dottor Francesco Caruso appunto. "Il Tribunale", si legge nel documento dei penalisti, "fissava l’udienza di discussione in camera di consiglio dandone avviso al difensore. Lo stesso difensore riceveva a mezzo di posta certificata, il giorno precedente l’udienza fissata, notifica del provvedimento decisorio con apposte in calce le firme del giudice relatore e del presidente del Collegio, e con sigla in ognuna delle pagine da parte del giudice relatore". Particolare decisivo, questo, e oggettivamente sconcertante. "La decisione era, peraltro, di contenuto infausto per l’indagato e totalmente recettiva della richiesta formulata dalla Procura". Perché appunto il Riesame ha ribaltato la decisione del gip e, in accoglimento del ricorso avanzato dalla Procura, ha ordinato l’applicazione della misura cautelare, seppure sospesa in vista di un possibile ricorso in Cassazione da parte dell’indagato. Inspiegabile, tanto che verrebbe da pensare a un atto di deliberata negazione del principio di oralità nel contraddittorio: i magistrati del collegio hanno deciso senza sentire le osservazioni dell’avvocato, il che è esattamente il contrario di quanto dovrebbe avvenire con un rito accusatorio qual è quello previsto dal codice. In udienza naturalmente l’avvocato ha fatto notare che la sua stessa presenza davanti al collegio rischiava di equivalere a una finzione teatrale più che costituire un passaggio formalmente rilevante. A quel punto i giudici, colti da un comprensibile imbarazzo, hanno chiesto di potersi astenere. Il presidente Caruso ha accolto la richiesta, affidato il fascicolo a un altro collegio, che ha fissato una nuova udienza in camera di consiglio. Esito uguale, e qui siamo a una settimana fa: accoglimento del ricorso della Procura, ordinanza di custodia cautelare sospesa in attesa dell’eventuale ricorso in Cassazione. La motivazione, invece, era diversa. Se non altro, a differenza della prima - quella notificata magicamente senza che neppure l’udienza avesse avuto luogo deve aver tenuto conto delle osservazioni dell’avvocato. La Camera penale "Franco Bricola" di Bologna "ribadisce come i principi basilari del sistema processuale penale non possano essere aggirati con macroscopiche violazioni del diritto di difesa, ignorando il principio dell’oralità, del contraddittorio e della collegialità delle decisioni necessari, a maggior ragione, in fase cautelare". Lo si legge nell’esposto inviato a pg di Cassazione, Csm e vertici della magistratura bolognese e del quale i penalisti hanno informato tutte le Camere penali del distretto, l’Ucpi e il Consiglio dell’Ordine. La sezione emiliana dell’Anm ha di fatto minimizzato: "Non c’è alcun elemento che possa mettere in dubbio la buonafede dei magistrati coinvolti". E si aggiunge che il diritto di difesa "in concreto" non avrebbe subìto "né danni né limitazioni". La versione filtrata informalmente dal Tribunale è che quella notificata non era altro che una specie di brutta copia, di bozza buttata giù in attesa della decisione da prendere il giorno dopo. Peccato che fosse firmata in calce da presidente del collegio e relatore. E notificata via pec. Avrà sbagliato il cancelliere? Può darsi. Sarà un parossistico effetto dei carichi di lavoro pesantissimi a cui anche il Riesame deve far fronte? Indubitabile. Fatto sta che la decisione era già stata presa. E l’avvocato, la mattina dopo, sarebbe andato lì a esporre le ragioni dell’indagato inutilmente. Sarà il Csm a stabilire se si tratta della negazione di un diritto - dunque di un illecito - oppure no. Certo è che non si tratta di una best practice meritevole di segnalazione da parte dell’organo di autogoverno dei magistrati. Lodi: assolta dopo 3 settimane in cella. Il Pm: il carcere è un’esperienza che fa crescere di Piero Sansonetti Il Dubbio, 24 gennaio 2017 Il Pm si è avvicinato alla donna, che era stata appena scagionata dopo aver passato tre settimane in cella, del tutto innocente, e le ha sussurrato: "Vede, signorina, tutte le esperienze, nella vita, servono e fanno crescere: anche il carcere". Il Pm che l’aveva fatta arrestare senza avere in mano neppure lo straccio di un indizio sulla sua colpevolezza, non ha pensato di chiedere scusa per la propria leggerezza: gli è sembrato più ragionevole rivendicare il proprio atteggiamento e suggerire alla vittima, alla quale aveva rovinato la vita, di ringraziare per il trattamento ricevuto. La vittima, ingrata, non ha ringraziato sua eccellenza. L’altro giorno Selvaggia Lucarelli ha scritto un articolo molto bello sul "Fatto quotidiano" (beh, per una volta anche noi parliamo bene del "Fatto"...) nel quale racconta un episodio tremendo di bullismo tra i bambini del collegio - prestigiosissimo - San Carlo di Milano, e se la prende con le autorità scolastiche e coi giornali che invece di parlare di bullismo parlano di "situazioni di emergenza educativa". La Lucarelli osserva, con tristezza, che bulli sono solo i teppisti di periferia, se invece sei di buona famiglia e fai il gradasso violento, è meglio trovare un altro termine per parlare di te. Già. Se poi non solo sei di buona famiglia, ma sei un magistrato, meglio non parlarne affatto. Per fortuna è venuta la terza rete della Rai a raccontarci questo episodio, che davvero è sconvolgente. E però anche la terza rete della Rai ha voluto tenere un velo, un piccolo velo. Come si chiama questo pubblico ministero? Non si sa. Perché se un medico sbaglia un’operazione finisce subito sul giornale, con nome, cognome, fotografia, nomi dei parenti... perché se un professore sbaglia a comportarsi con gli allievi, o un ingegnere a fare dei calcoli, o un giornalista scrive una notizia non vera, il professore e l’ingegnere e il giornalista vengono processati in pubblico, e se invece un magistrato rovina la vita a un poveretto, o a una poveretta, ha diritto non solo a non risponderne davanti alla legge (perché la responsabilità civile, nonostante leggi varie e riforme varie delle leggi, praticamente non esiste) ma neppure dinnanzi all’opinione pubblica? Sarebbe logico il contrario. Che su chi detiene un potere più grande ricada una responsabilità più grande. Invece, se sei un furbetto del cartellino a 1300 euro al mese, e ti beccano, puoi essere crocifisso, mostrato in Tv, seguìto per strada dalle telecamere dei giornalisti di assalto. Se sei un magistrato hai diritto alla privacy. La storia di questo Pm e questa signora di Lodi è stata raccontata molto bene, sabato sera, dalla trasmissione "Io sono innocente" sul terzo canale della Rai. E commentata in modo saggio e adeguato da Alberto Matano, che conduce in studio. Dico subito che questa trasmissione, che va in onda il sabato sera, è assai bella, avvincente e merita applausi (ma anche qualche critica, come quella che è stata rivolta su queste colone, lunedì scorso, da Francesco Petrelli, e che qui ribadiamo: la malagiustizia non cade dal cielo ma ha dei colpevoli con nome e cognome). Succede che in un ente pubblico viene firmata una autorizzazione che non dovrebbe essere autorizzata. Il responsabile sostiene che la firma non è sua ma è stata falsificata ed è stata falsificata da una dipendente, che sarebbe, appunto, quella giovane signora di cui parlavamo all’inizio dell’articolo. Il Pm ci crede e manda i carabinieri, in piena notte, ad arrestare questa signora, ignara e incensurata. La quale senza neanche capire cosa sta succedendo viene sbattuta in cella. Indicata al paese intero come truffatrice. Moralmente linciata. Costretta a dimettersi dal posto di lavoro. Terrorizzata. E poi, dopo 22 giorni, sottoposta alla perizia calligrafica e del tutto prosciolta. E finalmente scarcerata. Non si poteva fare prima la perizia? C’era bisogno di arrestare una ragazza incensurata perché accusata da un suo superiore di aver falsificato una firma? Non bastava, eventualmente, un avviso di garanzia? Perché sono stati necessari 22 giorni di cella per accertare una verità evidentissima sin dall’inizio? E come può permettersi un Pm che ha tenuto per tre settimane un’innocente in cella, di prenderla pure in giro con quella affermazione sull’esperienza formativa del È del tutto evidente che questo caso non è indicativo del comportamento della magistratura. Sono sicuro che parecchi magistrati l’altra sera hanno visto la trasmissione di Rai tre e si sono indignati esattamente quanto me, per il comportamento del loro collega. Però la questione resta aperta: dal momento che la magistratura (e spesso il singolo Pm) ha un potere enorme sulle nostre vite (come ha detto giorni fa alla Camera il ministro Orlando), ha anche il potere di ferirle in modo permanente e irreparabile, è giusto che i magistrati esercitino il loro potere in assoluta discrezionalità e senza temere che un loro errore possa minimamente danneggiarli né scalfire la loro immagine? È utile che una società sia organizzata in modo che tutti sono uguali, tutti devono rispondere di ciò che fanno, tranne una piccola categoria di persone che invece gode del privilegio di poter svolgere il proprio lavoro senza che nessuna entità "esterna" possa giudicarlo? Tutto ciò non introduce nella comunità in cui viviamo un elemento di evidente autoritarismo, che riduce considerevolmente lo stato di diritto? Molto recentemente è stato proprio il numero 1 della magistratura italiana, Giovanni Canzio, a lamentarsi con il Csm perché quando da un giudizio su un magistrato, nel 99,9 per cento dei casi da un giudizio positivo. Cioè a lamentarsi per lo stato di "non controllo" nel quale i magistrati svolgono i loro compiti. Ha perfettamente ragione, Canzio. Ed è molto importante che questa osservazione giunga dall’interno della magistratura. Forse però anche noi dovremmo scrollarci di dosso tante paure, non farci più intimidire. Dico noi giornalisti, noicittadini, noi avvocati. La signora di Lodi è stata linciata per giorni e giorni dai mezzi di informazione. Nessuno invece, a partire dalla Tv, ha messo in pubblico il nome del magistrato, che è proibito chiamare "Bullo" come i bambini del San Carlo in stato di disagio educativo (per il Pm potremmo parlare di disagio giudiziario). P. S. Il secondo caso trattato nella trasmissione di Rai-tre sabato sera riguardava un ragazzo di 22 anni arrestato il giorno del funerale di suo fratello (ucciso dalla camorra) e accusato di avere ucciso a sua volta l’assassino di suo fratello. Non era vero. Si è fatto nove anni di prigione. Nessuno sa come mai non sia impazzito. Dopo nove anni il vero killer ha confessato e fornito i riscontri, e lui è stato scarcerato. Non ha ancora ricevuto il risarcimento. Rimini: i detenuti chiedono cibo dall’esterno e miglioramento sezione transessuali altarimini.it, 24 gennaio 2017 La possibilità di far entrare il cibo dall’esterno, migliorare le condizioni della sezione Vega, la creazione di una sezione "dimittenti", destinata ad agevolare i detenuti che si apprestano a uscire dal carcere e che quindi necessitano di reinserirsi. Sono questi alcuni degli aspetti evidenziati dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Rimini, Ilaria Pruccoli, nella sua relazione semestrale, la prima dalla sua nomina avvenuta nel marzo scorso. Dall’inizio dell’incarico l’impegno della garante è stato quello di verificare alcuni aspetti lamentati dai detenuti in una lettera scritta in concomitanza della sua nomina, che riguardano sia alcune carenze strutturali, sia alcuni aspetti legati alla quotidianità e alle relazioni con gli organismi esterni. Dal punto di vista strutturale, la sezione che maggiormente presenta disagi è la ‘Vegà, che ospita i detenuti transessuali. In questi mesi si è intervenuti con degli accorgimenti, come la rimozione di alcuni pannelli che oscuravano la vista verso l’esterno e il posizionamento di zanzariere (grazie anche al coinvolgimento delle associazioni Madonna della Carità e Papillon, che hanno donato parte del ricavato della vendita di oggetti costruiti dai detenuti stessi per l’acquisto di parte delle zanzariere). Questo nell’attesa di definire col Direttore del carcere una soluzione che sia definitiva, oltre a programmare anche attività di socializzazione e culturali che al momento mancano. Altra questione riguarda l’impossibilità per i detenuti di far entrare cibo dall’esterno, opzione già garantita in molte carceri italiane. In questo la garante si è attivata per verificare la possibilità di un adeguamento strutturale e permettere quindi la creazione di un luogo adatto all’ispezione dei cibi. Inoltre i detenuti che lavorano presso la Mof, ovvero manutenzione ordinaria fabbricati, si sono resi disponibili a mettere in campo la loro professionalità ed esperienza per poter riadattare una stanza a tal fine. "Tra gli aspetti più delicati e maggiormente sentiti è la mancanza di risposte da parte del Magistrato di Sorveglianza territorialmente competente, situazione che perdura da circa due anni - aggiunge la garante nella sua relazione - I detenuti definiti (quelli cioè già condannati in via definitiva, ndr), che presentano istanze per benefici o altro tipo di richieste, o non ricevono risposte o arrivano in maniera tardiva. Ad aggravare la situazione, la mancanza di una direzione stabile. Il Direttore infatti avendo titolarità della funzione in un altro istituto, può garantire la sua presenza solo per una o massimo due volte alla settimana". Tra le questioni sollevate dai detenuti, c’è la necessità di far fronte alle problematiche derivanti l’imminente scarcerazione, legate a difficoltà economiche o alle relazioni complicate se non del tutto interrotte con i famigliari. "Mi sembra quindi necessaria - spiega la garante - la creazione di una sezione dimittendi, che dovrebbe avere il fine di favorire le conoscenze delle strutture sul territorio, di potenziare l’offerta dei tirocini lavorativi, di svolgere una funzione di accompagnamento lavorativo, di facilitatore dell’integrazione sociale e dove vengano coinvolte le famiglie dei detenuti nell’ultima fase del percorso riabilitativo". "Oltre al costante monitoraggio della situazione dei detenuti nella struttura di Rimini - sottolinea Pruccoli - in questi mesi mi impegnerò nella diffondere la cultura della legalità anche e soprattutto attraverso la sensibilizzazione del tema carcere e delle sue problematiche. È iniziata per questo una collaborazione con Associazione Papillon e con il progetto ‘Volontariamente Giovanì per organizzare incontri con i ragazzi delle scuole superiori di Rimini proprio su questi temi". La relazione della garante è al centro della riunione di oggi pomeriggio della IV commissione consigliare, presieduta dal consigliere Davide Frisoni, e che prevede anche una visita alla casa circondariale. "Procede un lavoro che vede impegnata l’Amministrazione in una serie di progetti e di servizi che sono a beneficio non solo dei detenuti ma, più in generale, di tutta la comunità riminese - è il commento del vicesindaco Gloria Lisi - Penso alle tante attività culturali ed educative promosse dalle associazioni di volontariato, allo Sportello Carcere- Centro di Ascolto che si occupa di dare informazioni per il disbrigo di pratiche e alle svariate attività fomative e professionali rivolte ai detenuti. Credo che la realtà del carcere, con tutte le sue problematiche e le sue opportunità, non debba essere considerata come una dimensione avulsa dal resto della città, ma una parte di essa che va conosciuta e considerata. In questo senso il ruolo del garante, fortemente voluto da Amministrazione e Consiglio comunale, è fondamentale". Modena: Sant’Anna, ipotesi "carcere duro". Il sopralluogo di Piscitello (Dap) di Valentina Beltrame Il Resto del Carlino, 24 gennaio 2017 Il sopralluogo di un "emissario" del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in carcere c’è già stato e ora il senatore del Pd, Stefano Vaccari, chiede al ministro della giustizia se l’ipotesi di realizzare una sezione per il regime di 41 bis (la detenzione "durà) nella Casa circondariale di Modena sia fondata. Per il parlamentare, infatti, si tratta di una "idea che mal si adatterebbe ad una struttura che ha mostrato nel corso degli anni evidenti limiti già alla detenzione ordinaria, pur compensati dagli sforzi e dall’impegno del suo personale". È stato proprio il parlamentare e componente della commissione Antimafia, ieri, a rendere nota la possibilità che nel carcere di via Sant’Anna possa nascere una sezione di massima sicurezza. "La Direzione nazionale antimafia ha da sempre considerato il regime carcerario 41-bis strumento strategico nell’attività di disarticolazione delle organizzazioni mafiose - spiega Vaccari - perché consente di privarle dell’apporto dei loro capi, finalmente assicurati alla giustizia e privati anche di quella, seppur ridotta, libertà d’azione che il regime di detenzione ordinaria potrebbe comunque continuare ad assicurare loro. Tuttavia la cronaca ci ha purtroppo insegnato come fino al 2010 anche le maglie di questo particolare regime detentivo si fossero lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Prioritario quindi mantenere quanto mai alta l’attenzione e vigilare perché l’efficacia di questo importante strumento non venga nuovamente intaccata. Attualmente sono 750 i detenuti sottoposti al regime 41-bis, dislocati in 12 diverse strutture penitenziarie. In base a quanto si è potuto apprendere negli ultimi giorni l’amministrazione penitenziaria avrebbe allo studio l’ipotesi di realizzare una sezione detentiva da destinare a detenuti in regime di 41-bis anche presso il carcere di Modena. Una scelta che parrebbe in contraddizione con quella fatta dalla stessa amministrazione penitenziaria di limitare la collocazione di questo tipo di detenuti in strutture con specifiche caratteristiche e spazi adeguati per meglio gestirne la custodia e limitarne i contatti con l’esterno - dice Vaccari - e che inoltre rischierebbe di acuire ulteriormente le criticità sulla sicurezza del territorio modenese più volte segnalate da amministrazioni locali e associazioni di categoria, essendo dimostrato il manifestarsi di azioni di organizzazioni criminali legate a detenuti in regime di carcere duro, laddove sono reclusi. Al ministro della Giustizia quindi chiediamo quale sia la fondatezza di questa ipotesi e se la ritenga coerente con gli obiettivi di qualificazione più complessiva del sistema penitenziario del nostro Paese". Il capo della "direzione generale dei detenuti e del trattamento" afferente al dipartimento dell’amministrazione penitenziari, Roberto Calogero Piscitello, ha fatto un sopralluogo, nelle scorse settimane, in carcere a Modena. L’obiettivo della visita, secondo indiscrezioni, era proprio quello di valutare se il carcere di Sant’Anna - che conta circa 400 posti letto - sia "adattabile" ad ospitare detenuti pericolosi, quelli cioè che devono scontare condanne per reati gravi (mafia e terrorismo, ad esempio) in regime di 41 bis. In particolare sarebbe il vecchio padiglione l’ala interessata allo "studio di fattibilità". Il vecchio padiglione - nel caso dovesse ospitare davvero le celle di detenuti in regime duro - dovrebbe essere riadattato e richiederebbe un grosso restyling. Le carceri di massima sicurezza, infatti, sono dotate di misure imponenti sia in termini tecnologici (in particolare impianti di videosorveglianza) sia relativamente alla conformazione strutturale. Richiedono passaggi dedicati, anche sotterranei, per i detenuti e sale colloqui particolarmente protette. Accorgimenti pensati per limitare il più possibile i contatti esterni dei detenuti che scontano il regime duro. Inoltre la gestione è riservata al personale del gruppo operativo mobile che dovrebbe venire quindi a lavorare a Modena. Se l’ipotesi diventasse realtà, insomma, la nostra casa circondariale dovrebbe essere oggetto di importanti lavori di adeguamento per rinchiudere criminali del calibro di Totò Riina o Bernardo Provenzano, per fare degli esempi. Il regime carcerario duro prevede massimo isolamento in cella singola con ora d’aria limitata e divieto di frequentare spazi comuni, stretta sorveglianza, una sola telefonata al mese e ridotta possibilità di detenere oggetti personali in cella. Le carceri di massima sicurezza in Italia sono dodici: L’Aquila, Cuneo, Marino del Tronto (Ascoli Piceno), Novara, Parma, Pisa, Rebibbia Roma (sia maschile che femminile), Secondigliano, Spoleto, Terni, Tolmezzo (Udine) e Viterbo. Modena: sezione per i detenuti 41-bis al carcere Sant’Anna? Vaccari (Pd) dice "no" Gazzetta di Modena, 24 gennaio 2017 A Roma circola l’ipotesi di aprire una sezione dedicata al 41-bis al Sant’Anna e così il senatore interroga il ministro, evidenziando le criticità del carcere modenese. Un’ipotesi che trova il brusco alt di Stefano Vaccari, senatore del Pd. È quella che sta circolando a Roma e prevede di aprire una sezione dedicata al regime carcerario 41-bis al Sant’Anna di Modena. "Un’ipotesi che mal si adatterebbe ad una struttura che ha mostrato nel corso degli anni evidenti limiti già alla detenzione ordinaria, pur compensati dagli sforzi e dall’impegno del suo personale", così spiega Stefano Vaccari commenta la possibilità di realizzare una sezione detentiva per i detenuti in regime di 41-bis presso il carcere di Modena. Per comprendere la fondatezza di questa ipotesi, il parlamentare modenese componente della commissione Antimafia, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia. Ecco la sua dichiarazione: "La Direzione nazionale antimafia ha da sempre considerato il regime carcerario 41-bis strumento strategico nell’attività di disarticolazione delle organizzazioni mafiose, perché consente di privarle dell’apporto dei loro capi, finalmente assicurati alla giustizia e privati anche di quella, seppur ridotta, libertà d’azione che il regime di detenzione ordinaria potrebbe comunque continuare ad assicurare loro. Tuttavia la cronaca ci ha purtroppo insegnato come fino al 2010 anche le maglie di questo particolare regime detentivo si fossero lentamente ma inesorabilmente allargate, con episodi clamorosi di boss che dal carcere duro riuscivano a mantenere relazioni con i clan o addirittura a concepire figli. Prioritario quindi mantenere quanto mai alta l’attenzione e vigilare perché l’efficacia di questo importante strumento non venga nuovamente intaccata. Attualmente sono 750 i detenuti sottoposti al regime 41-bis, dislocati in 12 diverse strutture penitenziarie. Ed ecco il passaggio su Modena: "In base a quanto si è potuto apprendere negli ultimi giorni l’Amministrazione penitenziaria avrebbe allo studio l’ipotesi di realizzare una sezione detentiva da destinare a detenuti in regime di 41-bis anche presso il carcere di Modena. Un’ipotesi che mal si adatterebbe ad una struttura, come quella del Sant’Anna, che ha mostrato nel corso degli anni evidenti limiti già alla detenzione ordinaria, pur compensati dagli sforzi e dall’impegno del suo personale e dalla proficua collaborazione con diversi soggetti del volontariato modenese. Una scelta che parrebbe in contraddizione con quella fatta dalla stessa Amministrazione penitenziaria di limitare la collocazione di questo tipo di detenuti in strutture con specifiche caratteristiche e spazi adeguati per meglio gestirne la custodia e limitarne i contatti con l’esterno e che inoltre rischierebbe di acuire ulteriormente le criticità sulla sicurezza del territorio modenese più volte segnalate da amministrazioni locali e associazioni di categoria, essendo dimostrato il manifestarsi di azioni collegate alle organizzazioni criminali di appartenenza di detenuti in regime di carcere duro, laddove sono reclusi. Al ministro della Giustizia quindi chiediamo quale si la fondatezza di questa ipotesi e se la ritenga coerente con gli obiettivi di qualificazione più complessiva del sistema penitenziario del nostro Paese". Orvieto (Pg): il Pd "basta proclami sul carcere, chiusura da scongiurare" orvietonews.it, 24 gennaio 2017 "Scongiurare la chiusura del carcere di Orvieto. È questa la priorità che le istituzioni e la politica locale, provinciale, regionale e nazionale devono condividere e sostenere per evitare che Orvieto venga ancora una volta privata di una struttura pubblica come in questi anni è avvenuto per le Caserme e il Tribunale". A dirlo, in una nota, il Partito Democratico di Orvieto. "Le decisioni intraprese dalla Direzione dell’Istituto a Custodia Attenuata di Orvieto, che ha ritenuto di dover chiedere al Provveditorato Regionale di riconvertire il carcere a Casa di Reclusione a media sicurezza - si legge - rappresentano un elemento di preoccupazione per il futuro della struttura che va scongiurato sostenendo l’azione intrapresa in questi giorni dal Sappe. Come già avvenuto negli ultimi mesi tramite i rappresentanti regionali e nazionali del Partito democratico abbiamo richiesto chiarimenti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al Ministero della Giustizia, sia sulla scelta di abbandono del percorso dell’Istituto di Custodia Attenuata, sia sulle difficoltà inerenti all’impegno dei Maestri d’Arte e sulle eventuali conseguenze che il ritorno ad un regime carcerario diverso dall’Ica possano comportare per la struttura di Orvieto. Le richieste dei Parlamentari del Pd, soprattutto dell’Onorevole Walter Verini Capogruppo Pd della Commissione Giustizia della Camera, sono state recepite e divenute oggetto di una verifica più approfondita utile a dissipare le ombre che, purtroppo, si intravedono sul futuro del Carcere di Via Roma. In questo contesto appaiono decisamente contraddittorie e preoccupanti le scelte intraprese dalla Direzione dell’Istituto. Come Partito democratico riteniamo che il Carcere di Orvieto debba essere salvaguardato nella complessiva funzione di Istituto per la Custodia Attenuata e, oltretutto, venga ristabilita quella presenza costante della direzione dell’istituto segno di rappresentanza, funzionalità e sicurezza della struttura". Bergamo: Fns-Cisl "il sovraffollamento del carcere di supera il 60%" myvalley.it, 24 gennaio 2017 Ci sono 515 detenuti su 320 posti a disposizione. In più, il reparto di Polizia penitenziaria registra una carenza di oltre 70 unità. A renderlo noto è la Fns-Cisl di Bergamo. Secondo gli ultimi dati del Dipartimento amministrazione penitenziaria, i detenuti in Lombardia nel 2016 erano 8.077 a fronte di 6.125 posti disponibili. Il tasso di sovraffollamento, dunque, in regione si aggira attorno al 30%, (la metà che a Bergamo, che arriva al 61%) rispetto a circa il 5% della media nazionale. Numeri che testimoniano una vera e propria emergenza in atto e mettono la Lombardia al primo posto tra le regioni italiane per popolazione carceraria. Per ciò che riguarda la situazione dell’istituto orobico, sui 515 detenuti, una quarantina sono donne; oltre la meta è straniera, mentre i detenuti in attesa di giudizio sono più del 30%. "A garantire il mantenimento della sicurezza del carcere di Bergamo è chiamata la Polizia Penitenziaria, uomini e donne che svolgono il proprio servizio in condizioni di affanno e talvolta di estrema difficoltà per via della cronica carenza dell’organico che interessa anche la struttura del Gleno", sostiene la Fns Cisl. Il sindacato denuncia un costante impoverimento delle risorse umane a causa di svariate ragioni (trasferimenti, pensionamenti) che determinano una carenza dell’organico del reparto di Polizia Penitenziaria di Bergamo di oltre 70 unità. "Si tratta di un dato già di per sé preoccupante ma che diviene ancor più grave se solo si considera l’incremento di attività cui la Polizia Penitenziaria è oggi chiamata a svolgere rispetto al passato - spiega Francesco Trovè, segretario provinciale della Fns Cisl. Infatti a fronte delle ordinarie attività facenti capo al Corpo di Polizia Penitenziaria, con il passare degli anni si sono aggiunte diverse e più varie attività cui occorre comunque far fronte, quali ad esempio: l’estensione delle giornate di colloqui a tutta la settimana con possibilità di accesso anche nel pomeriggio e ad un festivo al mese, implementazione e aggiornamento della Banca Dati del Dna, monitoraggi vari". "Si tratta di attività che richiedono l’impiego di personale qualificato, mezzi e strumentazioni adeguati - insiste il segretario della Fns Cisl. Pertanto, oltre ad un urgente incremento dell’organico del personale di Polizia Penitenziaria che, al pari di quanto avviene nel resto delle Forze dell’Ordine, è in costante riduzione, occorrerebbe anche un potenziamento dei sistemi e delle strumentazioni in dotazione. Ci si riferisce in particolare agli impianti di videosorveglianza e di automatizzazione dei varchi d’accesso, di illuminazione delle aree interne ed esterne del carcere, che, seppur presenti in modo significativo nell’istituto di Bergamo, richiedono un servizio costante di manutenzione ed aggiornamento. La dotazione dei mezzi in uso al Corpo di Polizia Penitenziaria, infine, è a dir poco vetusta, con migliaia di kilometri alle spalle, veicoli il più delle volte, privi dei più basilari congegni di sicurezza (abs, esp, ecc.) oltre che di comfort (aria condizionata, sedili ergonomici) per i trasportati". Trieste: detenuto ricoverato all’Ospedale Maggiore aggredisce due agenti della scorta triesteprima.it, 24 gennaio 2017 Un detenuto del carcere del Coroneo, ricoverato all’ospedale Maggiore di Trieste ha preso a sprangate gli agenti della scorta che piantonavano la sua stanza. Piantonato da giorni nel reparto di Diagnosi e Cura dell’ospedale Maggiore di Trieste dopo aver distrutto già due celle del reparto di isolamento del Coroneo, ieri pomeriggio il detenuto, un uomo triestino con problemi di tossicodipendenza e salute mentale, si è procurato alcune sbarre di ferro rompendo il letto della stanza del nosocomio dove era ricoverato ed ha aggredito molto violentemente la scorta della Polizia Penitenziaria che lo sorvegliava; gli agenti per arginare la sua furia violenta e proteggere anche gli altri ospiti del reparto e gli infermieri presenti hanno dovuto accostare la porta della stanza per impedire che colpisse qualcuno o tentasse addirittura la fuga ma lui, con una violenza inaudita è riuscito addirittura a sfondarla. A riferirlo è la dott.ssa Federica D’Amore, segretaria regionale Ugl Polizia Penitenziaria Triveneto, "Fortunatamente l’episodio è accaduto durante il cambio turno della scorta, momento in cui erano presenti sia i colleghi che avevano terminato il servizio sia quelli che lo stavano iniziando perché altrimenti sarebbe stato impossibile frenare la furia del detenuto ed è stato comunque necessario far intervenire anche una volante della Polizia in supporto". Solo grazie ad un espediente, nascondendosi alla sua vista, è stato possibile afferrare repentinamente la spranga di ferro con cui si era armato e sottrarla al detenuto; gli agenti hanno poi potuto bloccare l’aggressore e farlo calmare per far intervenire il personale sanitario. Intanto due degli agenti presenti sono stati accompagnati al pronto soccorso dove sono state riscontrate rispettivamente la lussazione della spalla (guaribile in sette giorni) e la frattura della mano con 20 giorni di prognosi. Quello che lascia sgomenti è che, racconta la dott.ssa D’Amore "sono settimane che questo soggetto si mostra aggressivo e gli episodi di violenza su persone e cose sono stati diversi; nel reparto di Diagnosi e Cura sono attualmente piantonati due detenuti e la scorta predisposta alla loro vigilanza è assolutamente insufficiente, soprattutto se si considera che i nostri colleghi non hanno a disposizione alcuno strumento di contenimento e non hanno modo di difendersi da aggressioni come questa; chiediamo che la scorta venga rinforzata e che venga verificata l’idoneità di questo reparto ad ospitare persone detenute; sono stati momenti di panico, i colleghi si sono sentiti in difficoltà e privi di mezzi; hanno chiesto rinforzi dal carcere ma non era disponibile nessuno e hanno dovuto chiamare i colleghi della Polizia". "La segreteria Ugl Polizia Penitenziaria Triveneto auspica che, vengano presi seri provvedimenti a tutela della sicurezza del personale, che il detenuto sia trasferito in un reparto di medicina protetta dove possa ricevere le cure in totale sicurezza e soprattutto che le Autorità considerino in futuro la delicatezza dei servizi di piantonamento della Polizia Penitenziaria in luoghi esterni di cura, mettendo a disposizione del personale operante tutti gli strumenti e le risorse previste; infine esprimiamo tutta la nostra vicinanza ai colleghi che hanno avuto la peggio in questa circostanza augurando loro una pronta guarigione". Torino: la manutenzione del parco La Mandria sarà fatta da sei detenuti di Gianni Giacomino La Stampa, 24 gennaio 2017 Da lunedì sei detenuti del carcere "Lorusso e Cotugno", tra i 29 e 42 anni, in attesa di scontare la loro pena, lavoreranno per il Comune di Druento e per il parco de La Mandria. I sei beneficiari (non solo italiani) effettueranno lavori di manutenzione del verde e di immobili, rimozione neve, accudimento delle scuderie per il parco mentre per Druento verranno impiegati nella pulizia dei fossi, tinteggiatura di arredi urbani, lavori di muratura, solo per citarne alcuni. "Il nostro obiettivo è il reinserimento sociale delle persone", hanno detto Sergio Bussone e Carlo Vietti, sindaco e assessore di Druento, presentando il progetto sostenuto con fondi erogati dalla Compagnia di San Paolo e redatto con il Patto Territoriale Zona Ovest. Soddisfatto Domenico Minervini, da due anni e mezzo direttore del carcere torinese: "Quando sono arrivato c’erano 38 detenuti impegnati all’esterno, oggi siamo a 92 su circa 1300 ospiti e ci impegneremo perché aumentino ancora". Il tirocinio lavorativo avrà una durata di sei mesi con un’ulteriore proroga di altri sei e i detenuti saranno retribuiti con 300 euro al mese (4 ore pagate, dalle 8 alle 12 e 2 di volontariato e dalle 13 alle 15). "È un progetto molto importante perché nasce e si basa sulla fiducia - ha evidenziato l’avvocato Luigi Chiappero, presidente del parco La Mandria - e dev’essere un segnale per il futuro visto che la fiducia è diventata un problema per noi italiani". "Importante sarà vedere i carcerati che si impegnano per mantenere un bene di grande valore artistico e culturale come l’area verde de La Mandria" - ha chiuso Paola Assom, responsabile dell’area Politiche Sociali della Compagnia di San Paolo che, dal 2001, ha erogato quasi 16 milioni di euro per migliorare le condizioni dei detenuti piemontesi. Napoli: lo scrittore Lorenzo Marone tra i detenuti "con un libro ci regali libertà" di Bianca De Fazio La Repubblica, 24 gennaio 2017 Ventisette detenuti e uno scrittore. Ventisette vite da romanzo noir e uno scrittore che le vite le inventa, le costruisce, per i suoi romanzi. Si sono incontrati ieri, nel carcere di Secondigliano, nell’ambito delle iniziative che il direttore della struttura penitenziaria, Liberato Guerriero, propone ai reclusi con la collaborazione della Onlus "La Mansarda". Si sono incontrati ieri nell’ambito delle iniziative che il direttore del carcere, Liberato Guerriero, propone ai reclusi con la collaborazione della Onlus "La Mansarda", guidata dal consigliere regionale Samuele Ciambriello. La Onlus ha promosso un confronto tra lo scrittore Lorenzo Marone ed i carcerati che nelle scorse settimane hanno letto il suo romanzo "La tentazione di essere felici". "È la prima volta che entro in un carcere", racconta Marone prima di metter piede nel reparto di alta sorveglianza in cui sono reclusi gli uomini che tra le righe del suo libro si sono affacciati sul loro passato, riscoprendosi con i rimpianti e l’incapacità di scegliere di Cesare, il protagonista del romanzo. "La lettura libera" è il titolo dell’iniziativa e non suona retorica se uno degli interlocutori dello scrittore afferma: "Cesare ci ha regalato spazi di libertà". Poi, strizzando l’occhio alle guardie penitenziarie ed al direttore del carcere, aggiunge: "Questa sera evaderò: leggerò un libro". "Se lo avessi letto prima, forse adesso non sarei qui", ha detto nei giorni scorsi uno dei detenuti. "Un romanzo - afferma lo scrittore - che è soprattutto sull’importanza del cambiamento: Cesare si accorge di aver vissuto senza scegliere davvero. Se ne accorge tardi, a 77 anni. Ma cambia vita. Cesare ha paura delle emozioni, ha difficoltà a relazionarsi con gli altri". Sembra lasciarsi scorrere la vita addosso, fino a tarda età. Ed è una china che in galera tenta molti. Ma un romanzo può farti riflettere. E Gennaro, giovane e disinvolto, riflette: "Fuori rincorriamo gli acquisti costosi. Il capo di abbigliamento che costa molto. Ma il giorno dopo la moda cambia e la corsa all’acquisto che non ti puoi permettere ricomincia. L’ho fatto anche con mia figlia: le compravo il giocattolo più caro. Pensavo bastasse. E non avevo mai l’attenzione, invece, di giocare con lei. Oggi prenderei dieci tappi, altro che divertimenti costosi, e starei con lei ad inventare giochi". "Cesare si interessa più alla sua vita che a quella dei suoi figli - dice critico Salvatore - ed io proprio non lo capisco". È un tema caldo, questo dei figli. Una questione che scotta a tanti degli uomini che si confrontano con Marone. E lo scrittore spiega loro che "Cesare ha dato poco, ai figli, ma ha anche chiesto poco. Non ha preteso nulla, autocentrato com’era. Egoista? Sì, ma soprattutto "umano". Pieno di dubbi e contraddizioni. Come me e come tutti noi". I detenuti ascoltano in silenzio. Annuiscono. Si sentono capiti. "Il protagonista raggiunge infine la felicità?", chiedono. "Le cose che scrive, le ha vissute in prima persona?". "E come fa a scrivere di un settantasettenne se lei di anni ne ha solo 40? Si è ispirato a suo padre? A suo nonno?". "E la paura Cesare riesce a superarla?". Le risposte dello scrittore offrono a ciascuno la possibilità di riconoscersi in alcune delle azioni del protagonista, in alcuni segmenti della sua vita, in alcune sue scelte, o nella sua incapacità di scegliere. Offrono ai detenuti "la possibilità di ritrovarsi e di recuperarsi", dice Samuele Ciambriello, che cita don Milani quando afferma che la cultura è l’ottavo sacramento. "A chi ha sbagliato va tolta la libertà, non la dignità. E la lettura, la cultura, permettono di restituire dignità anche a chi vive dietro le sbarre". "Anche la lettura - aggiunge Guerriero, il direttore di Secondigliano - può aiutare chi è recluso a stemperare ansie e tensioni connesse alla limitazione della libertà". Funziona? "Sicuramente funziona nell’immediato. Certo noi non siamo in grado di dire se questi semi lanciati adesso germoglieranno in futuro. E dato che guardiamo al futuro, molte iniziative di lettura sono destinate ai figli dei carcerati, che, ad esempio, possono intrattenersi con i volontari di "Nati per leggere", che leggono loro storie e favole". Un po’ di germogli ci sono se i reclusi salutano lo scrittore, a fine incontro, facendosi promettere che invierà loro il suo prossimo libro. Verona: Pasolini in carcere, potenza comunicativa e sorpresa dei detenuti attori di Vittorio Zambaldo L’Arena, 24 gennaio 2017 Il regista Perina:"Più espressivi dei professionisti: azzardo riuscito". "Solo l’amare, solo il conoscere conta/ Non l’aver amato, non l’aver conosciuto/ Dà angoscia il vivere di un consumato amore", sono i versi con cui Pierpaolo Pasolini apre "Il pianto della scavatrice" e che fanno da guida e titolo al laboratorio teatrale che il regista Renato Perina ha condotto per il terzo anno con i detenuti della casa circondariale di Montorio. Il saggio teatrale è il risultato del progetto "Contro ragione credere ancora - anno III", avviato lo scorso maggio, e che si concluderà a inizio marzo, dell’associazione culturale Bagliori, gestito in collaborazione con la direzione del carcere, l’egida del ministero di Grazia e Giustizia, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e il sostegno della Fondazione San Zeno. Sono stati 14 i detenuti coinvolti, tutti condannati a pene detentive lunghe e con differenti livelli di scolarità, affiancati nell’allestimento da Lara Perbellini, Valentina Dal Mas e Stefano Zampini: la potenza comunicativa è stata affidata esclusivamente alla parola e alla corporeità. "Lavorare su Pasolini poeta, sulle sensazioni e le immagini suscitate dalla sua poesia è stato un azzardo", ammette Perina, "ma devo dire che non cambierei questi attori con nessun altro professionista, che al loro confronto trovo inespressivo: hanno una potenza straordinaria e gli stessi stranieri del gruppo, hanno dato alle parole di Pasolini potenza e sorpresa". Non c’era una trama, non c’era un racconto con un capo e una fine, se non il filo rosso della critica che lo scrittore e regista, ucciso quarant’anni fa, ha sempre attribuito al mondo consumistico espresso nel conflitto con il sacro, la corporeità, la sessualità, le classi sociali, "ma tutto in una dimensione onirica che si ottiene lavorando sulle parole, su corpo e sul movimento", conclude Perina, autore del volume "Per una pedagogia del teatro sociale" (Franco Angeli editore) e che si divide fra insegnamento e teatro con predilezione per l’ambito del disagio. "Ne sono uscita con le lacrime", racconta Margherita Forestan, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, "colpita dalla capacità del regista e degli attori di riuscire a tirar fuori il meglio da persone che scontano pene pesanti e che hanno ancora in corpo una carica di rabbia forte verso chi le ha denunciate e condannate. Perina ha centrato l’obiettivo costituzionale del senso riabilitativo della detenzione: gli attori non recitavano, lo si vedeva bene, ma partecipavano con una carica tale da togliere il fiato. Ho ritrovato il Pasolini che amo, ma ho ritrovato persone diverse e li incontrerà uno per uno per ringraziarli. Questa testimonianza di recupero non resti confinata fra le mura di Montorio: tutta la città deve vedere, sentire ed emozionarsi". "Il libro dell’incontro". Il giusto congedo dal peso di quegli anni di Luigi Manconi e Federica Graziani Il Manifesto, 24 gennaio 2017 La stagione del dolore e della rabbia deve cedere il posto a una nuova primavera che ci liberi dal peso enorme di quegli anni. Una primavera di piena verità, di una giustizia che non si fermi all’accertamento dei fatti e delle responsabilità. Né all’arido conteggio delle sanzioni e dei risarcimenti, ma che riesca in qualche modo a riparare il tessuto personale e sociale lacerato". Le parole di Pietro Grasso, presidente del Senato, hanno introdotto, giovedì scorso, la presentazione di uno dei libri, a nostro avviso, più importanti dell’ultimo decennio. E sono parole che, tanto più perché pronunciate dalla seconda carica dello Stato nella sala più prestigiosa del Senato, di rado si sono udite nella discussione pubblica. E sono parole che, tanto più perché pronunciate dalla seconda carica dello Stato nella sala più prestigiosa del Senato, assai raramente si sono udite nella discussione pubblica. "Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto" (Il Saggiatore, 2015, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato) è il resoconto, dolente e appassionante, di un difficile cercarsi, e infine trovarsi, di alcuni fra i protagonisti della stagione del terrorismo italiano (tra i tanti, Luca Tarantelli e Manlio Milani e Adriana Faranda e Franco Bonisoli). Protagonisti, sia chiaro, in ruoli che più antagonisti non si potrebbe: gli uni attentatori, gli altri bersagli. Il libro racconta il loro percorso, durato oltre otto anni, le cui difficoltà si intuiscono sin dalla stazione di partenza. I partecipanti hanno intrapreso il loro cammino non avanzando, bensì retrocedendo da quell’idea di giustizia che si considera soddisfatta quando individua la responsabilità del colpevole e applica la sanzione prevista; e che confonde l’espiazione della pena con la restaurazione di un ordine. Ma il carcere è una risposta sufficiente per il lutto delle vittime di quegli anni? È capace di esaudirne la domanda di giustizia? E, per converso, è in grado di consentire l’emancipazione dei responsabili dal proprio passato? Di permetterne quell’integrazione nel seno della comunità e quella "rieducazione" che l’articolo 27 della nostra Costituzione attribuisce alla pena come finalità e funzione? Dunque, un inizio come sottrazione. Ma quelle persone di cui il libro restituisce le voci, attenzione, hanno attraversato l’itinerario, umanissimo e dolorosissimo, di ricerca del dialogo con l’altro così incommensurabile, solo dopo avere espiato interamente la pena che i tribunali dello stato democratico hanno inflitto loro. Sono quindi persone per le quali quella risocializzazione ha già in qualche modo funzionato. Per questa ragione, ci sembra che Gian Carlo Caselli sbagli quando - per altro con toni misurati - critica l’iniziativa in Senato quasi fosse una sorta di "legittimazione politica" delle Brigate Rosse. Ma in quel libro e in quella sala non c’era alcun partito armato e nemmeno un suo singolo esponente: c’erano, piuttosto, uomini e donne che da quel partito, dalla sua prassi e dalla sua ideologia hanno preso definitivamente congedo. Nessun riconoscimento, dunque, bensì la solenne celebrazione della forza della democrazia. Ma c’è di più. Sentiamo Agnese Moro: "In questi sette, otto anni ho imparato ad ascoltare parole difficili, molto dure. E a sorprendermi nello scoprire, in quelli che io reputavo fossero solo dei mostri, delle persone, che avevano fatto lunghi cammini. E ho scoperto così che non siamo i soli depositari del dolore, ma che c’è un dolore anche nella consapevolezza di aver fatto qualcosa di tremendo e di non poterlo cambiare". Per chi ha orecchie per intendere, ciò vuol dire innanzitutto una cosa: le responsabilità giudiziarie e morali non sono rimovibili, e i ruoli restano incomparabili, tra chi ha usato e chi ha subito violenza: ma la consapevolezza di aver fatto parte di una tragedia collettiva rende indispensabile, per superarla, andare oltre i rigidi meccanismi della giustizia retributiva. Andrea Coi, ex militante Br, sembra rispondere alla Moro: "Ancora prima di aver finito di scontare la mia pena, mi resi conto che c’era un problema cui i tribunali non potevano dare risposta, ma spettava a me darla. C’era un debito di giustizia nei confronti delle vittime. Un processo molto lungo in particolare per me che dovevo riuscire a perforare una corazza ideologica dura, costruita in tanti anni di violenza, e a fare entrare un po’ di luce". Questa volontà di comprendere e far proprio, nei limiti del possibile, la sofferenza dell’altro è esattamente quel "dare un senso al dolore", che sembra percorrere l’intero libro. Nei silenzi, nelle attese, negli scarti, nelle esitazioni di un cammino così tortuoso emergono le difficoltà, certo, ma anche tutta la caparbietà di disporsi a essere coinvolti; e di rinegoziare sempre la propria libertà di ascoltare, e di parlare. Così la conclusione del ministro, Andrea Orlando: "Nel libro ci sono molte pagine quasi bianche, talvolta poche parole incastonate al centro di una pagina tra ampi margini di vuoto. In verità quelli non sono dei vuoti, hanno una loro eloquenza: quegli spazi bianchi testimoniano il fatto che l’incontro è anzitutto disponibilità all’ascolto e dunque silenzio. Per leggere quelle pagine così vuote ci vuole almeno tanto tempo quanto a leggere quelle piene". Guido Rossa, il sindacalista che denunciò le Br. La sua storia in una graphic novel di Antonio Sciotto Il Manifesto, 24 gennaio 2017 Il libro esce nell’anniversario dell’assassinio. Il delegato Cgil fece il nome di un collega che distribuiva volantini dell’organizzazione armata e per questo fu giustiziato. La prefazione di Cesare Damiano. Il 24 gennaio 1979, alle 6,30 del mattino, Guido Rossa, operaio e sindacalista della Cgil, esce di casa per andare a lavorare. È dipendente dell’Italsider, delegato nel consiglio di fabbrica per la Fiom. Ma allo stabilimento Rossa non arriverà mai, perché quella stessa mattina le Brigate rosse gli tendono un agguato e lo uccidono. La storia del sindacalista che ebbe il coraggio di denunciare i terroristi nel pieno degli anni di piombo è ricostruita nel graphic novel di Nazareno Giusti "Guido Rossa (un operaio contro le Br)", che esce oggi per la Round Robin. La prefazione è di Cesare Damiano, politico del Pd - presidente della Commissione Lavoro della Camera e già ministro del Lavoro - ai tempi giovane sindacalista della Fiom, alla Fiat di Mirafiori. Damiano ricorda il giorno del funerale, 250 mila persone sotto la pioggia, le urla di protesta degli operai: il presidente Pertini presenziò alle esequie e "il giorno stesso volle incontrare i "Camalli", gli scaricatori del porto di Genova. Le forze dell’ordine lo misero subito di fronte ad un potenziale pericolo, tra quelle persone c’erano simpatizzanti conclamati delle Br. Lui rispose alzando lo sguardo in un modo che non lasciava scampo ad interpretazioni: lo so, ci vado apposta". L’Italia di quegli anni non prevedeva le mezze misure: Rossa ebbe il merito di fare una chiara scelta di campo, denunciando un collega che distribuiva volantini delle Br alla macchinetta del caffè dell’Italsider. Fu l’unico a farlo, gli altri delegati lo lasciarono solo. A lungo il sindacato e lo stesso Pci non capirono la reale portata delle organizzazioni armate, la complicità e l’omertà che trovavano nelle fabbriche, e fu proprio l’omicidio di Guido Rossa a dare una sveglia. "Come funzionari della Federazione lavoratori metalmeccanici di Mirafiori - ricorda Damiano - decidemmo di far sottoscrivere ai 600 delegati del "consiglione" di fabbrica che rappresentava quasi 60.000 dipendenti - un organismo enorme che dà l’idea del peso del sindacato del tempo - un documento di condanna della lotta armata. Solo pochissimi non lo firmarono e vennero espulsi, alcuni lo sottoscrissero e successivamente scoprimmo che appartenevano alle Br. La capacità di mimetizzarsi era tale che alcuni brigatisti, da delegati sindacali, esprimevano addirittura posizioni tra le più moderate e di mediazione, e ciò ne rendeva più difficile l’individuazione". Il graphic novel di Giusti ci riconsegna uno spaccato della storia italiana - mai abbastanza scandagliata, soprattutto in quegli anni così difficili e divisivi - ma ha anche il pregio di raccontare la vita di una persona "normale" - un operaio e delegato sindacale - che grazie alla sua netta scelta di campo diventa un modello. La passione della lotta, la ricerca della giustizia, la fermezza nel rifiutare scorciatoie pericolose. Niente di meglio di un racconto a fumetti per conciliare gusto della lettura e riflessione. "Mercanti di uomini". L’Isis e i corpi rubati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 gennaio 2017 Un incontro con Loretta Napoleoni, economista ed esperta di jihadismo, autrice del libro "Mercanti di uomini", per Rizzoli. "I sequestri non esistevano. Dopo l’11 settembre, i rapimenti sono diventati una delle fonti più redditizie". Un business mondiale che coinvolge soggetti statali, non statali, criminalità organizzata, jihadismo e organizzazioni no-profit: è la tratta di esseri umani. Fenomeno millenario che accompagna l’umanità fin dalle prime forme di schiavismo, oggi è concretamente visibile nei barconi che approdano lungo le coste italiane e nei volti scavati degli ostaggi occidentali liberati dopo il pagamento di lauti riscatti. Un giro d’affari da miliardi di dollari in cui tutti i soggetti coinvolti si fanno mercanti, vuoi per finanziare le attività jihadiste vuoi per propaganda politica. Ne abbiamo discusso con Loretta Napoleoni, a pochi giorni dall’uscita del libro "Mercanti di uomini" (Rizzoli, pp. 360, euro 18,50). Come è cambiato il business della tratta degli esseri umani dopo gli stravolgimenti in Medio Oriente seguiti all’invasione Usa dell’Iraq nel 2003? Prima dell’11 settembre, il sistema di finanziamento dei gruppi terroristi si fondava principalmente sugli aiuti degli sponsor (come l’Arabia Saudita con al Qaeda) e sul contrabbando di droga. I sequestri non esistevano. Dopo l’11 settembre i rapimenti diventano una delle fonti più redditizie. Una nuova dimensione molto preoccupante perché legata alla risposta occidentale all’11 settembre. L’abbiamo creata noi: questi gruppi si agganciano alla nostra economia e approfittano della nostra politica, le interdipendenze sono enormi. Si tratta di un modello alimentato a monte dal pagamento dei riscatti da parte dei governi occidentali e il cui stadio finale è il traffico dei migranti, diretti appunto verso l’Occidente. Il traffico dei migranti è figlio delle politiche scellerate condotte dopo la caduta del muro di Berlino, con l’ondata di destabilizzazione del mondo arabo. Quali sono le forme di finanziamento dello Stato Islamico? Prima delle controffensive anti-Isis del 2015 e 2016, circa il 20% del budget proveniva dal contrabbando di petrolio e risorse energetiche, un altro 20% da gestione dell’acqua e produzione agricola, un 10% dai contributi degli sponsor privati e statali. Tutto il resto dal sistema di tassazione interna, la metà del totale. Con i rapimenti sono entrati tra gli 80 e i 90 milioni di dollari, un valore importante ma non così significativo visto che il turn over islamista era di due miliardi. Sicuramente nell’estate del 2015 il traffico dei migranti è stato importante, ma è stata una finestra di pochi mesi corrispondente all’apertura delle frontiere decisa dalla cancelliera tedesca Merkel. Vista la centralità delle tasse locali, la perdita di territorio peserà sulla spinta propulsiva islamista? La perdita di Mosul avrà un peso enorme, ma l’Isis sapeva che non avrebbe potuto tenersela a lungo. Ha però ancora in mano Raqqa e la provincia irachena di Anbar e da lì sarà più difficile sradicarlo. Non sarà scalfito fino a quando avrà materiale di propaganda con cui mantenere il controllo di porzioni di territorio, ossia l’assedio esterno e i raid aerei. Come immagina il futuro della macchina politico-economica dello Stato Islamico? Penso che sarà inglobato in un futuro Stato sunnita frutto delle negoziazioni tra super potenze: il nord di Iraq e Siria verrà spartito e verrà creato uno Stato sunnita sotto l’egemonia turca, collasserà il sogno dell’unità kurda e nel sud Iraq si consoliderà un regime sciita. In questo nuovo Stato confluirà l’Isis: un’amnistia ufficiosa integrerà i gruppi armati già finanziati dalla Turchia. Così il califfato ha vinto: sarà il primo vero Stato sunnita, insieme alla Turchia in fase di islamizzazione, in chiave "moderna". Una visione che si fonda su una sorta di legittimazione dell’Isis… Il califfato esiste perché i leader tribali sunniti gli hanno permesso di esistere. È vero che ha occupato dei territori, ma in qualche modo si è sottomesso a quella che era l’autorità tribale, senza la quale non avrebbe resistito a lungo. La sua è una spinta nazionalista e non religiosa, la religione è mero strumento politico. Per cui una volta creato uno Stato sunnita, gestito secondo la Sharìa, avrà ottenuto quanto voleva. Elementi violenti, cellule attive resteranno ma ci sarà un significativo allentamento del conflitto sia in Europa che nei territori mediorientali occupati. È la stessa cosa successa dopo il 2005 con il risveglio sunnita in Iraq e la ribellione delle tribù ad al Qaeda: da quel momento la spinta qaedista è scemata. Scemerà anche il flusso di rifugiati. Dal libro emerge con chiarezza il ruolo del business dell’accoglienza… Ho dovuto togliere i nomi di alcune organizzazioni perché hanno minacciato denunce. Il giro d’affari dell’assistenza è tremendo sia in Medio Oriente che in Europa. È un’industria cresciuta esponenzialmente, a scopo di lucro: non significa nulla l’etichetta "no profit": sono soggetti che acquistano immobili, assumono personale. Stime reali non esistono, ma di certo è l’industria che a livello mondiale negli ultimi 20 anni è cresciuta di più all’interno dei rapporti internazionali. In Italia è palese con i famosi 35 euro al giorno ricevuti dalle strutture e che non vengono investiti per i migranti ma per allargare il raggio d’azione dell’organizzazione. Si può parlare di un sistema di tratta che coinvolge ufficiosamente tutti? Da gruppi criminali a organizzazioni fino a entità statali? Assolutamente. Accade con i migranti come per gli ostaggi, dove la liberazione dietro il pagamento di un riscatto diventa strumento di propaganda politica e mediatica. Il messaggio che passa è l’atto positivo compiuto dai governi, lo sforzo per riportare a casa un concittadino. Sono tutti mercanti. E nessuno si chiede dove finiscano quei riscatti, se per rapire altri italiani, per traghettare in Europa centinaia di migliaia di rifugiati o per mettere una bomba a Parigi o Istanbul. E poi ci sono le società di sicurezza che forniscono i negoziatori e che spesso costano di più del riscatto stesso. Si parla di 2-3mila dollari al giorno. Facendo qualche calcolo, è "conveniente" perché calano i riscatti e i tempi di rilascio. Negoziare è la scelta giusta, visto che legittima un simile sistema e i gruppi che lo gestiscono? Lo Stato non deve intervenire né negoziare ma non può impedire alla famiglia di agire. Se interviene, legittima un sistema che viene in qualche modo, indirettamente, sfruttato anche da chi lavora in luoghi pericolosi: diversi giornalisti italiani mi hanno confidato di rischiare più del normale perché sono convinti che poi lo Stato italiano pagherà. La tratta di esseri umani, rifugiati o ostaggi occidentali, inficia le dinamiche politiche nei paesi interessati, in termini di alleanze, fratture, destabilizzazioni? Si tratta di un business che amplia destabilizzazioni già in atto. Il jihadismo, rafforzato dal punto di vista economico, si allarga geograficamente e attira nuovi adepti. Lo si vede bene in Africa, dove la scelta è limitata se si vuole cambiare vita e avere qualche chance: o si diventa trafficante o si aderisce a gruppi jihadisti o si emigra. Questo processo svuota i paesi di soggetti che potrebbero rappresentare un’alternativa politica o sostenere i processi di democratizzazione: molti di coloro che se ne vanno sono i più reticenti ad aderire a un mondo di criminalità, corruzione o jihadismo. A livello politico le alleanze tra gruppi e signori della guerra aumentano il peso politico di soggetti non statali: controllano interi territori, anche a cavallo dei confini, a scapito degli Stati. Quei ragazzi fagocitati dai clan di Vincenzo Morgera e Giovanni Salomone (Associazione Jonathan Onlus) La Repubblica, 24 gennaio 2017 I fatti di cronaca di questi giorni non lasciano spazio a fraintendimenti di sorta: la camorra è una presenza criminale stabile e strutturata con modelli culturali che nutrono e formano, sin dalla tenera età, bambini e ragazzi. Nel caso specifico di quanto accaduto al Pallonetto di Santa Lucia, la risposta delle istituzioni per i bambini coinvolti nel blitz delle forze dell’ordine, considerato anche il contenuto delle intercettazioni pubblicate, ci lascia molto perplessi; quei bambini vengono affidati a parenti e dunque lasciati nello stesso contesto di deprivazione e illegalità in cui hanno vissuto finora. Un esempio concreto di infanzia negata e se non si interviene adeguatamente si condiziona irreparabilmente la loro vita. La domanda che da operatori sociali e ci poniamo è perché questi bambini non sono stati collocati in una casa-famiglia, in una situazione protetta? Se non altro per creare un corto circuito in grado di riportarli in una dimensioni fatta di quella normalità da cui ri-partire. La verità è che nessuno è interessato ad investire sul futuro di questi bambini e non solo per una questione economica ma semplicemente perché le politiche sociali sono attraversate sempre più spesso da spinte fortemente ideologizzate: i figli non si tolgono alle famiglie, tutti possono rivendicare questo diritto, anche i camorristi. I "contorcimenti" di certi provvedimenti non possono lasciare indifferenti. Chi scrive si occupa prevalentemente di minori e giovani adulti (14/21 anni) in conflitto con la giustizia. In questa esperienza ci sono tutti gli elementi utili per comprendere come questi tipi d’intervento siano il preludio di una "morte annunciata". Un primo dato oggettivo sul quale fare una riflessione è la consapevolezza che i minori che oggi entrano nel circuito penale non hanno nulla a che vedere con gli "scugnizzi" o i "muschilli" degli anni 80 e 90. La quasi totalità di questi ragazzi porta i segni di una infanzia negata che le istituzioni non hanno saputo o meglio voluto leggere. Una responsabilità enorme se si guarda il quadro statistico dei reati che, una volta raggiunta l’età della punibilità, li porta negli istituti penali minorili o nelle Comunità. Il peso percentuale di quelli violenti oltre ad indicare un notevole livello di strutturazione nell’ambito della malavita organizzata, evidenzia una trasformazione antropologica che è figlia proprio di quella infanzia negata. Un altro elemento su cui riflettere è dato da uno dei principi fondanti del lavoro in comunità: l’inclusione. Bene, oggi alle ataviche difficoltà sociali, economiche e formative che da sempre attanagliano il lavoro degli operatori per affermare il principio di inclusione se ne riscontra una nuova: i ragazzi non sono interessati all’inclusione perché "non" si sentono esclusi. Hanno un loro mondo che offre loro identità, ruolo, prestigio. Un mondo che offre loro una mobilità sociale verso l’alto se sono bravi a gestire una piazza di spaccio o addirittura trasformarsi in killer spietati. In queste scelte, che manifestano l’adesione ai modelli "culturali" della camorra, c’è una svalutazione del futuro nella quale anche la morte non fa più paura. Quando si arriva a questo stadio, a questi ragazzi non possiamo contrapporre solo una legalità svuotata di valori condivisi, ridotta a semplice minaccia di una punizione peraltro del tutto aleatoria e indeterminata. La legge penale non è affatto il "minimo garantito", al contrario deve essere la faccia esterna di un’etica sociale che pervade in profondità. A questo punto una domanda sorge d’obbligo: ai bambini del Pallonetto spetta questo futuro? Il lavoro da fare in questa situazione è di lunga, lunghissima lena, coinvolge tutti e deve partire da un intervento di de-ideologizzazione delle politiche sociali; una grande sfida ma l’unica strada possibile per rimettere al centro e ridare loro una speranza di un futuro diverso i tanti bambini e minori fagocitati da una camorra sempre più spietata e organizzata. Migranti. Ius soli, la legge è finita nella palude di Giovanna Casadio La Repubblica, 24 gennaio 2017 La norma che concede la cittadinanza ai figli dei migranti nati in Italia, approvata alla Camera nel 2015, va in coda nell’agenda del Senato. Accuse da sinistra: "Scambio di favori tra dem e Lega". Calderoli esulta. Doveva essere il fiore all’occhiello del centrosinistra: dare la cittadinanza ai bambini immigrati, nati in Italia o che qui studiano da tanto. Novecentomila all’incirca. Un po’ meno alla fine, perché la legge approvata nell’ottobre del 2015 alla Camera, mette alcuni paletti e si chiama infatti "ius soli temperato". Ancora nel nostro paese si è italiani per diritto di sangue: "ius sanguinis". Anche chi è nato in terra italiana quindi, resta straniero. Chi gioca, va a scuola, cresce con i bimbi italiani non è italiano. Da un anno e mezzo, la cittadinanza per í nuovi italiani è ferma al Senato, dove deve avere l’approvazione definitiva. Bloccata in commissione Affari costituzionali. Una commissione cruciale, perché lì dovrebbe sbarcare tutta la discussione sulla riforma elettorale e li si faranno gli accordi tra le forze politiche, i compromessi, i patti. E di un "patto scellerato" parla la sinistra, convinta che pur di portare a casa la nuova legge elettorale il Pd venda l’anima alla Lega e addio cittadinanza. Loredana De Petris, vendoliana, lo va dicendo da giorni: "La Lega è il migliore alleato del Pd sulla legge elettorale. I dem non possono permettersi di rompere quel patto, ora. Noi chiediamo che la legge sulla cittadinanza esca dalla palude". Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso ha indicato questa strada. Nella conferenza dei capigruppo di martedì scorso ha insistito perché fosse inserita nelle priorità in discussione in questa settimana e nella prossima. Tre mesi fa, dopo manifestazioni e flash mob a Milano a Roma a Palermo di associazioni, comunità di immigrati - a presentare la prima proposta di nuova cittadinanza è stata la comunità di Sant’Egidio 13 anni fa - Grasso, Anna Finocchiaro, adesso ministra per i Rapporti con il Parlamento, e Doris Lo Moro, senatrice dem e relatrice della legge, avevano dato la loro parola: "Sarà il primo provvedimento discusso dopo il referendum costituzionale, quando riprenderà l’attività del Parlamento". È sceso un po’ più giù nella classifica: nel calendario di Palazzo Madama ci sono prima i minori non accompagnati, poi il cyberbullismo, infine la cittadinanza. Ma soprattutto circola il sospetto anche nella sinistra dem, tanto che Miguel Gotor, bersaniano, denuncia: "Che fine ha fatto la cittadinanza? Nel caso in cui qualcuno avesse pensato a un baratto, magari per ammorbidire la Lega sulla legge elettorale, sarebbe davvero grave. Tutto il Pd si era impegnato a portare a casa la legge sulla cittadinanza". I sospettati sono evidentemente Renzi e i renziani, che vogliano andare a votare presto e hanno bisogno dei leghisti per approvare la nuova legge elettorale dopo la sentenza oggi della Consulta. Roberto Calderoli, il vice presidente del Senato e leader leghista, interlocutore del Pd sulla riforma elettorale, ha presentato 8 mila emendamenti contro la legge sulla cittadinanza ai nuovi italiani. Tutta la Lega comunque è sicura che la legge sulla cittadinanza "non va da nessuna parte, basta, chiuso". Calderoli tuttavia sarebbe pronto a stamparne "milioni di emendamenti, se il provvedimento si affaccia in aula": ha detto. Però non si affaccerà, ne è piuttosto convinto. Oggi la commissione Affari costituzionali si riunisce al Senato e stabilirà un calendario. Per la verità è senza presidente. Circolano i nomi del renzianissimo Andrea Marcucci, di Vannino Chiti, di Nicola Latorre e di Giorgio Pagliari. Respingere i migranti, la svolta Ue in Libia di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 24 gennaio 2017 L’Europa sembra voler reagire ai flussi di immigrati dalla Libia dopo aver subito per anni le iniziative dei trafficanti di esseri umani. Complici le elezioni in programma in molti Paesi europei, da mesi sono gli stessi partiti di governo che hanno consentito un’apertura senza precedenti all’immigrazione illegale gestita dalla malavita organizzata (spesso collegata ai movimenti terroristici islamici) a "riconvertirsi" presentando iniziative di maggiore rigidità. In Italia il ministro degli Interni Marco Minniti parla esplicitamente di espulsioni e respingimenti mentre Roberta Pinotti, ministro della Difesa, ha detto l’8 gennaio che la lotta al loro traffico di esseri umani "va fatta già in acque libiche", poiché "la missione europea nata per contrastare gli scafisti è ora che passi a una fase diversa: sostenere la Marina e la Guardia costiera libica perché ci siano effettivamente controlli. Non possiamo continuare a veder partire migliaia di migranti". Le forze di governo europee da un lato hanno l’interesse a contenere la crescita dei movimenti cosiddetti "populisti" che proprio sulla lotta all’immigrazione illegale incassano crescenti consensi, dall’altro sembrano aver finalmente maturato la consapevolezza che i flussi non cesseranno mai se non si scoraggiano le partenze e non si combattono i trafficanti. L’ultima conferma del lento cambiamento di passo nella Ue è emersa da una proposta confidenziale sottoposta dalla presidenza di turno maltese in vista del vertice del 3 febbraio a La Valletta e che la France Presse ha potuto consultare. Nel documento non si parla esplicitamente di respingimenti ma si utilizza il termine certo più politicamente corretto ma al tempo stesso non di immediata comprensione di "linea di protezione". L’Unione Europea potrebbe infatti sostenere l’istituzione di una "linea di protezione" nelle acque territoriali libiche per scongiurare i pericoli che corrono in mare i migranti e cautelarsi di fronte a un nuovo, massiccio afflusso primaverile. In realtà i flussi sono massicci anche in inverno considerato che nelle prime due settimane di gennaio in Italia sono sbarcati in oltre 2 mila, il doppio dello stesso periodo del 2016, anno in cui si è registrato il record di sbarchi con oltre 181 mila persone giunte in Italia illegalmente, 505 mila negli ultimi tre anni. Fonti diplomatiche citate da France Presse ammettono che l’Operazione Sophia, avviata nel 2015 nel Mar Mediterraneo dall’Ue e a comando italiano, ha permesso di salvare delle vite ma ha anche rappresentato un "fattore di attrazione" per i migranti, "tutelati" dal salvataggio in mare delle navi europee e dall’impossibilità di essere respinti. Un eufemismo poiché, come già denunciò l’allora ministro degli interni britannico (oggi premier) Theresa May, la missione navale europea così come quelle italiane, da Mare Nostrum a Mare Sicuro, non hanno mai combattuto i trafficanti (a dispetto delle enormi potenzialità delle navi da guerra) ma hanno invece incoraggiato i flussi trasferendo in Italia chiunque abbia pagato i trafficanti. La proposta maltese suggerisce inoltre di "esaminare in maniera completa" le attività delle organizzazioni non governative che nel Mediterraneo impiegano proprie navi attrezzate per il soccorso e già accusate dall’agenzia Ue Frontex di incoraggiare i migranti a compiere la traversata. Il documento prende quindi atto realisticamente delle difficoltà ad estendere l’Operazione Sophia alle acque libiche, auspicato dal ministro Pinotti, soprattutto perché il governo libico che la Ue riconosce, quello di Fayez al-Sarraj, è del tutto evanescente e non controlla neppure la capitale, quindi "manca un’autorità unica con cui accordarsi in Libia". "In assenza di questa possibilità, l’obiettivo operativo della Ue nel breve termine potrebbe essere la creazione di una "linea di protezione" nelle acque territoriali libiche da istituire con le forze libiche come operatori di prima linea ma con un sostegno europeo forte e duraturo" precisa il documento. L’appoggio europeo si tradurrebbe in un rafforzamento della missione di addestramento dei guardacoste libici in atto da ottobre ma la flotta Ue dovrebbe garantire che i migranti intercettati nelle acque libiche siano "sbarcati" in Libia in "condizioni adeguate nel rispetto del diritto internazionale". Per ora si tratta solo di una proposta ma la Ue valuta per la prima volta in modo ufficiale quei respingimenti finora sempre esclusi a priori ma che consentirebbero di salvare vite umane scoraggiando i flussi migratori in base al principio che nessuno sarà più disposto a pagare i trafficanti sapendo che verrà risbarcato in Libia. Oltre ad obbligare l’Onu a gestire in Libia l’accoglienza e il rimpatrio dei migranti, i respingimenti costituiscono l’unica soluzione in grado di risolvere l’emergenza, specie in un contesto in cui espellere chi è già entrato illegalmente risulta sempre più arduo e costoso: la scorsa settimana il rimpatrio di 29 clandestini è costato all’Italia 120 mila euro. Egitto. Verità per Giulio Regeni, domani il giorno di mobilitazione di Amnesty International Italia Il Manifesto, 24 gennaio 2017 Mercoledì 25 gennaio sarà trascorso un anno esatto dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 365 giorni, la verità è ancora lontana. Per continuare a chiedere "Verità per Giulio Regeni" Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione. L’appuntamento principale è all’Università La Sapienza di Roma: la manifestazione negli spazi esterni alle spalle del Rettorato (o in caso di maltempo nell’aula T1 della facoltà di Giurisprudenza, piazzale Aldo Moro 5) si aprirà alle 12,30 con il saluto del Rettore, prof. Eugenio Gaudio. Interverranno Stefano Catucci, del Senato Accademico Sapienza; Antonio Marchesi, presidente Amnesty Italia; Patrizio Gonnella, presidente Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili; Giuseppe Giulietti, presidente Federazione nazionale della stampa italiana; Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica. Nel corso della manifestazione lo scrittore Erri de Luca e gli attori Arianna Mattioli e Andrea Paolotti leggeranno estratti dei diari di viaggio di Giulio Regeni. Interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori. I partecipanti mostreranno cartelli col volto di Giulio Regeni e numeri da 1 a 365, l’anno trascorso in assenza della verità. Le adesioni: A buon diritto, Arci, Articolo21, Antigone, Associazione Amici di Roberto Morrione, Associazione Italiana Turismo Responsabile, Aoi - Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale, Associazione Stefano Cucchi Onlus, Associazione Studentesca "Sapienza in Movimento", Cgil - Area delle politiche europee e internazionali, Cild, Cittadinanzattiva, Conversazioni sul futuro, Coordinamento della Rete della Pace, Cospe, CPS, Focsiv, Fnsi - Federazione nazionale della stampa italiana, Iran Human Rights Italia, Il Manifesto, Italians for Darfur, la Repubblica, Legambiente, Link-Coordinamento Universitario", Nexus Emilia Romagna, #Nobavaglio pressing, Radio Popolare, Rai Radio 3, Un ponte per… La sera a Roma (a San Lorenzo in Lucina, da confermare), Brescia, Bergamo, Rovigo, Pesaro, Pescara, Bologna e Trento verranno accese delle fiaccole alle 19.41, l’ora in cui Giulio uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione. Brasile. Le carceri brasiliane sono l’inferno in terra di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 gennaio 2017 Rivolte, torture, affollamento, malattie, l’inquietante rapporto di Human Right Watch. Il 3 gennaio le forze speciali della polizia brasiliana hanno fatto irruzione nel carcere Anisio Jobim a Manaus, nello stato di Amazonas. Lo spettacolo davanti ai loro occhi deve essere stato raccapricciante, morti, sangue a terra e sulle pareti, alla fine il conto delle vittime è stato di 60 prigionieri uccisi, molti sono stati decapitati. Una violenza di gruppo ferocissima scaturita dallo scontro tra membri delle due maggiori gang che costituiscono la popolazione carceraria: il Primero Comando da Capital e il Comando Vermelho. Solo quattro giorni dopo una nuova strage, una vendetta, che ha provocato 33 morti nella prigione di Agricola de Monte Cristo a Boa Vista, capitale dello Stato di Roraima. Il presidente del Brasile, Michel Temer, ha definito i massacri un "devastante incidente", una definizione che presupporrebbe una casualità non prevedibile ma che nasconde ragioni profonde. Maria Laura Canineu, direttrice di Human Rights Watch Brasile, scrive nel suo ultimo rapporto: "Nel corso degli ultimi decenni, autorità brasiliane hanno sempre abdicato alle loro responsabilità di mantenere l’ordine e la sicurezza nelle carceri. Questo fallimento viola i diritti dei prigionieri ed è una manna per bande, che fanno uso di prigioni come terreno di reclutamento". Secondo il Ministero della Giustizia un detenuto brasiliano ha una probabilità tre volte superiore, rispetto a qualsiasi altro prigioniero nel mondo, di rimanere ucciso. Per le statistiche ufficiali nel 2014 il rapporto tra guardie carcerarie e detenuti nello stato di Amazonas era di 1 a 10. Hrw ha potuto verificare come in alcuni istituti "le guardie pattugliano solo il perimetro esterno e non entrano nei blocchi delle celle". In molte prigioni il controllo è gestito dai cosiddetti "chaveiros", detenuti spesso condannati per omicidio, selezionati dalle stesse guardie, ai quali vengono addirittura consegnate le chiavi di intere sezioni. Il rapporto mette in evidenza il sovraffollamento dei penitenziari che determina il potere delle organizzazioni criminali. Solo attraverso di esse è possibile per un nuovo arrivato acquistare un posto per dormire. Le celle senza finestre sono piene di muffa, feci e urina, decine di uomini sono costretti a lottare per un minimo spazio vitale. Costruite per ospitare circa 372mila persone, le carceri brasiliane, sempre secondo il Ministero della Giustizia, contano 622mila detenuti. Il Brasile è il paese con la quarta popolazione carceraria più grande del mondo dopo Stati Uniti, Cina e Russia. I dati ufficiali si riferiscono al 2014, anno nel quale il numero dei detenuti registrò un incremento record del 161% rispetto al 2000. Nel febbraio del 2016 l’Onu ha pubblicato le conclusioni del relatore speciale contro la tortura Juan Mendez. Il documento è giudicato come il più duro nei confronti del sistema penitenziario brasiliano. Si parla di maltrattamenti e torture con una sola indicazione: ridurre la popolazione carceraria. Per Mendez "il Brasile dovrebbe discutere seriamente la sua politica di carcerazione di massa, le sue origini e le conseguenze". Sotto accusa la politica sulle droghe e le storture giuridiche. Attualmente più di un terzo degli uomini e il 63% delle detenute si trova in prigione per reati legati al consumo o al piccolo spaccio di stupefacenti. Proprio la politica di criminalizzazione ha consegnato le prigioni in mano ai cartelli criminali. Come rileva Hrw, il 40% dei detenuti è in attesa di processo, spesso sono messi in cella insieme a chi è stato condannato per reati gravissimi ed è facilissimo che i più deboli cerchino la protezione delle gang. Quest’ultime affiliano nuovi soldati, un vincolo che rimane anche una volta usciti dal carcere. Di fronte all’impotenza, un’ossessione securitaria ha travolto il Brasile, ad esempio nello stato di Pernambuco è stato varato il programma denominato Patto per la Vita che concede ricompense per i poliziotti che compiono più arresti. Si è anche pensato di ridurre l’età per la responsabilità penale da 18 a 16 anni, una misura approvata dalla Camera dei Deputati nel 2014 ma che ha incontrato l’opposizione del Senato e del governo quando ancora era in carica la presidente Dilma Roussef. Se applicata la legge potrebbe mandare in carcere fino a 40mila minorenni ogni anno. Sul modello degli Stati Uniti anche in Brasile stanno sorgendo carceri totalmente private. La prima è stata inaugurata nel 2013 a Ribeirão das Neves nello stato di Minas Gerais. In realtà prigioni esternalizzate esistevano in almeno altre 22 località, in questo caso tutta la gestione è stata data completamente in mano ai privati, il pubblico garantisce il 90% minimo di posti occupati e la selezione dei detenuti per facilitare la riuscita del progetto. Per Robson Sávio, coordinatore del Nucleo di Studi Socio- Politici dell’Università di Minas, questo successo può essere dato solo con un aumento delle detenzioni o con il reinserimento sociale del detenuto. La convinzione è che la privatizzazione tenda alla prima delle ipotesi. Basta consultare documenti pubblici, come ha fatto l’agenzia di giornalismo investigativo Publica, per capire che un detenuto in una prigione statale costa circa 1.300-1.700 reais al mese; nel progetto di Neves, il consorzio di imprese (GPA) che ha vinto l’appalto riceve dalle autorità 2.700 reais per ogni detenuto e ha la concessione del penitenziario per 27 anni, prorogabile fino a 35. Riempire prigioni in ogni modo è dunque una grande fonte di profitto, il risultato è il massacro di Manaus Brasile. L’emergenza carceri dovuta alla guerra tra bande rivali di David Lifodi peacelink.it, 24 gennaio 2017 Sui massacri nei penitenziari pesa la pessima gestione della presidenza Temer. La giudice Carmen Lucia Antunes, alla guida del Supremo Tribunale Federale, potrebbe sostituire Temer al Planalto. Sono quasi sessantamila le morti provocate ogni anno in Brasile a causa della guerra tra i principali gruppi criminali del paese, ma l’inizio del 2017 è stato segnato, nel più grande paese dell’America latina, da una scia di sangue senza precedenti. Il massacro avvenuto a Manaus, nel complesso penitenziario Anísio Jobin, lo scorso 1 gennaio, rappresenta solo la punta dell’iceberg di un paese il cui sistema carcerario è giunto al collasso, grazie anche all’inettitudine delle istituzioni che dovrebbero occuparsene. In Brasile la popolazione dei detenuti sfiora le settecentomila unità, ma a fronte della continua crescita della popolazione carceraria, ciò che manca sono le strutture destinate ad accoglierla. Ad esempio, un reportage di Agnese Marra per la rivista uruguayana Brecha segnala che il carcere di Manaus dovrebbe ospitare 454 persone e invece ne accoglie, in condizioni subumane, oltre 1.200. Le carceri brasiliane in gran parte sono divenute il buco nero della democrazia, dei diritti calpestati e gran parte dei reclusi vi finiscono per piccoli reati e poi si trasformano nella manovalanza del grandi cartelli criminali del paese. Nelle prigioni brasiliane, per capirsi, i colpevoli di reati quali l’evasione fiscale non vi fanno nemmeno ingresso. Inoltre, la maggioranza dei detenuti è costretta a rimanere in carcere in via preventiva, in attesa di essere sottoposta al processo, ma difficilmente la giustizia brasiliana riesce ad arrivare almeno al primo grado di giudizio. All’invivibilità delle carceri si aggiunge un ulteriore aspetto tutt’altro che secondario, segnalato dal frate domenicano Frei Betto in una lettera indirizzata al ministero della Giustizia: buona parte dei penitenziari non sono gestiti dallo Stato, ma da imprese che utilizzano il proprio personale (agenti, medici, infermieri ecc...) e lo impiegano a loro piacimento. Il massacro di Manaus, sottolinea ancora Brecha, non è derivato da una sommossa dei detenuti per chiedere il miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere, e nemmeno è stato scatenato dall’insoddisfazione per la lentezza della giustizia brasiliana, ma è stato provocato da una guerra tra bande rivali. Da un lato il Primeiro Comando da Capital, di San Paolo, dall’altro la Família do Norte, che ha agito per conto del Comando Vermelho, con il quale è alleata. Nati negli anni Settanta, questi gruppi si sono dedicati progressivamente alla criminalità, ma in realtà, è il caso ad esempio del Comando Vermelho, all’inizio del loro percorso si battevano per i diritti dei detenuti e, come si intuisce dal nome, avevano un orientamento politico ben preciso. La Família do Norte, che per conto del Comando Vermelho (di Rio de Janeiro) ha compiuto il massacro a scapito della fazione rivale allo scopo di marcare il territorio e far capire al Primeiro Comando da Capital che non sono i padroni del Brasile, da tempo aveva fatto presagire la strage. Tuttavia, alcune conversazioni registrate dalla polizia militare di Manaus tra i capi della Família do Norte in cui si accennava all’azione criminale non sono servite a smuovere le istituzioni. Il presidente Michel Temer si è pronunciato solo dopo alcuni giorni parlando genericamente di "pauroso incidente", ma altri hanno fatto anche peggio. José Melo, governatore dello stato di Amazonas, ha liquidato la questione evidenziando come tra i carcerati rimasti uccisi nel massacro (tra cui anche molti detenuti non appartenenti ad alcuna delle fazioni in campo) non ci fossero di certo dei santi, mentre Bruno Júlio, esponente del Partido do movimento democrático brasileiro (Pmdb), ha auspicato una strage del genere alla settimana. Il deputato Major Olimpio, anch’esso del Partido do movimento democrático brasileiro, il partito del presidente Michel Temer, ha scritto su Facebook che un massacro del genere dovrebbe accadere anche a Bangú, il penitenziario di Rio de Janeiro. Dichiarazioni del genere non fanno altro che aumentare nella società brasiliana l’idea dei detenuti come rifiuti della società, ma, a fronte di ulteriori spese per la costruzione di nuove carceri, come ordinato dallo sceriffo Temer, è evidente che non saranno alcuni penitenziari in più a risolvere l’incandescente situazione carceraria brasiliana. Sull’emergenza carceraria il presidente Temer, che non si è nemmeno recato nei luoghi dove sono avvenuti gli ultimi massacri, rischia di giocarsi anticipatamente il Planalto. La giudice Carmen Lucia Antunes, alla guida del Supremo Tribunale Federale, non solo ha scelto la strada di accelerare la scarcerazione dei detenuti ancora in attesa del giudizio, ma sta varando un piano per diminuire la popolazione carceraria brasiliana e ha ordinato un’indagine per capire quanti e quali sono i reclusi sottoposti a tortura o privati illegalmente della libertà nei penitenziari di tutto il paese. Qualcuno sostiene che potrebbe essere la stessa Carmen Lucia Antunes a sostituire Temer al Planalto fino alle nuove elezioni, data l’incapacità del presidente e del suo governo di risolvere la situazione. Solo pochi giorni fa, proprio dal Planalto, insistevano ancora nello smentire che in Brasile sia in corso una guerra tra bande criminali per il controllo del traffico di droga, ma è evidente che la situazione è tutt’altra. Non a caso, quattro giorni dopo il massacro di Manaus è arrivata la vendetta del Primeiro Comando da Capital, che, in un penitenziario dello stato di Roraima, ha fatto una strage di detenuti appartenenti alla Família do Norte. Rischia di giocarsi la candidatura alla presidenza anche Geraldo Alckmin (Partido da Social Democracia Brasileira), governatore di San Paolo, che continua a smentire la presenza nel suo stato di cellule dormienti del Primeiro Comando da Capital (Pcc), pronte a scatenare operazioni di vera e propria guerriglia urbana. L’ultima volta che il Pcc provocò un’offensiva di questo tipo fu nel 2006, quando a San Paolo rimasero uccise più di 600 persone. La rottura del patto di non belligeranza tra Primeiro Comando da Capital e Comando Vermelho potrebbe rappresentare un’ulteriore fattore di instabilità in un Brasile amministrato da golpisti e faccendieri al potere grazie anche alla crisi di rappresentanza derivante dal declino del Partido dos Trabalhadores. Brasile. Il carcere di Alcacuz da 10 giorni nelle mani dei reclusi Ansa, 24 gennaio 2017 La sommossa, con guerra fra gang, ha già causato almeno 26 morti. Ancora fuori controllo la situazione nel penitenziario di Alcacuz, in Brasile, dove lo scorso 14 gennaio, dopo i primi incidenti, nella violentissima rivolta, sfociata in una guerra fra affiliati a gang rivali, sono morti 26 detenuti. Agenti della Forza nazionale sono stati inviati dal governo federale per cercare di riportare la calma, ma i detenuti in rivolta continuano a occupare la struttura senza apparentemente voler cedere ai tentativi di mediazione delle autorità: nel carcere è in corso una guerra sanguinaria tra due gang rivali, il "Sindicato do Crime" e il "Primeiro Comando da Capital". Per cercare di separare le fazioni ed evitare nuovi scontri, il governo locale ha anche fatto costruire un muro fatto di container. Intanto le forze dell’ordine hanno già trovato tre tunnel scavati dentro il locale, situato alla periferia di Natal, capitale del Rio Grande do Norte, nel nord-est del Brasile. Romania. Oltre 15mila scendono in piazza contro l’amnistia per reati di corruzione Askanews, 24 gennaio 2017 Anche il presidente Iohannis in piazza contro governo Psd. Più di 15.000 persone sono scese in piazza domenica a Bucarest in altre città romene per protestare contro un pacchetto di decreti molto controversi che prevedono l’amnistia per i politici accusati di corruzione e la depenalizzazione di molti altri reati. In piazza contro le misure del governo a guida socialista-liberale è sceso anche il presidente Klaus Iohannis. L’esecutivo del premier Sorin Grindeanu ha pubblicato due decreti d’urgenza mercoledì scorso che prevedono la grazia e l’immediata scarcerazione per le pene detentive fino a cinque anni per crimini non violenti. Se il decreto verrà approvato circa 2.500 detenuti, tra cui alcuni magistrati e politici che si trovano in prigione con l’accusa di corruzione, saranno rilasciati. Grindeanu ha utilizzato lo strumento del decreto d’urgenza per bypassare il Parlamento e la firma del presidente Iohannis. "Diversi politici che hanno cause pendenti vogliono cambiare la legge e indebolire lo stato di diritto - ha dichiarato il presidente tra la folla. È inaccettabile modificare la legge per cancellare decine, o anche centinaia di casi relativi a politici". Il ministro della Giustizia Florin Iordache ha difeso i decreti sostenendo che contribuiranno ad alleggerire la situazione delle carceri congestionate. Iohannis, che ha fatto dell’anti-corruzione una delle sue bandiere, ha ingaggiato subito dopo le elezioni di dicembre un braccio di ferro politico con i socialisti, ribadendo che non avrebbe dato l’incarico di formare il governo a nessuno che avesse processi pendenti, come il leader del Psd Liviu Dragnea. Il capo dello stato ha promesso che la Romania, al termine del suo mandato nel 2019 sarà un Paese libero dalla corruzione. I manifestanti, che ieri hanno riempito piazza dell’Università al centro di Bucarest, hanno urlato slogan contro il governo chiedendo le dimissioni e "Democrazia non amnistia". A Cluj, altri 5.000 sono scesi in piazza per protestare contro i "politici corrotti". Altri 3.000 manifestanti hanno protestato a Brasov, Timisoara e Iasi. Iran. "È una spia britannica", carcere per l’anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe di Paola De Carolis Corriere della Sera, 24 gennaio 2017 Cinque anni di detenzione, senza possibilità di ulteriori ricorsi o appelli. Il tribunale rivoluzionario dell’Iran ha confermato la condanna di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, la donna anglo-iraniana arrestata lo scorso aprile all’aeroporto di Teheran mentre stava per imbarcarsi per la Gran Bretagna dopo due settimane in vacanza in Iran. Non si conoscono i capi d’accusa precisi, non sono state diffuse le prove della sua presunta colpevolezza, eppure Nazanin, madre di una bambina di due anni e moglie di un commercialista britannico, potrebbe rimanere in carcere sino alla fine del 2021.La sua è una vicenda sconcertante, che il marito Richard definisce "scandalosa". "È chiaro che Nazanin è utilizzata come pedina in un gioco di interessi politici ed economici", ha detto alla Bbc. La sua rabbia è comprensibile. Le autorità iraniane continuano a negargli il visto. Il passaporto della figlia Gabriella è stato confiscato. I suoceri stanno facendo il possibile per sostenere Nazanin, che però non sta bene. È stata tenuta a lungo in cella d’isolamento, dove ha fatto lo sciopero della fame. A dicembre è stata spostata in un’ala per prigioniere politiche, ma non ha gli stessi diritti delle altre detenute. Può ricevere solo visite sporadiche. Non vede la bambina, che è affidata ai nonni, dal giorno di Natale. Ha meditato il suicidio, arrivando a scrivere una lettera d’addio alla figlia e al marito. "Spero che riesca a trovare la forza di andare avanti e combattere", si augura Ratcliffe con la voce rotta dall’emozione. "Adesso dobbiamo decidere cosa è meglio per Gabriella". Non ha perso le speranze, ma la campagna per pubblicizzare il caso e mobilitare l’opinione pubblica - la sua petizione ha raccolto più di 868 mila firme - è adesso al centro di ulteriori problemi. Nazanin, che per l’Iran è "una minaccia per la sicurezza nazionale", durante l’appello che si è svolto a Teheran a porte chiuse è stata anche accusata di essere la moglie di una spia britannica. "È assurdo. Hanno visto che i giornali hanno parlato del nostro caso e adesso si vendicano: ho contatti con la stampa, devo essere una spia". Non lo è, precisa, come non lo è la moglie, che a Londra lavorava per la Thomson-Reuters Foundation, una charity internazionale per lo sviluppo socio-economico e il rispetto della legge, e che non ha mai operato, come invece sostiene l’accusa, per i programmi in farsi della Bbc (che in Iran sono banditi). Il governo britannico ha inviato a Teheran all’inizio di gennaio un emissario, ma la visita non ha ottenuto il risultato sperato. Un portavoce del ministero degli Esteri ha assicurato che Londra continuerà a chiedere "un trattamento equo e rispettoso" per Nazanin. L’Iran però non riconosce la doppia nazionalità e di conseguenza non ha accordato alla donna alcun accesso alle autorità consolari. Monique Villa, amministratore delegato della Thomson Reuters, si è detta "indignata da questa presa in giro della giustizia" e "convinta al cento per cento dell’innocenza" della donna. Francesca Unsworth, direttrice della Bbc World Service, ha precisato che Nazanin ha lavorato brevemente per la charity Bbc Media Action, ma mai per i servizi in lingua persiana. "In ogni caso sostenere che questo possa equivalere a una minaccia per la sicurezza nazionale è chiaramente ridicolo", ha aggiunto. Per Ratcliffe, la condanna della moglie "è una macchia vergognosa per l’Iran", nonché "lo spreco della vita di una madre e di una bambina". Burundi. Liberati centinaia di detenuti per l’amnistia annunciata a fine 2016 Nova, 24 gennaio 2017 Centinaia di detenuti sono stati scarcerati oggi in Burundi a seguito dell’amnistia annunciata alla fine dello scorso anno dal presidente Pierre Nkurunziza nel tentativo di placare le tensioni in corso nel paese. Lo riporta l’emittente britannica "Bbc", secondo cui tra i prigionieri rilasciati figurano diversi esponenti di spicco dell’opposizione. In totale, l’amnistia dovrebbe portare alla liberazione di circa 2.500 detenuti. Il Burundi attraversa un’aspra crisi politica dall’aprile del 2015, quando lo stesso Nkurunziza ha annunciato l’intenzione di candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese, cosa considerata dall’opposizione e dalla società civile una violazione della Costituzione e degli accordi di pace che nel 2005 posero fine a 12 anni di guerra civile. Le violenze hanno causato finora la morte di almeno 500 persone e la fuga dal paese di altre 200 mila.