Papa Francesco: l’ergastolo non risolve i problemi La Stampa, 22 gennaio 2017 Il Pontefice scrive una lettera ai detenuti di Padova: se la dignità "viene definitivamente incarcerata non c’è più spazio, nella società, per ricominciare". Un nuovo gesto del Pontefice argentino nei confronti dei detenuti. Papa Bergoglio ha ribadito più volte nella necessità di riflettere seriamente sulla condizione delle persone che hanno sbagliato nelle loro vite, e questa volta avverte che la dignità non può essere definitivamente incarcerata, nemmeno nei confronti di chi si trova dietro le sbarre. Papa Francesco ha scritto una lettera a detenuti del penitenziario Due Palazzi di Padova, in occasione del convegno organizzato da Ristetti Orizzonti. "Siete persone detenute - scrive il Papa nella missiva di cui riferisce Radio Vaticana - sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive". Francesco incoraggia alla riflessione, perché si realizzino "sentieri di umanità che possano attraversare le porte blindate" e affinché i cuori non siano mai "blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno". Urge una conversione culturale, avverte il Pontefice, "dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una ingiustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Se la dignità "viene definitivamente incarcerata", è l’avvertimento di Francesco, "non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". Papa Francesco scrive ai detenuti: mai incarcerare la dignità Avvenire, 22 gennaio 2017 Francesco in una lettera rivolta ai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova chiede loro di tenere accesa la luce della speranza: essere persone prima che detenuti. Serve una conversione culturale, perché i detenuti non smettano mai di essere prima di tutto persone con la loro dignità e affinché la pena non sia la fine della loro vita; affinché ciascuno possa aspirare a un avvenire migliore. Lo scrive papa Francesco in una lettera rivolta ai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, in occasione di un convegno sull’ergastolo, organizzato nei giorni scorsi da "Ristretti Orizzonti", il giornale realizzato dai reclusi di Padova. "Tenete accesa la luce della speranza", nonostante le tante fatiche, i pesi e le delusioni. Prega per tutti loro papa Francesco e chiede a chi ha "la responsabilità e la possibilità" di aiutare i detenuti a far sì che la speranza non si spenga, affinché l’essere persone "prevalga" sull’essere detenuti. "Siete persone detenute - scrive il Papa - sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive". Il messaggio di Francesco è un incoraggiamento alla riflessione, perché si realizzino "sentieri di umanità" che possano attraversare "le porte blindate" e affinché i cuori non siano mai "blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno". È urgente una conversione culturale, si legge ancora, "dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una ingiustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Se la dignità "viene definitivamente incarcerata", è l’avvertimento di papa Francesco "non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". Ma è in Dio, è la conclusione, che c’è "sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla misericordia che perdona". Parlamento in attesa di giudizio. Così il destino di una legislatura è nelle mani delle sentenze di Michele Ainis L’Espresso, 22 gennaio 2017 Chi comanda a Roma? Dipende dalle vendemmie, dalle annate. Nel 2011 comandava il capo dello Stato (Napolitano); nel 2014 il presidente del Consiglio (Renzi); nel 2017, a quanto pare, comanda la Consulta. L’11 gennaio, negando il referendum sui licenziamenti, ha allungato la vita della legislatura; il 24 gennaio, decidendo sull’Italicum, può stabilirne i funerali. Nel frattempo ogni sentenza genera un clima di suspense, s’iscrive in un giallo aperto a ogni finale; mentre la politica attende trattenendo il fiato, inerte, come paralizzata. Il vuoto d’iniziative sulla legge elettorale ne è la prova più eloquente. Ma è normale quest’alone d’incertezza sulle pronunce giudiziarie? In qualche misura, sì: il diritto non è una scienza esatta, altrimenti non ammetterebbe appelli e contrappelli. Oltremisura, no: un conto è la discrezionalità degli organi politici, un conto è il capriccio degli organi giurisdizionali. Quando i tribunali si sostituiscono invece ai Parlamenti, quando ne insidiano il primato, si manifesta un pericolo che può ben essere letale per le democrazie: il governo dei giudici, "government by judiciary". Quest’espressione risale all’alba del secolo passato, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Venne coniata nel 1914 dal Chief justice della Corte suprema del North Carolina, per denunciare i rischi del controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi ( "una perversione della Costituzione" ); in Europa fu esportata da un libro francese del 1921. Da allora in poi s’aprì una storia di baruffe, di colpi incrociati. Memorabile il conflitto che oppose il presidente Roosevelt alla Corte suprema degli Stati Uniti, durante gli anni Trenta, quando quest’ultima respinse alcune tra le riforme più significative del New Deal. Anche in Italia, però, non sono state rose e fiori. Non per nulla la Consulta rischiò d’essere abortita già in Assemblea costituente, per la veemente opposizione di Togliatti; ma la Dc difese con tenacia la creatura, salvo pentirsene alla prima occasione. Era il 1956, l’anno di "Lascia o raddoppia?"; la Corte costituzionale esordiva nel nostro ordinamento, sia pure con 8 anni di ritardo rispetto alla Costituzione; e calò subito la scure su alcune norme poliziesche ospitate nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Da qui l’ira di Tambroni, ministro democristiano dell’Interno; peraltro imitato perfino dal papa, Pio XII. Nei decenni successivi la protesta si è trasformata non di rado in rissa, in insulto, in improperio. Per esempio da parte di Pannella: "Corte Beretta" (1981), "strumento del regime" (1985), "suprema cupola della mafiosità partitocratica" (2004). Da parte di Berlusconi, con il suo ritornello sulla "Corte comunista". Da governatori regionali come Formigoni (nel 1997 dipinse la Consulta come un "organo partigiano, ulivista, anzi della parte peggiore e più retriva dell’Ulivo"). O anche da ministri come Guido Carli, che nel 1990 mise alla berlina le sentenze costituzionali "di spesa", presentando il conto dinanzi all’opinione pubblica: 53 mila miliardi in un decennio, quasi un quarto dell’intero deficit dell’epoca. D’altronde due anni prima, nel 1988, un’accusa analoga era risuonata per bocca di chi l’aveva preceduto al ministero del Tesoro. Il suo nome? Giuliano Amato, che adesso siede proprio alla Consulta. La vita è una giostra, come no. Ma su quella giostra i giudici costituzionali non si limitano a incassare calci e ceffoni dai politici; talvolta li restituiscono, aggiungendo qualche grammo di curaro. Come fece, per esempio, il presidente Granata, in una conferenza stampa del febbraio 1999: la Consulta aveva riscritto le norme sui pentiti, sollevando critiche e dissensi; lui reagì con parole di fuoco al fuoco sparato dal Palazzo. O come fece, con toni ancora più furenti, il giudice Romano Vaccarella. Nel maggio 2007 si dimise, puntando l’indice contro tre ministri (Chiti, Mastella, Pecoraro Scanio) e un sottosegretario (Naccarato). La loro colpa? Pressioni sull’inammissibilità del referendum elettorale, uno dei tanti su cui la Corte costituzionale si è trovata a giudicare in questi anni. Secondo Vaccarella, insomma, nell’occasione il controllato cercò di controllare il proprio controllore. In Italia può succedere, ma può anche succedere il contrario. Ossia che l’arbitro diventi giocatore, che una sentenza prenda il posto della legge. Specie se la legge latita per l’impotenza o per la negligenza dei politici. E il caso della stepchild adoption: negata dal Parlamento, concessa dalla Cassazione (sentenza n. 12962 del 2016). Ma già nel 1975 furono i giudici ordinari a codificare il diritto alla privacy (la legge intervenne soltanto nel 1996). E sempre i giudici, ben prima dei politici, nel 1988 offrirono tutela al convivente more uxorio. Una repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. È esattamente questo il morbo che intossica la nostra vita pubblica; e la Consulta, da parte sua, non è affatto vaccinata. Altrimenti non si spiegherebbero certe iniziative, certe scelte politiche travestite da responsi oracolari. Come il rinvio dell’udienza sull’Italicum: era fissata al 4 ottobre, ma un paio di settimane prima (il 19 settembre) sbucò un comunicato di rinvio, senza uno straccio di motivazione. Anche se la motivazione trapelava fra le righe: il referendum costituzionale di dicembre, guai a sovrapporre l’una e l’altra decisione. Così adesso, a referendum consumato (e fallito), la politica riprende il centro della scena. Ma è politica giudiziaria, è sentenza costituzionale, l’unica forma di politica che resta ancora in auge. Il bene e il male nelle mani del pm di Massimo Krogh Il Mattino, 22 gennaio 2017 Sul Corriere del 16 gennaio Pierluigi Batosta ha parlato di "totalitarismo giudiziario", e non sbaglia, ormai la chiave di lettura del bene e del male è nelle mani della magistratura, soprattutto inquirente. Sempre sul tema, il Mattino del 20 gennaio riporta il monito fatto all’Italia dalla Ue "Toghe in politica, servono limiti", chiarendo che l’organismo europeo ammonisce l’Italia sulla partecipazione dei magistrati alla politica e sulle lacune e contraddizioni della legislazione italiana m tema di separazione dei poteri e della necessaria indipendenza ed imparzialità dei giudici. Niente di più vero! Non può darsi torto al Consiglio d’Europa, l’invasiva ondata del giudiziario è divenuta da noi una costante; ma è cosa vecchia. Già dieci anni fa, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2007, scrivevo sul Corriere del Mezzogiorno che nell’88, cambiando il nostro rito processuale penale da (semi)inquisitorio in (semi)accusatorio non curammo di modellare con equilibrio il rapporto fra la sanzione penale e la concentrazione di poteri che andava a prodursi con il cambiamento del rito. Con il risultato di una delega rilasciata in bianco all’ordine giudiziario, progressivamente sfociata, attraverso l’applicazione, in esiti inaspettati eppure prevedibili. Il fenomeno traspare dalla capacità d’intervento sul sociale della giustizia penale. Si scopre nella forza costrittiva del diritto l’attitudine a incidere in modo diretto sul collettivo, nell’abbraccio condiviso dai media. Era ed è così, insomma da noi niente cambia. L’esperienza di Mani Pulite in qualche modo esaltò questo fenomeno, innescando una dilatazione delle indagini, con effetti sui tempi che non giovano alla trattazione dei processi. La quotidiana presenza mediatica dei giudizi è una rappresentazione illusoria di giustizia, visto che non vi corrisponde la certezza della pena. È una presenza che si materializza nel pubblico ministero, ufficio che non è deputato a fare giustizia, giacché la Costituzione gli affida solo il compito d’avviare i processi; compito importantissimo che attiene al controllo di legalità, ma che oggi diviene una sorta di regola di condotta della collettività. Nell’astinenza di una classe politica poco sensibile a questi temi, il potere dell’accusa, non equilibrato o quantomeno moderato dai necessari anticorpi, ha determinato il verificarsi dell’oggettivo quanto innaturale predominio della fase inquirente su quella giudicante, con i riflessi sul funzionamento del processo che ognuno può vedere, e, soprattutto, sull’incidenza totalizzante del pubblico ministero nella vita del Paese. Io credo che in questo vizio, che in qualche modo avvelena l’animo del Paese, s’inserisce anche la burocrazia cui siamo sottoposti, la quale s’insinua perfino nella formazione, modulazione e interpretazione delle leggi; con troppe parole si volle dire che il processo dev’essere breve e invece è lunghissimo, si volle garantire la giustizia dall’influenza politica, cioè distanziare le due grandi tematiche, e invece si è sottoposta la politica alla giustizia, e così via; insomma si cammina all’incontrario, come il gambero. Un vero "pasticcio", la cui soluzione non vede scadenze e risposte definite. Nel frattempo, il bene e il male lo stabilisce l’ufficio del pubblico ministero, cosa anomala che ci distingue tra i paesi avanzati. Carcere a chi tortura e uccide animali. Brambilla: "non ci fermeremo" Dire, 22 gennaio 2017 Lettera di Michela Vittoria Brambilla ad Animalisti Italiani Onlus che hanno inaugurato a Roma una statua in ricordo di Angelo, il cane massacrato a Sangineto. Occorre evitare che i delitti contro gli animali "siano percepiti come fatti "normali" e perfino tollerabili in una società che deve affrontare tanti altri problemi". Lo scrive l’on. Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente, in una lettera ai militanti animalisti che hanno partecipato oggi, a Roma, all’inaugurazione di una statua commemorativa di Angelo, il cane seviziato ed ucciso a Sangineto (Cosenza) il 25 giugno scorso. L’ex ministro ribadisce che "deve andare effettivamente in carcere" chi maltratta o uccide gli animali e promette di battersi, in ogni sede, finché "questo obiettivo non sarà raggiunto". Il delitto compiuto contro Angelo, scrive la parlamentare, "è giustamente diventato un segno visibile a tutti, la vera pietra dello scandalo che denuncia l’inadeguatezza del sistema. Inadeguatezza, innanzitutto, di una giustizia lenta a muoversi, o, peggio ancora, insensibile, quando si tratta di punire l’uccisione di un animale perpetrata con crudeltà. La statua che inauguriamo non ricorda solo Angelo, ma anche Moro, il cane massacrato da due pastori che il Tribunale di Brescia ha assolto, anche Pilù, la cagnetta seviziata a Pescia, e tutti gli animali che si sono fiduciosamente affidati ad una mano assassina". L’altra inadeguatezza, "smascherata" dai fatti di Sangineto, è quella della politica. "Di una politica - spiega l’on. Brambilla - che non capisce, o fa finta di non capire, che gli animali vanno tutelati come esseri senzienti e che quindi dev’essere severamente punito, deve andare effettivamente in carcere e restarci per tutto il tempo necessario, chi maltratta e uccide, con crudeltà e senza necessità, i nostri fratelli più piccoli e senza voce". "Per mandare in galera chi ha torturato e ucciso Angelo a Sangineto, Pilù a Pescia, Moro a Breno - continua la lettera - occorrerebbe che un Parlamento, paralizzato prima dall’attesa e poi dalle conseguenze del referendum, finalmente discutesse ed approvasse, per esempio, le modifiche al codice penale che ho proposto nel progetto di legge AC 3005, datato 1 aprile 2015. Da quando è stato stampato e annunciato, quel progetto ha attirato solo la polvere, tra le altre carte della commissione Giustizia. Ed io non posso né metterlo all’ordine del giorno né tantomeno approvarlo da sola". Resta l’impegno a portare avanti comunque questa battaglia, "fino al raggiungimento dell’obiettivo". On. Michela Vittoria Brambilla I tribunali assumono 800 cancellieri. Ma al concorso ci sono 308 mila candidati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 gennaio 2017 La prima gara indetta dal ministero dopo vent’anni di blocco del turnover. Lo stipendio? 1.400 euro netti. È come se tutti gli abitanti di Catania, o metà Genova, o quasi tutta Firenze, o persino una intera regione come il Molise, fossero in corsa per fare il cancelliere: 308.468 persone hanno presentato domanda per partecipare al concorso bandito dal ministero della Giustizia, dopo vent’anni, per 800 posti nel personale amministrativo degli uffici giudiziari italiani. Ancor più delle carenze di magistrati (comunque pur sempre circa mille su novemila), le scoperture negli organici del personale amministrativo pesano perché questi lavoratori sono la spina dorsale del sistema, senza i cui adempimenti di legge non "esiste" alcuna udienza celebrata o decisione prodotta dai magistrati nelle udienze e nei procedimenti. Ma su un organico teorico di 44.117 persone, ne mancano ben 9.815. Un deficit accumulatosi in 20 anni nei quali nessun governo ha arginato l’emorragia, anzi l’hanno tutti aggravata con il blocco del turn over per risparmi di bilancio. Da questo punto di vista ha ragione Andrea Orlando quando vanta di essere il primo ministro che dal 1999 faccia mettere piede nei tribunali a un nuovo cancelliere, stanziando risorse per l’ingresso di 4.000 persone. Ma farlo, nella pratica, non è semplice. Mentre per 200 persone si procede mediante scorrimento di altre graduatorie, per 800 posti (stipendio medio attorno ai 1.400 euro netti) il ministero ha cominciato a bandire il 22 dicembre 2016 un concorso che ha però appunto avuto, per così dire, persino troppo successo: 308.468 domande. Ovvio, quindi, che questi nuovi cancellieri (e a maggior ragione gli ulteriori 1.000 che la legge di stabilità 2017 autorizza ad assumere) non possano entrare davvero in servizio in tempi rapidi: "Sapete cosa significa fare un concorso per più di 300.000 persone?", chiede retoricamente il ministro, "inevitabilmente ciò sposta in là la possibilità di fare le assunzioni, perché non possiamo certo violare il legittimo diritto di ciascuno di concorrere e veder valutato il proprio valore". Il ministero ritiene di aver cercato di supplire a questo scarto temporale immettendo - accanto a 3.000 borsisti in stage 18 mesi negli uffici tra i laureati in giurisprudenza, e ad altri 1.200 tirocinanti non laureati - anche 300 lavoratori spostati dalle Regioni, e 343 in mobilità obbligatoria da altre amministrazioni cosiddette di "area vasta" e di Croce Rossa. E qui non sono stati pochi (sino alle ironie sui "barellieri" in tribunale) i mugugni negli uffici, rafforzati sì sul piano puramente aritmetico ma di fatto alle prese con lavoratori bisognosi di molto tempo per impratichirsi del nuovo lavoro. Dalla mobilità compartimentale ed extra compartimentale sono poi state assunte 145 persone nel 2016 in aggiunta alle 451 del 2015; dallo "scorrimento" delle graduatorie dell’Ice e del Viminale sono arrivate rispettivamente 79 e 42 assunzioni; e altri 42 lavoratori sono stati stabilizzati con un altro strumento normativo. Ma queste pur lodevoli "trasfusioni" nell’ultimo triennio non riescono a intaccare sensibilmente la scopertura media del 22% (che in non pochi uffici arriva al 35%), anzi quasi nemmeno pareggiano gli ulteriori peggioramenti determinati (in una categoria dall’età media di 56 anni) già solo dalle fisiologiche uscite dei pensionati nello stesso periodo. Ad esempio, nel solo 2016, almeno 848: più dei futuri nuovi 800 cancellieri che entreranno in servizio all’esito della carica dei 308.000. Cagliari: Caligaris (Sdr); senza codice fiscale, negati esami diagnostici a detenuti stranieri Ristretti Orizzonti, 22 gennaio 2017 "L’impossibilità di disporre del codice fiscale impedisce ai detenuti stranieri di poter effettuare gli esami diagnostici determinando una situazione di precarietà sanitaria all’interno delle strutture penitenziarie". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", avendo appreso da alcuni familiari di detenuti che condividono le celle con extracomunitari. "La situazione è particolarmente delicata a Cagliari-Uta dove sono stati reclusi - precisa - alcuni extracomunitari accusati di essere scafisti o persone senza fissa dimora o con diversi alias (più nomi). Non dichiarando le proprie generalità non è possibile ricostruire il codice fiscale con la conseguenza che gli Istituti di Analisi si rifiutano di eseguirle con potenziali negative ripercussioni per la corretta gestione di malattie che potrebbero essere pericolose per l’intera comunità penitenziaria. Finora non sono state registrate condizioni particolarmente preoccupanti ma alcune analisi sono in attesa di risposta dal mese di dicembre". "È evidente che occorre un immediato intervento per garantire prevenzione e cura utilizzando in questi casi un codice fiscale provvisorio come accade nel Pronto Soccorso. Alla delicata situazione nelle carceri, si è aggiunto il dispositivo dell’ATS che ha temporaneamente sospeso l’acquisto da parte dei presidi degli Istituti di Pena dei farmaci di fascia C. In pratica che la nuova Azienda Unica non darà al più presto nuove disposizioni si corre il rischio di negare ai senza reddito anche farmaci salvavita come il Ventolin". Palermo: il Sindaco Orlando al Viminale "contro i posteggiatori abusivi serve il carcere" palermotoday.it, 22 gennaio 2017 Il sindaco Leoluca Orlando ha inviato al neo ministro dell'Interno, Marco Minniti, una proposta di modifica del codice della strada per inasprire le sanzioni contro i posteggiatori abusivi. "La polizia municipale di Palermo effettua ogni anno migliaia di controlli ed emette centinaia di sanzioni ma di fronte al mancato pagamento delle multe e al reiterarsi dei reati non ha strumenti legali per agire". Lo dice il sindaco Leoluca Orlando, che ha inviato oggi al neo ministro dell'Interno, Marco Minniti, una proposta di modifica del codice della strada che "permetta alle forze dell'ordine e alle amministrazioni comunali di intervenire con efficacia nel contrasto al fenomeno dei posteggiatori abusivi che, in realtà come quella palermitana, è spesso legato al controllo del territorio e a forme di criminalità organizzata". L'idea è quella di prevedere l'arresto per i recidivi. La proposta avanzata da Orlando - che il 14 settembre scorso era già stata inoltrata ai presidenti dei gruppi parlamentari e delle commissioni Giustizia di Camera e Senato - è il frutto di un lavoro di "analisi di diverse idee avanzate anche da singoli cittadini, comitati e associazioni e di una valutazione della normativa e della giurisprudenza esistente, è scaturita da un lavoro svolto in questi mesi dal comando della polizia municipale e dall'avvocatura comunale". In sostanza, tramite una modifica all'articolo 7 del Codice, si propone di prevedere che coloro che, già sanzionati una prima volta e diffidati dall'autorità, vengano sorpresi una seconda volta nell'esercizio abusivo dell'attività di parcheggiatore o guardiamacchine, siano puniti, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto da sei mesi a un anno. Nel caso in cui l'attività abusiva è esercitata con l'impiego di minori, si applica l'arresto da uno a tre anni. "Con questa proposta, che viene formulata anche sulla base di pronunciamenti della magistratura, anche ai massimi livelli, puntiamo a dotare le nostre città di un nuovo strumento sanzionatorio e deterrente. Resta immutata - sottolinea Orlando - la necessità che a questo vero e proprio 'pizzo di strada' si opponga forte e coesa il rifiuto dei cittadini. Un percorso di vera e propria crescita culturale, nel quale grande importanza e merito va dato anche a quelle attività di sensibilizzazione che spesso molti comitati hanno giustamente portato avanti nella nostra città". Nel 2016 sono stati effettuati 1.137 controlli, con 412 sanzioni, oltre alle attività interforze svolte con le altre forze di polizia. Battaglie civili irrinunciabili di Mauro Campus Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2017 Luigi Manconi, "Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica", a cura di Christian Raimo, Minimum Fax, Roma, pag. 232, € 13. Quanto la politica italiana sia inaridita, ripiegata nell’amministrazione di individualismi, e come tenda, cinicamente, a replicare vecchie prassi e a premiare le appartenenze, è noto. E mentre ogni confronto con l’emotività, la passione e i contenuti è programmaticamente superato dalla spregiudicatezza, e dall’uso utilitaristico cui la cosa pubblica è asservita, l’impopolarità del mestiere della politica pare irreversibile. L’affettuoso colloquio tra Luigi Manconi e Christian Raimo parte proprio dalla considerazione di quanto la professione politica contemporanea sia lontana dalle sue vocazioni: preferendo alla latitudine, alla prospettiva, l’amministrazione di agende dalle quali sono stati espunti gli ideali che dovrebbero definirla. Il libro si sviluppa su un orizzonte temporale che coincide con la biografia di Manconi, con una ricaduta lontanissima dalla retorica o dal reducismo, per arrivare a ragionare sui cortocircuiti imposti dalla banale inerzia dell’allineamento a idee nate in un indefinito e mitizzato altrove, dall’azzeramento dei contenuti e dalla loro sostituzione con un disperato e annaspante tatticismo. Le riflessioni, prive di compiacimento generazionale o di stanca rassegnazione, sono, invece, segnate da equilibrio di giudizio nella descrizione di un percorso di cui è inevitabile riconoscere il valore, e disegnano un racconto intimo, che però coincide con un pezzo di storia nazionale. Ripercorrendo le fasi complicate di battaglie civili combattute con determinazione e spesso interrotte, di conquiste a metà, di disuguaglianze inaccettabili da affrontare sempre in un domani la cui alba è rimandata sine die, Manconi individua con lucidità gli strappi logici con cui temi fondamentali per la convivenza civile sono rimossi da un discorso pubblico tutto teso a incipriarsi il naso, e a rappresentarsi proiettato verso un tautologico futuro dal quale non si può tornare indietro. Ciò che queste immagini dominanti lasciano sul tappeto, ciò che non sfiora le aule parlamentari sono questioni che qualificano la maturità di una società: l’affermazione dei diritti delle minoranze, le questioni del fine-vita, la preclusione a utilizzare gli strumenti messi a disposizione da leggi disattese, la proporzionalità della pena rispetto all’illecito, la sicurezza dei corpi consegnati allo Stato. Il rapporto conflittuale fra legalità e sanzione e tra certezza del diritto e flessibilità della pena è escluso dal ragionamento pubblico ed è generalmente sostituito da approssimazioni diventate il vero elemento unificante dell’arco costituzionale. Una malinconica velatura pervade la descrizione della fatica con cui entra nel dibattito pubblico la tutela della dignità degli emigrati, che, ammesso che arrivino vivi sul suolo italiano, sono l’oggetto preferito di una politica vittima di pulsioni primordiali tradotte in discorsi legittimati dalla bassezza di registri linguistici dove il "politicamente scorretto" è la nuova casa delle canaglie. Del resto, che all’abbassamento del linguaggio e al superamento di ogni codice corrisponda un concreto degrado dei contenuti è esperienza quotidiana di ciascuno di noi. La polverizzazione delle strutture verticali e l’aggrapparsi al messianico intervento di un leader purché sia lasciano senza riferimenti le cause e le ragioni di una passione civile che, priva di rappresentanza, naufraga nella petizione di principio. Quale pubblico possano avere le idee e le lotte descritte da Manconi è tristemente difficile da dire. Certamente il seguito politico che le caratterizza è a dir poco esiguo. La stessa vicenda politica dell’autore si confronta con la problematica collocazione nelle fila di forze politiche che solo par hasard sono state, o sono, disposte a sposarne i contenuti. E se storicamente esisteva un universo semantico di riferimenti cui le parti politiche si riferivano obbligatoriamente e grazie a cui le rappresentanze di interessi erano tutte tradotte in formule riconoscibili, oggi, con un’accelerazione sconosciuta e dalle conseguenze imprevedibili, una densa cortina fumogena avvolge i confini e rende labili le capacità di individuare quale sia il campo all’interno del quale vale la pena di provare ad affermare un’idea. Dietro la consapevolezza di appartenere a un mondo marginalizzato da una malintesa modernità, che moderna è solo nell’autorappresentazione, Manconi riserva ai brandelli del mondo cui è appartenuto un solidale distacco che non si trasforma mai in aperto biasimo. Eppure, se per molti versi la diffusa sordità nei confronti di battaglie per cui vale la pena di non arrendersi suggerirebbe sfiducia, quanto emerge dalla conversazione è il contrario: un fermo e civilissimo segnale di quanto sia necessario fare politica. E farla non per il potere fine a se stesso. Europa e jihadismo: è possibile "deradicalizzare"? di Bartolomeo Conti aleteia.org, 22 gennaio 2017 Viaggio in due carceri francesi, dove un programma sperimentale ha spinto i giovani detenuti a "immaginarsi" altrimenti. Nel febbraio del 2015, qualche settimana dopo gli attentati a Charlie Hebdo, l’amministrazione penitenziaria francese ha lanciato un programma sperimentale con un doppio obiettivo: aggiornare gli strumenti per l’identificazione dei detenuti "radicalizzati" e realizzare un programma d’accompagnamento in vista del loro reinserimento nella società. La ricerca-azione, realizzata dall’associazione Dialogues Citoyens nelle carceri di Osny e Fleury-Merogis, s’è svolta in un clima di tensione, in cui il carcere era additato da più parti come luogo privilegiato della radicalizzazione. In carcere erano infatti passati gran parte degli autori degli attentati che avevano sconvolto la Francia, da Mohammed Merah a Amedy Coulibaly, da Chérif Khouachi a Mehdi Nemmouche. Dal carcere sarebbero poi passati anche alcuni degli autori degli attacchi fatti in seguito in Francia, come in Germania. La ricerca-azione era chiamata a rispondere a due domande: come capire se un individuo è "radicalizzato", ossia pericoloso in quanto capace di esercitare violenza in nome di una ideologia? E come intraprendere un percorso di riabilitazione o di reinserimento nella società? Dietro queste due domande se ne cela una terza, che dà la misura della sfida cui son confrontate le società europee: è possibile "deradicalizzare"? Per rispondere a tali questioni, in entrambe le carceri è stata dapprima fatta una diagnosi del funzionamento dell’istituzione penitenziaria, della vita in detenzione, delle relazioni tra detenuti e personale penitenziario e dei metodi utilizzati dal personale per l’identificazione della radicalizzazione islamista. Questa prima fase ha messo in evidenza l’assenza di una definizione chiara di "radicalizzazione", con la conseguenza che la percezione del fenomeno è varia e spesso individualizzata. Un sentimento d’inadeguatezza, talvolta accompagnato da una percezione ansiogena, s’impadronisce del personale penitenziario, che finisce spesso per vedere la radicalizzazione anche là dove non c’è. Come è emerso durante la ricerca-azione, questa è spesso confusa con la pratica religiosa ortodossa/fondamentalista, il discorso politico o la "semplice" provocazione verso l’istituzione penitenziaria, con la conseguenza dell’aumento del livello di stigmatizzazione della popolazione carceraria di religione islamica, che si sente "ingiustamente discriminata", fattore questo che sembra essere fonte di radicalizzazione. La diagnosi ha dunque evidenziato la necessità di cominciare da una ridefinizione dei concetti di base e da una "decostruzione" degli strumenti esistenti, non solo forieri dell’amalgama tra pratica religiosa e radicalizzazione, ma anche inefficaci e obsoleti. Come capire allora quando un individuo è in un processo di radicalizzazione? La selezione, le interviste prolungate e il programma d’accompagnamento di detenuti sospettati d’essere radicalizzati o in via di radicalizzazione ha permesso di constatare il bisogno dei giovani detenuti di verbalizzare un sentimento d’ingiustizia, d’esclusione e rabbia generalmente all’origine della loro adesione a un discorso di rottura nei confronti di istituzioni e società. Questo discorso va al di là del fenomeno della radicalizzazione islamista: è diffuso anche nei luoghi della marginalizzazione, a cominciare dalle banlieue francesi. La parola dei detenuti è dunque il punto di partenza, in quanto permette d’avere una visione più profonda del percorso individuale di ogni persona incarcerata, attraverso uno scambio di informazioni tra i diversi attori della prigione e un rapporto più diretto con il detenuto stesso. La relazione basata sullo scambio verbale s’è dunque rivelata non solo uno strumento propizio per capire se un individuo è radicalizzato o in via di radicalizzazione, ma anche uno strumento per prevenire la radicalizzazione: è solo attraverso la parola che una sospetta radicalizzazione può essere verificata, disinnescata o combattuta. È proprio la mancanza di dialogo tra l’istituzione penitenziaria e i carcerati a rafforzare il sentimento d’ingiustizia di alcuni detenuti, che può limitarsi alla percezione d’essere oggetto di discriminazione fino all’atteggiamento "paranoide" di essere oggetto di complotto. Quando i discorsi "anti-repubblicani" o "anti-istituzionali", basati su certezze ideologiche o preconcetti, diventano indice di radicalizzazione? La ricerca-azione ha mostrato che tali discorsi da soli non bastano per identificare un estremista. Diventano indice di radicalizzazione quando il detenuto presenta altri segni di crisi: gli antecedenti di violenza, l’isolamento o la chiusura in se stesso, un atteggiamento violento durante la detenzione, un percorso personale segnato da rotture, la sensazione di un’ingiustizia "insopportabile" se non ossessiva, la presenza di problemi psicologici, un sentimento di persecuzione individuale e/o collettiva, un cambiamento repentino nelle abitudini religiose e alimentari e nelle relazioni interpersonali. È per poter valutare come tali segni di crisi si combinano, ma anche per comprendere i bisogni soggettivi o le fragilità, che emerge la necessità di stabilire una relazione di scambio e dialogo con ogni singolo detenuto. Nell’ambito della ricerca-azione è stato sperimentato un programma d’accompagnamento con il doppio obiettivo di prevenire il rischio di radicalizzazione in carcere e creare strumenti per l’integrazione dell’individuo nello spazio sociale. Una cinquantina di detenuti, con profili diversi e di cui solo una parte accusata di terrorismo, ha partecipato ai quattro programmi realizzati nelle due prigioni. Ogni programma, denominato "engagements citoyens", ha alternato un lavoro individualizzato con sessioni collettive, a cui hanno partecipato un’ampia varietà di soggetti, interni ed esterni alla detenzione (sorveglianti, direzione del carcere, ex-detenuti, academici, responsabili religiosi, persone impegnate nella vita sociale e politica…). Durante le sessioni collettive sono stati affrontati temi legati al vissuto dei detenuti: la vita in carcere, l’esclusione sociale e politica, l’islamofobia e il razzismo, i conflitti nel mondo, Isis e la Siria, ma anche temi più personali, come l’identità, il rapporto con la famiglia o i percorsi individuali e i progetti professionali. Il programma puntava innanzitutto a permettere ai partecipanti d’avviare un processo di de-stigmatizzazione consentendo loro d’esprimere le loro rappresentazioni della vita in società. Una volta "liberata" la parola, la seconda fase consisteva nell’accompagnare i partecipanti a "rielaborarla" attraverso il confronto con l’altro, gli altri, per tornare infine sul percorso personale, familiare e professionale di ognuno. L’obiettivo era di spingerli a interrogarsi sulla loro traiettoria individuale, così come sulla loro posizione rispetto alla società, sulla relazione che avevano con la violenza, nella prospettiva di far emergere una nuova costruzione di sé, ma anche di trovare nuove modalità per contestare le norme sociali. Durante il programma, abbiamo assistito a un’importante evoluzione, sia collettiva sia individuale. Se infatti durante le prime sessioni gli scambi tra partecipanti, soggetti esterni e mediatori sono stati segnati da una certa virulenza verbale e comportamenti negativi, tali atteggiamenti si sono gradualmente indeboliti, fino a scomparire. Un’atmosfera di rispetto s’è imposta soprattutto durante le ultime sessioni. È in quest’ultima fase del programma che la visione manichea, talvolta vittimistica e complottista, è stata abbandonata per lasciare il posto a un lavoro sulle traiettorie individuali, che ha permesso ai partecipanti di interrogarsi anche sulle diverse modalità dell’articolazione dell’esperienza personale con l’impegno e la pratica politica e/o religiosa. Quest’evoluzione della parola e del posizionamento dei detenuti è stata possibile grazie a tre processi distinti, che si sono articolati diversamente secondo i vari profili. Per una parte importante dei giovani che hanno partecipato, in particolare per coloro che si sentono marginalizzati e stigmatizzati a causa della loro origine sociale, etnica o religiosa, la società contemporanea è caratterizzata da un disordine distruttivo e destabilizzante. È nel tentativo "disperato" di rispondere a tale disordine, che si manifesta attraverso la debolezza delle istituzioni tradizionali, famiglia e scuola, e attraverso la perdita d’autorità di figure familiari o comunitarie con la funzione di stabilire il limite tra giusto e ingiusto, lecito e illecito, legale e illegale, che questi giovani "orfani dell’autorità" cercano in una visione semplificata dell’Islam una via che permetta d’eliminare il dubbio, di ridurre le possibilità (destabilizzanti) delle scelte, di confinare la libertà all’interno di un quadro "divino" definito da regole indiscutibili e quindi rassicuranti. Il primo strumento di re-soggettivazione può dunque essere descritto come la reintroduzione del dubbio nella debole fortezza delle loro certezze. Il fatto di interrogarsi sul proprio percorso individuale ha infatti permesso, in particolare ai giovani privi di formazione religiosa o impegno politico, di liberarsi di risposte "assolute" e precostituite. Il fatto che la parola abbia circolato liberamente e che nessun contro-discorso sia stato proposto o imposto è stato apprezzato dai partecipanti, che hanno "scoperto" uno spazio d’espressione insolito ed inaspettato permettendo loro di riscoprire i benefici del confronto e del dialogo. È in particolare presso i detenuti con basi religiose e politiche più solide che l’apertura di un dialogo con l’istituzione carceraria su temi come la vita in detenzione, la relazione detenuti-sorveglianti, il rispetto delle pratiche religiose dei musulmani, è all’origine di un atteggiamento via via meno conflittuale e più aperto al confronto razionale precedentemente considerato inutile e inefficace. Il discorso di rottura prende la forma di una narrazione in cui le spiegazioni soggettive, politiche e religiose si sovrappongono, o addirittura si confondono. Per la maggior parte dei partecipanti, l’identificazione del sé, "escluso e rifiutato" a un Islam "attaccato ovunque" e ai musulmani "stigmatizzati e cui è impedito di vivere secondo la loro religione" o "che soffrono sotto le bombe ", è l’asse attorno cui prende forma il discorso vittimistico. Iscrivendo il sé nel campo politico-religioso, questi giovani "politicizzano" i traumi che hanno segnato le loro vite. L’identificazione del sé al collettivo permette inoltre d’evitare di affrontare le difficoltà, se non il fallimento personale e le sue cause, mentre la posizione di vittima diventa il quadro esplicativo di tale fallimento, che permette di non assumersene la responsabilità. L’interrogarsi sul proprio percorso individuale ha sostituito le certezze di una retorica collettiva costruita attorno a vittimizzazione e cospirazione. Il numero limitato di individui coinvolti in questa ricerca-azione e la relativa omogeneità dei profili non consentono di estendere i risultati all’intero fenomeno della radicalizzazione, caratterizzato da un’estrema varietà di profili e percorsi. Tuttavia, la scelta metodologica d’affrontare il fenomeno a partire dalla parola degli attori ha permesso di far emergere strumenti che possono contribuire all’elaborazione di una nuova narrazione di sé che riduce, o al limite elimina, lo spazio accordato alla violenza. La reintroduzione del dubbio, la separazione di soggettivo e collettivo o la legittimazione della parola dei giovani detenuti non solo hanno fatto emergere le diverse modalità d’articolazione tra le dimensioni soggettiva, religiosa e politica, ma hanno anche mostrato alcuni metodi e strumenti per il reinserimento di questi giovani nel corpo sociale. In particolare, l’abbandono della certezza ideologica e l’apertura di uno spazio di incertezza hanno aperto la strada al fragile "piacere" di immaginarsi altrimenti. Migranti. Perché gli accordi sono più efficaci dei muri di Alessandro Orsini Il Messaggero, 22 gennaio 2017 Anis Amri, il terrorista di Berlino ucciso dalla polizia italiana, era sbarcato a Lampedusa nel febbraio 2011. Fu arrestato e si radicalizzò nelle carceri italiane, da cui fu liberato nel 2015. In sintesi, è sbarcato sulle coste italiane quando il governo era retto da Silvio Berlusconi e dai ministri della Lega Nord; si è poi radicalizzato in carcere sotto il governo tecnico di Monti; è stato liberato sotto il governo Renzi e ha realizzato la strage di Berlino sotto il governo Gentiloni. La storia di Anis Amri non lascia dubbi: nessun governo, di destra, di sinistra o tecnico, è in grado di arrestare l’immigrazione e di renderci invulnerabili ai terroristi. Questo discorso vale per tutti i paesi europei. Cherìf Kouachi, uno dei due autori della strage di Charlie Ebdo, era stato arrestato per terrorismo il 25 gennaio 2005. Rilasciato, ha realizzato la strage il 7 gennaio 2015. La sua parabola jihadista si è sviluppata sotto governi di segno opposto. Per non parlare di Mohammed Boulel che, arrivato a Nizza dalla Tunisia nel 2005, ha realizzato la strage il 14 luglio 2016. Ha vissuto sotto i governi di Chirac e di Sarkozy, entrambi di destra, ed è poi entrato in azione durante il governo di sinistra di Hollande. Gli esempi si potrebbero moltiplicare facilmente. Quali lezioni possiamo ricavare per elevare la qualità del dibattito pubblico in Italia sui temi dell’immigrazione e del terrorismo? La prima lezione è che la demagogia danneggia gli interessi nazionali. Dal momento che le persone comuni non hanno il tempo per documentarsi su questioni complesse, ripetono le parole dei politici che ammirano di più. Se tali politici distorcono la realtà, facendo leva sulle paure collettive, gli elettori saranno spinti ad abbracciare idee irrazionali e a gridarle, coprendo la voce di chi ragiona. Non esiste niente di più esiziale, per le libertà liberali, dell’irrazionalità ammantata di razionalità. Il fanatismo politico è esattamente questo: la convinzione di avere ragione, essendo nel torto. Un gran numero di elettori in preda al fanatismo significa maggiori probabilità che i governi prendano decisioni sbagliate. Le democrazie liberali funzionano così: i governi vivono finché ricevono i voti degli elettori. Se gli elettori perdono la ragione, i governi sono inclini all’errore. La seconda lezione è che l’immigrazione verso le nostre città è un fenomeno di lungo periodo. Quando raggiungerà la sua fase più intensa, i ragazzi italiani, che oggi hanno diciotto anni, dovranno fronteggiare situazioni molto delicate. Ne consegue che l’attuale generazione di adulti italiani dimostra di avere senso dello Stato soltanto se riconosce di avere un dovere pedagogico nei confronti dei nostri ragazzi. In questo caso, non occorrono lezioni complesse. Tutto si riassume in una formula di Guido Calogero: "Prima ancora che nella bocca, la democrazia sta nelle orecchie". Significa questo: non urlate, ragionate. Alcuni movimenti affermano che l’immigrazione può essere arrestata soltanto con i respingimenti in mare che, in caso di necessità, richiederebbero di aprire il fuoco contro i barconi. Ragioniamo. Gli immigrati sbarcati sulle coste italiane nel 2016 sono stati circa 181mila. Tuttavia, ne sono arrivati 174mila sulle coste della Grecia e 9000 su quelle della Spagna per un totale di 361mila sbarchi. Per interrompere il flusso via mare, l’Italia, d’intesa con gli altri paesi dell’Unione Europea, dovrebbe militarizzare il Mediterraneo. Supponiamo che accada. Resterebbe il fatto che, nel 2016, gli immigrati giunti in Europa (non tutti arrivano sui barconi) sono stati molti di più di quelli giunti via mare. La Germania, ad esempio, ha ricevuto (via terra) più di un milione di profughi siriani soltanto nel 2015. E se decidessero di dirigersi verso l’Italia? Resterebbero due soli modi per bloccarli. Militarizzare il Mediterraneo e innalzare un sistema di mura ciclopiche lungo l’intero confine italiano. Il problema è che tali mura dovrebbero necessariamente avere delle porte, che renderebbero possibile l’ingresso dei migranti attraverso la corruzione delle guardie di confine. Ne consegue che, oltre alle mura ciclopiche, bisognerebbe innalzare delle mura di cinta intorno a ognuno dei 7.897 comuni italiani che però dovrebbero avere almeno una porta d’ingresso. La soluzione più sicura sarebbe quella di innalzare delle mura intorno a ogni singolo condominio per un totale di tre mura di cinta: quelle lungo i confini nazionali, quelle intorno ai 7.897 comuni e quelle intorno ai condomini. Ciò che caratterizza i governi italiani è il buon senso. La soluzione migliore per tutelare gli interessi nazionali è rappresentata dalla creazione di un sistema di accordi bilaterali con i paesi di esodo e la fine immediata delle guerre. Berlusconi si accordò con Gheddafi e Gentiloni sta cercando di accordarsi con i nuovi governanti della Libia attraverso il ministro Marco Minniti. Non chiuderanno le porte, ma terranno aperta la ragione. L’urlo della Tunisia: "Daesh qui è stato fermato, ora non lasciateci soli" di Federica Fantozzi L’Unità, 22 gennaio 2017 Viaggio nel Sud del Paese, dove il turismo è colato a picco e l’ombra dei "cani sciolti" al confine con l’Algeria fa ancora paura. Tra disoccupazione, speranza e voglia di normalità: "Senza l’Europa, si muore". I ballerini libici in tunica bianca e fez suonano e battono le mani; i ragazzi del posto, giubbotti di pelle e berretti di lana in un inverno eccezionalmente freddo, accettano l’invito e ballano tutti insieme. Intorno, venditori di zucchero filato rosa e mele caramellate, bandiere, musica. Il festiva! delle oasi di Tozeur è l’evento culturale più importante della Tunisia meridionale: arti popolari, letteratura e poesia, fiera delle piante medicinali e cinema. Il Paese è ancora in vacanza, scuole chiuse e torpedoni che arrivano dalla capitale. In giro, invece, non si vede un turista europeo. Mounir Hamdi, 50 anni, laureato in legge, da quattro mesi è governatore della regione che conta 45mila abitanti e mille ettari di palmeti, un’economia basata sul turismo e sul commercio dei datteri dolci come zucchero. A Tozeur, detta la Porta sul Sahara, venivano a svernare Simone Weil e Jacques Chirac: adesso su 17 grandi alberghi ne sono rimasti aperti 6. Il governatore scuote la testa: "Si parla sempre di Daesh, ma qui ci sono tradizioni e speranze. Abbiamo vinto la nostra guerra contro il terrorismo. Qui siete al sicuro, ma il rischio zero non esiste". Mounir non nega la realtà: "Dopo la rivoluzione del 2011 siamo alle prese con l’enigma dei cani sciolti, che sono dappertutto nel mondo. Siamo l’unico Paese arabo in cui la Primavera non è fallita, ma i jihadisti hanno approfittato dei momenti in cui la Tunisia era poco controllata per fare il lavaggio del cervello ai disperati, agli emarginati. L’Isis è una malattia mondiale". A Tozeur tutti parlano italiano e tutti ripetono che non c’è pericolo. Le ragazze al mercato, in leggins e capelli sciolti, come i ristoratori: "Basta Daesh". Kaouther Bouzaiene dipinge, ha esposto a Parigi e Amman, questa è la sua prima mostra di strada: "L’economia va male, nessuno compra quadri". Indossa pantaloni, rossetto, occhiali da sole, e si toglie il velo per parlare con noi. Ha due figlie, una vive in Svizzera e l’altra in Francia: "Quando c’è stato il Bataclan ho avuto paura, ma lei mi ha rassicurato subito: mamma, sono a casa". Kaouther è politicamente impegnata, ha manifestato il 24 dicembre tra le donne contro il terrorismo: "I jihadisti hanno un modo di pensare falso, l’Islam non dice di fare del male. Mia madre divideva il cous cous di pesce con il nostro vicino ebreo. Uccidere chi beve? No, è compito del diavolo mandarlo all’inferno". Ha fondato un’associazione per aiutare i giovani che si chiama Sadiki ("Amici"): "Dico loro di non partire, di restare a migliorare la Tunisia. Credono che oltre il mare ci sia il paradiso, ma la disoccupazione è ovunque. Qui grazie alle donne può cambiare tutto, se invece lasciamo campo libero all’islamismo perderemo i nostri diritti". La Tunisia è stata a lungo la culla del jihadismo, oltre 4mila giovani sono partiti per il Califfato Nero, un migliaio verso la Libia. Adesso il governo mostra di impegnarsi: un muro e sacchetti di sabbia al confine, posti di blocco ovunque. Un protocollo di sicurezza - elaborato, si dice, dalla Germania - per hotel e locali pubblici: cosa fare e chi chiamare se la situazione è sospetta. La security ispeziona i bagagliai, Controlla le targhe, annota gli orari di ingresso e di uscita. C’è molto dibattito sui jihadisti di ritorno dai teatri di guerra, Siria e Iraq: sono almeno 500 e vorrebbero l’amnistia, ma il premier Youssef Chahed teme che vogliano destabilizzare dall’interno e promette il carcere in base alle norme anti-terrorismo varate nel 2015. In Parlamento è stata lanciata la proposta di far giudicare i soldati di Al Baghdadi dal Tribunale Penale Internazionale per ostentare l’assenza di favoritismi. "Alcuni vorrebbero privare chi rientra della cittadinanza - ragiona Bouaziene. Per me è meglio che facciano lavori socialmente utili". Già: il lavoro che non c’è, il tarlo che rode la società. Soufir Michel, marito dell’artista, è un imprenditore: "Qui non c’è futuro, 3 ragazzi su 5 ciondolano al caffè sognando di andare via". Gestisce call center, lavora con grosse società come la francese Sfr, avrebbe bisogno di 500 operatori e non li trova. Giura che li pagherebbe nella media: 500 dinari, 300 euro mensili. Il pomeriggio della partita con l’Algeria per la Coppa d’Africa, i bar si affollano. Neji è alto quasi due metri, bello, spigliato. È stato commesso a Santa Marinella, orafo ad Arezzo, ora vende bici e aspetta il visto per l’Olanda, patria della sua seconda moglie. Walid è guida turistica, ha lavorato a Djerba anche per Valtur e Francorosso: "Dopo gli attentati del 2015, al museo del Bardo e a Sousse, il turismo è crollato. Due anni di calma piatta. Si sta risollevando grazie ad asiatici e russi". I numeri del governo dicono che nel 2015 ci sono stati 1,3 milioni di turisti europei e nel 2016 1,4. Ma i conti in tasca agli operatori non tornano, perché i francesi sono scesi da un milione a 400mila, gli italiani non vengono più, e i russi non spendono: "Loro non ci capiscono e viceversa. Siamo troppo diversi. Si fermano una notte in hotel, non comprano artigianato". Così i charter non decollano, le crociere stentano, e un settore che dà da mangiare a 800mila persone, ognuna con 4-5 figli, è entrato in crisi. A Kairouan, la città sacra delle 300 moschee, si è passati da picchi di 40mila visitatori al mese al baratro di 250. Tarek Ghaouar, elegante abito di seta e babbucce, è il capo della Confcommercio locale: "La disoccupazione è aumentata anche per colpa di chi incita all’immigrazione illegale. Cosa sperano i giovani? Che il turismo si riprenda". Fa un largo gesto con la mano: "I terroristi sono alla frontiera algerina dalle parti di Kasserine e Sidibou Zid". Qualche centinaio di chilometri a nord, dove è nata la rivolta del 2011 quando un ambulante si è arso vivo per protestare contro le condizioni di vita. Le zone più povere dell’entroterra, dei greggi di pecore e dei passeggeri di barconi. Eppure, una parte dei terroristi tunisini era laureata. Lui allarga le braccia: "La propaganda di Daesh attecchisce su gente povera e ignorante. Prendono uno che non ha mai letto il Corano, lo farciscono di denari e gli mettono in mano un mitra. Gli inseriscono un Cd nel cervello con le istruzioni e via, con la promessa di una paga e del paradiso". I tamburi del festival arrivano lontani, il funzionario pensa alla visita dei ministri italiani, Minniti prima e Alfano poi, auspicando "piena collaborazione e investimenti per prevenire l’immigrazione": "Se si opera insieme in modo chiaro e trasparente ce la faremo". Malek, mentre riempie le sua cassette di datteri e peperoni, è più diretto: "Senza l’Europa, la Tunisia è morta". 365giornisenzaGiulio: a Roma mercoledì 25 per chiedere la verità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 gennaio 2017 Mercoledì 25 gennaio sarà trascorso un anno esatto dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 365 giorni, la verità sull’arresto, la sparizione, la tortura e l’uccisione del giovane ricercatore italiano è ancora lontana. Per continuare a chiedere Verità per Giulio Regeni Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione. L’appuntamento principale è previsto all’Università La Sapienza di Roma. La manifestazione si terrà negli spazi esterni alle spalle del Rettorato si aprirà alle 12,30 con il saluto del Rettore, prof. Eugenio Gaudio, e sarà condotta da Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio 3. Interverranno Stefano Catucci, del Senato Accademico Sapienza; Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia; Patrizio Gonnella, presidente della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili; Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana; Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica che darà particolare seguito online all’evento. Nel corso della manifestazione lo scrittore Erri De Luca e gli attori Arianna Mattioli e Andrea Paolotti leggeranno estratti dei diari di viaggio di Giulio Regeni. Interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori. I partecipanti - tra cui molti studenti degli istituti superiori di Roma e del Lazio che hanno aderito alla campagna Verità per Giulio Regeni - mostreranno cartelli col volto di Giulio Regeni e numeri da 1 a 365, per ricordare l’anno trascorso in assenza della verità. Chiuderà la manifestazione il Coro MuSa Blues della Sapienza, diretto dal maestro Giorgio Monari. La sera, nelle piazze di Roma (a San Lorenzo in Lucina) e di altre città italiane tra cui Bergamo, Bologna, Brescia, Cagliari, Lecce, Napoli, Palermo, Pesaro, Pescara, Rovereto, Rovigo, Trento e Trieste verranno accese delle fiaccole alle 19.41, l’ora in cui Giulio Regeni uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione prima della scomparsa. Amnesty International ha chiesto al presidente del Consiglio un incontro per consegnare le tantissime firme raccolte nell’ambito della campagna Verità per Giulio Regeni e per "condividere i prossimi passi che il governo italiano intende intraprendere al fine di raggiungere tutta la verità su questa terribile vicenda che ha colpito i cuori di tutti gli italiani". Turchia. Erdogan il super presidente di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 22 gennaio 2017 Il parlamento turco approva in via definitiva la riforma costituzionale: Erdogan capo assoluto. Si va al referendum tra le violenze e una crisi figlia dei legami tra élite economica e politica. Attesa per il cambio alla Casa Bianca. È ufficialmente passato con 339 voti a favore il pacchetto di 18 articoli che emendano la costituzione turca e consegnano alla Turchia il super-presidenzialismo. L’ultimo passo prima dell’ufficializzazione sarà il referendum popolare che dovrà tenersi entro due mesi, probabilmente con lo stato di emergenza ancora in vigore, con parlamentari d’opposizione in carcere, centinaia di media chiusi ed attentati ed episodi di violenza che sconvolgono il paese con ritmo pressoché quotidiano. Grazie alle misure approvate il presidente potrà continuare a dirigere il partito d’appartenenza (incluse le nomine dei candidati alle elezioni), potrà sciogliere il parlamento, redigere il budget dello Stato, governare attraverso decreti legislativi, porre il veto alle decisioni parlamentari, scegliere il presidente e sei dei tredici membri del consiglio che nomina giudici e pubblici ministeri, dodici dei quindici giudici della Corte costituzionale (organo che tra l’altro si occuperà di giudicarlo nel caso di messa in stato d’accusa). Potrà nominare ministri, ambasciatori e dirigenti pubblici, riformare le istituzioni militari, firmare gli accordi internazionali, dichiarare lo stato di emergenza e, in quanto comandante in capo delle forze armate, gestire l’intero apparato dell’esercito turco. Erdogan ha fatto appello alla popolazione nel corso dell’inaugurazione di una nuova tratta di metropolitana ad Istanbul: "Lavorate giorno e notte per questo referendum", augurandosi che la nazione chiamata alle urne suggelli il voto di un parlamento che ha sacrificato se stesso in nome dell’uomo forte. L’impatto delle grandi opere sulle recenti campagne elettorali si farà probabilmente sentire anche nella chiamata referendaria di aprile, ma progetti come il terzo ponte sul Bosforo o il nuovo aeroporto internazionale hanno avuto un notevole impatto anche sull’economia del paese e non in meglio. Queste grandi partnership tra pubblico e privato, emblematiche del rapporto simbiotico tra potere politico ed economico, sono anche una delle cause della crisi economica che la Turchia attraversa. Secondo un recente documento della Banca Centrale turca, il forte indebitamento del settore privato turco è anche legato ai mega-progetti, tanto cari alla leadership Akp, per i quali le compagnie private contraggono debiti che, pur garantiti dallo Stato, per essere onorati spingono le compagnie a rifugiarsi nelle valute forti come il dollaro, indebolendo al contempo la lira nazionale. Erdogan ha dichiarato che tra i molti attacchi che la nazione starebbe subendo c’è anche un complotto economico per mettere la Turchia in ginocchio proprio nel momento in cui, consegnando a lui l’intero potere, cerca di liberarsi dall’ingerenza straniera. Per il presidente non c’è letteralmente alcuna differenza "tra un terrorista che impugna armi e un altro che impugna dollari". Chissà cosa ne pensano in proposito al di là dell’Atlantico. Obama ed Erdogan non si sono mai piaciuti ed i rapporti tra i due paesi sono caduti ai minimi storici. La rabbia di Ankara è dovuta al sostegno americano ai curdi in Siria sia alla reticenza nel dare seguito alla richiesta di estradizione dell’imam Gülen. Gli Usa non hanno gradito né l’ambigua politica di Erdogan verso lo Stato Islamico né i continui attacchi sui media. Nel governo turco in molti sperano nell’effetto positivo del cambio alla Casa Bianca. Un segnale positivo per Ankara è arrivato dalle probabili nomine di James Mattis come segretario alla Difesa e di Rex Tillerson come segretario di Stato: entrambi sostengono la necessità di un riavvicinamento alla Turchia, a spese delle Sdf (Forze Democratiche Siriane), per tornare ad avere voce in Siria nel momento in cui l’asse tra Damasco, Mosca e Teheran sembra aver estromesso gli americani dal tavolo. Sarebbe però errato pensare che l’insediamento di Trump nello studio ovale significhi automaticamente un’inversione di rotta nelle relazioni tra i due paesi. La Casa Bianca ha più volte ribadito come la decisione circa l’estradizione di Gülen spetti agli organi di giustizia americani e non al presidente, mentre finora i giudici americani hanno trovato deboli le prove su un coinvolgimento dell’imam nel tentato golpe del 15 luglio. Sostituire i curdi e la loro affidabilità sul terreno siriano non è tanto semplice, soprattutto con l’operazione Sdf verso Raqqa che procede a pieno regime, mentre la Turchia è impantanata ad Al-Bab dove non riesce a sfondare la resistenza del "califfato". I raid congiunti di forze aeree americane, russe e siriane a sostegno della campagna bellica turca sono però sintomo di un desiderio collettivo di chiudere la faccenda Isis per poi giocare la partita che conta al tavolo di negoziato. Trump ed Erdogan siederanno dallo stesso lato? Miracoli latinoamericani di Francesco di Alver Metalli La Stampa, 22 gennaio 2017 All’appello giubilare per un gesto di clemenza con i carcerati rispondono Cuba, Nicaragua, Bolivia, Paraguay, Venezuela e El Salvador. Gli ultimi a essere liberati saranno 528 detenuti nelle carceri di El Salvador, i primi sono stati 787 cubani indultati da Raúl Castro nel mese di novembre del 2016, che si sommano alla più massiccia liberazione di 3.522 reclusi disposta per celebrare la visita papale all’Isola nel settembre del 2015. Prima della tornata di liberazioni in America Centrale erano stati messi in libertà 557 detenuti reclusi nelle carceri del Nicaragua sandinista, tra cui 52 donne madri di famiglia. L’annuncio delle liberazioni nel paese del beato monsignor Romero l’ha dato il Ministero di Giustizia e Sicurezza dei Centri penali che ha specificato di aver disposto l’indulto come risposta all’appello lanciato dal Papa nell’Anno della Misericordia "ad un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento". Gli "idonei" salvadoregni selezionati dalle autorità del paese sono "detenuti anziani, malati terminali e giovani appartenenti alle pandilas", chiarisce il Ministero di Giustizia che annuncia anche che altri 103 carcerati passeranno al regime di semi-libertà. L’indulto più atteso, "segno di buona volontà" chiesto dall’opposizione, è stato concesso dal venezuelano Maduro, ovvero la liberazione di cinque prigionieri politici, tra cui il leader del partito Unità Democratica Carlos Melo disposto alla vigilia del terzo - infruttuoso - round negoziale tra governo ed opposizione nel mese di dicembre. Si sa, per bocca del Nunzio apostolico in Nicaragua Fortunatus Nwachukwu che i reati commessi dagli indultati dal governo di Daniel Ortega hanno a che vedere con la droga, oltre al consumo anche la sua introduzione nei centri penitenziari o con reati comuni. Si sa anche che la decisione è stata accompagnata dall’annuncio che verranno riattivate le fattorie agricole in regime di semilibertà con tanto di scuola elementare, media e superiore per l’istruzione di chi verrà ammesso a questo trattamento para carcerario. Nel vicino El Salvador la situazione carceraria nei 19 centri penali del paese è di grave sovraffollamento con 34 mila 700 carcerati secondo fonti del ministro di giustizia aggiornate al giugno 2016 stipati in strutture inadeguate a contenerli. Le 528 liberazioni disposte su richiesta papale non hanno certo la funzione di alleviare una situazione dove la criminalità e il delitto registrano gli indici più alti del continente ma sono state apprezzate dalle associazioni di difesa dei diritti umani che da tempo denunciano l’insostenibilità della situazione carceraria nel piccolo paese centroamericano. La "misericordia governativa", com’è stata chiamata, ha investito anche i cosiddetti Centri Intermedi di El Salvador, dove sono detenuti membri delle temibili pandillas appartenenti alle Mara Salvatrucha (MS-13) e Barrio 18. Una trentina di casi - ha informato il Ministero di Giustizia - sono all’esame e gli interessati potrebbero uscire dalle carceri. La Bolivia di Evo Morales ha accordato l’indulto a 1.800 dei 15 mila detenuti con prigione preventiva o pene minori. Anche in questo caso gli "idonei a beneficiare di tale provvedimento" come si legge nella lettera di Francesco inviata a Presidenti e Capi di Stato dell’America Latina saranno i processati con pene inferiori a cinque anni, delinquenti non reincidenti, detenuti con meno di 28 anni, madri capifamiglia con figli in carcere, detenuti con malattie terminali, donne in cinta e condannati con handicap fisici. In America del Sud è il Paraguay il primo paese ad aver risposto all’appello papale sino a questo momento. L’indulto disposto dal presidente Horacio Cartes riguarda 16 persone, di cui 10 donne detenute nel penale del Buon Pastore, in quello di Juana Maria de Lara e nella prigione regionale della città di Encarnacion. Il ministro della Giustizia ha anche annunciato un investimento di 80 milioni di dollari in infrastrutture carcerarie per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. La popolazione carceraria del Paraguay ammonta a 13.071 persone, anche se le infrastrutture hanno la capacità di ospitare 6.643 detenuti. Durante il viaggio di luglio 2015 papa Francesco derogò il programma della visita sostando nel carcere femminile del Buon Pastore, dove ascoltò un coro di donne recluse. Romania: il presidente Iohannis "prove sufficienti per ritiro legge su indulto e amnistia" Nova, 22 gennaio 2017 Esistono prove sufficienti per il governo romeno per ritirare il progetto di legge riguardante l’indulto e la modifica del codice penale. Lo ha scritto oggi il presidente della Romania Klaus Iohannis sulla sua pagina Facebook. "I progetti di ordinanza d’urgenza riguardanti l’indulto e la modifica del codice penale sono impropri e inaccettabili, come sostenuto anche da autorevoli voci appartenenti al mondo della giustizia", ha scritto Iohannis. Secondo il presidente romeno, la Procura generale, il Dipartimento nazionale anticorruzione (Dna), l’Alta corte di cassazione e giustizia, la Direzione di investigazione sui reati di criminalità organizzata e terrorismo (Diicot), le associazioni dei magistrati e organizzazioni della società civile hanno parlato con forza "contro la modifica del quadro legislativo sulla corruzione, l’abuso di potere e integrità, con urgenza, senza analisi oggettive e in condizioni totalmente non trasparenti. Esistono prove sufficienti per indurre il governo a ritirare il progetto di legge riguardante l’amnistia e la grazia", ha scritto Iohannis. Per quanto riguarda l’ordinanza che modifica il Codice penale, gli emendamenti prevedono un esonero della pena per tutti coloro che non sporgono denuncia entro sei mesi dal verificarsi di un reato di cui sono a conoscenza. Inoltre, l’abuso d’ufficio sarà ritenuto un reato solo se i danni recati supereranno i 50 mila euro. Secondo il ministro della Giustizia, Florin Iordache, la misura è necessaria a causa del sovraffollamento delle carceri, dove sono presenti circa 9 mila detenuti in più rispetto agli spazi di detenzione disponibili, e per armonizzare la legislazione ad alcune decisioni della Corte costituzionale. Il ministro ricorda che la Romania è già stata condannata presso la Corte europea dei diritti dell’Uomo per le "condizioni disumane" in alcuni penitenziari. Secondo quanto riferito da Iordache saranno circa 2.500 detenuti a beneficiare della legge su indulto e amnistia. Messico: parla Padre Mario, da 6 anni cappellano di un carcere di massima sicurezza di Tiziana Oberti primocanale.it, 22 gennaio 2017 "Nel falso paradiso di Islas Marias ho scoperto la voglia di bene dei narcotrafficanti". Occhi vispi che ti guardano da dietro gli occhiali ma soprattutto un sorriso vero, sincero, contagioso che scalda e illumina. Questo è padre Mario Picech. Un friulano alto che dal viso trasmette dolcezza, umanità, umiltà. Dal 2011 è cappellano del carcere federale di massima sicurezza di Islas Marias in Messico e quando parla di loro, dei detenuti, tutti narcotrafficanti, vedi nei suoi occhi i loro volti. Quasi si commuove quando ricorda come alcuni di loro tutti i giorni lo convertono. Lo incontro a Genova dove ha tenuto due incontri per raccontare la sua storia ma soprattutto quella di questi uomini. Mi guarda e mi chiede più volte "Ma sei sicura che la mia esperienza possa servire, possa interessare?". Lui vive Islas Marias come la sua quotidianità, i detenuti sono i suoi ‘concittadinì così semplicemente e l’umiltà, la timidezza forse lo spingono a chiedermi ancora "Sei sicura?". Poi inizia a raccontare e non si fermerebbe più. Islas Marias è una realtà difficile, è un falso paradiso immerso nell’oceano Pacifico padre Mario non vuole passi il messaggio che è tutto bello e facile ma nonostante tutto lì in quel carcere ci sono e ci possono essere delle sorprese, c’è "il bene che tanti carcerati cercano e che accomuna tutti". "La cosa più importante che ha imparato? Non giudicare e così ho trovato negli occhi degli altri il fratello. Le persone che incontro hanno commesso delitti gravi ma contemporaneamente scopro ogni giorno la loro umanità". Descrive alcune zone del carcere, quelle di isolamento, paragonandole a "un campo di concentramento", raccontando l’appello che viene fatto ogni 4 ore anche di notte e nei suoi occhi vedi quella lunga fila di uomini in coda per l’identificazione. Ma il carcere può trasformare, convertire l’uomo. Ne è convinto padre Mario che racconta di come lui e gli altri due padri gesuiti siano accettati dai detenuti solo perché "viviamo come loro, insieme a loro l’isolamento. Diventiamo dei confidenti, delle persone a cui raccontarsi e raccontare". Quando è arrivato sull’isola c’erano ottomila detenuti, ora circa duemila. In mezzo una rivolta con dei morti e poi una nuova idea di carcere che la nuova direttrice sta portando avanti: "Sull’isola è arrivato un pianoforte a coda, i detenuti fanno lezione di musica e anche teatro". Nonostante questo "la situazione è comunque difficile, ma cerchiamo di andare avanti: per esempio la direttrice del carcere ora ci ha dato una casa sulla spiaggia dove facciamo dei ritiri, e ora vogliono venirci praticamente tutti, sai perché? Perché l’ultimo giorno danno il permesso di fare il bagno". Lo racconta sorridendo, un sorriso vero e sincero che contagia. Quando lo saluto cappello di lana calato sulla fronte, zaino in spalla, giacca a vento rossa da montagna, sorriso contagioso penso ai suoi detenuti che lo aspettano sull’Islas Marias, penso a quell’uomo che in isolamento dentro una torre in una zona circondata da filo spinato lo ha chiamato e gli ha chiesto "Padre, dimmi il nome di due persone del tuo paese a te care, voglio pregare per loro e lo farò tutti i giorni", penso a questo ‘regalo’ come lo definisce padre Mario. "Un riconoscimento per essere lì con lui, per l’attenzione, per condividere l’isolamento, per sentirsi utile perché in isolamento non puoi far altro che pregare". Ed è così l’amore, il bene si può incontrare nei posti più strani, anche in quelli dove apparentemente la speranza non c’è e invece proprio lì - come dice papa Francesco - incontri il vero uomo. I momenti di isolamento quelli più duri sono anche quelli più "hermosi" come dice padre Mario quelli dove incontri te stesso, Dio e non puoi rimanere lo stesso. Certo non accade a tutti ma a chi succede e anche a chi ne è stato testimone cambia la vita.