Quando a parlare sono le famiglie "invisibili" delle persone detenute Il Mattino di Padova, 23 gennaio 2017 Papa Francesco, nell’omelia che ha fatto alla messa, a cui ha invitato una delegazione della Casa di reclusione di Padova, impegnata in una grande battaglia di civiltà contro l’ergastolo e certe pene spaventosamente lunghe e distruttive, si è rivolto ai "cristiani pigri, cristiani parcheggiati", incitandoli a muoversi e ad avere un atteggiamento diverso nei confronti degli Altri. La redazione di Ristretti Orizzonti, nella "Giornata di dialogo contro la pena di morte viva, per il diritto a un fine pena che non ammazzi la vita", che si è svolta il 20 gennaio in carcere, con la partecipazione straordinaria di addetti ai lavori, tecnici, esperti, politici, ma anche e soprattutto di tanti famigliari di detenuti, ha usato allora questo appello del Papa per chiedere a tutte le persone "parcheggiate" di muoversi, di essere attente agli altri, di cambiare anche le proprie convinzioni sulle pene e sul senso che dovrebbero avere per permettere davvero alle persone di diventare qualcosa di diverso dal loro reato. Una madre che racconta cosa significa andare a trovare un figlio in carceri dove ti sottopongono a continue umiliazioni, e quanto è importante invece se tuo figlio è detenuto in un carcere dove ti trattano con umanità; una figlia che spiega il male che ti fa per anni non poter toccare tuo padre, vederlo dietro un vetro e sentirlo sempre più lontano, più estraneo; una sorella che arriva nel carcere di Padova, da cui suo fratello è stato trasferito, solo per chiedere che lo facciano ritornare perché qui, nella Casa di reclusione Due Palazzi, c’è un po’ di attenzione in più alle persone detenute: queste sono le testimonianze che hanno portato i famigliari a questa Giornata di dialogo contro la pena di morte viva. E sono testimonianze che abbiamo voluto con forza far ascoltare prima di tutto a quei dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, che avrebbero il potere di rendere la detenzione più dignitosa anche senza cambiare le leggi, solo applicandole rigorosamente, e non sempre l’hanno fatto. E poi ai politici, che invece certe leggi le devono cambiare, in particolare quell’articolo di legge maledetto, il 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, che fa dell’ergastolo una pena di morte nascosta, e quella legge che riguarda gli affetti delle persone detenute, che nelle carceri italiane sono davvero calpestati, stritolati, ridotti a sei miserabili ore al mese di colloquio e dieci minuti di telefonata a settimana. E ancora, abbiamo voluto che tanti giornalisti ascoltassero, visto che questa Giornata di dialogo è stata anche una giornata di formazione per loro, che hanno un grande bisogno di imparare a raccontare anche le vite di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena, e dei suoi famigliari, che la pena, senza aver commesso nulla di male, la stanno scontando insieme. Perché, come ha detto Papa Francesco di recente, tu giornalista fai disinformazione se "all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi lui non può farsi un giudizio serio". Le parole degli esperti, di chi ha studiato e sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, quello che non ti permetterà mai di uscire di galera se non collabori con la Giustizia, sono fondamentali e questa Giornata ha dato loro spazio e ascolto, ma solo un famigliare può spiegare cosa significa, per esempio, avere un padre, o un figlio, che non vedrai MAI se non in una sala colloqui di un carcere, e solo un detenuto può spiegare che spesso si sceglie di non collaborare con la Giustizia per non mettere a rischio e distruggere la propria famiglia. Anche questi sono aspetti di una realtà, quella delle pene e del carcere, che è complicata, e l’informazione la deve raccontare in tutta la sua complessità. Perché la società ha bisogno non di illudersi che i cattivi sono sempre "gli Altri", ma di capire che può capitare a ognuno di noi "BUONI" di avere un figlio, un padre, un fratello che finisce "dall’altra parte". Allora, pensando a quel fratello, quel padre, quel figlio che potremmo anche noi dover andare a trovare in carcere, dobbiamo pretendere che la pena abbia un senso, che rispetti la dignità e che dia speranza. Per far capire quanto è importante tornare a parlare di pene che non uccidano la speranza, pubblichiamo allora le testimonianze di due figlie: la lettera che ha mandato alla redazione di Ristretti Orizzonti Agnese Moro, la figlia di una vittima del terrorismo, Aldo Moro, lo statista ucciso dalle Brigate Rosse, e un intervento di Francesca, la figlia di un ergastolano. La redazione di Ristretti Orizzonti Bisogna sapere che le persone possono cambiare Cari amici di Ristretti Orizzonti, questa volta non riesco ad essere con voi in questa giornata di riflessione sull’ergastolo e sulla necessità di abolire una pena che, essendo senza fine, uccide la speranza di tornare ad essere liberi; ferisce l’impegno costituzionale ad aiutare i colpevoli a rivedere criticamente la propria vita e a tornare tra noi a dare il proprio contributo alla vita sociale; punisce nella maniera più crudele e ingiusta coloro - grandi e piccini - che nutrono affetti profondi per chi è condannato a una pena tanto severa. Credo che la questione dell’abolizione dell’ergastolo, prima di riguardare la politica, riguardi tutti noi cittadini. Prima o oltre una discussione in Parlamento è essenziale che ci sia una discussione larga, capillare, serena nelle nostre città e nei nostri paesi. Non ci sono scorciatoie. Quando parliamo di reati tanto gravi da portare a una condanna all’ergastolo tocchiamo una materia incandescente, ci riferiamo ad atti terribili che sono stati compiuti, sopraffazioni e distruzioni della vita di singole persone o, come nel caso della criminalità organizzata, di intere comunità, come avviene, solo per fare un esempio, nella "terra dei fuochi". La discussione da intraprendere non è né piccola né banale. Riguarda come, in concreto, si combatte il male (che tutti siamo capaci di fare), come lo si sradica dal cuore di chi l’ha compiuto perché non torni mai a farlo, come si curano le ferite di chi è stato colpito spesso irrimediabilmente, come si costruisce una società che sappia prevenire, accogliere e sostenere coloro che abbandonano vecchie e terribili strade. Bisogna sapere che le persone possono cambiare, che sono sempre molto di più del loro reato, e che c’è, come dice la mia amica Grazia Grena, dentro ognuno, qualunque cosa abbia fatto, qualche cosa di buono che può e deve essere illuminato. Anche se non ce ne accorgiamo la nostra società è desiderosa di intraprendere una simile discussione. Si tratta solo di farlo. Un abbraccio Agnese Moro Vivere con la consapevolezza che mio padre dovrà morire in carcere è terribile Sono Francesca, figlia di Tommaso, un uomo condannato all’ergastolo, questa pesante condanna in qualche modo la sto scontando anche io senza avere colpe. Fino a qualche anno fa mi facevo forza perché pensavo che mio padre un giorno tornava da me, invece ho scoperto l’esistenza dell’ergastolo ostativo e questa pena mi ha tolto la speranza. Alcuni mi dicono di non lamentarmi perché dopo tutto ancora ce l’ho un padre e posso ancora vederlo a differenza dei figli delle vittime, sì questo è vero ma è anche vero che sono cresciuta vedendo mio padre dietro un vetro blindato, per poche ore all’anno, e alla fine di ogni nostro colloquio quel salutarci senza poterci abbracciare mi faceva restare male per settimane, fin da piccola ho dovuto accettare l’amara realtà che mio padre non potesse mai essere presente nella quotidianità della mia vita. Io non posso quindi contare su di lui in nessuna occasione, in più devo combattere tutti i giorni con tutti quelli che ti additano come "la figlia di". Crescere con il padre in carcere è difficile, ma ancora di più vivere con la consapevolezza che mio padre dovrà morire in carcere. Francesca Abusa di psicofarmaci un detenuto su due: "dipendenza nascosta" di Giacomo Galeazzi e Raphaël Zanotti La Stampa, 23 gennaio 2017 Secondo le ultime ricerche il 46% dei farmaci prescritti in carcere sono psicofarmaci. L’indagine dell’Ars Toscana: più di un terzo sono ansiolitici. L’allarme del Garante: "In carcere rischia anche chi entra pulito". "Terapia!", urla il secondino spingendo il carrello dei farmaci lungo il corridoio. Sono le sette di sera e i detenuti si accalcano contro le porte delle celle per la loro dose di serenità artificiale. Anch’io allungo la mano e prendo le mie gocce, mentre Osvaldo, veterano del terzo braccio, dal suo letto riparte con la solita solfa: "Una volta davano le pasticche: le mettevi da parte, le accumulavi per un giorno speciale, poi le mandavi giù tutte in un colpo e allora sì che era festa". Lo ripete tutte le sere. "Quand’ero fuori non prendevo nulla, nemmeno un’aspirina - racconta. Ora penso che dovrò disintossicarmi da queste maledette gocce. Ma sono l’unica cosa che mi fa dormire in queste notti che non finiscono mai, quando guardo fisso il blindo chiuso e penso ossessivamente a perché sono qui. E penso a Caterina, che vorrei mia. E invece arriverà solo lunedì, giorno di visita: e sarà come sempre a due metri da me, nella stanza dei colloqui ghiacciata, coi muri di cemento, insieme ad altri mille come me. Questa stessa scena potrebbe svolgersi in uno qualunque dei 191 penitenziari italiani. Pillole a pioggia Una pioggia di pillole colorate si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. Un dato empirico sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, anche se al momento non esistono ricerche che coprano l’intera Penisola. Un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: "Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti". Una forzatura, forse, ma neppure tanto. Per capirne le angolature è necessario partire dai dati. Ma purtroppo questi non sono copiosi come blister e flaconi che circolano per le 206 infermerie degli istituti penitenziari. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall’amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Il che se per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé. Lo studio più recente e completo risale così al 2014 ("La salute dei detenuti in Italia"), un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive (il 30% di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti. Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi (95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18-29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina. Torniamo quindi al nostro detenuto che sogna Caterina e cerchiamo di capire qualcosa di più del loro mondo. A partire dal disagio nell’adattarsi alla vita del recluso. "Il contatto con un ambiente ostile e di privazione delle sessualità provocano alterazioni psicologiche - spiega Ceraudo. Nel resto d’Europa l’introduzione di "stanze dell’amore" per l’incontro con le compagne ha ridotto violenze e deviazioni sessuali, soprattutto verso giovani e trans". Non solo: "Molti chiedono qualcosa per dormire perché stanno 19 ore al giorno a letto, non si stancano e quindi non riescono a prendere sonno. Il rumore in carcere è onnipresente, non smette mai, neppure di notte. I detenuti sono così privati anche dei sogni". Il trauma dell’ambiente L’ingresso in carcere è il trauma originario. I nuovi giunti devono adeguarsi in fretta alle regole di un ambiente che non conoscono, ma non solo. Dice Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti e fondatore di Antigone. "La dipendenza dagli psicofarmaci riguarda soprattutto i detenuti comuni - chiarisce. Quelli legati alla criminalità organizzata hanno loro condotte e stili di vita differenti. Seguono codici diversi". Inoltre "occorre distinguere tra case circondariali e di reclusione. Nelle prime i detenuti restano poco tempo quindi fanno subito richiesta di psicofarmaci per il disagio del primo impatto con l’ambiente". Nelle case di reclusione, invece, "ci sono persone detenute da molti anni che prendono psicofarmaci abitualmente per vincere situazioni di tensione: la loro dipendenza dagli psicofarmaci è più grave perché assumono pillole non per il traumatico impatto con un nuovo ambiente, ma come stile di vita, così non si liberano di questa dipendenza nemmeno quando escono". È il caso di Osvaldo, detenuto già integrato, che preferisce le pillole che può capitalizzare, triturare, scambiare, sovradosare. Mercato nero Non a caso negli ultimi anni le infermerie in carcere preferiscono, dove possibile, la somministrazione in gocce invece che in pillole. Il mercato nero, le overdosi e la pratica del detenuto di nascondere le pillole sotto la lingua hanno fatto nascere addirittura la "terapia a vista" nella quale l’infermiere si accerta che il paziente ingoi effettivamente la pastiglia. Il 50% di detenuti, nella ricerca multi-centro del 2014, mostra una dipendenza da sostanze. Il 23,7% è entrato in carcere con alle spalle una storia di tossicodipendenza da stupefacenti. Un problema diffuso nelle carceri, accentuato dalla legge Fini-Giovanardi, oggi decaduta, che aveva riempito gli istituti italiani di tossicodipendenti e consumatori. Dipendenza indotta dall’adattamento, precedente abuso di sostanze, c’è anche un terzo fattore che spinge la diffusione di psicofarmaci nelle carceri: il controllo da parte della stessa polizia penitenziaria. Costantemente sotto organico e con un problema gestionale dovuto al sovraffollamento, sono gli operatori stessi a incoraggiare l’assunzione di psicofarmaci. "È un dato inconfutabile - evidenzia Luigi Manconi, presidente della Commissione del Senato per i Diritti umani. Lo attestano tutte le ricerche, inclusa l’indagine sulla salute in cella realizzata nel 2008 da Marina Graziosi ed Elina Lo Voi. È una realtà confermata da ogni operatore penitenziario: dagli educatori ai cappellani. Proprio come accade anche nei centri di identificazione, per esempio Ponte Galeria e Bari. Tavor e altri sedativi per tenere calma la situazione". E, aggiunge, "alla mie richieste di spiegazioni sull’utilizzo massiccio degli psicofarmaci, mi è stato risposto che le pillole vengono date solo a chi ha già una prescrizione medica ma è chiaro che le cose non stanno così". Ed è un connubio pericoloso quello tra l’esigenza dei detenuti di spegnere il cervello e quella delle guardie di gestire una moltitudine umana in condizioni di reclusione. "La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti - analizza ancora Ceraudo. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso. È meglio anche per i medici e gli infermieri che se ne stia tranquillo, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità". Ma così il carcere diventa una fabbrica di zombie che poi reimmette nella società con una dipendenza non curata. E poi c’è un quarto fattore. Forse il più taciuto, sottostimato, inconfessabile, scandaloso. Lo denuncia Gemma Brandi, infaticabile pioniera del campo e fondatrice della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria. "Ritengo che il disordine psicopatologico che porta e riporta taluni in carcere sia decisamente più serio e significativo, per gravità e incidenza, del disagio causato dalla detenzione", afferma. "La malattia mentale in carcere è molto più presente di quel che si pensa". Una considerazione, quella della dottoressa Brandi, che deriva dall’osservazione sul campo, a stretto contatto con le realtà detentive e degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). "Da anni ci accorgiamo che mentre negli ospedali psichiatrici giudiziari diminuiscono gli internati, dall’altra aumentano in carcere. Un terzo di coloro che escono ce li ritroviamo in istituto penitenziario dopo qualche mese". Un fenomeno di reistituzionalizzazione che si è accentuato negli ultimi anni, quando il carcere ha perso le sue aspirazioni rieducative per diventare, in una società fortemente consumistica, individualista e neoliberista, il luogo del controllo sociale degli emarginati, siano essi stranieri, tossicodipendenti o folli. Carenza di psicologi Il carcere, dunque, si trova ad affrontare il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna, di un’altra che di quella coazione non ha bisogno, ma che la ricerca. Come poteva finire? La risposta è stata quasi esclusivamente farmacologica. Il biperidene (un farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici), la quietiapina (un antipsicotico) e il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono diventati la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere. L’iper assunzione di farmaci è un fenomeno che si riscontra anche nella società fuori dalle mura penitenziarie, ma dietro le sbarre si è accentuato. L’alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi assente. In ogni carcere la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all’anno. Entrano in questo gioco perverso anche le case farmaceutiche. Negli ultimi anni in molti farmaci è aumentato il principio attivo a livelli esponenziali. "È un business colossale, sotto traccia, le le Asl - rivela Ceraudo - stipulano accordi con le case farmaceutiche e acquistano i loro prodotti a un prezzo ridotto del 60%". Ma le benzodiazepine creano più dipendenza del metadone. Chi entra pulito esce dipendente. La mancanza di cartelle cliniche informatizzate impedisce di seguire terapie una volta che il detenuto ritorna alla cosiddetta società civile. Rieducazione fallita A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all’infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 261 suicidi avvenuti nell’ultimo quinquennio e i 6000 casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che, come dice ancora Ceraudo, "su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa". La società, senza più la maschera della missione rieducativa della pena e scossa dalle istanze populiste, ha abbandonato i suoi figli più problematici. "Ci sono troppi casi di autolesionismo e troppi suicidi nelle carceri italiane - riconosce Palma. Vengono ancora oggi dimenticate la dignità e la centralità della persona". Così ogni sera, verso le 7, passa il carrello con la "terapia". Quello che, come cantano i "Presi per caso", gruppo nato a Rebibbia di cui fa parte anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento nell’omicidio della studentessa universitaria romana Marta Russo, offre "venti gocce che calmano il malumore, ti fanno sentire libero e diventa bello persino questo bordello". Quello che ti fa scordare la compagna lontana, che fa fare festa in cella e che lascia dormire sonni tranquilli al direttore del carcere, agli agenti della polizia penitenziaria e ai bravi cittadini al di là delle sbarre. Il conto della giustizia che sbaglia: 700 milioni spesi in risarcimenti di Liana Milella La Repubblica, 23 gennaio 2017 Ben 42 milioni di euro. Che lo Stato ha pagato solo nel 2016 per risarcire un migliaio di casi tra ingiuste detenzioni - arresti disposti dai giudici che non andavano fatti - ed errori giudiziari riconosciuti da una sentenza di revisione. Una tabella, messa a punto dal Mef che materialmente paga gli indennizzi, è destinata a far discutere alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 in Cassazione, il 28 nei distretti di Corte di Appello. Soprattutto perché a metterla in evidenza, con tanto di polemica, è un esponente del governo, il ministro della Famiglia e degli Affari regionali Enrico Costa, con una passione per i fatti di giustizia (è stato vice ministero nel governo Renzi), e un’ossessione, da avvocato, per la giustizia "ingiusta". Tabella alla mano e raffronto con gli anni precedenti - dal 1992, anno dell’esplosione di Tangentopoli, a oggi lo Stato ha speso ben 648 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e 43 milioni per gli errori giudiziari - Costa non si trattiene da una polemica contro l’Anm, il sindacato dei giudici: "Se dibattessimo meno di età pensionabile dei magistrati e più di queste profonde lesioni della libertà personale, non sarebbe male". Il riferimento è alla querelle tra governo e toghe sul taglio dell’età pensionabile nel 2014 seguito da due proroghe, l’ultima per decreto definita dall’Anm "ad personam" perché riguardava solo gli alti vertici della Cassazione. Tant’è, ancora domani, forse per scongiurare la protesta dell’Anm che vuole disertare la cerimonia in Cassazione, il Guardasigilli Andrea Orlando incontrerà il presidente dell’Anm Pier Camillo Davigo, che chiede di estendere la proroga a tutti. Dice Costa: "Da ministro della Famiglia mi colpisce che una persona, per via di una detenzione ingiusta o per un evidente errore giudiziario, possa restare sulla graticola per dieci anni, visto che i tempi della riparazione purtroppo sono questi. Nel frattempo, ed è l’aspetto più odioso, chi è stato arrestato o processato ingiustamente rimane esposto al sospetto e la sua vita personale e familiare è distrutta, visto che in media servono 10 anni per accertare il fatto e riconoscere l’indennizzo". Ma leggiamo i dati che evidenziano come il problema esiste. Errori giudiziari, 6 riconosciuti nel 2016: a Brescia per 20mila euro, a Catania per 560mila, a Catanzaro per 4mila, a Perugia per 3,5 milioni, a Reggio Calabria per 6,5, a Venezia per 113mila. Ovviamente colpiscono quelli di Perugia e di Reggio per l’imponenza della cifra. Lo Stato ha pagato oltre 10 milioni, ma i casi sono 6 in tutto. Ben diverso il caso delle ingiuste detenzioni, un arresto preventivo non necessario, magari annullato, con l’imputato alla fine assolto e un’istanza alla Corte d’Appello per "riparare" il danno. Trenta milioni sono tanti. E tanti sono i casi. Ben 145 a Napoli (4,2 milioni di risarcimento), 104 a Catanzaro (4,1 milioni), 76 a Catania (3,2), 73 a Bari (2,1), 69 a Roma (1,8), 58 a Lecce (1,2), 52 a Palermo (1,9), 46 a Milano (1,7), Messina 44 (1,4). Una disomogeneità che Costa indica come "un’evidente anomalia che richiederebbe un approfondimento, visto che ci sono tribunali in cui le ingiuste detenzioni sono molto numerose e altri dove sono rare". Come 28 a Bologna, 23 a Genova e Torino, 19 a Potenza, 17 a Perugia e Venezia. Ma solo 6 a Trieste e 2 a Trento, 3 a Sassari e 4 a Taranto. Chi paga per gli errori commessi? Nella riforma del processo penale, se mai sarà approvata, lo stesso Costa ha previsto una relazione annuale al Parlamento con i dati delle ingiuste detenzioni e gli eventuali procedimenti disciplinari contro i magistrati "colpevoli". Relazione che ovviamente non piace affatto all’Anm. Intervista al ministro Orlando: "la sinistra perde se non riesce più a dare sicurezza" di Elisa Calessi Libero, 23 gennaio 2017 La stanza, enorme, al secondo piano del ministero di via Arenula, incute un certo timore. Ma più degli affreschi alle pareti, colpisce la piccola scrivania di fronte a quella del ministro. Apparteneva a Palmiro Togliatti, Guardasigilli dal 1945 al 1946. "Vuole sedersi e le faccio una foto?", fa Andrea Orlando, 46 anni, rompendo la severità del luogo. Declino l’offerta. Cominciamo. "Se vince il No l’unica cosa certa è una nuova fiammata populista". Lo diceva lei il 10 ottobre. È andata così? "Sicuramente la vittoria del No al referendum ha dato spinta alle forze populiste, non mi pare l’abbiano capitalizzata le forze di sinistra". Nella classifica dei sindaci in cima c’è un esponente del M5S. E in quella dei governatori, due leghisti. Fine del buon governo della sinistra? "Mi ha colpito che nella parte alta ci siano molti sindaci al primo mandato. Oggi il lavoro del sindaco è molto più complicato del passato: c’è stato un accentramento di funzioni, una perdurante difficoltà finanziaria a fronte di una domanda sociale cresciuta. Non basta più un progetto di buon governo. Di fronte all’inquietudine che la crisi ha prodotto, che non è solo povertà, ma anche paura di essere esclusi, paga la rassicurazione. Zaia e Maroni danno una risposta: chiudiamoci in casa e difendiamoci. Per me è sbagliata. Ma un governatore di centrosinistra, anche quando governa bene, non ha una risposta da contrapporre. Ci sono ottimi governatori del centrosinistra in fondo alla classifica perché è la sinistra che non ha una chiave da accompagnare a un’azione di governo che in questi anni è stata di riduzione dei servizi". Perché la sinistra non è capace di rassicurare? "Noi abbiamo detto che la globalizzazione andava accettata come qualcosa che avrebbe risolto gran parte dei problemi. Ma in questa parte del mondo ne ha generati. E l’ultima riflessione autonoma della sinistra sulla dimensione globale risale agli anni 80". Lei ha scritto che è stato sconfitto non solo Renzi, ma la strategia del centrosinistra. In che senso? "Abbiamo pensato che la crisi della democrazia avesse solo ragioni istituzionali, invece ha anche radici sociali. La democrazia è in crisi perché lo è un modello di inclusione sociale, che era stata la vera molla dell’affermazione della democrazia all’indomani della guerra". Eppure Renzi ha messo in campo tante misure sociali. "È vero, ma questo non era un governo di centrosinistra. Convivevano impostazioni profondamente diverse e questo ha ridotto i margini di manovra. Poi abbiamo la gabbia del debito pubblico e dei parametri europei. Chi si trova al volante, può sterzare poco". Bisognava fare di più? "È il problema di tutte le sinistre al governo. Hai una serie di compatibilità che ti impedisce di dare risposte più strutturate. Dopo di che, qualcosa di più si poteva fare, ma andava affrontato un tabù anche a sinistra". Quale? "Quello della fiscalità. Gli interventi del governo Renzi hanno dato il segno di un’attenzione al sociale, ma non di mettere in discussione la distribuzione della ricchezza che è il vero elemento di scandalo: la concentrazione di ricchezza in una parte sempre più ridotta della società. È un tema che, per questioni politiche e per ragioni che hanno caratterizzato il centrosinistra fin dalla sua nascita, non è stato affrontato". Bisognava fare la patrimoniale? "Questo è un termine fuorviante e per alcuni versi anacronistico. Bisogna sforzarsi di cercare strumenti per raggiungere una ricchezza che si concentra in soggetti anonimi e sovranazionali e per incidere di più sulle rendite, senza pesare sul ceto medio che è stato già duramente colpito dalla crisi. Poi c’è il tema delle diseguaglianze nella conoscenza, che crescono. La riforma della scuola è stata una cosa importante in questo senso, ma non siamo riusciti a farla percepire come tale". Colpire i ricchi non vuol dire colpire chi crea lavoro? "Infatti non penso si debba colpire la ricchezza, ma la rendita che si è consolidata nel nostro Paese anche per continuare ad aiutare chi investe e chi lavora. Poi mi rendo conto che il tema non si risolve nella dimensione nazionale. Oggi grandi concentrazioni di ricchezza si realizzano a livello sovranazionale". A chi pensa? A Google? "Non solo. Ci sono tantissimi colossi sovranazionali in grado di comprimere i profitti di chi produce e di sottrarsi contemporaneamente alle fiscalità nazionali. Le politiche comunque non bastano. Conta anche il messaggio. Puoi dire: non ce l’ho fatta a colpirle. Ma non puoi dire che non sarebbe giusto colpirle. Obama, non avendo i vincoli dei Paesi europei, ha fatto di più sul fronte della redistribuzione. E però ha vinto Trump". Ha sbagliato messaggio? "Anche. Il problema non è solo cosa fai, ma da che parte ti schieri. Se sei in grado di rifiutare il sistema, di contestarlo anche quando non riesci a modificarlo nell’immediato". Renzi ha parlato molto coi vincenti, poco coi perdenti? "Si può parlare con tutti, il problema è se denunci una sperequazione o no". Per questo avete perso tra i giovani? "Abbiamo perso ovunque l’inquietudine è particolarmente forte. I giovani sono la prima generazione che paga tutte le conseguenze delle politiche passate. Oggi non abbiamo solo la rivolta di chi è povero o si sta impoverendo, ma anche di chi ha paura di impoverirsi. Per questo servono interventi straordinari". D’Alema ha detto che "con Renzi non vinceremo mai". "Un maestro di realismo politico come lui dovrebbe riconoscere che i problemi che si pongono alla sinistra in tutto il mondo occidentale non si risolvono con una discussione sulla leadership e lo pensavo anche ai tempi dell’invettiva di Nanni Moretti, un una situazione relativamente più semplice". Bersani sta cercando "un giovane Prodi". Fa bene? "Siamo sempre sullo stesso terreno. Il fatto che si usino evocazioni di questo genere mi dà il senso da un lato che non ci siano scuderie gremite di purosangue, dall’altro che si pensi che riproponendo in qualche modo formule che non hanno funzionato negli anni 90 si possa tornare a vincere. Io continuo a pensare che il nostro sforzo oggi dovrebbe essere concentrato sulla definizione di una nuova cultura politica". Il candidato premier resta Renzi? "È quello che ha più energia e credito per affrontare questa nuova fase. Dipende molto da come saprà interpretarla". Ma D’Alema lancia i comitati per ricostruire il centrosinistra. "Mi auguro che non siano rivolti contro il Pd. Non penso che si possa ricostruire il centrosinistra senza il Pd. Dopo di che ho sempre pensato che una delle ragioni per cui in Italia esiste una anomalia populista come il M5S, che non è di destra né di sinistra, è anche il frutto del fatto che abbiamo una sinistra radicale particolarmente fragile. Ma non credo che D’Alema pensi a questo né mi auguro una scissione che finirebbe solo per peggiorare il quadro". È favorevole al proporzionale? "Sì. Oggi è irrealistico pensare a un sistema maggioritario che risolva con dei meccanismi un dato che emerge dal Paese, cioè che è diviso in tre blocchi. Io sono perché ci sia un qualche premio di maggioranza che aiuti la governabilità. Ma la governabilità non può prescindere dalla rappresentatività". Così va verso un governo Pd-Forza Italia. Va bene? "A parte il fatto che è già avvenuto. Il governo Letta si fondava su una maggioranza in cui c’era tutta Forza Italia. Dopo di che, dobbiamo fare di tutto perché non accada. Con un sistema di alleanze, perché qualcosa nascerà alla nostra sinistra e qualcosa al centro, si può evitare quel rischio. Ed è per questo che ritengo necessario mantenere un premio per il primo partito". Bisogna andare al voto a giugno o nel 2018? "Appena abbiamo gli strumenti per farlo. Tirare in lungo non serve né al Pd, né al Paese". Ora Renzi dice di voler puntare di più sul "noi". C’è stato un eccesso di "io"? "Se lo dice Renzi". L’errore più grave? "Non avere ricostruito il partito. I problemi del Pd non sono nati con Renzi. Credo sia stato colpevole non aver accompagnato una politica riformista con una grande forza riformista". Il Consiglio d’Europa critica l’Italia per l’eccessivo numero di magistrati in politica. Ha ragione? "Trovo strano che arrivi ora che siamo al minimo storico di magistrati in politica. Poi vanno trovati meccanismi che regolino il passaggio". Vuole cancellare il reato di immigrazione clandestina. Non pensa che aprirà le porte ai clandestini? "Dubito che qualcuno parta dal Senegal perché legge la Gazzetta ufficiale italiana. Penso che il reato di immigrazione clandestina non abbia alcun effetto di deterrenza, mentre ce l’hanno i processi di rimpatrio. Che però sono resi più complicati dal reato. E complica le indagini su chi porta i barconi perché, essendo gli immigrati indagati, non possono testimoniare contro gli scafisti". Le carceri sono diventati i luoghi nei quali avviene la radicalizzazione degli immigrati. Cosa si può fare? "Stiamo già facendo. Abbiamo creato un monitoraggio molto forte e individuato quelli che davano segni di adesione anche solo ideale alla Jihad. Poi c’è una collaborazione tra le forze penitenziarie e quelle di polizia, per cui certi detenuti vengono seguiti anche fuori. Manca, invece, un programma di deradicalizzazione. Come si reagisce quando una persona si radicalizza? Su questo nelle prossime settimane proporremo una strategia". Si parla di lei come possibile candidato alternativo a Renzi. Le piacerebbe candidarsi al congresso del Pd? "Questo è il tempo delle idee, non delle candidature". Venerdì si è insediato Donald Trump, che è arrivato alla Casa Bianca anche grazie al voto degli operai del Michigan. Perché la sinistra non parla più ai ceti deboli? "La sinistra è apparsa rassegnata alle dinamiche della globalizzazione. Non è detto che si debba rinunciare a guidarne gli effetti con politiche industriali e anche moderatamente protezionistiche. L’altra cosa è che la destra sa offrire dei colpevoli: gli immigrati, i cinesi, le élite. La sinistra, invece, ha raccontato una storia che non aveva responsabili". Migliucci: "dalla magistratura proteste sindacali. Ora vogliamo carriere davvero separate" di Sara Menafra Il Messaggero, 23 gennaio 2017 Parla il presidente dell’Unione Camere Penali: "se non si distingue tra giudici e pm, tutto il resto è inefficace" Presidente Beniamino Migliucci, come leader delle camere penali come giudica la relazione alle camere del ministro Andrea Orlando? Ci sono elementi di no vita? "La relazione del ministro alla Camere è stata ricca di spunti positivi, l’abbiamo notato soprattutto quando ha evocato la necessità di non affidarsi al populismo m materia di giustizia, sebbene si assapori una deriva di questo genere nel nostro paese. Ha anche detto che è inutile la creazione di nuovi reati o l’aumento costante delle pene, due fattori che non sono mai riusciti a garantire maggiore sicurezza al paese. Avremmo però gradito un po’ di coerenza in più". In che senso? "Il governo precedente a questo non si è comportato di conseguenza, è stato creato l’omicidio stradale, ad esempio, una scelta che riteniamo non avrà effetto nel cambiare il comportamento dei cittadini. Ci preoccupano invece alcuni aspetti della riforma del codice di procedura penale che il ministro ha detto di voler rilanciare: ci preoccupa l’apertura alla possibilità di celebrare un processo a distanza in teleconferenza, cosa che snatura l’oralità e l’immediatezza del dibattimento e soprattutto l’idea di voler ulteriormente allungare i tempi di prescrizione, cosa che li rende irragionevolmente lunghi e non è ne nell’interesse dell’imputato ne delle persone offese, che hanno tutto l’interesse ad avere giustizia in tempi ragionevoli". Proprio ad un elemento connesso all’accelerazione dei tempi delle indagini è collegata la protesta dell’Anm che ha annunciato di non voler presenziare alla cerimonia dell’anno giudiziario in Cassazione. Come giudica questa protesta? "L’Associazione magistrati polemizza sull’articolo 18, ovvero sul provvedimento per il quale il pubblico ministero deve decidere entro un certo termine se archiviare o inviare a giudizio un indagato, dopo la scadenza dei termini, e se questo non avviene, dice la nuova norma, la procura generale avoca a se il fascicolo. Ecco che davanti ad una cosa del genere l’Anm protesti mi colpisce molto, accredita l’idea che i magistrati non vogliano alcun genere di controllo su quel che fanno". Ma dal punto di vista di un difensore, l’avocazione da parte della procura generale è davvero una garanzia? Non si rischia che il pg mandi a giudizio senza troppi complimenti? "E infatti quello da parte della procura generale è il minore dei controlli possibili. Noi proponiamo che sia un giudice terzo a valutare le motivazioni di questo rallentamento, ma ci pare sintomatico l’opporsi a questo provvedimento. Pensiamo anche che la protesta abbia forti motivazioni sindacali, ad esempio l’Anm ha detto più volte di essere fortemente contraria all’attuale riforma delle pensioni". Qual è per l’unione camere penali la priorità del 2017? "Prima di tutto lanceremo una raccolta di firme per rilanciare la necessità di una netta separazione delle carriere. Vogliamo proporre una legge che modifichi anche la Costituzione sul punto perché riteniamo che senza questa riforma tutte le altre siano parziali e inefficaci. Anche i recenti sondaggi dicono che è giusto e corretto che il magistrato che giudica sia diverso da chi accusa e da chi difende. Per noi è prioritario anche un intervento di riforma complessiva del codice penale. Oggi sono i singoli procuratori a decidere quali reati perseguire e quali no, mentre è sul codice penale nel suo complesso e sul suo impianto autoritario che si dovrebbe intervenire. Il ministro ha detto di essere contrario a indulto e amnistia perché serve una riforma complessiva. Ci aspettiamo che arrivi in tempi rapidi". Sarete presenti all’inaugurazione dell’anno giudiziario? "Ci saremo. E notiamo che la cerimonia si svolge in Cassazione. Non è quella la sede per prendere distanza dalla politica". Quella chimera della certezza del diritto di Enrico De Mita Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2017 La certezza del diritto nella materia tributaria è un’aspirazione diffusa (ricorre spesso nella titolazione delle leggi) ma viene intesa in modo improprio. Si pensa che le leggi tributarie debbano essere scritte in modo tale che l’interpretazione di esse sia certa, cioè automatica. Ma lette in astratto le leggi non vogliono dir niente e solo in presenza dei fatti esprimono il loro significato: la realtà è più forte della fantasia. L’interpretazione delle leggi, anche di quelle "a fattispecie esclusiva", è ineliminabile. La funzione creatrice della giurisprudenza, specie quella della Cassazione, nei limiti della correttezza ermeneutica (il rispetto degli stampi giuridici) non può essere eliminata. Allora che cosa vuol dire certezza del diritto? Per rispondere bisogna preliminarmente ricordare com’è la produzione legislativa in Italia. Abbiamo un’emanazione di leggi a getto continuo e la confusione creata nel nostro Paese non è stata mai abbastanza rilevata. L’ordinamento tributario è incerto e confuso. La certezza del diritto vuol dire prima di tutto chiarezza e conoscibilità delle leggi, che non è possibile di fronte a una situazione in cui abbiamo: il susseguirsi a breve distanza di norme che modificano le precedenti; una scadente tecnica legislativa in dispregio allo Statuto dei diritti del contribuente; il mancato coordinamento fra le norme; la retroattività di alcune leggi tributarie anche nella forma della interpretazione autentica; un eccessivo numero di circolari che forniscono un’interpretazione parallela e con la quale funzionari e giudici debbono fare i conti. Processo legislativo da semplificare per salvare il cuore della riforma - A questo proposito, è utile riportare il pensiero del Fondo monetario internazionale: "L’agenzia delle Entrate non può fare norme interpretative. Il suo ruolo è di una macchina amministrativa che deve attuare le leggi e non interpretarle. Le sue circolari devono essere applicative ma non addentrarsi a dare un senso alla norma di legge, che compete al ministero dell’Economia". Da ultimo, la situazione fin qui descritta porta all’impossibilità di assicurare ai funzionari e ai contribuenti il tempo necessario per assimilare le disposizioni che sono chiamati ad applicare. La crisi del diritto tributario non è altro che un aspetto della crisi del principio di legalità. Le leggi, specie quelle dirette a combattere l’evasione, vengono fatte dall’amministrazione con regole che sono per lo più un inasprimento della tassazione esistente. Ma c’è un vizio culturale dell’amministrazione, di interpretare in un solo senso la legge, mentre compito dell’amministrazione è di giustizia e di imparzialità. C’è poi un altro profilo. La modifica delle procedure in funzione del gettito: intendiamo il raddoppio dei termini e la modifica delle disposizioni in tema di esecuzione, solo in funzione del gettito. Se dal punto di vista del diritto sostanziale il fiscalismo si esprime nell’arbitrio del metodo casistico, nel campo delle regole applicative (accertamento, riscossione, processo) il fiscalismo si esprime non solo nella compressione delle regole del diritto comune, ma nella distorsione delle stesse regole del diritto tributario. Gli istituti del diritto tributario, se vogliono realizzare un rapporto di fiducia tra cittadino e amministrazione, debbono essere tendenzialmente stabili affinché vi sia da parte del contribuente una sorta di assuefazione ai comportamenti dovuti. Solo con questa impostazione è possibile una codificazione che viene invocata anche dagli osservatori privati. C’è bisogno di una legge generale tributaria. La dichiarazione, l’avviso, gli atti della riscossione, il potere di sospendere, la legittimazione al rimborso, la responsabilità degli eredi sono tutti istituti che vanno definiti una volta per tutte, non possono essere discipline contingenti che nascono solo dall’esigenza del gettito. Di fronte all’evasione l’amministrazione si illude se pensa di poterla combattere con questi accorgimenti impropri. In Italia si hanno troppe leggi complicate e dall’altra una troppo facile evasione. Lo Stato cerca di determinare con troppa precisione fino al centesimo il reddito del contribuente; ma le leggi forti sono difficili da applicare. Meglio stabilire dei criteri generali e poi vedere se il contribuente vi si adegua o no. In conclusione, la certezza del diritto vuol dire chiarezza dell’ordinamento, ripugnanza della nuova regola adottata coi fatti, senza abrogazione formale della regola precedente, senza ricezione espressa nell’ordinamento esistente. Il diritto ha soprattutto il compito di garantire l’uniformità dei comportamenti sociali, rendendo possibile la previsione della valutazione futura e introducendo così nel processo economico un momento di alto valore costituito dalla sicurezza. Il giudice che dispone il carcere non deve motivare l’inidoneità del braccialetto elettronico di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 11 novembre 2016 n. 47905. Poiché la prescrizione del cosiddetto "braccialetto elettronico" non configura un nuovo tipo di misura coercitiva, ma un modo di esecuzione ordinaria della cautela domiciliare, il giudice che, per la pericolosità dell’indagato e le peculiarità del fatto contestato, abbia ritenuto adeguata unicamente la custodia carceraria, non deve altresì motivare sull’inidoneità degli arresti domiciliari pur connotati dall’adozione del braccialetto. Lo hanno stabilito i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 47905 del 2016. Sulla disciplina del "braccialetto elettronico" - In termini, sezione VI, 12 novembre 2015, Masella. In generale, sulla disciplina del "braccialetto elettronico", si vedano comunque sezioni Unite, 28 aprile 2016, Lovisi, laddove si è affermato che il giudice sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare (ex articolo 291 del Cpp) sia nel caso di sostituzione della misura (ex articolo 299 del Cpp), ove ritenga applicabile quella degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, deve verificarne la disponibilità e, in caso negativo, escluso ogni automatismo nella scelta di applicare la misura della custodia in carcere ovvero quella degli arresti domiciliari semplici, deve applicare quella ritenuta idonea, adeguata e proporzionata in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. In altri termini, l’accertata mancata reperibilità del dispositivo, impone al giudice una rivalutazione della fattispecie concreta, alla luce dei principi di adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. È una chiara indicazione nel senso che le carenze dell’amministrazione, non in grado di avere un numero sufficiente di braccialetti elettronici, non può risolversi in danno della persona: nell’ipotesi di constatazione della carenza del dispositivo, non vi è cioè alcun automatismo applicativo (in particolare, è escluso che debba automaticamente e obbligatoriamente applicarsi la custodia in carcere), ma è imposto al giudice di rinnovare l’apprezzamento sull’idoneità della misura pertinentemente applicabile, proprio alla luce della circostanza di fatto della indisponibilità del dispositivo. In esito a tale rinnovato apprezzamento, potrà giustificarsi, nel concreto, l’applicazione della custodia in carcere, ove in positivo dovesse ritenersi l’inidoneità degli arresti domiciliari semplici a soddisfare le esigenze cautelari, ovvero potrà applicarsi quest’ultima più gradata misura, ove la carenza del mezzo di controllo sia ritenuta superabile e non pregiudizievole nell’ottica prevenzionale. Va alla Consulta il trattamento sanzionatorio per illeciti non lievi sulle droghe pesanti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Ordinanza 12 gennaio 2017 n. 1418. La Cassazione ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 73, comma 1, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, per contrasto con gli articoli 25, 3 e 27 della Costituzione, in relazione al trattamento sanzionatorio "minimo" previsto per le droghe "pesanti", a seguito della sentenza n. 32 del 2014 della stessa Corte costituzionale. L’inquadramento - La questione si collega alla notissima decisione con cui la Corte costituzionale "ha dichiarato l’illegittimità costituzionale - per violazione dell’articolo 77, comma 2, della Costituzione, che regola la procedura di conversione dei decreti legge - degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, come convertito con modificazioni dall’articolo 1 della legge 21 febbraio 2006 n. 49, così rimuovendo le modifiche apportate con le norme dichiarate illegittime agli articoli 73, 13 e 14 del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309" (sentenza 12 febbraio-25 febbraio 2014 n. 32). A seguito della dichiarazione di incostituzionalità, come del resto precisato dalla stessa Corte costituzionale in parte motiva, è tornata nuovamente vigente la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel Dpr n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006 (nel testo cioè introdotto dalla legge Vassalli-Iervolino). Per l’effetto, per le droghe "pesanti" il ritorno alla previgente disciplina del 1990 si risolve in un aggravamento sanzionatorio quanto alla pena della reclusione: la legge Fini-Giovanardi aveva rideterminato la pena stabilita nel comma 1 dell’articolo 73 stabilendo nella misura da "sei a venti anni di reclusione", mentre, ora, si torna alla pena della reclusione da "otto a venti anni". Al contrario, per le droghe "leggere", il trattamento sanzionatorio è più favorevole, essendo prevista, nel preesistente comma 4 dell’articolo 73, "riattivato" dalla sentenza costituzionale, una pena detentiva "da due a sei anni di reclusione" notevolmente inferiore a quella introdotta (con l’omologato regime penale di droghe "pesanti" e "leggere") dall’articolo 73 nel testo della Fini-Giovanardi. Il dubbio della Corte remittente - La Cassazione qui dubita della costituzionalità del minimo edittale di otto anni di reclusione, per le droghe "pesanti", siccome in (asserito) contrasto con plurimi parametri di costituzionalità. In primo luogo, con l’articolo 25, comma 2, laddove sancisce il principio di riserva di legge in materia penale. Si sostiene che l’esercizio della funzione legislativa a opera della giustizia costituzionale incontra il limite della riserva di legge in materia penale e, quindi, del principio affermato nella richiamata disposizione costituzionale secondo il quale gli interventi in materia penale tesi ad ampliare l’area di un’incriminazione ovvero a inasprirne le sanzioni possono essere legittimamente compiuti soltanto a opera del legislatore parlamentare. La sentenza n. 32 del 2014 avrebbe in sostanza violato questo parametro di costituzionalità, reintroducendo la disciplina sanzionatoria (in malam partem) relativa al trattamento delle droghe "pesanti" anteriore alla legge Fini-Giovanardi. La reintrodotta disciplina sanzionatoria relativa al minimo edittale per le droghe "pesanti", inoltre, sarebbe incostituzionale pure per difetto di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), e ciò viene desunto non solo dal raffronto con la pena prevista per le ipotesi "lievi" di cui al comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, ma anche con quella comminata dal comma 4 dello stesso articolo per le droghe "leggere". L’irragionevolezza sarebbe dimostrata anche dal novum normativo introdotto dal legislatore del 2014 che, nel riformulare il comma 5 dell’articolo 73 (dapprima con la legge 21 febbraio 2014 n. 10, di conversione del decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, poi con la legge 16 maggio 2014 n. 79, di conversione del decreto legge 20 marzo 2014 n. 36), ha previsto una disciplina unitaria per le condotte di lieve entità aventi a oggetto sia le droghe "pesanti" che quelle "leggere". Ulteriore vizio di costituzionalità viene poi ravvisato rispetto al principio di proporzionalità, con riferimento alle situazioni che, pur non consentendo l’inquadramento nel paradigma dell’ipotesi attenuata di cui al comma 5 dell’articolo 73, non si presentino di rilevante gravità, rispetto alle quali il giudice sarebbe pur sempre "costretto" a infliggere pene di entità eccessiva. Le aspettative - La Corte remittente evoca la possibilità che la Corte costituzionale, con la declaratoria di incostituzionalità, coltivi la soluzione obbligata di ripristinare - per la pena detentiva - il minimo di sei anni previsto dalla legge Fini-Giovanardi pur se dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 32 del 2014. Mentre, si sostiene, nessuna conseguenza dovrebbe essere tratta per la pena pecuniaria, giacché, per effetto della declaratoria di incostituzionalità, ne è derivata la riduzione nel minimo edittale da 26.000 a 25.822 euro. In definitiva, a quanto è dato capire, il giudice remittente confida in un intervento caducatorio della Corte costituzionale che conduca a un nuovo assetto sanzionatorio frutto di una combinazione tra quanto previsto dalla legge Fini- Giovanardi del 2006 (per la pena pecuniaria) e quanto previsto dalla legge precedente Vassalli-Iervolino (quanto alla pena detentiva). La prognosi decisoria - A prima lettura, vi è lo spazio per qualche riflessione, anche di ordine sistematico, sugli effetti pratici che deriverebbero dall’accoglimento della questione di costituzionalità, e può focalizzarsi l’attenzione sui profili che - ci sembra - dovrebbero condurre la Corte costituzionale a non condividere i dubbi di costituzionalità. Sotto il primo profilo, senza voler esserne condizionati quanto all’apprezzamento del merito della censura, non è revocabile in dubbio che l’accoglimento della questione avrebbe effetti pesantissimi sui processi in corso, perché si imporrebbe una rinnovata valutazione del trattamento sanzionatorio: anche laddove ci si trovasse, in Cassazione, di fronte a un’impugnazione inammissibile sarebbe imposto un annullamento con rinvio, per una rinnovata valutazione sul trattamento sanzionatorio (si vedano sezioni Unite, 26 giugno 2015, Della Fazia, nonché, sezioni Unite, 26 febbraio 2015, Jazouli). È una considerazione di fatto, ovviamente irrilevante ai fini della soluzione della questione, da cui però non si può prescindere quando si voglia avere attenzione alla condizione di estremo disagio in cui versano gli uffici giudiziari, soprattutto quelli di secondo grado e la stessa Corte di legittimità. Le ragioni che dovrebbero militare per un non accoglimento - Venendo invece ai profili di costituzionalità, l’impressione è che si tratti di questione che potrebbe non trovare accoglimento per una serie di convergenti ragioni. In primo luogo, è difficilmente sostenibile l’assunto secondo cui sia stata la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 ad avere violato il disposto dell’articolo 25, comma 2, del Costituzione, per avere introdotto una disciplina sanzionatoria in malam partem che non ha trovato la propria fonte nella determinazione del legislatore parlamentare. In realtà, la sanzione prevista per il reato di cui all’articolo 73, comma 1, è stata introdotta dal legislatore, con la legge Vassalli-Iervolino: la Corte si è limitata a "far rivivere" tale disposizione, solo perché ha dichiarato incostituzionale, per ragioni formali, la legge del 2006. L’effetto sanzionatorio che ne è derivato è stata la inevitabile conseguenza della decisione della Corte, il cui contenuto era del resto obbligato: una volta "caduta" la legge del 2006, non poteva non rivivere quella precedente; mentre sarebbe stato arbitrario pretendere che la Corte costituzionale intervenisse sulla disciplina tornata in vigore - come oggi preteso dalla Cassazione - rimodulando la disciplina sanzionatoria attraverso - paradossalmente - il recupero parziale in parte qua (ergo, solo relativamente al minimo edittale della pena detentiva prevista per le droghe "pesanti") della disciplina appena dichiarata incostituzionale. Non va poi dimenticato che il regime attuale delle sostanze stupefacenti è comunque passato al vaglio del legislatore che è ampiamente intervenuto nel 2014 - tra l’altro anche sul trattamento sanzionatorio, attraverso una rimodulazione del "fatto di lieve entità" - ma senza essersi in alcun modo interessato della pena prevista dal comma 1 dell’articolo 73, così indirettamente "accettando" gli esiti della declaratoria di incostituzionalità prodotta dalla sentenza n. 32 del 2014. Non è anzi da trascurare che, proprio l’intervento normativo successivo alla sentenza n. 32 del 2014, in particolare quello realizzato con il decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014, attesta della scelta del legislatore di confermare la suddivisione tabellare delle sostanze vietate, distinguendo tra droghe "pesanti" [tabelle I e III] e droghe "leggere" [tabelle II e IV], con la conseguente configurabilità di due distinti reati (previsti, rispettivamente, dai commi 1 e 4, dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990): questa scelta non è stata accompagnata da alcuna modifica del trattamento sanzionatorio (come invece si è fatto per l’ipotesi attenuata del comma 5 dell’articolo 73), dimostrando, almeno implicitamente, l’intenzione del legislatore di assicurare una diversificazione sanzionatoria tra droghe "pesanti" e droghe "leggere" e, soprattutto, di condividere l’evidente diversità dei limiti edittali minimi e massimi previsti. A supporto della fondatezza della questione, sotto il profilo del rispetto del principio di ragionevolezza, neppure potrebbe valere l’attuale disciplina del "fatto lieve" di cui al comma 5 dell’articolo 73, che, con i plurimi interventi normativi del 2014 (da ultimo con il decreto legge n. 36, convertito dalla legge n. 79), vede un trattamento sanzionatorio identico per le droghe "pesanti" e per quelle "leggere": è situazione di cui si poteva dubitare della ragionevolezza, ma proprio la Corte costituzionale, con la sentenza n. 23 del 2016, ha escluso qualsivoglia profilo di incostituzionalità, evidenziando tra l’altro che, proprio la costruzione del fatto lieve come reato autonomo, ha dimostrato l’insussistenza di alcuna esigenza che avrebbe dovuto portare a mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi. Ergo, proprio la Corte costituzionale ha confermato la legittimità della scelta sanzionatoria vigente, sia relativa ai fatti lievi, sia relativa ai fatti non lievi. A ciò si deve aggiungere un ulteriore considerazione, relativa alla pretesa della Corte remittente in ordine alla decisione che si auspica venga adottata dalla Corte costituzionale. Se ne è già accennato: il giudice delle leggi, a quando è dato capire, dovrebbe "reintrodurre" o, meglio, costruire ex novo un trattamento sanzionatorio del tutto arbitrario, perché frutto, quanto alla pena detentiva, della normativa del 1990, e, quanto alla pena pecuniaria, della legge Fini-Giovanardi, pur già dichiarata incostituzionale. È pur vero che si tratterebbe di "grandezze già rinvenibili nell’ordinamento", ma non sembra dubitabile che la Corte costituzionale sembra richiesta di un compito che non le è proprio, pacificamente: quello di realizzare comunque un intervento additivo in materia penale, ma in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate. In definitiva, il sistema attuale non è irragionevole, e se deve essere cambiato, il compito è esclusivamente del legislatore. Per ora, al giudice resta la possibilità (doverosità) di muoversi, sotto il profilo sanzionatorio, nel range di pena attualmente vigente ed è in questa prospettiva che può e deve trovare la sanzione adeguata (anche) per i fatti non lievi (ossia non inquadrabili nel paradigma del comma 5 dell’articolo 73), che tuttavia non si presentino, per ragioni oggettive o soggettive, di particolare gravità. Antimafia, sui crediti poteri limitati al giudice delegato di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2017 Sentenza 1402 del 12 gennaio 2017. La verifica dei crediti nel procedimento di prevenzione patrimoniale arriva in Cassazione e i giudici enucleano i principi in base ai quali i creditori di un’impresa sequestrata per mafia possono soddisfare le loro pretese. Nella sentenza 1402 del 12 gennaio, la V sezione penale si è occupata delle istanze di ammissione, formulate secondo le norme a tutela dei terzi del Dlgs 159/2011 (Codice antimafia). L’articolo 52 del Codice fissa le condizioni per le quali i diritti di credito dei terzi, anteriori al sequestro e documentati con atto con data certa, possono essere soddisfatti anche se i beni del debitore vengono confiscati perché di provenienza illecita. Sul piano oggettivo non deve risultare alcuna strumentalità tra il credito e l’attività illecita del soggetto socialmente pericoloso; se si accerta tale strumentalità, il creditore deve dimostrare di averla ignorata in buona fede. Gli articoli 58 e seguenti prevedono un procedimento per accertare i diritti dei terzi che ricalca quello di formazione del passivo fallimentare. Si svolge con l’ausilio dell’amministratore giudiziario, che forma l’elenco di creditori e lo consegna al giudice delegato, che a sua volta fissa un termine per presentare le istanze di ammissione. Dopo avere sentito gli interessati in udienza, il giudice forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con un provvedimento contro il quale può essere proposta opposizione al tribunale della prevenzione. Il tribunale decide sull’opposizione con decreto, impugnabile con ricorso per Cassazione. Precisa ora la Corte che questa procedura incidentale è autonoma rispetto al procedimento di prevenzione (in cui i beni sono sequestrati e poi confiscati); ed è governata dai principi del diritto civile e fallimentare. Il terzo che chiede di essere ammesso al pagamento assume veste sostanziale di attore, come in un giudizio civile, e ha l’onere della prova anche sulla propria buona fede. Ma da tale autonomia deriva che, per la verifica dei crediti, al giudice delegato rimane preclusa ogni valutazione di merito circa il provvedimento di sequestro. La Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato dai figli della persona alla quale erano stati sequestrati i beni contro il decreto del tribunale che aveva confermato l’esclusione del loro credito, disposta dal giudice delegato nello stato passivo. Il procedimento di prevenzione aveva accertato, sebbene in provvedimenti non definitivi, che i figli operavano con società costituite dal padre ma a loro cedute per aggirare i divieti di legge sull’aggiudicazione degli appalti. Secondo la Cassazione tale circostanza non poteva essere rimessa in discussione nella verifica di buona fede e quindi i loro crediti non andavano riconosciuti. Quanto alle operazioni bancarie, il credito della banca può essere riconosciuto non solo se vi è prova della correttezza formale della gestione di rapporti e della convenienza economica per l’istituto, ma anche se si può escludere che la banca fosse consapevole dell’opacità del contraente e dell’alto rischio di collisione del privato interesse della banca con il prevalente interesse pubblico alla prevenzione criminale e mafiosa. Odiate, odiate, e il consenso verrà di Piero Sansonetti Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2017 Il Fatto di Travaglio definisce Alfano "Ministro della malavita" perché è andato sulla tomba di Bettino Craxi. Il problema dell’odio, dell’eccesso di odio nella lotta politica, non è solo una questione culturale. È un problema molto concreto, perché l’odio sta scalzando la stessa lotta politica. Sostituendola, assumendone la funzione. E sta prendendo il posto dei programmi, delle idee. L’odio - che una volta era un accessorio del conflitto, una aggiunta - è diventato l’essenziale, e soprattutto è diventato lo strumento principale della conquista del consenso. Odia, odia, vedrai che diventi popolare. Vorrei sottoporvi questo titolo pubblicato ieri con grande evidenza sulla prima pagina del "Fatto". Dice così, testualmente: "Alfano, ministro della malavita, sulla tomba del latitante Craxi". Cos’è che colpisce? Certo, colpisce l’ingiuria, usata con incredibile arroganza e leggerezza. Alfano viene qualificato come un gangster. Il capo dei gangster. Il riferimento è probabilmente a una polemica del primo novecento tra Gaetano Salvemini e Giovanni Giolitti, per via dei brogli elettorali dei giolittiani in Puglia. Salvemini usò quell’epiteto. Ma nell’articolo del "Fatto" non c’è nessun accenno a Salvemini, del resto il povero articolista neanche si sogna di definire Alfano un bandito. La polemica è tutta del titoli- sta. Il quale, probabilmente, già sa che la magistratura difficilmente condannerà il "Fatto" che è il suo giornale di riferimento, e quindi non fa caso agli insulti e li usa con larghezza. (Se penso che un Pm di Palermo mi ha chiesto più di centomila euro di risarcimento per aver scritto che era stato maleducato nell’interrogatorio di De Mita, mi chiedo quanto potrebbe chiedere Alfano apostrofato come il capo della delinquenza: 1 milione, 10 milioni? E però son sicuro che il Pm di Palermo con me vincerà, e Alfano non vedrà mai una lira…). Ma quel che più colpisce nel titolo non è nemmeno l’improperio sfrontato per il ministro. È l’odio, l’odio incontenibile e viscerale e imperituro, per un signore che ha contribuito a fare la storia della repubblica, che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia della sinistra, e che è morto quasi vent’anni fa. Il gusto di parlare di una persona morta apostrofandola come latitante, ha pochi precedenti nelle tradizioni della polemica politica italiana. L’odio, l’odio come carburante per l’intelletto. L’odio come certezza dell’esistere. Come assicurazione sulla propria probità. Voi dite che ormai è una tendenza inarrestabile? Speriamo di no. Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu… di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 23 gennaio 2017 Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ‘ndranghetista. Colpevole di "inconsapevolezza", l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) "Festival dello stocco di Mammola", per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma "l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata". Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei "garantisti") come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di "tradimento", perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conse- guenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato. Vicenza: coinvolto nella sparatoria tra nomadi, prende il lenzuolo e si uccide in cella Corriere Veneto, 23 gennaio 2017 Si è tolto la vita nella sua cella del San Pio X Carlo Helt, il sinto 40enne di Rovereto che, per rivendicare un’offesa ai propri morti lo scorso 23 giugno, in un piccolo accampamento di Zanè, avrebbe aperto il fuoco a bruciapelo contro Davide e Vianello Kari del clan avverso, uccidendo il primo e ferendo il fratello. Il trentino, conosciuto come "Zan", si era subito dato alla fuga, sparendo dalla circolazione. Almeno fino a quando, ad ottobre, si era costituito ai carabinieri di Gorizia: sapeva di essere ricercato, di avere un’ordinanza di custodia cautelare ad attenderlo. Da allora Helt si trovava in carcere a Vicenza. Accusato di omicidio e di tentato omicidio pluriaggravati ma pure di ricettazione e porto dell’arma usata, una Bernardelli calibro 9 risultata rubata. Nei giorni scorsi il pm Alessia la Placa aveva chiuso le indagini nei suoi confronti, ma anche degli altri 4 - la mamma Lucia, i fratelli Davide e Fulvio e il cognato Paradise Kari - che per l’accusa avevano preso parte all’agguato mortale, per rivendicare quella bestemmia contro i loro morti. Un’offesa considerata grave, da lavare con il sangue. Carlo Helt aveva anche intenzione di farsi sentire dal pm, tanto che il suo legale, l’avvocato Elisabetta Costa, avrebbe depositato a giorni la richiesta. Ma il 40enne, che si trovava nel reparto a regime chiuso, considerato un detenuto di difficile adattamento, ha deciso di farla finita, usando un pezzo di lenzuolo come cappio alle sbarre della finestra. La tragedia si è consumata nella tarda serata di lunedì e nonostante il tempestivo intervento della polizia penitenziaria per il sinto non c’è stato nulla da fare. "Non accadeva dal 2013 - fa sapere Leo Angiulli, segretario generale della Uil penitenziaria: i colleghi in più occasioni sono riusciti a salvare vite umane, anche lunedì è stato fatto il possibile ma purtroppo senza esito". Helt, padre di famiglia, ha lasciato anche un biglietto di addio nella cella, indirizzato ai suoi cari, per quanto, stando ad indiscrezioni, non sarebbe apparso così comprensibile. Ad accusarlo di essere stato l’autore materiale del delitto erano stati i suoi stessi parenti, finiti a loro volta indagati. Gli Helt, così come confermerebbero i tabulati telefonici, si erano dati appuntamento a Zanè, per farla pagare ai Kari. "Avete bestemmiato contro i nostri morti e ora io vi devo ammazzare" avrebbe annunciato Zan. Così avrebbe preso la pistola dalla borsa della madre Lucia, presente con gli altri due figli e il cognato, e avrebbe sparato. Due colpi, all’indirizzo di ciascuno dei fratelli. Davide Kari è morto subito, il fratello Vianello, sopravvissuto, ha riferito ai carabinieri che a colpirlo era stato Carlo (sull’arma c’erano le sue impronte). Versione confermata anche dagli altri Helt della spedizione punitiva, scarcerati dal Riesame ad eccezione della donna. Napoli: muore detenuto; era in coma, ma non è stato scarcerato ottopagine.it, 23 gennaio 2017 L’avvocato: "I giudici, pur a fronte di una certificazione sanitaria attestante che era in coma ed in imminente pericolo di vita, non gli hanno revocato il carcere a cui era sottoposto". Ancora un dramma che accade tra le sbarre. Un detenuto 37enne, in attesa di giudizio, è morto. "I giudici, pur a fronte di una certificazione sanitaria attestante che era in coma ed in imminente pericolo di vita, non gli hanno revocato il carcere a cui era sottoposto": così l’avvocato Dario Vannetiello in una nota diffusa alla stampa. La storia di Stefano Crescenzi, di anni 37 e di Roma è quella di un calvario, come spiega l’avvocato. L’uomo era detenuto in custodia cautelare in quanto condannato in primo grado, alla pena di anni 23 di reclusione dalla Corte di Assise di Roma, presieduta dal Giudice dott.ssa Anna Argento con a latere dott. Sandro Di Lorenzo, sentenza avverso la quale era stato depositato atto di appello. Il reato è quello dell’omicidio di Giuseppe Cordaro avvenuto in Roma alla via Aquaroni, zona Tor Bella Monaca, il 30 marzo dell’anno 2013, per il quale il giudice di primo grado ha escluso che fosse un delitto di mafia. A causa delle sue gravissime condizioni di salute, dovute probabilmente connesse al secco e protratto rifiuto di alimentarsi, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel mese di settembre 2016, ritenne che Crescenzi non potesse rimanere presso un ordinario istituto penitenziario e decise il suo trasferimento dalla casa circondariale di Livorno presso il centro clinico della casa circondariale di Napoli - Secondigliano, anche alla luce del contenuto di una perizia svolta su incarico della Corte di assise che in tali sensi concludeva. Pochi giorni dopo il suo arrivo, a causa del peggioramento delle condizioni, si decise il trasferimento all’Ospedale Cardarelli, poi presso il Don Bosco di Napoli. Immediata la richiesta, da parte dei legali, di revocare la misura cautelare o, in via subordinata, adottare urgentemente una decisione che consentisse al detenuto di ricevere le cure adeguate in un centro specializzato. L’avvocato Dario Vannetiello, inoltre, aveva con un esposto al Primo Presidente del Tribunale di Roma spiegato che il detenuto sarebbe morto se non fossero stati effettuati i giusti interventi e le opportune cure per il malato ormai in coma. Fino alla tragedia, consumatasi ieri. Roma: corruzione nel carcere di Rebibbia, arrestati due guardie penitenziarie e un detenuto La Repubblica, 23 gennaio 2017 Per gli investigatori i due avrebbero favorito il recluso comunicandogli notizie e facendo da intermediari per fargli arrivare beni in cella. Hanno favorito un detenuto che gli aveva promesso dei soldi in cambio di vari aiuti. Con questa accusa due guardie penitenziarie in servizio nel carcere romano di Rebibbia e il detenuto, G.G., 50 anni, nato a Siracusa, sono stati arrestati su ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale di Roma. I due agenti finiti ai domiciliari sono D.T.P., nato a Riardo (Ce) di 47 anni e B.A.T., nato a La Chaux De Fonds (Svizzera) di 46 anni, entrambi assistenti capo della Polizia Penitenziaria. Perquisite anche le abitazioni dei due, gli alloggi di servizio e la casa della moglie del detenuto. Per gli inquirenti i due agenti si sono "messi a disposizione" di G.G. per favori di vario genere: hanno comunicato notizie relative a permessi premio concessi o esiti delle udienze a lui, a sua moglie e al suo difensore, hanno dato ad altri operatori penitenziari notizie positive sulla condotta del detenuto; hanno rivelato a G.G. notizie sul ritrovamento di un telefono cellulare in possesso di un altro detenuto, hanno fatto da intermediari per recapitare beni all’interno del carcere o nel luogo dove il detenuto svolgeva attività lavorativa in regime di semilibertà. Per gli inquirenti i due lo avrebbero fatto per ottenere somme di denaro, più volte promesse anche se di fatto mai elargite dal detenuto. L’uomo avrebbe anche promesso ai due un lavoro o un’altra forma di partecipazione nella pizzeria che si diceva intenzionato ad aprire una volta uscito dal carcere. Il detenuto, attualmente in carcere Cremona, è accusato anche di evasione. Il 21 maggio 2015 l’uomo, che era in regime di semilibertà, una volta uscito da Rebibbia non è andato al lavoro e non è rientrato in carcere all’orario previsto. La sua fuga è finita una settimana dopo, il 28 maggio, quando la polizia lo ha rintracciato a Crema, a casa della moglie, lo ha arrestato e lo ha accompagnato nel carcere di Cremona dove è attualmente detenuto. Trento: la birra all’aroma di zafferano "bio" coltivato in carcere di Nadia De Lazzari Il Trentino, 23 gennaio 2017 Il progetto de "La Sfera" con il birrificio trentino Argenteum I detenuti producono "Galeort", piante officinali di qualità. Nasce la birra allo zafferano prodotta con la spezia coltivata nel Carcere di Spini di Gardolo. Sarà in distribuzione dal mese di marzo. Al progetto della Cooperativa sociale La Sfera in partnership con il birrificio Argenteum di Cortesano vi lavorano sei detenuti che nel 2016 hanno ottenuto una coltivazione record di zafferano. L’annuncio che "l’oro rosso" solidale, biologico e di alta qualità prodotto nell’Istituto penitenziario aromatizzerà la birra piomba all’improvviso nella nuova sede della Cooperativa. L’intero staff accoglie la novità con orgoglio e in Via Kufstein 4 scoppia l’applauso tra i detenuti protagonisti di questa avventura. È gioia pura; è la ricompensa di un anno di impegno quotidiano, è la mission della Cooperativa. Che crede nei valori della partecipazione, dell’innovazione, del lavoro come integrazione sociale, e soprattutto della collaborazione con il territorio per rispondere ai problemi emergenti della collettività con priorità costante alla centralità della persona. Nel Carcere la Cooperativa La Sfera - la presidente si chiama Bruna Penasa - è presente con esperienze innovative di agricoltura sociale che vengono definite "rigenerazioni" in quanto finalizzate alla creazione di un network con i protagonisti chiave del territorio: in questo caso i vicini di casa sono i detenuti. Dietro le sbarre vi lavorano part time sei uomini che hanno seguito un corso di formazione con incontri mirati alla presenza di esperti. Il progetto di agricoltura sociale è stato vagliato dal direttore Valerio Pappalardo e approvato dall’Area Educativa il cui responsabile è Tommaso Amadei. La loro è un’attività agricola di precisione, di fatica e di pazienza. Il gruppo tratta i fiori dello zafferano uno ad uno con delicatezza; li raccolgono a mano al mattino presto quando la corolla non è ancora aperta. Successivamente ne recidono la base e ne staccano con cura gli stimmi, cioè la parte terminale di colore giallo intenso, che sistemano su una griglia per l’essiccazione. Anche l’operazione di confezionamento dei preziosi "fili" in vasetti di vetro viene svolta all’interno del Carcere di Spini di Gardolo. La produzione dello zafferano biologico, cioè privo di concimi chimici, era stata avviata in via sperimentale nell’anno 2015. Lo scorso anno, tra settembre e novembre, i detenuti hanno ottenuto circa 500 grammi di zafferano, un raccolto record. La Sfera si è subito attivata per trasformare quel lavoro in un’opportunità per il riscatto di uomini che hanno sbagliato: un capolavoro di ognuno, una speranza per tutti. Nel carcere trentino tra sacche di emarginazione e solitudine non solo zafferano. Nelle aree verdi della struttura penitenziaria, 9.000 metri quadrati di cui la metà coltivata, il brand "Galeorto" - ha ottenuto il marchio qualità trentino Icea rilasciato dalla Provincia autonoma di Trento - comprende la coltivazione di piante officinali quali il fiordaliso, la malva, la calendula, la lavanda, la salvia, il rosmarino, il timo. Inoltre i detenuti sono impegnati nella produzione di cavoli cappuccio trasformati in crauti dall’Azienda Agricola Biologica Debiasi Stefano di Rovereto. Due sono i prossimi obiettivi della Cooperativa: far crescere l’attività coinvolgendo un maggior numero di detenuti e ampliare la coltivazione a tutto il terreno messo a disposizione dalla struttura penitenziaria. Il marchio "Galeorto" sarà presente all’Expò Riva Hotel dal 5 all’8 febbraio, presso lo stand Gestor. Ma va detto che chiunque può contribuire a sostenere il progetto solidale acquistando le confezioni di zafferano con il marchio "Galeorto" presso la Cooperativa La Sfera o i crauti presso il negozio Mandacarù - Altromercato in Piazza Fiera. Per informazioni si può contattare: telefono 0461 983488 oppure consultare i siti galeorto.org e lasfera.org. Nuoro: lavori di pubblica utilità per condannati e detenuti La Nuova Sardegna, 23 gennaio 2017 I Comuni di Macomer e Dualchi hanno stipulato una convenzione col tribunale di Oristano che consentirà a persone condannate per i reati previsti dalla legge a scontare la pena eseguendo lavori di pubblica utilità. Si tratta dei primi due comuni del cento Sardegna che si avvarranno della possibilità di utilizzare l’attività non retribuita in favore della collettività da parte di persone condannate a pene pecuniarie o alla reclusione alle quali sarà evitato un esborso di somme di cui magari non dispongono o di finire in carcere. L’espiazione della pena con forme alternative da parte di soggetti che ne facciano esplicita richiesta è prevista da un decreto legislativo entrato in vigore nel 2000, nel quale sono indicati i reati per i quali è consentita, a partire dalla violazione al codice della strada. L’impiego da parte dei Comuni di persone condannate ammesse a scontare la pena con forme alternative non avrà costi per gli enti che le utilizzano e non costituirà rapporto di lavoro, per cui non spetterà nessuna retribuzione per l’attività prestata. A fronte degli aspetti di ordine sociale, indubbiamente importanti, dall’accordo derivano utilità e vantaggi per gli enti, i quali potranno avvalersi di manodopera e competenze a titolo gratuito per eseguire lavori e per portare a compimento opere e interventi senza costi aggiuntivi per il bilancio, se non quello minimo dell’assicurazione Inail contro gli infortuni. "È un atto di umana fiducia verso chi ha sbagliato con l’obiettivo del recupero e il reinserimento nella società - spiega il sindaco di Macomer, Antonio Succu, ma è anche un aiuto alla società da parte di chi ha un debito nei suoi confronti perché ne ha violato le leggi e un vantaggio per gli enti che possono avvalersi senza costi di manodopera da impiegare il lavori utili per la comunità". Dello stesso parere è anche il sindaco di Dualchi. "È un’opportunità alternativa rispetto alla detenzione in carcere - spiega Ignazio Piras - e un’utilità vera per gli enti che la colgono. È utile per la manutenzione del verde e degli immobili comunali, ed è utile per i detenuti che possono imparare un mestiere evitando di stare in carcere". La convenzione stipulata con il Tribunale ha una durata di un anno e sarà tacitamente rinnovata per tre anni, un arco di tempo sufficiente per programmare l’impiego della manodopera che sarà messa a disposizione dei comuni. Nell’accordo sono indicate le attività nelle quali potranno essere impiegate le prestazioni delle persone condannate e ammesse a espiare la pena con forme alternative: cura e manutenzione delle aree verdi comunali e manutenzione del patrimonio pubblico. Busto Arsizio: carcere, Radicali e Camera penale vedono passi avanti ma tanto da fare varesepress.info, 23 gennaio 2017 Gianni Rubagotti e Diego Mazzola, militanti radicali hanno visitato il carcere della città varesina sabato scorso insieme al Presidente della Camera penale di Busto Arsizio Roberto Aventi. Con loro Lorenzo Parachini, Consigliere della Camera penale di Busto Arsizio, Gian Piero Colombo (Pd), Assessore alle Politiche Sociali di Legnano e Giovanni Giuranna, Consigliere Comunale della lista civica Insieme per cambiare di Paderno Dugnano. Hanno incontrato il Direttore Orazio Sorrentino e sono stati guidati nella loro visita e sono stati guidati da Rita Gaeta, Responsabile dell’Area Trattamentale. "Stiamo facendo questo giro di visite nelle carceri per ringraziare i quasi 20.000 detenuti che hanno digiunato durante la marcia per l’Amnistia del 6 novembre scorso." ha dichiarato Rubagotti "Queste iniziative sono possibili perché esiste un partito che si chiama Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che chiuderà fra 11 mesi se non avrà 3000 iscritti, ora ne ha 400. A ciascuno la scelta di permettere che la lotta per il diritto di tutti allo stato di diritto continui o finisca munendosi come prima o seconda tessera di partito di quella del Partito Radicale". "La Camera Penale di Busto Arsizio ringrazia i radicali che ci hanno permesso di rientrare nel carcere dove eravamo già stati in altre visite soprattutto per monitorare le condizioni di vita che hanno i detenuti all’interno" ha aggiunto Roberto Aventi "Dobbiamo dire che,insieme al collega Lorenzo Parachini dell’Osservatorio Carcere della nostra camera penale abbiamo notato un deciso miglioramento della struttura con il rifacimento dei bagni interni di alcune celle e alcune sezioni e aree comuni che sono state rifatte e hanno un aspetto decisamente più gradevole di quelle precedenti. Questo stride con la parte ancora da ristrutturare in cui è vero che ci sono molti meno detenuti alle precedenti perché si è passati da 3 persone in una cella a 2 persone. Rimangono delle condizioni che sicuramente sono di disagio e di degrado. Ci hanno detto che qualcosa è stato fatto e altro resta da fare. Aspettiamo questo altro che si deve fare." Lorenzo Parachini ha puntualizzato "Effettivamente c’è un grosso divario tra la parte ristrutturata e quella ancora da rivedere che tra l’altro coincide con la sezione in cui si trovano i detenuti in attesa di giudizio. E questo è ancora più intollerabile" Era presente anche Giovanni Giuranna, consigliere comunale di Paderno Dugnano. "Per me è la prima visita a un carcere, ho accolto con molto piacere la proposta di Gianni Rubagotti del Partito Radicale. Ai cartelli di limite invalicabile che si trovano fuori da un carcere deve corrispondere invece la possibilità di entrare di conoscere di instaurare quello che è un rapporto tra la città, sono esponente di una lista civica, quindi un rapporto fra i cittadini che sono liberi nella società e cittadini che sono attualmente detenuti. Qui ne abbiamo incontrati alcuni, in totale sono 370 circa, secondo quello che ci ha riferito il Direttore, ho la sensazione che questo percorso per me debba sicuramente approfondirsi nel senso che c’è il grosso tema dei parenti dei detenuti e credo davvero che anche la politica locale possa e debba fare entrare il carcere nella propria agenda" Diego Mazzola, iscritto al Partito Radicale, ha aggiunto "Qui l’amministrazione fa quello che può però non si deve dimenticare il numero di detenuti eccessivo rispetto alla capacità e poi il resto. Va bene la Cioccolateria ma bisogna interessare il sindacato per il problema del lavoro e preparare i detenuti a uscire dal carcere. Molti non saranno pronti a uscire quindi molti reitereranno il reato. Poi io sono sempre convinto che il carcere sia il sistema migliore per indurre una società a violare i diritti umani". L’Assessore Colombo ha dichiarato "Ho potuto constatare personalmente quali sono le difficoltà ma anche le sperimentazioni e le innovazioni in atto all’interno del sistema carcerario per cercare di operare in un’ottica di recupero e reinserimento sociale e lavorativo di chi è costretto a fare questa esperienza della detenzione All’interno di questo carcere ho visto che ci sono cooperative e realtà produttive che permettono ai detenuti di acquisire delle competenze che possono poi servire per un loro percorso di reinserimento. Come amministratore grazie a questa visita ho avuto la possibilità di trarre degli spunti interessanti per una possibile collaborazione fra i servizi sociali e i servizi penitenziari sempre in un’ottica di recupero e reinserimento sociale degli ex detenuti. Sono progetti in cui in parte siamo già coinvolti. In questi anni abbiamo partecipato a delle progettazioni interessanti finanziate dalla Regione. Intendiamo proseguire su questa strada". Altri problemi aperti sono una sezione per la fisioterapia dei detenuti che hanno bisogno di riabilitazione con 8 celle e solo 2 persone che la utilizzano e il fatto che il 70% dei detenuti siano stranieri presenti, di molte lingue diverse (c’è un solo mediatore culturale), il fatto che ci siano 2 persone sulle 6 necessarie nell’l’area trattamentale. Note positive sono "Dolci Libertà", una cioccolateria interna che fa prodotti di pregio (senza glutine) e Casa Onesimo, un luogo finanziato dalla Regione che permette ai detenuti stranieri che hanno la famiglia lontana e quindi non potrebbero avere permessi premio di goderne. Teramo: Rita Bernardini visita il carcere di Castrogno "sfollati 120 detenuti… ma dove?" certastampa.it, 23 gennaio 2017 Rita Bernardini visiterà oggi il carcere teramano di Castrogno. La visita si svolgerà dalle ore 15.30. Saranno presenti, tra gli altri, il presidente Adsu, il prof. Paolo Berardinelli con il direttore Antonio Sorgi. La visita del Partito Radicale al carcere di Teramo fa seguito alle varie note di denunce arrivate dai sindacati dove, per l’ennesima volta si evidenziavano le problematiche all’interno della struttura: dal sovraffollamento alla mancanza di personale. Nel frattempo sarebbero stati sfollati 120 detenuti, "ma dove?" si domanda e scrive su Facebook la Bernardini. "Rimangono un centinaio di reclusi al 41-bis e altri nella sezione protetta. Con me ci saranno il Rettore dell’Università, Luciano D’Amico, Il Prof. Paolo Berardinelli, i compagni e le compagne di Amnistia Giustizia Libertà Orazio Papili, Federica Benguardato, Laura De Berardinis e i compagni del Prntt Bachisio Maureddu, Giovanni Zezza", scrive la Bernardini. Sassari: legalità e carcere, incontri con gli studenti sardanews.it, 23 gennaio 2017 Seconda edizione del progetto che coinvolge Comune, scuole e istituzioni giudiziarie. Mercoledì incontro al Liceo Azuni. Un ciclo di incontri nelle scuole per accompagnare gli studenti e i docenti nell’esplorazione delle diverse fasi e dei diversi interventi a cui è sottoposta una persona dal compimento del reato all’espiazione della pena. Sono gli appuntamenti del progetto "Legalità e carcere: una riflessione a più voci" che quest’anno ripropone un secondo ciclo di iniziative che vogliono essere occasione di dialogo e confronto sul tema dell’educazione alla legalità. A essere coinvolti sono l’Amministrazione comunale, con il garante delle persone private della libertà personale, il carcere di Bancali, l’Uepe, l’Università di Sassari, la Camera penale, il Liceo "Azuni", il Liceo "Spano", l’Istituto Alberghiero e l’Istituto d’istruzione superiore "Pellegrini". Mercoledì 25 gennaio un nuovo appuntamento all’Azuni. A fare da filo conduttore saranno due parole chiave legalità e carcere. "Agire nella legalità - afferma il sindaco Nicola Sanna - è una dimensione culturale che si connota nella regolazione dei comportamenti individuali. È importante allora avviare con i giovani un confronto che consenta di trasmettere i valori giusti della nostra società. Perché se legalità è rispetto delle leggi e delle relazioni con gli altri, il carcere è il punto d’arrivo dell’illegalità, privazione della libertà personale, limitazione del proprio essere sociale". "Si tratta di sottolineare - spiega Mario Dossoni, garante delle persone private della libertà personale - l’esigenza di una scelta di comportamenti consapevoli che hanno conseguenze nella vita civile e gli aspetti di esclusione sociale che ne possono derivare. Inoltre, l’obiettivo condiviso tra amministrazione comunale e carceraria è quello di far "sentire" il carcere parte integrante della vita sociale e culturale della città". "È necessario comprendere - aggiunge la presidente del Consiglio comunale Esmeralda Ughi - come si articola il percorso che le persone "ristrette" seguono nella struttura carceraria o all’esterno di essa. Perché una cultura della legalità non può prescindere dal legame tra esclusione e ritorno all’interno del contesto sociale". Gli appuntamenti. Come si svolge un processo e quali sono gli elementi che portano a una condanna o all’assoluzione dell’imputato saranno i temi dell’incontro in programma mercoledì 25 gennaio alle 11,30 al Liceo Azuni, al quale parteciperà il presidente del Tribunale di Sassari Pietro Fanile. Lo stesso tema è stato già affrontato nella settimana appena trascorsa in due incontri che hanno messo studenti e docenti a confronto con magistrati, avvocati e persone detenute. E così giovedì scorso all’Istituto Alberghiero, dopo i saluti della presidente del Consiglio comunale Esmeralda Ughi, a parlare con i ragazzi è stato l’avvocato Giuseppe Conti, mentre venerdì al Liceo Scientifico "Spano" a incontrare gli studenti è stata Silvia Guareschi, magistrato del Tribunale di Sassari. Gli argomenti. Nel ciclo di incontri prima della pausa festiva si è parlato, con la testimonianza di persone detenute e persone che hanno espiato la pena, della vita in carcere e, con il contributo della direttrice r di altri funzionari dell’Ufficio Esecuzione penale esterna, delle misure alternative alla detenzione. Gli incontri proseguiranno nei prossimi mesi con i magistrati della procura della Repubblica e gli avvocati della Camera penale per analizzare l’attività investigativa rivolta individuare e definire un reato, e con i magistrati del Tribunale di Sorveglianza per approfondire le problematiche dell’esecuzione penale e le condizioni della detenzione. Il progetto prevede un concerto finale a cui parteciperanno tutti gli Istituti protagonisti dell’iniziativa. Le canzoni saranno alternate da interventi degli studenti e dei docenti. Dove nasce la collera omicida dei ragazzi di Alessandra Graziottin Il Mattino, 23 gennaio 2017 Uso smodato dei social, droghe e distanza affettiva: cocktail micidiale. Violenti fatti di cronaca, tra cui l’assassinio di due genitori rei di criticare i cattivi risultati scolastici del figlio, ci chiedono di riflettere sull’incremento della collera/rabbia, dell’aggressività e del rancore in molti giovani. L’adolescenza è da sempre un momento "rivoluzionario", dal punto di vista biologico e comportamentale. Fattori contestuali attivi per l’ultima generazione (quella dei 25 anni), sono invece del tutto nuovi nel pano rama evolutivo della nostra specie, che ha circa ottomila generazioni alle spalle. Collera e rabbia esplodono per un trio nefasto: uso di sostanze psicoattive (alcol e droghe) ad età sempre inferiori; uso crescente dei social media, con aumento del tempo dedicato alla vita virtuale, iper stimolazione visiva e perdita di esperienze reali; progressiva riduzione delle ore di vicinanza e tenerezza con madri e padri fin dai primi mesi. Quest’ultima carenza ferisce il bisogno di attaccamento affettivo, con una percezione di solitudine - e di rabbia per "essere lasciato solo/a" - che può diventare il nucleo di un disagio emotivo dagli esiti imprevedibili. Di certo rende più difficile la maturazione dei bisogni di autonomia, di identità sessuale e di autorealizzazione. Questo trio intercetta e complica le conseguenze del picco puberale di testosterone, da cui dipende la comparsa dei caratteri sessuali secondari, coerenti o dissonanti con l’identità di genere. La maturazione genitale, con aumento delle dimensioni genitali, può essere motivo di orgoglio o di umiliazione nel gruppo, a seconda delle dimensioni raggiunte. La comparsa di ginecomastia, ancorché transitoria, ma più accentuata in adolescenti sovrappeso od obesi, può costituire un nucleo di vulnerabilità dell’identità, dell’umore e delle dinamiche di gruppo. L’adolescente ha le prime esperienze di piacere sessuale post-puberale dove si sommano vertigini diverse: da un lato l’esperienza orgasmica masturbatoria e relazionale, spontanea o accentuata dall’uso di sostanze psicoattive come la cocaina. Dall’altro, è potente l’effetto sull’immaginario erotico dell’adolescente, e sulla sua percezione di "normalità", di video erotici trovati sul web. Il rischio è la costruzione di un "ideale dell’Io" virtuale che aumenta la vulnerabilità dell’adolescente alle défaillance e alle delusioni della vita erotica reale, mentre aumentale aspettative nei confronti delle performances dei/delle partner. Il testosterone ha un effetto potentissimo anche sul sistema dopaminergico, che modula le emozioni appetitive e di piacere, che accendono il desiderio: di fare, conquistare, di dominare il gruppo (o meno), e l’emozione aggressiva di collera-rabbia, particolarmente esplosive nell’adolescenza e prima giovinezza. Le altre due emozioni fondamentali di paura e di panico hanno invece una modulazione soprattutto estrogenica. Ogni emozione si esprime con un movimento: la via appetitiva con un movimento "verso" la cosa o persona desiderata, l’aggressività collerica con un movimento "contro". Se il movimento associato all’emozione non viene espresso e canalizzato, o è inibito, causa pesanti conseguente sulla salute fisica e mentale. Il testosterone "carica" anche la via motoria (area nigro-striatale) che spiega l’aumento di energia fisica, canalizzata in attività sportive e agonistiche, oppure di guerriglia urbana. L’eccesso di vita virtuale e la riduzione del gioco e dello sport privano l’adolescente del fisiologico scarico motorio associato alle emozioni di comando fondamentali: questo si traduce da un lato in aumento di aggressività, collera/rabbia e rancore più difficili da controllare, dall’altro in iperattività non finalizzata e deficit di attenzione. Fattori comportamentali possono alimentare la neuro-infiammazione e la vulnerabilità cerebrale per aumentata produzione di citochine infiammatorie: tra questi, l’aumento del cibo spazzatura; l’aumento del peso corporeo, con incremento di sostanze infiammatorie da parte del tessuto adiposo, una vera bomba atomica biochimica; l’aumento di uso di sostanze neurotossiche, quali alcol e droghe; la riduzione del movimento fisico: un’ora di gioco aerobico e di camminata/- corsa può ridurre l’infiammazione sistemica fino al 30%; la riduzione cronica del sonno, grande "calmante" naturale e potente custode della salute e della vita psico-emotiva. La carenza di sonno aumenta l’irritabilità, l’aggressività e l’intolleranza. A ciò si aggiunga il marcato ritardo, fino a dieci anni, nella maturazione del lobo frontale e, di conseguenza, della capacità di controllare gli impulsi, in particolare sessuali e aggressivi. Questo ritardo maturativo è multifattoriale, ma riconosce un ruolo critico alla difficoltà/incapacità di genitori, insegnanti e adulti in generale di percepire la disciplina non come repressione, ma come canalizzazione affettuosa delle energie e dei talenti del piccolo/a per farli sbocciare al meglio. La percezione di "mancanza di futuro e di opportunità", esasperata dal continuo confronto mediatico con il successo e le brillanti vite altrui, agisce infine da fattore esplosivo nelle classi sociali più disagiate e negli immigrati. La crescente collera/rabbia dei giovani pone oggi una sfida sociale difficile e complessa su molteplici fronti: continuiamo a ballare e chiacchierare sul Titanic, o riusciremo ad agire bene e in tempo? Migranti. La stretta del governo piace: il 60% a favore di Cie e lavori utili di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 23 gennaio 2017 Consenso alto per le proposte di Minniti anche da chi vota M5S, FI e Lega. Negli ultimi tre anni il tema dei migranti ha assunto un’importanza crescente tra le priorità degli italiani passando dal 3% del 2014 al 24%. Al vertice della graduatoria permangono i temi dell’occupazione, della crescita economica e della protezione sociale. Il tema dei migranti è fortemente mediatizzato: da sempre suscita preoccupazione per la sicurezza, per la concorrenza con i ceti meno abbienti nell’accesso ai servizi e al lavoro e, in tempi recenti, per il rischio terrorismo. Ma nel contempo, spostando l’attenzione dal piano generale all’esperienza diretta con le persone straniere (dalla badante, all’operaio, al commerciante) i timori si attenuano. Di sicuro permane la percezione che siamo in presenza di un flusso inarrestabile che investe di responsabilità il governo e l’Ue che, non a caso, sta registrando un forte calo di popolarità non solo per le politiche di austerità ma anche per l’incapacità di gestione della questione migratoria. E poco importa che una larga parte di chi approda in Italia siano in transito verso altri Paesi. O che il numero degli arrivi in percentuale sul totale della popolazione residente sia nettamente inferiore rispetto ad altri Paesi. Gli aspetti emotivi prevalgono: le immagini dei barconi e dei Cie, i centri di identificazione ed espulsione, alimentano la convinzione che la situazione sia incontrollata. Le proposte - In questo contesto hanno destato molta attenzione le proposte del neo ministro degli Interni Marco Minniti, di cui è a conoscenza la stragrande maggioranza dei cittadini (solo il 22% le ignora). I centri - La prima riguarda i Cie, con la creazione di piccoli centri in ogni regione, con al massimo cento persone, all’interno dei quali ci saranno poliziotti che procederanno alle pratiche e pianificheranno i rimpatri. È una proposta che incontra un largo consenso: due su tre (68%) si dichiarano a favore, solo 17% contrari. È un consenso indipendente dall’area politica di appartenenza. Solo tra i leghisti si registra un dissenso più elevato, sebbene minoritario (30%). Il favore per questa proposta è dovuto soprattutto alla possibilità di accelerare i controlli e gli eventuali rimpatri ma anche alle dimensioni dei centri, più piccoli rispetto a quelli attuali, spesso stracolmi. Gli obblighi - La seconda proposta avanzata da Minniti riguarda la possibilità di inserire i migranti che chiedono un permesso di asilo nei lavori socialmente utili e l’obbligo di frequentare corsi di italiano. Anche qui il consenso è netto (63%) anche se i contrari sono un po’ più numerosi (24%) rispetto ai Cie, probabilmente per la preoccupazione che si tratti di posti di lavoro "sottratti" alla popolazione italiana. Il consenso prevale nettamente tra tutti gli elettorati con l’eccezione dei leghisti (contrari per il 47%). Molti cittadini sono convinti che si tratti di una forma di restituzione da parte dei migranti per quanto ricevono dal nostro Paese. La popolarità - Le proposte, ancorché da approvare, rendono popolare il ministro Minniti? Al momento solo in parte: il 31% dà un giudizio positivo, il 35% negativo e il 34% non si esprime; l’indice di gradimento si attesta al 47% e risulta comunque tutt’altro che trascurabile se confrontato con quello di altri esponenti politici. Le opinioni sono influenzate soprattutto dall’orientamento politico, tanto è vero che quelle positive prevalgono tra gli elettori della maggioranza mentre all’incirca uno su due tra gli elettori di M5s, Lega e FI si esprime negativamente. Migranti. Il grande business della tratta di Nello Scavo Avvenire, 23 gennaio 2017 L’inchiesta di Loretta Napoleoni: ecco come le organizzazioni criminali africane si finanziano con il mercato di esseri umani. Le responsabilità dei governi e il richiamo di papa Francesco. Inneggiano a un dio della guerra, ma in realtà guardano al portafogli. "Le attività criminali e i profitti che queste generano corrompono i membri delle organizzazioni armate, spingendoli a deviare dagli obiettivi politici. I confini tra gli scopi bellici e i mezzi illegali usati per raggiungerli, tra terrorismo e criminalità organizzata, si fanno labili". Ma chi controlla questo giro d’affari? C’è un collegamento diretto con ciò che accaduto dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Twin Towers? Mercanti di uomini. Il traffico di ostaggi e migranti che finanzia il jihadismo è il nuovo libro di Loretta Napoleoni (Rizzoli, pagine 360, euro 18,50) che racconta come le vite umane vengano "valutate" in termini economici e come alcune scellerate politiche occidentali alimentino tanto il mercato dei riscatti quanto il traffico dei clandestini. Più che il petrolio o le armi, il vero business, inesauribile e sempre in crescita, è quello delle vite a perdere. I predoni del deserto e i pirati del Corno d’Africa lo hanno capito, dirottando i propri affari e mantenendo intatte le strutture logistiche. "Dopo la droga, la tratta di esseri umani è ormai il maggiore racket criminale nel continente africano", sostiene Napoleoni che in mesi di ricerche ha raccolto un mucchio di prove corroborate da decine di testimonianze. A cominciare dai nomi dei più potenti e sconosciuti Signori della guerra. Stando alle stime dell’Interpol, nel 2004 chi controllava le rotte dell’immigrazione in Costa d’Avorio guadagnava tra 50 e 100 milioni di dollari l’anno, e gli intermediari in Senegal ne incassavano oltre 100. "Oggi queste cifre si sono decuplicate - spiega Napoleoni - per coloro che gestiscono la tratta di migranti dal Medio Oriente e dall’Asia all’Europa. Nel 2015, solo in Libia questa attività ha fruttato circa 300 milioni di euro netti. Già nel 2004 il trasferimento di clandestini dall’Africa occidentale all’Europa lungo le rotte transahariane era assai più redditizio del rapimento di stranieri". Alla fine del 2012 la pirateria somala è andata in crisi. "Il settore dei trasporti marittimi e la comunità internazionale - ricorda la studiosa - erano passati a un contrattacco efficace". I pirati e i loro investitori non hanno tardato "a rendersi conto che all’industria dei dirottamenti e dei sequestri restavano solo pochi anni di vita, perciò hanno cercato altre opportunità di business, complementari, per esempio la tratta di migranti verso lo Yemen. Come i loro omologhi nel Sahel e i jihadisti, sarebbero diventati ben presto mercanti di uomini, pronti ad arricchirsi grazie alla tragedia della diaspora somala ed est-africana". Nella Libia balcanizzata, trafficanti di uomini e rapitori di occidentali sono due facce della stessa medaglia. Com’è accaduto con i due piemontesi dell’azienda "Con.I.Cos" rapiti e rilasciati nei mesi scorsi nel Sud del Paese, lungo il crocevia delle rotte migratorie. Per liberarli sarebbero stati pagati 4 milioni. Palazzo Chigi ha sempre smentito. Ma Napoleoni, che ha incrociato svariate fonti, non usa il condizionale: "In poco più di un mese i sequestratori si sono assicurati un ottimo guadagno. E dato che le trattative sono state condotte dai Fratelli Musulmani, molto vicini alla milizia libica dei rapitori, anche loro ci hanno guadagnato. Una parte del riscatto è finita poi nelle casse delle "agenzie" algerine, legate ai servizi segreti di quel Paese, una sorta di organizzazioni paramilitari che hanno agito a loro volta da intermediari. La Farnesina ha gestito, come sempre, la logistica e i pagamenti". Ma in Mauritania e nel Mali l’impennata dei rapimenti ha determinato il crollo del turismo. Tutti potenziali ostaggi occidentali perduti. In questo scenario, i boss dei rapimenti hanno colto al volo "le nuove opportunità di guadagno generate dalla progressiva destabilizzazione politica del-l’Africa occidentale. All’alba del nuovo millennio, la principale risorsa della regione è diventata la tratta di migranti". Secondo Napoleoni, "non ci sono dubbi che la fortezza dell’Europa unita abbia cominciato a sgretolarsi dall’interno, sotto la pressione di milioni di sfollati, vittime di un’insensata politica estera che dura ormai dall’inizio del millennio". L’unico ad aver compreso come stanno davvero le cose "è Papa Francesco - insiste Loretta Napoleoni -, il quale non solo denuncia la "terza guerra mondiale a pezzi", ma ha strappato il velo d’ipocrisia intorno ad un sistema di potere globale che si autoalimenta con i conflitti". Ci guadagnano i produttori di armi, ci guadagnano le varie milizie che producono profughi su cui lucrano attraverso il contrabbando di esseri umani, ci guadagnano le grandi potenze che si reggono sull’instabilità. Finché questo scenario perdurerà, i mercanti di uomini "continueranno a fare soldi sulla pelle delle persone disperate fino alle porte delle fortezze occidentali, un business che seguiterà a finanziare il jihadismo dentro e fuori dalle nostre nuove mura". Migranti. L’orrore sui profughi in Libia oltre le fotografie digitali di Thea Scognamiglio La Stampa, 23 gennaio 2017 Sono foto che circolano sul web, che possono vedere tutti, ma per i profughi rappresentano quello che hanno vissuto in Libia, nel loro viaggio verso l’Europa. In Libia rapimenti, stupri, torture, omicidi, sono realtà quotidiana. Devastanti sono i particolari delle torture, che la Dottoressa Vitale ascolta nei centri di accoglienza dove presta servizio. Uomini in abiti civili che sfilano con le mani dietro alla nuca, colpevoli solo di aver desiderato un avvenire migliore in Europa. Subito dopo, quegli uomini saranno corpi senza vita, lasciati nella polvere di un paese senza legge. Chi riesce a sopravvivere racconta storie di colpi di martello sotto ai piedi, sacchetti di plastica incendiati e fatti gocciolare sulle schiene nude, violenze sessuali. Gli stupri non sono episodi, sono lo standard: consapevoli di questo, le giovani donne in partenza dal corno d’Africa, hanno cominciato ad iniettarsi ormoni in dosi altissime, per proteggersi dalle gravidanze, visto che non potranno proteggersi dalla violenza. La Libia è oggi un passaggio obbligato per l’Europa per chi fugge dall’Africa sub-sahariana, e da quando la rotta balcanica si è chiusa, lo è anche per la Siria e il Medio-Oriente. Attualmente in Libia si trovano oltre 264mila persone in fuga da guerra e povertà, come riporta l’Organizzazione internazionale delle migrazioni. Caso Regeni, l’Egitto dice sì all’invio di esperti italiani La Repubblica, 23 gennaio 2017 Valuteranno i filmati delle telecamere di sorveglianza della stazione della metropolitana nella zona di Dokki, al Cairo, dove Giulio passò il 25 gennaio 2016. Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso in Egitto lo scorso anno, prima di scomparire il 25 gennaio 2016 al Cairo passò davanti alle telecamere di sorveglianza nella stazione della metropolitana nella zona di Dokki. Gli spezzoni video sarebbero stati soppressi e l’Egitto afferma di non avere i mezzi per procurarsi il programma necessario a recuperarli. Quelle immagini ora potranno essere visionate da esperti italiani ed esperti dell’unica azienda tedesca specializzata nel recupero di questo tipo di filmati. Il procuratore generale egiziano, Nabil Ahmed Sadek, ha infatti accettato la richiesta in tal senso della procura italiana. Lo riferisce l’agenzia Mena. Inoltre, sempre secondo l’agenzia Mena, "gli organi di sicurezza egiziana smisero di seguire" il giovane ricercatore dopo che, sulla base della conversazione con il rappresentante degli ambulanti "registrata da quest’ultimo e avvenuta prima della scomparsa del ricercatore italiano", "era emerso che la sua attività non riguardava la sicurezza nazionale egiziana". L’agenzia ricorda inoltre che, "in occasione dell’ultimo incontro a Roma, la delegazione della procura egiziana aveva consegnato a quella italiana le copie dei documenti richiesti dall’Italia e un cd contenente la conversazione tra Giulio Regeni e il rappresentante degli ambulanti". Il corpo di Regeni venne ritrovato nove giorni dopo la sua scomparsa nella periferia della capitale egiziana, con evidenti segni di torture e mutilazioni. Per mercoledì 25 gennaio, ad un anno esatto dalla scomparsa di Regeni, Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione. Oltre all’appuntamento principale presso l’università La Sapienza di Roma, nel corso del quale saranno letti estratti dei diari di viaggio di Regeni e interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori, nelle città italiane verranno accese delle fiaccole alle 19,41, l’ora in cui Giulio Regeni uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione prima della scomparsa. A Rovereto l’appuntamento è alle 19 in piazza Loreto, dove gli attivisti di Amnesty Rovereto e Alto Garda raccoglieranno anche firme sull’appello per chiedere "Verità per Giulio Regeni". Iran. Nessuno Tocchi Caino: 31 persone impiccate in soli quattro giorni La Repubblica, 23 gennaio 2017 Tra i giustiziati due donne e un minorenne. Obama, in extremis, prima della fine del suo mandato, commuta due condanne a morte. Intanto in Virginia un condannato per omicidio di 39 anni è stato eliminato con una iniezione letale, che però lo ha portato alla morte dopo mezz’ora di agonia. Esecuzioni in Bahrein. Almeno trentuno detenuti - si legge in un report di Nessuno Tocchi Caino - sono stati impiccati in Iran tra il 14 e 17 gennaio. In particolare, il 14 gennaio due prigionieri sono stati giustiziati nella prigione di Dizel Abad a Kermanshah - come riferisce la sezione iraniana di Human Rights Watch. Sono stati identificati come: Seifollah Hosnian, 33 anni, arrestato nel 2010 per possesso di due chili e 200 grammi di crack e un chilo e 80 grammi di metanfetamina; Tofigh Bahramnejad, 31 anni, arrestato nel 2012, sempre per droga. Sempre il 14 gennaio, almeno 14 prigionieri sono stati impiccati nel carcere centrale di Karaj per reati legati a possesso e traffico di stupefacenti. L’organizzazione umanitaria ha identificato dieci dei giustiziati: Mohammad Soleimani, Ali Ebadi, Ali Reza Moradi, Majid Badarloo, Omid Garshasebi, Ali Yousefi, Seyed Ali Sorouri, Ebrahim Jafari, Ali Mohammad Lorestani, e Mohsen Jelokhani. Dodici di questi prigionieri erano stati posti in isolamento l’8 gennaio, in attesa di essere giustiziati. Anche due donne tra i detenuti uccisi. Secondo un parente di uno dei giustiziati, tra i 14 messi a morte figurerebbero due donne, che erano state trasferite dal carcere di Gharchak a quello di Karaj per essere giustiziate. Non si conoscono le generalità delle due donne. Ancora il 14 gennaio, almeno cinque prigionieri sono stati impiccati nel carcere Rajai Shahr di Karaj, nel nord dell’Iran. Fonti vicine all’organizzazione Iran Human Rights hanno reso noto che i cinque erano stati riconosciuti colpevoli di omicidio e Moharebeh (guerra contro Dio). Sempre Iran Human Rights è riuscita a conoscere le generalità di quattro dei cinque giustiziati: Siamak Shafiee, Abouzar Alijani, Saeed Teymouri, e Reza Naghizadeh. A morte anche un minorenne. Il 15 gennaio altri due prigionieri, identificati come Akbar K. e Morteza H., sono stati giustiziati nella prigione centrale di Qazvin per traffico di droga, ha annunciato Ismail Sadeqi Niaraki, procuratore della città. Il 15 gennaio Arman Bahr Asemani è stato impiccato nella prigione di Kerman insieme a un co-imputato adulto, Shams Allah R. Nato il 10 febbraio 1997, Asemani era minorenne al momento dell’omicidio del 2012 per cui lui e Allah R. sono stati arrestati. La stampa iraniana ha incentrato la notizia sul caso su Allah R., l’adulto, con nessun riferimento ad Asemani, ha riportato la HRANA. La Fondazione Abdorrahman Boroumand ha documentato almeno 122 esecuzioni di minorenni in Iran dall’inizio del 2000. Il 16 gennaio un prigioniero è stato impiccato in pubblico nel villaggio di Bektash, nei pressi della città iraniana di Miandoab. Lo hanno reso noto fonti ufficiali iraniane, secondo cui il l’uomo era stato riconosciuto colpevole degli omicidi di cinque membri di una stessa famiglia, commessi nell’estate del 2016. Usa - Obama commuta due condanne a morte. L’ormai ex presidente Barack Obama ha commutato due condanne a morte, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, la condanna federale di Abelardo Arboleda Ortiz e quella militare di Dwight J. Loving. Come è noto, è consuetudine dei presidenti degli Stati Uniti concludere i loro mandati promulgando una serie di provvedimenti di clemenza. Il 17 gennaio, 3 giorni prima del giuramento del nuovo Presidente, Donald Trump, Obama ha emesso 209 commutazioni e 64 grazie. Per commutazione si intende abbreviare una condanna, per grazia si intende disporre l’immediata scarcerazione per effetto del "perdono presidenziale". Il caso che più ha attirato l’attenzione dei media è quello del "soldato Manning", condannato a 35 anni per aver "passato" a Snowden e Assange le informazioni riservate del caso Wikileaks. Ma due casi hanno riguardato due condannati a morte. Abelardo Arboleda Ortiz, 50 anni, colombiano, venne condannato a morte in una corte federale del Missouri il 19 dicembre 2000 per concorso in un omicidio in un contesto di traffico di cocaina. Ortiz venne arrestato assieme a due connazionali, con l’accusa di aver ucciso, il 26 novembre 1998, Julian Colon. Intanto, in Virginia (Usa) giustiziato un uomo di 39 anni. Il 18 gennaio Ricky Gray, 39 anni, nero, è stato giustiziato con un’iniezione letale. Era accusato, e in parte aveva confessato, di aver ucciso diverse persone. Venne arrestato il 7 gennaio 2006 dopo il ritrovamento, all’interno della loro abitazione, dei cadaveri di Ashley Baskerville, 21 anni, Mary Tucker, 47 anni, e Percyell Tucker, 55 anni. Si ritiene che gli omicidi fossero avvenuti il 6 gennaio. Gray oggi però è stato giustiziato per altri omicidi, commessi una settimana prima. Era infatti stato condannato a morte il 23 ottobre 2006 con l’accusa di aver ucciso, nel corso di una rapina in abitazione il 1° gennaio 2006, due bambini, Stella e Ruby Harvey, di 9 e 4 anni. Nella stessa rapina furono uccisi anche i genitori dei bambini, Kathryn, 39 anni, e Brian, 49 anni. Per l’uccisione dei genitori Gray era stato oggi condannato all’ergastolo. Gray aveva anche confessato di aver ucciso la propria moglie, Treva Gray, in Pennsylvania nel novembre 2005. Dopo l’iniezione è passata mezz’ora prima di morire. L’esecuzione apparentemente non ha presentato problemi, anche se la fase preliminare, quella in cui gli aghi vengono inseriti nelle vene, secondo i testimoni è durata più del consueto, più di mezzora. I testimoni comunque non sono stati in grado di fornire informazioni, perché la fase preliminare viene effettuata dietro una tenda. Fuori dal carcere, il Greensville Correctional Center, hanno manifestato una mezza dozzina di attivisti contro la pena di morte, assieme ad una ventina di membri della famiglia Gray, che recentemente avevano insistito per un provvedimento di clemenza motivato con gravi abusi fisici e sessuali che Gray avrebbe subito da bambino, e che lo avrebbero portato alla tossicodipendenza da PCP (Fenciclidina). Gray diventa il 1° giustiziato di quest’anno in Virginia, il 112 da quando la Virginia ha ripreso le esecuzioni nel 1982, il 2° dell’anno negli Usa e il n° 1444 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. India - Il presidente ha commutato 4 condanne a morte. Il 15 gennaio il presidente indiano Pranab Mukherjee ha commutato in ergastolo le condanne a morte di quattro prigionieri, esaurendo così le richieste di grazia di condannati a morte pendenti dinanzi a lui. Quest’ultimo caso riguarda i quattro condannati a morte per la strage di Bara nel distretto di Gaya, dove 32 bramini Bhumihar furono uccisi dal fuorilegge Centro Maoista Comunista (MCC). Nel 2001, Krishna Mochi insieme ad altri tre, Nanhe Lal Mochi, Bir Kuer Paswan e Dharmendra Sing, alias Dharu Sing, furono condannati a morte in relazione al massacro. Furono processati in base alle disposizioni della Legge per la Prevenzione delle Attività Terroristiche. Nel 2002, la Corte Suprema confermò le condanne a morte con una maggioranza di 2 a 1. Fu il giudice M B Shah a dissentire dalla maggioranza, assolvendo Sing e commutando le condanne a morte degli altri tre in ergastolo. Baharein - Giustiziati tre sciiti per omicidio. Il 15 gennaio 2017: le autorità del Bahrein hanno giustiziato tre musulmani sciiti condannati per aver ucciso un agente di polizia degli Emirati e due poliziotti del Bahrein in un attentato dinamitardo del 2014. Le esecuzioni sono avvenute meno di una settimana dopo che più alta corte del Paese ha confermato la condanna a morte di Abbas al-Samea, Sami Mushaima e Ali al-Singace. L’agenzia di stampa statale BNA ha detto che gli uomini sono stati fucilati in presenza di un giudice, un medico e un religioso musulmano, nelle prime condanne a morte eseguite dal 2010. Dopo che le dimostrazioni della "primavera araba" guidate dalla maggioranza sciita del Bahrain sono state schiacciate dal Governo sunnita con l’aiuto dei suoi vicini arabi del Golfo, nel 2016 le autorità hanno intensificato il giro di vite sui suoi oppositori sciiti imprigionando attivisti per i diritti umani e membri del principale blocco d’opposizione e revocando al leader spirituale della comunità la sua cittadinanza.