L’ergastolo, una pena di morte nascosta di Ornella Favero ilsussidiario.net, 21 gennaio 2017 Una madre che racconta cosa significa andare a trovare un figlio in carceri dove ti sottopongono a continue umiliazioni; una figlia che spiega il male che ti fa per anni non poter toccare tuo padre, vederlo dietro un vetro e sentirlo sempre più lontano, più estraneo; una sorella che arriva nel carcere di Padova, da cui suo fratello è stato trasferito, solo per chiedere che lo facciano ritornare perché qui, nella Casa di reclusione Due Palazzi, c’è un po’ di umanità in più: queste sono le testimonianze che hanno portato i famigliari a questa "Giornata di dialogo contro la pena di morte viva". E sono testimonianze che abbiamo voluto con forza far ascoltare prima di tutto a quei dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, che avrebbero il potere di rendere la detenzione più dignitosa anche senza cambiare le leggi, solo applicandole rigorosamente, e non sempre l’hanno fatto. E poi ai politici, che invece certe leggi le devono cambiare, in particolare quell’articolo di legge maledetto, il 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, che fa dell’ergastolo una pena di morte nascosta, e quella legge che riguarda gli affetti delle persone detenute, che nelle carceri italiane sono davvero calpestati, stritolati, ridotti a sei miserabili ore al mese di colloquio e dieci minuti di telefonata a settimana. E ancora, abbiamo voluto che tanti giornalisti ascoltassero, visto che questa Giornata di dialogo è stata anche una giornata di formazione per loro, che hanno un grande bisogno di imparare a raccontare le vite di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena, e dei suoi famigliari, che la pena, senza aver commesso nulla di male, la stanno scontando insieme. Perché, come ha detto Papa Francesco di recente, tu giornalista fai disinformazione se "all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi lui non può farsi un giudizio serio". Le parole degli esperti, di chi ha studiato e sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, quello che non ti permetterà mai di uscire di galera se non collabori con la Giustizia, sono fondamentali e questa Giornata ha dato loro spazio e ascolto, ma solo un famigliare può spiegare cosa significa, per esempio, avere un padre, o un figlio, che non vedrai mai se non in una sala colloqui di un carcere, e solo un detenuto può spiegare che spesso si sceglie di non collaborare proprio per non mettere a rischio e distruggere la propria famiglia. Anche questi sono aspetti di una realtà, quella delle pene e del carcere, che è complicata, e l’informazione la deve raccontare in tutta la sua complessità. Perché la società ha bisogno non di illudersi che i cattivi sono sempre "gli Altri", ma di capire che può capitare a ognuno di noi "buoni" di avere un figlio, un padre, un fratello che finisce "dall’altra parte". Allora, pensando a quel fratello, quel padre, quel figlio che potremmo anche noi dover andare a trovare in carcere, dobbiamo pretendere che la pena abbia un senso, che rispetti la dignità e che dia speranza. La redazione di Ristretti Orizzonti contro la "Pena di Morte Viva" di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2017 "Non è facile per un ergastolano rimanere un uomo. Infatti, che cosa rende umana una persona? La speranza. Non c’è però nulla da sperare in una pena che finisce nell’anno 9.999". (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com). 20 gennaio 2017 nella Casa di Reclusione di Padova: Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, loro figli, genitori, fratelli e sorelle, compagne, organizzata dalla Redazione di Ristretti Orizzonti, dal titolo: "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita". Quando in redazione abbiamo pensato a questo titolo c’ero anch’io e se nel frattempo il Tribunale di Sorveglianza di Venezia non mi avesse concesso la semilibertà sarei sicuramente stato presente, ma ora desidero lo stesso, a distanza, far sentire la mia voce con questo mio contributo. A mio parere la principale giustificazione morale e sociale a favore della permanenza dell’ergastolo è, nel pensiero dominante, che "tanto prima o poi escono tutti". Un luogo comune. Peccato che nella realtà non sia così e che quindi questa motivazione non possa essere spesa a difesa della pena senza tempo. Al 31 dicembre dello scorso anno i condannati all’ergastolo nelle carceri italiane erano oltre 1.600, circa quattro volte in più di quanti non fossero vent’anni fa. Ma la vulgata vuole che l’ergastolo nei fatti non si sconti. Sorprende e, se è consentito, addolora, che a quel lugubre luogo comune regressivo si riferiscano anche alcuni giuristi per i quali "la carcerazione a vita non esiste più, o meglio non viene applicata". (Si sa: c’è sempre la liberazione condizionale, dietro l’angolo, a permettere dopo – almeno - ventisei anni l’uscita dal carcere degli ergastolani e, dopo ventidue, di coloro ai quali venisse riconosciuto l’ordinario sconto di pena per buona condotta). Questo, sulla carta e nei codici. La nostra personale esperienza ci dice che i dati reali non sono mai stati corrispondenti ai calcoli che alimentano la diceria di un ergastolo ineffettivo e inapplicato. Durante la XIII legislatura, in occasione della discussione del disegno di legge che aboliva il carcere a vita (e che fu approvato dal Senato nel 1997), si scoprì che non erano pochi gli ergastolani che avevano superato il limite di pena scontata per l’accesso alla liberazione condizionale senza poterne godere. Addirittura uno, Vito De Rosa, si trovava sepolto in un ospedale psichiatrico giudiziario da 47 anni (e ci sarebbe rimasto altri sei, prima di essere graziato per andare a morire in un istituto di cura). L’Italia ha abolito nella Costituzione la pena di morte ma, in seguito, i suoi governanti hanno inventato la "Pena di Morte Viva". La prima, infatti, è considerata da tanti troppo breve mentre la seconda è abbastanza lunga per far soffrire di più. Per un ergastolano è davvero difficile vivere senza conoscere il giorno, il mese e l’anno in cui finirà la sua condanna. Ed in questo modo la vita perde qualsiasi significato e valore, diventa perfino una maledizione. Eccovi alcune testimonianze di ergastolani: - Se pensi tutti i giorni e tutte le notti che non uscirai mai, la tua vita diventerà un incubo. Cerhi di soffocare e cacciare via dalla tua testa questo pensiero, per non rischiare d’impazzire. Pensi a qualsiasi cosa per trovare un po’ di sollievo, anche l’ipotesi che un giorno verranno a liberarti gli extraterrestri. (Carcere di Sulmona, Alfio). - Noi, purtroppo, siamo diversi da tutti gli altri prigionieri. Attendiamo davanti al cancello della nostra cella per anni e anni per niente, perché sappiamo che il nostro cancello non si aprirà mai. Almeno fin quando resteremo in vita. Per gli ergastolani aprire gli occhi al mattino richiede una forza sovrumana. E penso subito che io me ne sto qui rinchiuso nella mia cella mentre la vita mi sta passando accanto. (Carcere di Padova, Angelo). - Non ti nascondo che ci sono delle sere che il pensiero che devo rimanere in carcere tutta la vita non mi fa dormire. Se solo avessi un fine pena. Se sapessi il giorno, il mese e l’anno in cui potrei uscire, forse riuscirei a essere una persona migliore, forse riuscirei a essere una persona più buona, forse riuscirei a cambiare. (Carcere di Voghera, Giovanni). - Non possiamo diventare uomini migliori perché noi non abbiamo più nessun futuro. E per la società noi non esistiamo, siamo come morti. Siamo soli come carne viva immagazzinata in una cella, a morire. Eppure a volte, quando mi dimentico di essere morto, io mi sento ancora vivo. E questo è il dolore più grande per un uomo condannato a essere morto. A che serve la vita se non hai nessuna possibilità di vivere? Se non sai quando finisce la tua pena? Se sei destinato a essere colpevole e cattivo per sempre? Negare ad una persona la speranza di diventare una persona migliore è un crimine ancora più grande di quello che si vuole punire. (Carcere di Opera, Mario). - L’ergastolo non è stato ancora cancellato in Italia (anche se anni fa al Senato era passata la sua abolizione) perché sarebbe un atto politico che non porterebbe voti ai partiti, anzi ne farebbe perdere. (Carmelo). Papa Francesco ai detenuti: in Dio c’è sempre un posto per ricominciare ilsussidiario.net, 21 gennaio 2017 La lettera che Papa Francesco ha consegnato a don Marco Pozza in Santa Marta il 17 gennaio scorso, in vista del convegno organizzato ieri da Ristretti Orizzonti nella Cara di Reclusione di Padova. Caro don Marco, ho saputo che nella Casa di reclusione Due Palazzi di Padova avrà luogo un convegno per riflettere sulla pena, in particolare su quella dell’ergastolo. In questa occasione vorrei porgere il mio saluto cordiale ai partecipanti ed esprimere la mia vicinanza alle persone detenute. A loro vorrei dire: io vi sono vicino e prego per voi. Immagino di guardarvi negli occhi e di cogliere nel vostro sguardo tante fatiche, pesi e delusioni, ma anche di intravedere la luce della speranza. Vorrei incoraggiarvi, quando vi guardate dentro, a non soffocare mai questa luce della speranza. Tenerla accesa è anche nostro dovere, un dovere di coloro che hanno la responsabilità e la possibilità di aiutarvi, perché il vostro essere persone prevalga sul trovarvi detenuti. Siete persone detenute: sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive. Vorrei incoraggiare anche la vostra riflessione, perché indichi sentieri di umanità, vie realizzabili perché l’umanità passi attraverso le porte blindate e perché mai i cuori siano blindati alla speranza di un avvenire migliore per ciascuno. In questo senso mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere. Perché se la dignità viene definitivamente incarcerata, non c’è più spazio, nella società, per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono. In Dio c’è sempre un posto per ricominciare, per essere consolati e riabilitati dalla misericordia che perdona: a Lui affido i vostri cammini, la vostra riflessione e le vostre speranze, inviando a ciascuno di voi e alle persone a voi care la Benedizione Apostolica e chiedendovi, per favore, di pregare per me. Papa Francesco contro l’ergastolo: "Non è la soluzione" Il Mattino di Padova, 21 gennaio 2017 La lettera inviata ai detenuti del carcere di Padova: "La pena non scriva la fine della vita". "Immagino di guardarvi negli occhi e di cogliere nel vostro sguardo tante fatiche, pesi e delusioni, ma anche di intravedere la luce della speranza. Vorrei incoraggiarvi, quando vi guardate dentro, a non soffocare mai questa luce della speranza. Tenerla accesa è anche nostro dovere, un dovere di coloro che hanno la responsabilità e la possibilità di aiutarvi, perché il vostro "essere persone" prevalga sul "trovarvi detenuti". Papa Francesco torna a parlare di carcere e lo fa affidando ad una lettera il suo pensiero. La missiva è stata letta da don Marco Pozza, cappellano al carcere Due Palazzi di Padova, nel corso del convegno "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita", organizzato da Ristretti Orizzonti all’interno dello stessa casa di reclusione. Solo pochi giorni prima, Bergoglio aveva consegnato personalmente quel suo testo agli organizzatori dell’evento, invitati in Vaticano proprio in vista della preparazione della Giornata, nata come occasione per riflettere sul valore riabilitativo delle pene detentive. "Siete persone detenute - si legge ancora nella lettera. Sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo". Parole simili il Pontefice le aveva pronunciate lo scorso novembre in occasione del Giubileo dei carcerati, quando chiese pure "un atto di clemenza" per quei detenuti ritenuti idonei. C’è "una certa ipocrisia - disse allora - che spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione". E ancora in queste ore Francesco, nell’omelia alla Casa di Santa Marta, ha esortato i cristiani ad abbandonare quell’egoismo tipico dei dottori della legge, condannando l’arida applicazione dei codici normativi e invitandoli, invece, ad aprire il proprio cuore a Dio che "ci cambia la mentalità". Secondo il Papa, il Signore perdonerà le iniquità e non si ricorderà più dei nostri peccati, perché "questa è la debolezza di Dio - ha ironizzato: quando perdona, dimentica". "Ma questo - ha aggiunto - è anche un invito a non fare ricordare al Signore i peccati", cioè "è un invito a non peccare più" e "a cambiare non solo la mentalità e il cuore ma la vita". La lettera del Papa ai reclusi nel carcere di Padova si chiude invece con una proposta: "Mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti solo di una giustizia retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento". Ad animare Francesco è la convinzione che "incarcerando" la dignità si annulli lo spazio, nella società, "per ricominciare e per credere nella forza rinnovatrice del perdono". La resurrezione dei maledetti, di don Marco Pozza Dietro il ferro delle patrie galere, lo scorrere del tempo è un muggito di tori inferociti: "È come se la lama di una ghigliottina ci mettesse sei settimane a calare" scrive Victor Hugo nella sua opera "L’ultimo giorno di un condannato a morte". Il cuore è dentro la faccenda: "Immagino di guardarvi negli occhi e di cogliere nel vostro sguardo tante fatiche, pesi e delusioni, ma anche di intravedere la luce della speranza". Sono le parole con le quali papa Francesco si è seduto accanto al popolo detenuto nel carcere di Padova. Parole firmate di suo pugno che ha consegnato a una delegazione invitata a celebrare con lui la messa mattutina a Casa Santa Marta il 17 gennaio. Un incontro intimo, familiare nel quale offrire il suo apporto al convegno organizzato ieri da Ristretti Orizzonti, "Contro la pena di morte viva". Il carcere è una città lastricata di volti umani. Di peccati, peccatori, di occasioni: "Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze ed errori dei peccatori" annunciò il Papa, nell’ottobre 2014, nel Discorso alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale. Stordimento, vertigine. Ergastolo è una parola strana. Per pronunciarla ci vuole fegato, a scriverla ci vuole coraggio, certezza pura: i più la decantano a fronte bassa, occhi inetti, aria bovina. Per un condannato all’ergastolo - è di loro che si è parlato ieri con cognizione di causa, precisione di termini, narrazioni di biografie - il tempo è un affare dannatissimo: come appare insopportabile il peso di certi sguardi, così è del calendario. Appeso, pare una beffa: mancano le parole per le emozioni. Capire le ragioni di un uomo condannato all’ergastolo è accettare di mettere in circolo una certa dose di umano. Continua il Papa: "Siete persone detenute: sempre il sostantivo abbia a prevalere sull’aggettivo, la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive". Che il sostantivo venga prima dell’aggettivo, che l’errante si citi prima dell’errore, che la legge sia successiva all’uomo. Niente di più che il manifesto di una giustizia diversa, l’idea di giustizia per la quale lotta Ristretti Orizzonti da decenni: "Un programma politico come non ne sentivamo da anni sulla giustizia (…) Molto più che un pietoso intervento di un Papa sulla condizioni delle carceri" scrisse Ornella Favero in un numero speciale dedicato a papa Francesco. La prigione è una creatura orrenda: metà uomo, metà edificio. Dentro, in questa stoffa ruvida, il Papa allunga il passo: "In questo senso mi pare urgente una correzione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita". La storia è sempre quella: "Hanno ucciso. Che muoiano, in comode rate giornaliere". Chi ha ucciso, a patto che sia ancora vivo dentro, ha già il suo ergastolo addosso: potrà dirsi ex-detenuto, mai ex-omicida. Lo si resta, rimane traccia, un qualcosa di indelebile. L’altro ergastolo, quello da scontarsi fisicamente, forse non serve affatto: a che giova redimersi se poi non esiste possibilità alcuna di riscattare ciò che è stato? Con l’animo imbestialitosi in soprusi, nessuna comprensione sarà possibile. Nemmeno quella del male arrecato, figurarsi del ravvedimento. "Vorrei incoraggiare anche la vostra riflessione perché indichi sentieri di umanità dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Un problema da risolvere, anche dentro una certa chiesa: se la chiesa è un ospedale da campo dopo una battaglia, usando un’immagine di Francesco, allora è troppo facile credere alla risurrezione dei morti. La sfida è credere nella risurrezione dei viventi, dei male-detti di quaggiù: "Se la dignità viene definitivamente incarcerata, non c’è più spazio per ricominciare". È vangelo. "Vi sono vicino e prego per voi (…) Pregate per me". La scelta è sempre tra una parola folle e una vana. Il Papa sceglie la folle. Anche quando non pare, l’uomo rimane la forma di tecnologia più evoluta. La sua gloria. Il messaggio di Agnese Moro Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2017 Cara Ornella e cari amici di Ristretti Orizzonti, questa volta non riesco ad essere con voi in questa giornata di riflessione sull’ergastolo e sulla necessità di abolire una pena che, essendo senza fine, uccide la speranza di tornare ad essere liberi; ferisce l’impegno costituzionale ad aiutare i colpevoli a rivedere criticamente la propria vita e a tornare tra noi a dare il proprio contributo alla vita sociale; punisce nella maniera più crudele e ingiusta coloro - grandi e piccini - che nutrono affetti profondi per chi è condannato a una pena tanto severa. Credo che la questione dell’abolizione dell’ergastolo, prima di riguardare la politica, riguardi tutti noi cittadini. Prima o oltre una discussione in Parlamento è essenziale che ci sia una discussione larga, capillare, serena nelle nostre città e nei nostri paesi. Non ci sono scorciatoie. Quando parliamo di reati tanto gravi da portare a una condanna all’ergastolo tocchiamo una materia incandescente, ci riferiamo ad atti terribili che sono stati compiuti, sopraffazioni e distruzioni della vita di singole persone o, come nel caso della criminalità organizzata, di intere comunità, come avviene, solo per fare un esempio, nella "terra dei fuochi". La discussione da intraprendere non è né piccola né banale. Riguarda come, in concreto, si combatte il male (che tutti siamo capaci di fare) , come lo si sradica dal cuore di chi l’ha compiuto perché non torni mai a farlo, come si curano le ferite di chi è stato colpito spesso irrimediabilmente, come si costruisce una società che sappia prevenire, accogliere e sostenere coloro che abbandonano vecchie e terribili strade. Bisogna sapere che le persone possono cambiare, che sono sempre molto di più del loro reato, e che c’è, come dice la mia amica Grazia Grena, dentro ognuno, qualunque cosa abbia fatto, qualche cosa di buono che può e deve essere illuminato. Anche se non ce ne accorgiamo la nostra società è desiderosa di intraprendere una simile discussione. Si tratta solo di farlo. Un abbraccio Agnese Moro Il messaggio di Don Luigi Ciotti Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2017 Cara Ornella e cari amici di Ristretti Orizzonti, purtroppo non riesco a essere con voi a Padova il 20 gennaio per l'importante incontro di riflessione e proposta sull'ergastolo e la sua eventuale, auspicabile, abolizione. Ho cercato fino all'ultimo di trovare un varco, ma il periodo è fittissimo di impegni e di quotidiane incombenze. Sappi però che ci sarò con il cuore e la grande stima che ho per te e per il lavoro di informazione e di ricerca che hai condotto in questi anni con gli amici di "Ristretti Orizzonti". E importante tenere alta l'attenzione su problemi come quelli del carcere,- tanto più urgenti quanto più esposti, purtroppo, alla rimozione o a discorsi il più delle volte retorici, senza conseguenze concrete. Ed è essenziale farlo con il rigore e l'impegno che vi contraddistinguono, partendo - come sempre e come anche questa volta - dalla storia delle persone, dai loro bisogni e dalle loro speranze, in un ascolto che è premessa di una giustizia più giusta e più umana. Ancora ringraziandovi per quello che fate, ringrazio e saluto. Don Luigi Ciotti "Noi, i figli dimenticati degli ergastolani la nostra vita tra bugie e sensi di colpa" di Silvia Giralucci La Repubblica, 21 gennaio 2017 Qualcuno ricorda di essere tornato da scuola e che papà non c’era più, e di aver capito solo tanto tempo dopo che cosa era successo. Qualcuno si beve per anni la pietosa bugia del papà al lavoro, all’estero. Altri assistono all’arresto, spesso di notte. I figli degli ergastolani crescono senza un genitore, girando l’Italia per i colloqui mensili, perquisiti e sottoposti a tutte le restrizioni pensate per gli adulti, ma su di loro ricadono le colpe dei padri, non hanno diritto neppure alla pietà. A Padova la rivista Ristretti Orizzonti ha organizzato una "Giornata di dialogo" con ergastolani, detenuti con lunghe pene e con i loro figli, compagne, genitori, fratelli e sorelle, una rara occasione per ascoltare le storie di questi figli di "uomini ombra". Così speciale che persino papa Francesco ha mandato attraverso il cappellano del carcere una lettera per invitare gli ergastolani e i loro familiari a continuare a sperare: "Mi pare urgente una correzione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la parola pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere". Le storie dei familiari degli ergastolani parlano di pene che non tengono in nessun conto l’esistenza dei bambini. Francesca Romeo, figlia di Tommaso arrestato 25 anni fa, quando lei aveva 18 mesi: "Ho tanta rabbia dentro, ce l’ho con il mondo intero. Ero piccola e non riuscivo a capire perché il mio papà a ogni mio compleanno, ogni Natale, ogni Pasqua o semplicemente al mio primo giorno di scuola non c’era. Alla morte ci si rassegna, ma io un padre ce l’ho, ma è sepolto vivo". La rabbia è legata soprattutto agli anni di 41 bis, un’ora al mese di colloquio: "Poggiavamo la mano sul vetro per fare finta di toccarci ma in realtà toccavamo un vetro freddo. Per sette anni non ho sentito il calore di mio padre, non ho potuto abbracciarlo né baciarlo né stare sulle sue gambe, cosa che faccio a tutt’oggi anche se ho 23 anni, forse per la troppa voglia di avere un papà come tutti gli altri". Suor Consuelo Rosmini, preside di una scuola a Palermo: "Mio fratello Demetrio è in carcere da 26 anni e 47 giorni, senza mai un permesso. Spostato in carceri diverse ogni due anni, ho visto il suo cervello appiattirsi. Quando è uscito dal 41 bis ci siamo trovati in una grande stanza deserta attorno a un tavolo. Ma non riuscivamo nemmeno a toccarci, a stare vicino. La solitudine inaridisce, ciascuno si chiude in se stesso ed è difficile poi uscirne". Suela Muca, figlia di Dritan, si è sempre vergognata e sentita colpevole. "Ho passato tutta la vita a girare carceri. Non solo dovevo levarmi le scarpe per le perquisizioni prima di entrare, una volta mi sono anche caduti i pantaloni perché mi avevano preso la cintura… sì, a una bambina. Avevo attorno a me famiglie normali, e cercavo di far sembrare normale anche la mia, dicevo solo che mio padre era lontano per lavoro. Col mio fidanzato ho parlato dopo un anno e mezzo che stavamo assieme. È stata una liberazione: piano piano l’ho detto anche agli amici, e infine ho trovato il coraggio di sognare il mio futuro. Mi sono iscritta a Giurisprudenza. Io, la figlia di un detenuto. Non so come, ma sono riuscita a trasformare quella che era una vergogna in un vantaggio". Ieri nel carcere di Padova, quasi 600 persone hanno ascoltato le testimonianze degli ergastolani e dei loro familiari. L’ascolto e il riconoscimento sociale del dolore sono il primo passo per superare il trauma. Poi bisognerebbe pensare a pene che non aggiungessero inutile sofferenza alla privazione della libertà, che tenessero conto della funzione riabilitativa della pena prevista dalla Costituzione. Socially made in Italy, quando l’alta moda italiana è fatta a mano dalle detenute di Patrizia Scarzella lifegate.it, 21 gennaio 2017 Socially made in Italy è un punto d’incontro tra i brand di lusso e le cooperative sociali per valorizzare il lavoro delle detenute in 11 carceri italiane. Socially made in Italy è una comunità che tra etica, moda e diritti umani vede protagonisti i marchi dell’alta moda e le cooperative sociali che si occupano d’inserimento lavorativo con l’obiettivo di valorizzare il lavoro artigianale delle detenute all’interno di undici carceri femminili italiane. Progetto della cooperativa sociale Alice che si occupa di formazione e reinserimento al lavoro di persone svantaggiate, Socially made in Italy è nato per incoraggiare e accompagnare le aziende che vogliono trasformare le loro marche in social brands, cioè in cui l’impegno sociale è un elemento strategico della produzione. Guidato dalla project manager Caterina Micolano e dalla social impact manager Luisa Della Morte, è un network che collega aziende visionarie con designer e laboratori sartoriali e di altre tecniche artigianali come tessitura, pelletteria, feltro e serigrafia avviati nelle sezioni femminili dei penitenziari italiani. Li unisce un’unica visione: un ideale di bellezza sociale oltre che estetica, per dare ai prodotti di alta gamma del made in Italy una precisa identità e connotazione sociale. In undici istituti penitenziari italiani sono stati creati laboratori artigianali di eccellenza che impiegano donne detenute alle quali è stata fornita una formazione professionale specifica: serigrafia a Venezia; sartoria a Milano-Bollate, Genova-Pontedecimo, Roma-Rebibbia, Palermo e Brescia; pelletteria a Monza e Vigevano; tessitura artigianale a Milano-San Vittore; feltro a Catania. A sostenere il progetto sono esponenti del made in Italy, dell’alta moda italiana e del lusso che sono anche i docenti dei corsi formativi e mentori all’interno dei laboratori. Nell’immediato il lavoro è uno strumento per produrre reddito per le detenute ma ha un significato ancor più profondo per il loro futuro fuori dalle mura carcerarie: offre la possibilità di acquisire quel senso di dignità, amore, attenzione, cura e della bellezza che il "ben fatto" sa generare. In collaborazione con Carmina Campus, il marchio di accessori moda di Ilaria Venturini Fendi, Socially made in Italy ha realizzato mille shopper per l’edizione 2016 del Milano design film festival, create dalle detenute delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore usando scampoli tessili. Un’altra progetto è quello con Alisea, azienda vicentina inventrice di Perpetua, la matita realizzata interamente con gli scarti della grafite riciclata, per la realizzazione di G-Case. Disegnato da Marta Giardini, è un contenitore stampato con G-ink, un innovativo inchiostro non inquinante che utilizza polvere di grafite recuperata dai processi di produzione industriale. "Abbiamo alcuni laboratori che hanno raggiunto gli standard qualitativi e competitivi del migliore made in Italy - racconta Caterina Micolano, diventando vere e proprie risorse a disposizione del mercato a prescindere dal fatto che siano collocati all’interno di istituti penitenziari. L’unione tra mondi apparentemente lontani, quello dei luxury brand e dell’impresa sociale, se re-interpretati in chiave non caritatevole e assistenzialistica ma produttiva, può restituire nuovo senso e vigore anche all’economia, rendendola più attenta agli altri e all’ambiente, senza perdere efficienza ed efficacia". La certificazione Sigillo - Il sistema produttivo coordinato da Socially made in Italy è certificato dal marchio Sigillo del ministero della Giustizia che attesta il rispetto dei contratti sindacali di categoria e garantisce l’impatto socialmente utile dell’intervento lavorativo. Sigillo è la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute e un nuovo modello di economia sostenibile. È il marchio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) con cui si certificano la qualità e l’eticità dei prodotti realizzati all’interno delle sezioni femminili di alcuni dei più affollati penitenziari italiani. A gestirlo è un’agenzia dedicata che ne cura le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato in una vera e propria logica di brand: una novità assoluta e innovativa per progetti di intervento sociale da parte della pubblica amministrazione. Il lento recupero della giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2017 Alla fine una possibile chiave di lettura la dà un sommesso Roberto Bichi, presidente del tribunale di Milano. E in una giornata dedicata alla presentazione della ricerca sulle performance della giustizia civile condotta da Italia Decide (presente con il presidente Luciano Violante) e dal ministero della Giustizia, nell’ambito del progetto di ricerca "L’Italia e il valore della reputazione", con ampia dovizia di dati e informazioni sull’andamento di un fattore cruciale per la capacità attrattiva del Paese, Bichi testimonia con plastica icasticità le condizioni concrete di amministrazione della giustizia. E lo fa con riferimento a un provvedimento basico come il "classico" decreto ingiuntivo. Dove a Milano, a fronte di una contrazione dei tempi costante negli anni passati, gli ultimi dati segnalano un aumento dei tempi di rilascio. Perché? Per paradosso di un sistema il cui motto identificativo potrebbe essere un "vorrei ma non posso", a contrassegnare da una parte l’enfasi sulle brillanti sorti e progressive del processo telematico, che, dall’altra però, si scontrano, almeno a Milano (ma non solo) con l’assenza di personale amministrativo competente all’apertura delle buste digitali. Gli fa eco, su scala nazionale questa volta, il presidente della Corte di cassazione, Giovanni Canzio, che sottolinea come al Palazzaccio sono ferme 3mila sentenze in attesa di pubblicazione perché mancano i cancellieri. Una lettura che però non vede del tutto d’accordo il ministro della Giustizia Andrea Orlando che, nel suo intervento, mette in luce i segnali confortanti che stanno arrivando in termini di durata e smaltimento dell’arretrato, dovuti, sottolinea il ministro a tre fattori: l’effetto positivo di mediazione e conciliazione, con il ruolo importante assunto dagli avvocati, l’elevata produttività dei magistrati, la digitalizzazione del processo. Sul peso del fattore risorse, Orlando da una parte rivendica di avere per la prima volta da molto tempo proceduto a un aumento del personale amministrativo, dall’altro ne sminuisce l’incidenza, ricordando che 7 dei peggiori 10 tribunali italiani quanto a risultati è a pieno organico, sia di personale togato sia amministrativo. Inoltre, da Orlando arriva anche una frecciata a chi ha contestato l’aumento, per i magistrati, da 3 a 4 anni di permanenza minima nell’ufficio prima di potere chiedere il trasferimento. "Nel resto della pubblica amministrazione è 5 anni, peraltro", chiosa il ministro. E Orlando mette nel mirino anche quello che gli appare un altro luogo comune: il costo elevato di accesso alla giustizia, fattore determinante, sostengono i critici nel miglioramento delle performance. "Non è così. Ci sono in Europa Paesi dove il reddito medio è assai più basso del nostro, penso ad esempio all’Est, dove i costi della giustizia sono assai più alti", ha detto il ministro. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, intervenendo subito dopo Orlando, rende evidente un certo dissenso, quando puntualizza che decisioni come quella di abbassare l’età pensionabile dei magistrati a 70 anni, ha avuto come effetto il pensionamento anticipato di più di mille magistrati, scoprendo soprattutto le funzioni apicali. Situazione aggravata poi dall’assenza di quasi un terzo della pianta organica del personale amministrativo. Legnini ha poi annunciato per la prossima settimana la revisione del sistema tabellare di organizzazione degli uffici giudiziari. Luci e ombre della Cassazione nell’intervento di Canzio. Che ha anticipato alcuni dati rispetto all’inaugurazione dell’anno giudiziario della prossima settimana. I ricorsi complessivi sono 83mila, 50mila dei quali nel penale, dove, per esempio, il fattore prescrizione è pressoché nullo, 677 in tutto nel 2016, e il tasso di annullamento è basso (il 22%), a riprova della stabilità nell’interpretazione delle norme da parte della magistratura. Semmai è discutibile il numero elevato di ricorsi contro condanne patteggiate con il pubblico ministero. Più difficile la situazione del civile, in assenza oltretutto del filtro di ammissibilità, dove dei 30mila ricorsi il 40% riguarda il contenzioso tributario con previsioni di crescita notevolissime nel corso dei prossimi anni, in assenza di interventi. Tiepido, Francesco Greco, procuratore di Milano, sulla proposta avanzata nell’ambito della ricerca di un’estensione delle competenze del tribunale delle imprese ai reati societari. Meglio, ha sottolineato Greco, pensare a un nuovo intervento sulla geografia giudiziaria, chiudendo i piccoli tribunali, "ha senso l’avvocato di prossimità, non il magistrato", per rafforzare organici e competenze di quelli distrettuali, dove la stessa Procura milanese è peraltro in affanno. Greco, un po’ celiando, ha ricordato di avere fatto entrare, l’anno scorso, tra i 2 e i 3 miliardi nelle casse dello Stato, per effetto delle misure patrimoniali esito dei procedimenti penali avviati nei confronti di alcune grandi società. Per Greco così, deve essere valorizzata la giustizia negoziata. "Considero un errore non avere previsto - ha concluso - la non punibilità in caso di adesione all’accertamento fiscale. Ma sono stato l’unico a sostenerlo". Primi in Europa per smaltimento, ma record di cause ancora pendenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2017 Dalla ricerca, presentata dal direttore generale della Statistica giudiziaria Fabio Bartolomeo, emergono elementi confortanti e comunque significativi, che premiano lo sforzo del ministero della Giustizia nel corso di questi ultimi anni. Elementi che hanno permesso all’Italia di scalare posizioni nella classifica, per esempio, dei sistemi giuridici messa a punto dalla Banca Mondiale: l’analisi del ranking, osserva la ricerca, e degli indicatori che lo determinano mette in evidenza come tra il 2009 e il 2016 Francia e Germania hanno fatto registrare un peggioramento. L’Italia, invece, è quella che ha ottenuto evidenti progressi, in un quadro complessivo ancora però ampiamente insoddisfacente. In ogni caso la durata media, che nelle statistiche di Banca Mondiale comprende anche la fase dell’esecuzione di un procedimento di una certa complessità, si attesta a 1.120 giorni, con un taglio di 90 giorni rispetto al 2009 che ha avuto come effetto un passaggio in graduatoria dal posto n. 156 a quello n. 108(miglioramento di 48 posizioni. Peggiori i risultati messi a segno da Francia, che perde 12 posizioni, dal sesto al diciottesimo posto (i tempi medi sono aumentati di 64 giorni, a 395 giorni complessivi) e Germania, ora in diciassettesima posizione, dalla precedente settima (105 giorni in più, adesso 499) Esito di un’elevata capacità di smaltimento, il rapporto tra definizioni e nuove iscrizioni. Che risulta la più alta in Europa; dato che però si confronta con il più elevato stock di pendenze. Tuttavia, fino al 2010 l’Italia si collocava su valori molto distanti dalla media europea adesso la forbice con Paesi come Francia, Germania e Spagna, si sta restringendo. Tanto più che il tasso di litigiosità, numero di cause per 100mila abitanti, è in diminuzione anch’esso: negli ultimi 6 anni da circa 2,4 milioni di nuove iscrizioni di contenzioso civile di primo grado si è passati a 1,6 milioni. A determinare il calo una pluralità di fattori, dalla crisi economica ai costi di accesso alla giustizia. È vero però che le definizioni che, a partire dal 2010, superano le iscrizioni, tuttavia calano al diminuire delle nuove cause. Ergo: se il tasso di smaltimento (si veda la tabella pubblicato sopra) rimarrà al 119% pendenze e tempi si ridurranno progressivamente. La durata media di un procedimento civile, per esempio, passerebbe da 527 giorni del 2016 a 349 nel 2019; ma se il tasso di smaltimento dovesse scendere (e qualche avvisaglia già c’è) i 527 giorni del 2016 diventerebbero 560 nel 2019. La ricerca fa anche il punto in un quadro comparativo su un tema caldo come quello delle risorse. A emergere è un sostanziale allineamento del nostro personale, sia togato sia amministrativo, rispetto agli altri Paesi europei (tabella a fianco), anche se, rispetto agli amministrativi, la ricerca mette in evidenza la necessità di un approfondimento delle diverse mansioni svolte. Nessuna emergenza quindi? Non proprio, perché se il personale è omogeneo, a non esserlo è proprio il volume delle cause in ingresso e soprattutto pendenti. Si aggiunge poi un’Italia della giustizia "a macchia di leopardo", dove ci sono tribunali in grado di giocarsela, quanto a tempi, con quelli delle principali città europee (Torino e Milano, per esempio, a confronto con Parigi, Berlino e Madrid) e altri ancora sideralmente distanti, non solo nel Meridione. Tanto da far dire alle conclusioni della ricerca che un fattore determinante è ormai quello organizzativo, uso delle risorse disponibili cioè, con un Nord Ovest dove un’impresa italiana o straniera può operare a condizioni simili a quelle delle grandi città europee comparabili. Responsabilità civile: giudici sempre assolti, nel 2015 solo lo 0,01% di condanne di Claudia Morelli Italia Oggi, 21 gennaio 2017 Aumentano significativamente le azioni di responsabilità nei riguardi dei magistrati per "dolo o colpa grave" ma il numero di condanne sinora è stato "insignificante". Dall’entrata in vigore della legge del 2015 n 18, che ha apportato modifiche alla legge n. 117 del 1988 (legge cosiddetta Vassalli) eliminando, tra l’altro, il filtro di ammissibilità originariamente previsto per le azioni di responsabilità per danno nei confronti delle toghe, sono più che raddoppiati gli esposti, passando da 35 (nel 2014) a 70 nel 2015 e a 80 del 2016. Ma il numero di condanne è pari allo 0,01% (i provvedimenti spettano alle Corti d’appello). I dati aggiornati sull’applicazione di una legge che ha rappresentato uno dei momenti di tensione tra Anm e Governo Renzi (peraltro ieri l’Associazione ha annunciato l’incontro con il ministro Orlando per il giorno 24 gennaio) sono contenuti nella versione integrale Relazione sullo stato della Giustizia del 2016 (vedi anche Italia- Oggi del 18 gennaio). Per il ministero "non si è, finora, verificato il temuto aumento esponenziale del contenzioso" e in ogni caso il numero di condanne è "insignificante": nessuna nel 2015; una sola, attualmente in fase di appello, nel 2015. Ci sono poi le 18 segnalazioni stragiudiziali che annunciano potenziali azioni di responsabilità. Via Arenula ha avviato 107 nuove cause (a fronte di 56 nel 2015) che vedono il ministero della giustizia legittimato passivo innanzi al giudice ordinario in ordine ad asseriti danni per il comportamento del cancelliere, dell’ufficiale giudiziario, del consulente tecnico o del perito, sempre in relazione al principio della responsabilità diretta dei funzionari e dei dipendenti dello Stato ex art. 28 Costituzione. Collegando questi dati alla più intensa attività ispettiva condotta dal Ministero, emerge una attenzione più sensibile di via Arenula rispetto al controllo sull’esercizio della funzione giudiziaria e sulle attività di supporto (quali il funzionamento di cancellerie, uffici Unep ecc.). Nel 2016 sono stati iscritte nel "registro esposti" 992 procedure (29 nel 2015), tra esposti e segnalazioni preliminari scaturenti da esposti di privati cittadini, informativa di pm, inchieste, ispezioni mirate, segnalazione di danno erariale (rilevati danni erariali azionabili per un importo complessivo di euro 126.637,93 quale somma da recuperare). Il numero è complessivo e riguarda magistrati, magistrati onorari e personale amministrativo. 170 gli uffici giudiziari sottoposti a ispezioni ordinarie (routine amministrativa) Delle oltre 900 procedure definitive nell’anno, 464 sono state definite con proposta di archiviazione e 237 con archiviazione diretta; 139 con trasmissione ad altri organi competenti; per 64 procedure sono state azionate azioni disciplinari. La ratio della nuova "politica" ispettiva l’ha spiegata proprio il ministro Andrea Orlando, nel suo intervento in Parlamento lo scorso 18 gennaio. "Le ispezioni ministeriali sono rivolte molto meno a verifiche di irregolarità di carattere formale e più a lesioni dei diritti delle persone o comportamenti che gettano discredito sulla magistratura o violano le regole di funzionamento degli uffici. Il sistema disciplinare funziona; se devo fare un appunto è nei tempi lunghi delle decisioni del Csm", ha evidenziato. D’altra parte, proprio due giorni fa il Consiglio d’Europa, nel rapporto Greco su Italia e attività contro la corruzione, ha indirizzato all’Italia alcuni warning (che dovranno trasformarsi in interventi concreti entro il 30 aprile del 2018) tra cui alcuni con riguardo specifico ai magistrati. Se dunque pare condivisa l’opportunità di un più stringente controllo sull’attività dei magistrati (e non solo) in funzione di una migliore resa del servizio giustizia, questo presuppone il pieno rispetto della loro autonomia e indipendenza. E certo la mossa del Governo Renzi di prorogare in servizio solo alcuni magistrati non hanno rappresentato un buon segnale di rigoroso rispetto della separazione tra poteri. Carlo Nordio: "Giudici in politica, la legge si approva in mezza giornata" di Errico Novi Il Dubbio, 21 gennaio 2017 "Disegno preordinato contro la magistratura? No, non è l’idea che mi sono fatto. Non è che ci vogliono affossare: vedo solo incapacità di comprendere i problemi della giustizia e sostanziale indifferenza". Carlo Nordio è disincantato, non scorge perfide macchinazioni, non cede al dietrologismo neppure ora che la mancata estensione della proroga lo mette a un millimetro dalla pensione, prevista il 6 febbraio e a questo punto, per lui, quasi inevitabile. Semplicemente diffida della capacità del legislatore "in materia di codice penale come di trattamento di noi magistrati". Aggiunto a Venezia, svolge funzioni di capo perché il 1° gennaio è già andato in pensione il procuratore Luigi Delpino: dopo una brillante carriera di inquirente assapora il gusto un po’ agrodolce di una funzione direttiva da svolgere per altre due settimane appena. "Ma il pensionamento arriva per me a un età giusta. Il problema non è personale ma ordinamentale: senza la proroga sono già andati in pensione 100 magistrati a gennaio, ancora di più si congederanno nei prossimi mesi, si tratta di uno tsunami senza precedenti per i vertici degli uffici, del tutto insensato: non si risparmia una lira, i magistrati anziani al massimo della carriera percepiscono una pensione identica all’ultimo stipendio. Almeno una parte di noi andrà sostituita, le nuove assunzioni hanno un costo e poi non è che si entra in servizio il giorno dopo aver vinto il concorso…". Il suo scetticismo riguarda anche le regole sull’attività politica dei giudici: reclamate l’altro ieri dal Gruppo anti- corruzione ( Gr. e. co.) del Consiglio d’Europa. "Quella che giace ora in Parlamento si può approvare in mezza giornata". È ferma da quasi tre anni. Partiamo dal richiamo di Strasburgo. Tra richieste di trasparenza sul reddito dei giudici e di controlli sulla gestione dei fascicoli, si adombra lo spettro di magistrati corruttibili o almeno pesantemente condizionabili. E questo, me lo lasci dire, non ha senso. Alla magistratura italiana si possono cointestare tante cose, ma a parte casi rarissimi non è la corruzione il problema. Casomai lo sono certe scelte improprie come quella di fare politica. La proposta di legge è passata al Senato ed è ferma a Montecitorio da quasi tre anni, come ha ricordato il laico del Csm Zanettin. Premessa: resto convinto che ai magistrati l’attività politica vada impedita persino quando sono ormai in pensione. Diventa un problema a maggior ragione quando si tratta di inquirenti che hanno condotto inchieste ad altro coefficiente politico: la loro attività può finire per essere letta come un preordinato disegno per prepararsi una cuccia calda prima di andare a riposo. E poi c’è un’altra ragione, più sottile ma altrettanto importante. Quale? Un magistrato che magari si è guadagnato una certa fama con la propria attività, se entra in politica finisce per sfruttare quell’immagine alterando così la par condicio con gli altri candidati. È un’ammissione che le fa onore. Non ho problemi a riconoscerlo perché lo verifico di persona: mi capita cioè di essere fermato per strada e di sentirmi dire "ah, è stato proprio bravo con quell’inchiesta sul Mose, dovrebbero fare tutti come lei". Vero o falso che sia, ho fatto semplicemente il mio dovere e non credo che da questo sia giusto ricavare vantaggio. Il Csm suggerisce di impedire il rientro in magistratura a chi è stato in Parlamento. Certo che non dovrebbe rientrare. L’unico problema è che per limitare l’ingresso in politica o il ritorno alle funzioni giurisdizionali credo serva almeno inserire in Costituzione una riserva di legge. Con la Carta vigente si rischia di violare il principio di uguaglianza. La legge ferma a Montecitorio si limita a vietare per due anni l’esercizio della funzione di magistrato nello stesso collegio dove si era stati eletti. E per una norma del genere non serve ritoccare la Costituzione: la si approva in mezza giornata. Ma i deputati della commissione Giustizia dicono: abbiamo accantonato quel testo perché nel frattempo abbiamo cambiato il codice antimafia, le norme sulle confische, le pene per il caporalato e tanto altro ancora. Ho presieduto una commissione per la riforma del codice penale: parliamo di strutture complesse e organiche, ed è sempre un errore modificarle in modo frazionato, o le si rende sempre più instabili. Il nostro codice porta ancora le firme di Mussolini e Vittorio Emanuele III, su materie come la disponibilità del diritto alla vita è tipicamente fascista. Meriterebbe di essere cambiato radicalmente, non di volta in volta con l’eliminazione di discriminanti sui diritti di difesa, con nuove aggravanti, nuovi reati o nuove pene. E invece questo si è fatto. Se uno apre il codice trova più frasi in corsivo che in grassetto, vuol dire che soppressioni e aggiunte superano la norma originale: così la certezza del diritto va a ramengo. Ai politici d’altra parte interessa finire sui giornali con le leggine ad hoc, che assecondano l’emotività del momento, come per l’omicidio stradale. D’accordo, si è esagerato che l’introduzione di nuovi reati, ma se per regolare almeno un po’ l’attività politica di voi giudici basta mezza giornata, perché non lo hanno fatto? Avevano timore di mettersi contro di voi? Questo è di gran lunga il governo che ci ha maltrattato di più. Altre volte abbiamo subito aggressioni, ma da quelle è più facile difendersi. Stavolta siamo stati semplicemente presi in giro, e almeno su questo sono d’accordo con Davigo. Parlo delle norme sui trasferimenti come di quelle sulle pensioni. Condivide la decisione dell’Anm di disertare la cerimonia in Cassazione? Sì, la risposta dell’Anm è stata la migliore, sono sempre stato contrario allo sciopero e d’altra parte un segnale forte andava dato: non partecipare alle inaugurazioni è la cosa più giusta. Due giorni prima Davigo vedrà Orlando. L’incontro del 24 rischia di essere una barzelletta: nell’occasione precedente c’era anche il presidente del Consiglio e agli impegni presi non è seguito nulla, stavolta c’è solo il ministro che è sempre lo stesso. Non vedo l’utilità ma chissà, spero si rendano conto dell’errore sulle pensioni. Va a finire che la proroga arriva il giorno dopo che si sarà dovuto congedare lei. Eh già, ma vede, siamo preparati a tutto. Avremmo preferito ci fosse risparmiato un trattamento che non usano neppure le persone maleducate nei confronti delle colf. So solo che Venezia resterà nelle mani di un aggiunto costretto a fare il lavoro di tre persone, e che ci vorrà un anno per nominare un nuovo capo. Qui e in tanti altri uffici, e nessuno ha spiegato che senso abbia tutto questo. Lazio: prosegue il progetto Libri Fragili, realizzato con il finanziamento della Regione Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2017 Prosegue il progetto Libri Fragili che ArteStudio realizza con il finanziamento della Regione Lazio nell’ambito dell’Avviso pubblico "Io Leggo". "Libri fragili" porta la lettura di grandi classici della letteratura mondiale in 5 Istituti penitenziari del Lazio, in un centro per immigrati e una comunità psichiatrica e realizza incontri in libreria e workshop di scrittura per detenuti e richiedenti asilo. Prossimo appuntamento mercoledì 25 gennaio ore 10.00 presso la Casa circondariale di Latina dove Alba Bartoli, Maria Sandrelli e Eva Grieco leggeranno brani di Calvino, Alice Munro e Conrad ai detenuti della sezione maschile dell’Istituto. Gli incontri proseguono fino a marzo presso il carcere femminile di Rebibbia, la Casa circondariale di Rieti, il carcere di Velletri e ancora la Casa circondariale di Latina e Regina Coeli, la Comunità Terapeutica di Corviale, Il Centro Immigrati di Programma Integra, la libreria Odradek di Roma. Libri Fragili è un Progetto finanziato con la legge regionale 21 ottobre 2008, n. 16 - Avviso pubblico "Io Leggo". Torino: è morto Claudio Renne, uno dei due detenuti che denunciò le torture ad Asti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2017 La Cedu aveva dichiarato ammissibile il ricorso sui maltrattamenti. Lo scorso 11 gennaio è morto Claudio Renne, uno dei detenuti che denunciò le torture subite nel carcere di Asti. A darne la notizia è stata l’esponente radicale Rita Bernadini su Facebook: "È morto uno dei detenuti torturati nel carcere di Asti più di cinque anni fa. Mi ha dato la triste notizia il Garante dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano. Claudio era ricoverato alle Molinette dal 27 dicembre, giorno in cui Bruno Mellano lo aveva ancora visto in carcere, perché rifiutava di andare in ospedale, ma nella stessa giornata si era convinto e lo avevano trasferito; stava molto male. Con la Garante comunale Gallo e l’avvocato Mellano sta seguendo la vicenda del risarcimento legato alla detenzione di Asti dove furono accertati episodi di maltrattamento e tortura". La storia ha dell’incredibile, anche se non è l’unica. Il 10 dicembre del 2004, Claudio Renne, all’epoca 30enne, di Novara, e Andrea Cirino, oggi 37enne, di Torino, reclusi nella casa circondariale di Quarto per reati contro il patrimonio, hanno avuto un diverbio con un agente della polizia penitenziaria. Tornato dai colleghi la guardia ha raccontato di aver subito un’aggressione da parte dei due detenuti. A quel punto è partita una spedizione punitiva contro Renne e Cirino, portati da un gruppo di agenti nella sezione isolamento, dove sono stati denudati e tenuti in celle prive di vetri nonostante il freddo. I due detenuti sono stati quotidianamente picchiati, insultati, privati del sonno e della possibilità di lavarsi, tenuti senza materassi, lenzuola, coperte e con il cibo razionato. Un agente ha schiacciato la testa di uno dei due con i piedi. "Non mi facevano dormire. Faceva così freddo che ero costretto a stare tutta la notte per terra, attaccato a un piccolo termosifone. Non appena mi addormentavo, alzano lo spioncino e gridavano: "Stai sveglio, bastardo". Poi sentivo i passi con gli anfibi e allora capivo: mi rannicchiavo. Loro entravano in sette od otto nella stanza e partivano calci, pugni, schiaffi. Speravo solo che la raffica finisse, ma non finiva mai", ha raccontato anni dopo Cirino. Il 23 novembre del 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva dichiarato ammissibile il ricorso di due detenuti sottoposti a torture e il ministero della Giustizia aveva offerto un risarcimento di circa 40mila euro ciascuno ai due detenuti per revocare la causa davanti alla Cedu. L’indagine giudiziaria sui fatti di Asti iniziò nel 2005 in seguito a due intercettazioni del 19 febbraio 2005 nei confronti di alcuni operatori di polizia penitenziaria sottoposti a indagine per altri fatti. C’è uno stralcio delle intercettazioni che rende chiara l’idea. Si tratta di un dialogo tra due agenti, P e B: P … Invece da noi non è così… a parte il fatto che… da noi tutta la maggior parte che sono… è tutta gentaglia… è tutta gente che prima… e poi scappa… Poi vengono solo… quando sono in quattro cinque… così è facile picchiare le persone B. E bello… P. Ma che uomo sei… devi avere pure le palle… lo devi picchiare… lo becchi da solo e lo picchi… io la maggior parte che ho picchiato li ho picchiati da solo B Si... sì P. Ma perché comunque non c’hai grattacapi… non c’hai niente… perché con sta gente di merda… hai capito… perché qua... oramai… sono tutti bastardi… oramai c’abbiamo il grande Puffo… che deve fare le indagini… hai capito? B. Chi? P. Ha rotto i coglioni… mo dice che ha mandato la cosa di S… in Procura… B. Quale S? S… dice che ha picchiato non so a chi… là ha mandato tutto in Procura… ha preso a testimoniare un detenuto… cioè noi dobbiamo stare attenti pure su… se c’è un… pure con le mani bisogna stare attenti. Eh, anche perché rovinarti per uno così a me l’altra volta che io e D. picchiammo… La Corte di Cassazione, il 27 luglio del 2012, confermò quello che accadde all’interno del carcere piemontese. La sentenza del giudice aveva stabilito che i fatti "potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura". Ma il reato di tortura, in Italia, non esiste. Il giudice ha dovuto procedere per reati più lievi, arrivando ad assoluzioni e prescrizioni. Agrigento: Moscatt (Pd) in sopralluogo al carcere di Petrusa lavalledeitempli.net, 21 gennaio 2017 A compimento di una precedente programmazione col Guardasigilli Orlando e interpellato il Direttore della Casa circondariale di Agrigento Aldo Tiralongo, stamane il deputato nazionale del Partito democratico Tonino Moscatt ha fatto visita al carcere di contrada Petrusa. "Insieme al Direttore e le maggiori rappresentanze che animano professionalmente l’Istituto, abbiamo affrontato i problemi del personale e dei detenuti. Ho trovato lavoratori eccezionali che operano con intensità malgrado le tante difficoltà. Infatti - afferma Moscatt - dalla mia perlustrazione, come annunciato dai sindacati, è emersa una situazione del tutto indecorosa negli uffici, che oltre ad essere freddi presentavano surreali piogge interne dovute a infiltrazioni mai arginate e peggiorate, col rischio - oltretutto - di pericolosi corto circuiti". "Mi hanno rincuorato però - spiega l’esponente Pd -le parole del ragioniere capo dell’Istituto penitenziario, il quale mi ha garantito dell’esistenza degli appalti già avviati per i lavori straordinari che prevedono la copertura del tetto, il rifacimento dei solai, la sistemazione del pavimento divelto e la manutenzione ordinaria delle opere. Ad ogni modo mi sono attivato per un incontro col Provveditore regionale per l’ottenimento di risorse aggiuntive straordinarie che compenserebbero anche i problemi dovuti ai servizi igienici sanitari che, per tutto ciò, servirebbero a riadeguare quest’ultimi insieme all’acquisto dei mobili in netta carenza negli spazi d’ufficio. Nella ricognizione delle cose che riguardano i detenuti, invece, mi premurerò di segnalare, a chi dovere, alcune limitazioni che andrebbero modificate; come il percorso docce dei reclusi posizionati all’esterno delle loro celle che invece dovrebbero essere interne. Ho appurato che il lavoro degli educatori, a servizio di chi sta scontando la pena, è encomiabile. Per professionalità e dedizione quelli in servizio alla casa circondariale di Agrigento non sono - conclude il deputato nazionale Pd Tonino Moscatt - secondi a nessuno". Paola (Cs): il Presidente della Provincia Di Natale in visita alla Casa circondariale lameziainstrada.com, 21 gennaio 2017 È di ieri la visita del Presidente della Provincia Graziano Di Natale alla Casa Circondariale di Paola, organizzata con l’appoggio dell’Associazione Pier Giorgio Frassati. La Direttrice dell’Istituto Penitenziario della Cittadina tirrenica, Dott.ssa Caterina Arrotta e il Comandante Isp. C. Nilo Antonio Russo hanno accompagnato Di Natale all’interno della struttura, consentendogli di prendere visione degli ambienti e conoscere più da vicino la vita quotidiana dei detenuti. "Sono rimasto davvero colpito dalla struttura e dalle tante attività che si svolgono all’interno dell’istituto - ha dichiarato il Presidente della Provincia - ed il mio plauso va all’ottimo lavoro che giornalmente compie la Direttrice, attenta e precisa". L’incontro è stato predisposto per cercare di ricreare le condizioni affinché si possa giungere al giusto reinserimento dei detenuti all’interno della società, anche attraverso la consegna di mezzi di comunicazione atti a consentire lo svolgimento di attività creative ed integrative. "Il mio intento - ha detto a questo proposito Graziano Di Natale - è quello di garantire un equilibrio sociale per tutti". Taranto: ristorante "Art. 21", quando la solidarietà diventa buona cucina di Valentina Stella Il Dubbio, 21 gennaio 2017 Da qualche mese a Taranto, a Porta Napoli, a due passi dal mare e dal quartiere Tamburi a ridosso dell’Ilva, si può mangiare ottimo pesce in un posto molto particolare: è il ristorante sociale ‘ Art. 21’, nato da una idea di don Francesco Mitidieri, cappellano del carcere di Taranto che insieme allo staff dell’associazione "Noi e Voi" gestisce una casa famiglia per carcerati in misura alternativa e richiedenti asilo. Costola della cooperativa è proprio la trattoria pugliese di cui fanno parte un detenuto in semi libertà, due ragazzi immigrati, sbarcati dall’Africa e transitati prima nei centri di accoglienza, e tre ragazzi della periferia tarantina che si alternano nella cucina e tra i tavoli del ristorante per una nuova esperienza di lavoro, di integrazione e solidarietà, di speranza per un futuro nuovo e diverso dal proprio passato. Ad affiancare i ragazzi come volontario c’è uno chef professionista per far acquisire loro le competenze che potranno essere utili dentro e fuori il locale. Don Francesco come nasce l’idea di Art. 21? Siamo partiti grazie al sostegno della fondazione Megamark che ci ha permesso di mettere per iscritto la nostra idea progettuale di creare un luogo che divenisse crocevia di diverse culture, persone e realtà sociali. Ma siamo rientrati anche in un progetto finanziato da Fondazione con il Sud, che prevede la valorizzazione della città di Taranto, in particolare del quartiere Paolo VI. Quando i sogni sono condivisi diventano realtà. Perché chiamare il ristorante proprio Art. 21? Coincidenza come provvidenza: l’articolo 21 della Costituzione italiana è quello sulla libertà di pensiero e quindi luogo di incontro come lo avevamo immaginato, l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario regolamenta il lavoro fuori dal carcere, e l’articolo 21 del testo unico sull’immigrazione è strumento reale e concreto per gli immigrati per avere un regolare permesso di soggiorno. Qual è l’obiettivo a lungo termine di questo esperimento solidale? La nostra idea è quella di creare un welfare sostenibile, incrementare attività come questa e crearne di nuove: proprio ieri è stata firmata da parte del presidente della cooperativa Antonio Erbante una convenzione con il carcere per avviare una pasticceria all’interno dell’istituto di pena. Don Francesco, un utente su Tripadvisor, il noto portale di recensioni, scrive di Art. 21 ‘ Quando la solidarietà si fa gusto". Come è stata accolta l’iniziativa dalla città? Benissimo. Lo notiamo soprattutto dal fatto che molta gente ritorna a mangiare da noi. Le persone che sono venute all’inizio incuriosite tornano con le proprie famiglie e non più come rappresentanti di singole associazioni invitate o attirate dal passaparola della novità. Lei è da oltre dieci anni cappellano della casa circondariale di Taranto. Secondo la scheda del ministero della Giustizia ci sarebbero quasi 200 detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Esistono delle criticità all’interno della comunità penitenziaria? Dopo la sentenza Torreggiani è migliorata la situazione di vivibilità. Qui a Taranto stiamo vivendo questa grande apertura da parte della direzione del carcere nei confronti del territorio e questa per me è la strada maestra, perché nel momento in cui il carcere e la città iniziano a dialogare cambia il modo di vedere chi esce dal carcere, e quindi non ci sono più tanti preconcetti nei confronti di chi ha commesso un reato, così come anche per chi è all’interno del carcere ci sono tante occasioni che sono realmente rieducative e risocializzanti. Mercoledì nella sua relazione al Parlamento il ministro Orlando ha dichiarato anche di voler ‘ procedere per la strada delle pene alternative, delle comunità come luogo "in cui scontare la propria pena". Qual è il suo giudizio? Bisogna sperimentarsi in una graduale libertà, in una riacquisizione del vivere sociale. Isolare una persona, tenendola chiusa, senza un dialogo tra carcere e città non ha senso. Invece le misure alternative permettono di scontare una pena, perché bisogna ricordare - visto che spesso ci si dimentica - che le misure alternative sono una reale esecuzione della pena fatta all’esterno dell’istituto carcerario, attraverso cui il detenuto può valorizzare le proprie risorse, come le relazioni affettive e familiari e sociali e può darsi anche concretamente da fare, cercando di trovare occasioni formative e lavorative, cosa che all’interno delle carceri può diventare più difficile. Noi continueremo su questa strada, come già facciamo da 15 anni San Gimignano (Si): raccolta "cella a cella" dei rifiuti, la differenziata entra in carcere gonews.it, 21 gennaio 2017 Le buone pratiche ambientali entrano in carcere con la raccolta differenziata dei rifiuti tra i detenuti grazie ad un servizio di "cella a cella". È quanto sancito con l’innovativo protocollo firmato oggi a San Gimignano dal sindaco Giacomo Bassi, dal presidente di Sei Toscana Roberto Paolini e dalla direttrice della casa di reclusione di Ranza Maria Cristina Morrone. L’intesa tra le parti, della durata di 5 anni, oltre a ridurre la produzione dei rifiuti urbani ed aumentare la capacità di conferimento di quelli riciclabili, mira ad educare i detenuti ad una corretta gestione dei rifiuti urbani, nell’ottica del perseguimento dei modelli di sviluppo sostenibile tesi ad un maggiore rispetto dell’ambiente. Proprio i detenuti, dopo alcune lezioni tecniche effettuate dal personale tecnico di Sei Toscana, vestiranno i panni di "operatori ecologici" del carcere ed effettueranno la raccolta dei rifiuti differenziati di cella in cella. "Un’intesa che ha una duplice valenza, ambientale e sociale - hanno sottolineato il sindaco di San Gimignano Giacomo Bassi e l’assessore all’ambiente Niccolò Guicciardini. Dal corretto smaltimento dei rifiuti in carcere ne trarrà giovamento la differenziazione e il riciclo e, al contempo, si coinvolgono così i detenuti in un progetto sociale. Come amministrazione comunale siamo lieti di compartecipare a questo progetto che ci auguriamo possa fare scuola in Toscana e in Italia. Un’ulteriore dimostrazione di come il rapporto tra Comune di San Gimignano e casa di reclusione si stia sviluppando e rafforzando a più livelli grazie alla disponibilità dimostrata dall’attuale direzione". "Sei Toscana collabora sempre volentieri con le amministrazioni comunali - ha dichiarato il presidente di Sei Toscana Roberto Paolini - non solo quando si tratta di introdurre servizi specifici che riescano ad incrementare le quantità di rifiuti raccolti in maniera differenziata, ma anche, come in questo caso, quando vengono promossi progetti che hanno in sé una valenza sociale importante. Infatti, come dimostrato dall’impegno che fin dai primi anni di vita Sei Toscana ha messo nella sensibilizzazione nei confronti dei cittadini aderendo e supportando in prima persona svariate campagne, o nei confronti dei ragazzi in età scolare con il progetto di Educazione Ambientale "Ricreazione", crediamo molto in tutte quelle azioni che riescano a veicolare a tutti i livelli della società messaggi positivi. Desidero quindi ringraziare l’amministrazione comunale di San Gimignano e la direzione della casa penitenziale per questa opportunità che, attraverso un servizio, ci consente di portare all’interno di questa struttura le tematiche ambientali, nella convinzione che siano elementi importanti nonché valori ai quali rifarsi e da trasmettere trasversalmente". "Si tratta di un risultato eccezionale, il mio più sentito ringraziamento al presidente di Sei Toscana, al sindaco e all’assessore all’ambiente del Comune di San Gimignano per l’impegno fattivo profuso fin dal momento della progettazione d’intesa - ha evidenziato la direttrice della casa di reclusione Maria Cristina Morrone. La formazione riguarderà anche il personale penitenziario e la raccolta differenziata sarà effettuata anche negli spazi interdetti ai detenuti. Nell’area delle celle invece alcuni detenuti avranno delle mansioni specifiche in base ad una calendarizzazione ben specifica". A gennaio e a luglio di ogni anno, secondo quanto stabilito dal protocollo d’intesa, è convocata una riunione tra le parti per verificare l’attuazione ed i risultati del progetto, nonché al fine di proporre eventuali azioni migliorative. Fonte: Comune di - Ufficio Stampa Modena: sport dietro le sbarre, il Csi raccoglie materiale sportivo per i detenuti modenatoday.it, 21 gennaio 2017 Sport dietro le sbarre, Csi Modena raccoglie materiale sportivo per i detenuti. Csi Modena Volontariato inizia il 2017 con una concreta operazione per aiutare i detenuti degli istituti penitenziari di Modena e provincia, nello specifico la popolazione carceraria della Casa Circondariale S. Anna di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. A partire dal mese di febbraio, e per tutto l’anno, Csi Modena e Csi Modena Volontariato raccoglieranno materiale sportivo (nuovo o usato) presso tre punti vendita a Modena e provincia, nello specifico Lupo Sport, Top Level, Run Shot: palloni, scarpe, tute da ginnastica, magliette, K-Way, felpe, pantaloncini, calze, qualunque materiale sportivo. L’obiettivo dell’associazione è quello di aiutare i detenuti a fare sport, valorizzando le attività sportive all’interno degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco Emilia dove dal 2003 è attivo il progetto made in Csi "Liberiamo Energie Positive - Insieme si Vince" che propone attività sportive e percorsi formativi realizzati ad hoc per la popolazione carceraria. "La proposta di uno spazio sportivo, educativo e formativo attraverso il progetto Liberiamo Energie Positive - sottolinea la presidente di Csi Modena Volontariato Emanuela Maria Carta - consente a queste persone di trascorrere qualche momento della loro giornata facendo sport e socializzando, nell’ottica del rispetto reciproco e della solidarietà. Per continuare a proporre queste attività, che riteniamo importantissime per la loro crescita e socializzazione, siamo quindi alla ricerca di materiale sportivo in genere, abbigliamento e scarpe, anche usato purché in buono stato e pulito". Volterra (Pi): Cene Galeotte, da marzo ripartono gli appuntamenti gonews.it, 21 gennaio 2017 Tutto pronto per la nuova edizione delle Cene Galeotte (cenegaleotte.it), iniziativa unica nel suo genere che da oltre dieci anni fa della Casa di Reclusione di Volterra (Pi) un luogo di integrazione e solidarietà attraverso cene aperte al pubblico in programma dal 24 marzo all’11 agosto 2017, realizzate dai detenuti con il supporto di chef professionisti. E che torna quest’anno con una bellissima novità. Gli chef coinvolti infatti, come sempre a titolo gratuito, non solo affiancheranno i detenuti ai fornelli, ma terranno anche lezioni inserite nel calendario didattico dell’Istituto Alberghiero nato nel 2012 proprio all’interno del carcere di Volterra, con classi miste formate dai carcerati e dagli oltre venti ragazzi che ogni giorno varcano le porte della struttura per seguire il percorso formativo. Un successo crescente quello delle Cene Galeotte raccontato dai numeri, con oltre 1.200 partecipanti la scorsa edizione e più di 14.000 visitatori dalla "prima" del 2005. L’evento rinnova anche il suo scopo solidale, con il ricavato (35 euro a persona) devoluto alla Fondazione "Il cuore si scioglie Onlus" e ai progetti che, dal 2000, vengono realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grandissimo coinvolgimento da parte dei detenuti che, grazie al percorso formativo in sala e cucina, acquisiscono via via un vero e proprio bagaglio professionale. In ben sedici casi questa esperienza si è tradotta in vero impiego presso ristoranti locali, secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Le Cene Galeotte sono possibili grazie all’intervento di Unicoop Firenze, che fornisce le materie prime necessarie alla realizzazione dei piatti e assume i detenuti per i giorni in cui sono nella realizzazione dell’evento. Il progetto è realizzato con la collaborazione del Ministero della Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra, la supervisione artistica del giornalista e critico enogastronomico Leonardo Romanelli per la selezione degli chef e il supporto comunicativo di Studio Umami. Un ruolo fondamentale è inoltre ricoperto dalla Fisar-Delegazione Storica di Volterra (www.fisarvolterra.it), partner del progetto per la selezione delle aziende vinicole, il servizio dei vini ai tavoli e la formazione dei detenuti come sommelier. Grazie alla Fisar dieci detenuti hanno già positivamente svolto il corso base di avvicinamento al vino e seguiranno il percorso formativo per raggiungere la qualifica di sommelier professionali. Per informazioni: www.cenegaleotte.it Per prenotazioni: Agenzie Toscana Turismo, Argonauta Viaggi (Gruppo Robintur), Tel. 055.2345040. Taranto: "Peter Pan e l’isola dei sogni", il 3 febbraio presentazione libro scritto da detenuti tarantosette.it, 21 gennaio 2017 Venerdì 3 febbraio alla libreria Ubik di Taranto ci sarà la presentazione del libro "Peter Pan e l’isola dei sogni" scritto dai detenuti del carcere di Brindisi su iniziativa della Compagnia d’Arte Dinamica di Vito Alfarano. Oltre al libro, anche un audio libro ed un video. Un libro che ha una forte valenza sociale. Si chiama "Peter Pan e l’isola dei sogni" ed è stato scritto da un gruppo di dieci detenuti, in un luogo considerato infernale. Il progetto è della Compagnia d’Arte Dinamica di Vito Alfarano che si è posta l’obiettivo di integrare la realtà scolastica con quella carceraria. Il carcere deve essere difatti rieducativo e questo esperimento è un grande esempio di come la cultura, attraverso l’arte, possa contribuire a rendere possibile la rieducazione senza alcuna distinzione di luogo. Il volume sarà presentato venerdì 3 febbraio alla libreria Ubik di Taranto. Il ricavato darà la possibilità alla Alpha Ztl Compagnia d’Arte Dinamica di Vito Alfarano di continuare a svolgere la sua attività sociale e culturale. La rivisitazione della fiaba originale di J.M. Barrie si arricchisce anche di un audiolibro, musicato al piano e accompagnato da suoni e rumori che danno vita al racconto. Un modo per trasportare l’ascoltatore nell’isola dei sogni e diventare protagonista e compagno di viaggio dei personaggi che animano la fiaba. L’audiolibro comprende anche un contenuto speciale, i detenuti che leggono nella sala ricreativa parti delle fiaba originale di Peter Pan. L’ascoltatore vive l’atmosfera carceraria attraverso i suoni e i rumori che caratterizzano l’ambiente e può costituire un ulteriore tassello per gli adolescenti verso una educazione alla legalità. Non solo questo però, perché il progetto ha previsto anche la realizzazione di un video dal titolo "Peter Pan Syndrome", realizzato sempre con i detenuti della Casa Circondariale di Brindisi nell’ambito del progetto "Oltre i confini", il lavoro fa riferimento alla sindrome per la quale il "detenuto che si ritiene innocente non ammette le proprie responsabilità". L’innocenza riporta difatti all’essere fanciulli, gli adulti che si rifiutano di crescere non si assumono le proprie responsabilità e si dice siano ‘colpiti’ dalla Sindrome di Peter Pan. Il video arte/documentario testimonia l’attività laboratoriale svolta con i detenuti per la realizzazione del libro "Peter Pan e l’isola dei sogni" ed è stato selezionato e proiettato lo scorso 7 novembre a Roma al Med Film Festival (Festival del Cinema del Mediterraneo), tra i Festival di cinema e video arte tra i più importanti al mondo. Il libro, patrocinato dal Comune di Brindisi con media partner Ciccio Riccio, è curato e illustrato dalla scrittrice brindisina Alessia Coppola ed è accompagnato da un dvd contenente audiolibro, video arte documentario e foto, il tutto tradotto anche in lingua inglese. Nell’audiolibro le voci di Marcello Biscosi e Norman Douglas Harvey leggono la fiaba riadattata dai detenuti con le musiche originali del compositore Nicola Rigato e l’ambientazione audio di Simone Pizzardo, entrambi veneti, e contiene anche le voci dei detenuti che leggono parti del testo della fiaba originale. Nella realizzazione del video arte sono stati coinvolti anche tre tarantini: Pietro Cinieri per le riprese di San Marzano di San Giuseppe, Anna Maria Fumarola per le foto di Martina Franca, Roberta delli Ponti insegnante di yoga di Mottola. Napoli: "La lettura libera" nel carcere di Secondigliano, con l’associazione La Mansarda linkabile.it, 21 gennaio 2017 L’Associazione La Mansarda, presidente Samuele Ciambriello, opera nel carcere di Secondigliano con vari progetti in vari reparti, da inizio gennaio si reca settimanalmente in un reparto di Alta Sicurezza, per un progetto di "lettura libera". Nel corso del progetto vengono regalati dei libri ad una trentina di detenuti del reparto Adriatico, per poi dare vita ad una discussione ragionata con le volontarie dell’associazione. In seguito i detenuti diventano protagonisti incontrando gli autori dei libri, con i quali hanno un confronto diretto. Lunedì 23 gennaio alle ore 14.00 presso il carcere di Secondigliano con Lorenzo Marone, autore del romanzo "La tentazione di essere felici", avrà luogo il primo di questi incontri. Saranno presenti, con l’autore, il direttore del carcere di Secondigliano Liberato Guerriero e il presidente dell’associazione La Mansarda Samuele Ciambriello. Lorenzo Marone, nato a Napoli nel 1974, con questo romanzo è arrivato al primo posto delle classifiche a poche settimane dall’uscita e ha conquistato in pochi mesi i lettori, i librai, ma anche la stampa e il mondo dello spettacolo. Dal romanzo è stato tratto l’omonimo film di Gianni Amelio, di prossima uscita. Nel 2016 Longanesi ha pubblicato il suo secondo romanzo "La tristezza ha il sonno leggero". "La tentazione di essere felici", pagine di intensa drammaticità con un finale commovente. Un romanzo comico e cinico, che senza cambiare tono, approda al dramma e alla tenerezza. Potranno partecipare all’evento anche giornalisti, muniti di tesserino, arrivando al carcere di Secondigliano alle 13,30. Milano: con in liceo musicale di Rivarolo le poesie del detenuto diventano un cd di Mauro Michelotti La Sentinella del Canavese, 21 gennaio 2017 Concluso il progetto che ha coinvolto anche l’Associazione assistenti volontari penitenziari di Ivrea Sabato, a Milano, prima al carcere di Opera, poi al Salone della cultura, presentazione del lavoro. Oggi, sabato 21 gennaio, è un giorno speciale per il Liceo musicale di Rivarolo, l’Associazione assistenti volontari penitenziari di Ivrea "Tino Beiletti", l’associazione Cisproject Leggere Libera - Mente che cura i laboratori di scrittura creativa e autobiografica all’interno del carcere di Opera (Milano), ma lo è soprattutto per i detenuti della struttura penitenziale lombarda. In mattinata, nel teatro del carcere, verrà presentato in anteprima il risultato del progetto di musica e poesia che ha aperto nuove forme di dialogo tra il mondo della scuola e la detenzione. I versi di Giuseppe Catalano, detto il Beddo, un detenuto, sono diventati i brani di un cd proprio grazie al lavoro del Liceo musicale e dei suoi allievi che li hanno registrati presso il Riverside Studio di Torino. Ma è nel pomeriggio di sabato che l’evento acquisirà uno spessore straordinario. Alle 17, al Super Studio Più di via Tortona 27, a Milano, nell’ambito del Salone della cultura, durante l’incontro "Parole che suonano", Paolo Romagnoli, esperto di comunicazione e collaboratore di Leggere Libera - Mente, presenterà il libro "Le nostre parole per voi", un volume scritto dai corsisti del laboratorio che ripercorrono i momenti d’incontro e confronto con le scolaresche allo scopo di affrontare insieme i temi delicati della giustizia e dell’ingiustizia, del carcere e della pena, e, contestualmente, andrà in scena lo spettacolo "Ricomincio da me... e da voi", un concerto caratterizzato da letture ed intermezzi di danza ispirato proprio dai versi di Catalano che vedrà la prima esecuzione in pubblico delle sue liriche, arrangiate, cantate e danzate dai giovani artisti del liceo rivarolese. Come in una serata di gala, non mancherà un ospite d’eccezione, nel caso specifico Virginio Simonelli, il cantautore conosciuto solo come Virginio, che dopo il debutto nel 2006 nelle Nuove proposte al Festival di Sanremo e l’affermazione nel 2011 al talent Amici di Maria De Filippi nella categoria canto, ha raccolto l’invito da Carlo Conti proprio durante la serata finale del Festival dello scorso anno musicando la lirica di Giuseppe Catalano "P.S.: Post Scriptum", vincitrice della seconda edizione del concorso indetto dall’associazione di promozione sociale Parole liberate: oltre il muro del carcere. Virginio, ma solo nel teatro del carcere, ad Opera, canterà in anteprima assoluta per i detenuti il brano. "La sensazione è di essere giunti al traguardo di una prima, significativa tappa - sottolinea Barbara Rossi, psicoterapeuta e responsabile del progetto Leggere Libera - Mente -. Ciò che porteremo è il frutto di una storia iniziata anni fa che trasversalmente ha intrecciato aspettative, sogni, desideri, tenacia, perseveranza, formazione e destini diversi". Bellissimo. Migranti. La proposta dei Radicali "urge cambiare la legge Bossi-Fini" di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 21 gennaio 2017 "Concordo con l’intento di abrogare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato". Ad affermarlo è il presidente del Senato Pietro Grasso, convinto inoltre che sia urgente "garantire ai richiedenti asilo un esame rapido delle loro istanze". Grasso parla a Palazzo Giustiniani, durante un convegno su "Come vincere la sfida dell’immigrazione?". Un incontro organizzato dai Radicali italiani, che con l’ex ministro Emma Bonino lanciano la proposta di una legge di iniziativa popolare "per modificare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione". Una proposta che non dispiace al presidente dem della Regione Toscana Enrico Rossi (fortemente "contrario", invece, "al ricorso ai Cie") e al partito "trasversale" dei sindaci (in sala, ce ne sono diversi: dal catanese Enzo Bianco al bergamasco Giorgio Gori) impegnati nell’accoglienza. Di parere analogo è il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento Immigrazione del ministero dell’Interno: "La Bossi-Fini, giusta o sbagliata, ha 20 anni e bisogna trovare il coraggio in Parlamento per cambiarla. È superata dalla storia e non attuata, perché da anni non si fanno i decreti flussi: non c’è nessuna possibilità di venire a lavorare legalmente in Italia". Morcone è indignato per certe "campagne mediatiche vergognose, cariche di bugie. Non c’è alcuna emergenza. Occorre costruire un’infrastruttura dell’immigrazione, che non abbiamo. Al momento ci sono in accoglienza 170mila persone, più 20mila minori non accompagnati", ospitati secondo "quote regionali stabilite in maniera equa". Favorevole a ritocchi normativi si dice pure don Virginio Colmegna, presidente della fondazione Casa della Carità di Milano: "Questo sistema legislativo produce irregolarità. Noi lavoriamo affinché emerga un’etica del cambiamento". La proposta dei Radicali prevede fra l’altro l’ampliamento del sistema Sprar (la rete di accoglienza per richiedenti asilo), ma anche "forme di regolarizzazione" dei 500mila migranti irregolari presenti in Italia. Non una sanatoria (che comunque "non sarebbe possibile", precisa Morcone), ma procedure su base individuale sul modello spagnolo del "radicamento", per chi possa dimostrare di avere un lavoro o legami familiari in Italia. Migranti. Il presidente del Senato Grasso e i Sindaci: "Abolire il reato di clandestinità" di Claudia Fusani L’Unità, 21 gennaio 2017 Il presidente del Senato chiede di snellire le procedure per il rilascio dei permessi. Sindaci e governatori appoggiano la proposta Radicale. Se un convegno sull’immigrazione nasce in Vaticano, davanti a Papa Francesco dove si ritrovano una laica come Emma Bonino e il capofila dei sindaci italiani Enzo Bianco, vuol dire che un pezzo importante di questo paese ha capito che nuove politiche di sistema sul fenomeno migratorio sono ormai necessarie e non più rinviabili contro una narrazione dilagante becera, sbagliata quindi pericolosa. La leader Radicale e il segretario Riccardo Magi riuniscono a palazzo Giustiniani, in sala Zuccari, quindici sindaci, da Catania a Bergamo, da Tirano (confine con la Svizzera) a Ventimiglia passando per Augusta, prefetti - ci sono Mario Morcone, responsabile dell’accoglienza e Daniela Di Capua, direttrice del sistema Sprar - governatori come Enrico Rossi e giudici come Bruno di Marco, presidente del Tribunale di Catania il più esposto sul fronte degli sbarchi e delle procedure di identificazione e regolarizzazione. L’immigrazione è una sfida, da affrontare e da vincere. Accoglienza, inclusione e lavoro sono le parole chiave. Senza indulgere a buonismi né a scorciatone. La scommessa dei Radicali è tanto semplice quanto rivoluzionaria e impronunciabile dal punto di vista delle destre e dei populisti: superare la Bossi Fini cominciando ad aprire le quote flussi per i lavoratori stranieri (la nostra economia ha un fabbisogno di 160 mila all’anno per dieci anni) che oggi non hanno alcun modo legale per entrare in Italia. Il presidente del Senato Piero Grasso apre i lavori ("abolire la parola emergenza") e indica la strada ("l’accoglienza è un dovere morale e giuridico"), consapevole che la guerra tra poveri è il primo errore da evitare e il terreno dove finora "sono cresciuti populismi, demagogie e paure". Da ex magistrato non ha dubbi che snellire le procedure per l’identificazione e il riconoscimento dello status di rifugiato "è uno dei problemi più urgenti da risolvere". Oggi richiedono anche due anni, talvolta tre, un tempo sospeso che non serve a nessuno, anzi è dannoso. Il presidente del Senato sembra appoggiare in pieno la linea del governo. "Concordo anche - ha aggiunto - con l’intento di abrogare il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato che costituisce un ostacolo alle misure amministrative e un appesantimento inutile del sistema giudiziario e carcerario senza aumentare né diritti né sicurezza". Via il reato di clandestinità come auspica anche il ministro della Giustizia Orlando e il ministro dell’Interno Marco Minniti. Sono le parole che Emma Bonino, elegantissima col suo turbante sui toni dell’arancio, vuole ascoltare. Quasi una premessa del suo progetto di revisione della Bossi-Fini partendo però dal basso, dai cittadini, perché solo con una consapevolezza diffusa che nasce da una diversa narrazione del fenomeno, si può pensare veramente di cominciare a gestirlo. E quando il presidente del Tribunale di Catania Bruno di Marco chiude il suo intervento che fotografa la paralisi dei suoi uffici per affrontare le circa 7 mila domande di asilo in un anno ("nel 2016 ne abbiamo definite solo 1.248"), è la Bonino a chiedergli cosa ne pensa del reato di immigrazione. Risposta scontata: "Da abolire subito, lo davo per scontato" chiosa Di Marco. Uscire per strada con una legge di iniziativa popolare per cambiare la Bossi Fini e il racconto sull’immigrazione è una proposta che convince il sindaco di Catania e vicepresidente dell’Anci Enzo Bianco, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il sindaco di Bergamo Gori e tutti gli altri presenti (Pierfrancesco Majorino al posto di Sala). Nella bozza di modifica della Bossi Fini (cinque articoli) ci sono proposte che eliminano tutti quegli elementi che in questi anni hanno, da un lato, penalizzato quanti hanno scelto di stabilirsi nel nostro Paese e dall’altro hanno permesso il perpetrarsi di situazioni di irregolarità e sfruttamento. Anche il prefetto Mario Morcone ha riconosciuto che "oggi non c’è un modo legale per venire a lavorare in Italia" e che la legge Bossi Fini "una legge ormai vecchia in un contesto completamente diverso rispetto a 15 anni fa. Ma qui, oggi - ha aggiunto stiamo tutti giocando in casa, vinciamo facile. Il problema è andarlo a spiegare fuori". Il punto, ha spiegato Morcone che da anni segue i flussi migratori e gira gli 8 mila comuni in cerca di posti per gli stranieri, è che "occorre trovare strumenti per dare prospettive a chi magari è qui da due anni e mezzo in attesa di un permesso, si è integrato, lavora, è benvoluto e poi quel permesso non gli arriva. Come facciamo a rimandare indietro questa persona?". La bozza del testo di legge proposto dai Radicali Italiani prevede l’ampliamento del sistema Sprar ("unico modello di accoglienza possibile" dicono in coro i sindaci invitando però il governo a muoversi con più velocità) assegnando un ruolo centrale al lavoro: l’accoglienza deve interfacciarsi con i centri per l’impiego, che vanno rafforzati a beneficio di tutti i cittadini. Prevista anche l’introduzione di canali legali e diversificati di ingresso per lavoro e nuovi strumenti come il permesso di soggiorno temporaneo per ricercare un’occupazione. "Solo così il lavoro può diventare uno strumento di emersione dalla clandestinità, di inclusione e di governo efficace dei flussi migratori. Non bisogna contrastare gli irregolari, ma l’irregolarità" ha chiuso i lavori il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi. Stati Uniti. La nuova dottrina degli Usa, isolazionismo e protezionismo di Jean-Marie Colombani Corriere della Sera, 21 gennaio 2017 Le dichiarazioni del nuovo Presidente lasciano pensare infatti che stiamo vivendo un novembre 1989 al contrario. Il mondo, così come era stato organizzato alla fine della Seconda guerra mondiale, si basava in effetti su due assi: il libero scambio e la sicurezza collettiva. L’insediamento del quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non deve farci dimenticare che egli deve la sua elezione alla particolarità dello scrutinio americano, non a un voto popolare: Hillary Clinton ha ottenuto due milioni di voti in più rispetto a Donald Trump, il quale deve il proprio successo al ben misero margine di 11.000 voti ripartiti su tre Stati. Così si spiega certamente il record di impopolarità del nuovo Presidente, che si installa quindi alla Casa Bianca eletto da una minoranza. Forse la maggior parte degli americani è inquieta; basti osservare come l’aeropago che lo circonda somigli a un Consiglio di amministrazione di Goldman Sachs. È l’influenza di Vladimir Putin che già si fa sentire? Fatto sta che, visto il numero di miliardari di cui Trump ha deciso di attorniarsi, il suo governo è una équipe di oligarchi. Per quanto riguarda noi europei, abbiamo motivo d’essere ancora più inquieti. Le dichiarazioni del nuovo Presidente lasciano pensare infatti che stiamo vivendo un novembre 1989 al contrario. Ieri, un duplice processo - "contenimento" dell’impero sovietico e "sviluppo", che con il suo effetto contagio è stato decisivo - ha consentito la disfatta dell’Urss. Il mondo, così come era stato organizzato alla fine della Seconda guerra mondiale, si basava in effetti su due assi: il libero scambio e la sicurezza collettiva. L’uno e l’altra sono rimessi in causa da Donald Trump, la cui dottrina è protezionista e isolazionista. Egli dichiara di voler rimettere in discussione gli accordi commerciali, in particolare nel continente americano e in Asia, con il rischio di scatenare guerre commerciali; e gli accordi sulla sicurezza, dichiarando "obsoleta" la Nato. Che Putin si faccia minaccioso alle frontiere dell’Unione europea, non sembra preoccuparlo. Da un punto di vista americano, Putin è un problema secondario: la Russia è una potenza media, che può certo creare problemi agli Stati Uniti, ma solo marginalmente. Come in Siria, per esempio. Ma la strategia americana di ripiego, iniziata da Barack Obama, gli ha facilitato il compito. La Cina è l’unica potenza che possa rivaleggiare con gli Stati Uniti. Essa sarà, già lo è, la sola ossessione dell’America di Trump. Vladimir Putin rappresenta invece un problema, se non una minaccia, per l’Europa, e soltanto per essa. Infatti il Presidente russo si è fissato l’obiettivo di indebolire l’Unione europea, al fine di ristabilire il ruolo di tutore che l’Urss esercitava ad Est dell’Europa, a spese di paesi che oggi sono membri della Ue e della Nato. Ebbene, tutto fa pensare che Trump condivida lo stesso obiettivo: indebolire l’Europa. In effetti Trump, per le questioni europee, si ispira a Nigel Farage, ex Presidente dell’Ukip e punta di diamante della campagna per la Brexit, il cui fine politico è ormai di ottenere lo smantellamento dell’Unione europea. Così si spiegano il pronostico formulato da Trump sulla prossima morte dell’Europa, e i suoi accenti anti-tedeschi. Nel nuovo Presidente americano ritroviamo gli elementi di linguaggio di tutti i partiti populisti ed estremisti che hanno come comune dottrina l’ostilità nei confronti della costruzione europea. Ecco dunque, a Est come a Ovest, che l’Europa è stretta come in una morsa! A questo bisogna aggiungere l’adesione - dovremmo dire la resa - senza condizioni del nuovo governo britannico a tale lotta anti-europea: Theresa May si muove subito sulle orme di Trump, il che la porta a optare per una Brexit "dura", cioè per una uscita dal mercato unico e dall’unione doganale, accompagnata dalla promessa di fare della Gran Bretagna un enorme paradiso fiscale alle porte del Continente. Questa congiunzione negativa sopravviene in un momento particolarmente delicato nella vita dell’Unione europea, paralizzata o quasi dalla preparazione delle prossime elezioni in Francia, e dopo in Germania: due Paesi senza il cui accordo la Ue non esisterebbe più. Per tentare comunque di convincerci che il peggio non è mai certo, l’inventario delle divergenze espresse proprio dalle persone che il Presidente americano ha appena nominato può aiutarci: Rex Tillerson, ex presidente del gigante petrolifero Exxon, futuro Segretario di Stato, ha garantito che sosterrà il Trattato Trans-Pacifico che Trump ha promesso di smantellare; promette una diplomazia della dissuasione nei confronti della Russia, mentre Trump evoca una soppressione incondizionata delle sanzioni economiche decise dopo l’invasione della Crimea. L’attuale direttore della Cia, come il prossimo, Mike Pompeo, mettono in guardia il Presidente americano contro il pericolo che rappresenta, secondo loro, il suo gusto per dichiarazioni intempestive. Quanto a James Mattis, consigliere per la Sicurezza, egli reputa "importante riconoscere" che Vladimir Putin cerca di "smantellare" la Nato. Questa lista non è limitativa. Turchia. L’avvocatessa Barbara Spinelli: "in quella cella non mi sono mai sentita sola" di Francesco Straface Il Dubbio, 21 gennaio 2017 Una medaglia al valore, per premiare lo straordinario coraggio mostrato nella terribile notte vissuta in Turchia. Il Cnf ha omaggiato così Barbara Spinelli, avvocata bolognese reclusa e poi espulsa dal paese, venerdì scorso, per via del suo impegno a sostegno di una categoria che il regime di Erdogan ha regolarmente osteggiato. Il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, ne ha lodato lucidità e freddezza: "Barbara ha dimostrato grande forza nell’opporsi, da giurista, alle istanze della polizia frontaliera, che pretendeva la consegna del suo cellulare, e poi nel richiedere la stampa del provvedimento di espulsione dal Paese". La diretta interessata ha apprezzato gli attestati di stima giunti da tutta Italia: "Anche mentre ero in cella, insieme ad altre quattro donne, non mi sono mai sentita sola. Ero consapevole del supporto dell’avvocatura istituzionale, che non ha mai fatto mancare la propria vicinanza a colleghi che in Turchia sono a processo soltanto perché hanno esercitato il diritto di difesa. Siamo di fronte ad abusi di Stato, a crimini contro l’umanità". Dopo il fallito golpe di luglio anche il diritto è stato calpestato. Il Cnf attende però una maggiore presa di posizione da parte delle istituzioni italiane: "Abbiamo scritto ai ministeri di Giustizia ed Esteri, che ci hanno assicurato un intervento immediato. Ci dispiace constatare un insufficiente risalto mediatico", ha aggiunto Mascherin. All’osservatrice internazionale è giunto il plauso dell’ordine di appartenenza, quello di Bologna, rappresentato dal presidente Giovanni Berti: "Questo grave episodio fotografa i rischi ai quali è soggetta la categoria. Spesso gli avvocati che si sono recati in Turchia hanno evitato degli attentati semplicemente per questione di ore. Nelle circolari è sempre stata manifestata solidarietà, adesso chiediamo a tutti di sconfiggere egoismi e individualismo e di alzare la soglia di attenzione, per consacrarci come un presidio di libertà e giustizia, anche in questi territori". Il regime di Erdogan ha sempre visto con fastidio e sospetto chi lotta per la libertà. Nella sala Aurora della sede del Cnf, in via del Governo Vecchio, Barbara Spinelli ha raccontato anche precedenti episodi di intolleranza: "Dopo il coprifuoco ci era già capitato di fare i conti con lo stop alle auto imposto dalla polizia: ci hanno costretto a percorrere 30 chilometri a piedi. Mi è capitato di vedere i cadaveri dei civili sulle strade o di raccontare in un rapporto dalla città curda di Cizre i disagi di chi da nove giorni era senz’acqua e luce". L’avvocata bolognese parla peraltro il curdo, che per la polizia turca è sinonimo di collusione con i sovversivi, i ribelli. Quindi in occasione del duro confronto alla frontiera si è espressa soltanto in inglese. "Dovevo relazionare a un convegno ad Ankara, ma mi è stato notificato questo fermo di polizia. Dopo il controllo dei passaporti, tre poliziotti mi hanno annunciato l’espulsione per motivi di sicurezza. Il mio primo pensiero è stato quello di non consegnare il cellulare professionale". I telefoni sottratti ad altri osservatori hanno consentito infatti alla polizia turca di perpetrare altre gravissime violazioni. "Sui dispositivi sono presenti dati sensibili, che avrebbero potuto estrarre per aprire provvedimenti contro colleghi che sul territorio si battono per la tutela dei diritti civili. Ho resistito anche di fronte all’avvicinamento fisico e alle minacce delle forze dell’ordine. E in quelle terribili sedici ore in cella ho cercato di non dormire, per evitare che mi fosse sottratto nel sonno". La Spinelli ha condiviso una stanza di dieci metri quadrati con un’uzbeca, una kazaka e due donne di Casablanca: "I dodici fari sul soffitto erano sempre accesi, avevamo una telecamera puntata contro e quindi la sorveglianza entrava per tenere d’occhio anche la mia agenda. È stata quantomeno scortese perfino la hostess in aeroporto". Barbara si è sentita ripetere che non avrebbe più visto la Turchia da chi le notificava il rimpatrio coatto e il divieto d’ingresso permanente e ha risposto con decisione. "Prima di morire, ci sarà di nuovo la democrazia e io sarò qui a festeggiare", ha ripetuto malcelando un velo di commozione. L’amarezza per un trattamento umiliante si aggiunge all’apprensione per la sorte di tanti colleghi: "Una decina tra avvocati e attivisti è in carcere da mesi, tanti altri sono indagati. Confido quindi nell’invio di altri rappresentanti, anche se duole constatare ad esempio il mancato intervento del presidente dell’ordine di Istanbul". Chi si è opposto invece strenuamente al regime fu il presidente di Diyarbakir, Tahir Elci, assassinato ferocemente e raffigurato nel ritratto che l’avvocata Spinelli ha consegnato ieri al presidente del Cnf Mascherin Egitto. Parla Mohammed Abdallah: "i miei 4 mesi in cella perché cercavo la verità" di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 21 gennaio 2017 Il consulente della famiglia Regeni e attivista per i diritti civili: "Sono stato incarcerato, accusato con prove false. Non conoscevo quel ragazzo, ma oggi è un simbolo di libertà". Quando all’una della notte i poliziotti del posto di frontiera del Cairo gli trattengono per "accertamenti", Mohammed Abdallah rimane impassibile. "Io non posso più avere paura. Mi è già successo tutto". Tutto significa quattro mesi di carcerazione con l’accusa di terrorismo e il rischio del carcere a vita, "la fabbricazione di false prove", le minacce, le pressioni e poi all’improvviso il proscioglimento. "Contro di me c’erano due pagine di accuse. Ma la mia unica mia colpa, per loro, era stata quella di lavorare per cercare la verità sulla morte di Giulio Regeni. Una colpa per la quale non smetterò mai di lavorare". Alle 3 e 15 ad Abdallah stato restituito il passaporto, sul quale c’era già da giorni un regolare visto rilasciato dal consolato italiano. Alle sette, il consulente della famiglia Regeni è atterrato a Fiumicino. Abdallah, partiamo dal principio. Da quel 25 gennaio quando Giulio è sparito nel nulla. Lei dov’era quel giorno? "Io sono un professore universitario, insegno nella facoltà di ingegneria. Ma sono anche un attivista per i diritti civili e quelli non sono stati giorni facili per me e per i miei amici. Nei giorni precedenti sono venuti a cercarci nel nostro bar, nelle nostre case". Chi? "Agenti in borghese con armi e distintivi. Chiedevano documenti, ci identificavano. E il 25 molti dei miei amici sono stati arrestati e portati in prigione per mesi. Io mi sono salvato soltanto perché sono arrivato in ritardo al bar. E per un mese ho fatto in modo di non tornare a casa. Ho avuto paura che mi venissero a prendere". Perché avrebbero allora dovuto arrestarla? "Per lo stesso motivo per cui lo hanno fatto mesi dopo: il dissenso. Il regime di Al Sisi non tollera chiunque provi a dire di non essere d’accordo o si batte per tutelare i diritti dei lavoratori, degli ultimi". Ma esattamente di cosa la accusavano? "Mi hanno arrestato ufficialmente per aver partecipato a una manifestazione alla quale invece non c’ero. Hanno fabbricato dei documenti falsi che hanno fatto trovare a casa mia. Ma in realtà l’unico motivo del mio arresto era che, con la mia associazione, lavoravo per la famiglia Regeni nel cercare la verità sulla morte di Giulio". In carcere le hanno chiesto di Regeni? "Sì, per tutti ero il "consulente dell’italiano". Nessun interrogatorio ufficiale sul caso ma, detenuti e poliziotti, non mi chiedevano altro. Sono stato per alcuni giorni in isolamento, in una stanza un metro per un metro. Nudo, con soltanto una coperta addosso. Rinviavano le udienze, non mi davano la possibilità di difendermi nel merito. L’unico obiettivo era metterci pressione sul caso Regeni. Non avevano però alcuna speranza: il nostro unico obiettivo è continuerà a essere la verità, nient’altro che la verità". Lei conosceva Giulio? "No, avevamo amici comuni. Ma non c’eravamo mai incontrati". Che idea si è fatto sul suo assassinio? "Aspetto di leggere i documenti che la procura egiziana ancora non ci ha comunicato. Non posso non vedere però i depistaggi sistematici che sono stati fatti fino a questo momento: prima la bufala dell’incidente stradale, poi le falsità sulla droga e sul suo giro di amicizie. Infine il mio arresto e poi la sparatoria nella quale sono stati ammazzati cinque poveri innocenti. Ora mi pare che le indagini si siano concentrate su Abdallah che, certo, collaborava con i Servizi egiziani. Ma non vorrei si trattasse dell’ennesimo tentativo di farci distrarre. Tutti i depistaggi fin qui hanno avuto una caratteristica comune: lo Stato che ha cercato di fare andare le indagini da un’altra parte, purché fosse lontana dalla verità. Perché fa così paura?". Appunto. La vostra associazione ha denunciato circa 500 sparizioni nell’ultimo anno in Egitto. Eppure il caso Regeni è da mesi al centro del dibattito in Egitto. Perché la storia di Giulio fa così paura? "Se intervistate per strada due persone a caso al Cairo e chiede loro di Regeni, una sicuramente sa di cosa stiamo parlando. Giulio è diventato un nostro simbolo di speranza nel futuro, contro l’oppressione del regime. Lui era soltanto un ricercatore. Ma con il suo lavoro cercava di dare voce agli emarginati, ai più poveri, a chi viene silenziato dai potenti. La sua morte, le torture che ha subito, sono viste come un sacrificio per il nostro paese. Per tutti noi. Anche per questo il 25 gennaio di quest’anno sarà un giorno particolare. Non sarà soltanto l’anniversario della rivolta di piazza Tahrir. È il giorno anche del sacrificio di Giulio Regeni, un martire della libertà". Pakistan. Isabel tra i dannati e il diritto dei valori Di Paolo Lepri Corriere della Sera, 21 gennaio 2017 Il suo impegno inizia con Reprieve, l’organizzazione umanitaria che oggi assiste cento condannati alla pena capitale in diciassette Paesi diversi, indicando al mondo i casi più terribili, come per esempio quelli dei minori. Laureata in legge a Glasgow, Isabel Buchanan ha deciso, appena ventitreenne, di andare in Pakistan per offrire aiuto legale (collaborando con un’avvocatessa locale, Sarah Belal) alle circa 8.000 persone rinchiuse in condizioni disumane nel braccio della morte. Perché proprio in Pakistan? Lo ha spiegato lei stessa. "Ho capito dai casi che esaminavamo che si trattava di un luogo totalmente straniero e ostile: sono rimasta intrigata dal rapporto tra queste due cose". C’è una terza cosa, il coraggio, ma quello lo aggiungiamo noi. Da questa esperienza è nato un saggio. Trials: On Death Row in Pakistan, selezionato da The Economist come uno dei libri più importanti del 2016. I reclusi che in Pakistan attendono di essere impiccati o fucilati sono migliaia perché sono molti i reati per i quali è prevista la sentenza capitale. Tra i più controversi, la blasfemia. Il mondo si è accorto di questa vergogna per il caso di Asia Bibi, la donna cristiana che ha appena trascorso in carcere il suo ottavo Natale. Accusata di aver "offeso Maometto", ha visto per il momento sospendere la pena di morte. Ma i condannati per blasfemia vengono spesso eliminati al di fuori del sistema giudiziario ordinario. Non basterà mai la voce per urlare contro questo orrore. Isabel Buchanan si è mossa su un terreno difficile, mettendo competenza e passione al servizio dei diritti umani. È stata una scelta precisa. Chi sventola le bandiere nere del jihadismo avrà vinto la guerra che ha dichiarato a ciascuno di noi, non solo alle imperfette democrazie in cui viviamo, quando avremo anche un solo dubbio sui nostri valori. Ma se questi valori sono esportabili, è vero anche che i disvalori non possono essere importati nel nome dell’emergenza. La solidarietà è un dovere, il rispetto un obbligo. Romania: i decreti legge su amnistia e indulto aggravano distanze fra governo e presidenza Nova, 21 gennaio 2017 I decreti legge su amnistia e indulto e sulle modifiche al Codice penale promossi dal ministero della Giustizia romeno acuiscono le divergenze fra governo e presidenza. Le controverse proposte presentate dal ministro Florin Iordache hanno subito determinato la reazione del presidente Klaus Iohannis che ieri ha deciso di presiedere la riunione dell’esecutivo, una pratica consentita ma non particolarmente consuetudinaria. Iohannis aveva deciso di recarsi a Palazzo Victoria, sede del governo, dopo essere venuto a sapere che il governo aveva inserito all’ordine del giorno della riunione i due decreti legge. Tuttavia, il governo aveva preso questa decisione senza però avvisare la stampa come da abitudine. È la prima volta dall’inizio del suo mandato che Iohannis ha deciso di partecipare a una riunione del governo, suscitando diverse polemiche nel fronte dei socialdemocratici che hanno accusato il capo dello stato di ingerenze nell’attività dell’esecutivo. Iohannis dalla fine del mandato di Victor Ponta ha cambiato il suo approccio, passando dal ruolo di classico presidente osservatore e taciturno, a una posizione più attiva e imprevedibile. La Costituzione romena consente al presidente di partecipare alle riunioni del governo per discutere su questioni di interesse nazionale in ambito di politica estera, difesa nazionale, ordine pubblico, e su richiesta del primo ministro. I provvedimenti, relativi all’ambito giuridico, quindi non sembrano giustificare la presenza del capo dello Stato, una posizione avvertita nelle dichiarazioni del premier Grindeanu dopo la riunione, quando ha dichiarato di avere saputo che il presidente avrebbe partecipato alla riunione dagli agenti di sicurezza che comunicavano il suo arrivo da Palazzo Cotroceni. Una dichiarazione che rappresenta un evidente segnale di irritazione e insoddisfazione per il gesto senza precedenti del presidente. Tuttavia, la decisione del capo dello stato è stata molto apprezzata dalla società civile. Oggi, a conferma della sua posizione fermamente contraria a questi decreti, Iohannis sul suo profilo Facebook li ha definiti "inaccettabili". Dietro la figura di Iohannis si è raccolto un nugolo di contestatori dei due decreti proposti dal governo che comprende l’opposizione di centrodestra - composta da Unione salvate Romania (Usr) e Partito nazionale liberale (Pnl), e soprattutto la popolazione che l’altro ieri sera è scesa in piazza per esprimere il proprio malcontento. L’Usr ha annunciato oggi che presenterà una mozione di sfiducia semplice contro il ministro della Giustizia, Florin Iordache, per le recenti ordinanze governative su amnistia e indulto. Inoltre, l’Usr presenterà un memorandum al ministero della Giustizia, al Consiglio superiore della magistratura e alla Procura generale, in cui dimostrerà i motivi per cui i progetti dei due decreti favoriscono gli interessi di persone che detengono o hanno ricoperto cariche pubbliche, e non quello della società civile che invece ha bisogno di contrastare la corruzione. "L’Usr considera inaccettabile che il ministero della Giustizia sostenga due progetti di legge che riguardano lo stato di diritto e ritiene che il dicastero non sia riuscito a giustificare l’urgenza del contenuto dei due progetti", si legge nel comunicato dell’Usr. Anche la leader ad interim del Partito nazionale liberale (Pnl), Raluca Turcan, ha detto che la formazione politica di centrodestra sta valutando la presentazione di una mozione di sfiducia. La concessione di uno sconto di pena a diversi detenuti e la modifica del Codice penale ha scatenato diverse polemiche in Romania, costringendo ieri il presidente Klaus Iohannis a recarsi personalmente presso la sede del governo e presiedere la seduta dell’esecutivo guidato da Sorin Grindeanu. I dimostranti accusano esplicitamente i rappresentanti politici, sostenendo che starebbero tentando di fare uscire dalle carceri colleghi di partito, parenti o amici. In precedenza, alcune indiscrezioni indicavano che il governo Grindeanu avrebbe adottato le ordinanze senza alcun dibattito pubblico. Già pubblicati sulla pagina di internet del ministero della Giustizia e inviati per la consultazione alle principali istituzioni implicate, la bozza dell’ordinanza di urgenza relativi ad amnistia e indulto prevede uno sconto completo della pena per tutte le condanne che in base al codice civile prevedono la reclusione fino a cinque anni. Sarà concesso inoltre lo sconto della metà della pena per le persone che hanno compiuto 60 anni, per le donne incinte o per le persone che devono mantenere bambini con età fino a cinque anni. Il disegno di legge prevede che non possono ottenere sconti di pena i colpevoli di recidiva e coloro che hanno commesso reati previsti dal Codice penale o da leggi speciali. In questo senso, saranno escluse dal progetto di legge le persone condannate per tangenti, traffico d’influenza, traffico di persone, traffico di stupefacenti o reati informatici. Per quanto riguarda l’ordinanza che modifica il Codice penale, gli emendamenti prevedono un esonero della pena per tutti coloro che non sporgono denuncia entro sei mesi dal verificarsi di un reato di cui sono a conoscenza. Inoltre, l’abuso d’ufficio sarà ritenuto un reato solo se i danni recati supereranno i 50 mila euro. Secondo il ministro della Giustizia, Florin Iordache, la misura è necessaria a causa del sovraffollamento delle carceri, dove sono presenti circa 9 mila detenuti in più rispetto agli spazi di detenzione disponibili, e per armonizzare la legislazione ad alcune decisioni della Corte costituzionale. Il ministro ricorda che la Romania è già stata condannata presso la Corte europea dei diritti dell’Uomo per le "condizioni disumane" in alcuni penitenziari. Secondo quanto riferito da Iordache saranno circa 2.500 detenuti a beneficiare della legge su indulto e amnistia. Il procuratore generale della Romania Augustin Lazar si è dichiarato fermamente contrario ad atti di clemenza di questo genere. Lazar denuncia la mancata trasparenza dell’iniziativa governativa e afferma che i testi delle ordinanze devono essere analizzati dal Consiglio superiore della magistratura. Il presidente della Corte suprema Cristina Tarcea, intervenuto sul tema, ha detto che questi emendamenti potrebbero provocare disordini nei tribunali e ha espresso dei dubbi riguardo le competenze giuridiche dei membri del governo. Infine negativa è anche la posizione del Dipartimento nazionale anticorruzione (Dna), secondo cui la modifica del quadro legislativo attraverso un’ordinanza d’urgenza e in assenza di analisi oggettive che ne certifichino la necessità è ingiustificata. Scongiurata la procedura d’urgenza, ora il nuovo governo romeno dovrà dimostrare di reggere al primo ostacolo del suo mandato, oltre a scongiurare possibili valutazioni negative a livello internazionale. I riflettori puntati sono, in particolare, quelli dell’Unione europea che osserva con attenzione gli sviluppi della situazione in vista di una nuova valutazione del Meccanismo di cooperazione e verifica (Mcv). Questo strumento, che tiene conto dell’applicazione dello stato di diritto e del contrasto alla corruzione, al momento blocca la tanto agognata adesione della Romania all’area Schengen, lo spazio di libera circolazione europea. È chiaro che una misura importante, come l’iscrizione di decreti legislativi in procedura d’urgenza su un tema così delicato come l’indulto e l’amnistia, avrebbe sicuramente attirato l’attenzione sul nuovo esecutivo guidato dai socialdemocratici che, dopo la netta affermazione elettorale, hanno avuto qualche problema - proprio grazie al presidente Iohannis - a insediare un governo legittimo e in grado di garantire al paese la dovuta rappresentanza anche a livello internazionale. Gambia. Dopo una mezza invasione militare e due ultimatum, la resa di Yahya Jammeh di Marco Boccitto Il Manifesto, 21 gennaio 2017 Svolta in Pressioni internazionali alle stelle, esercito senegalese alle porte. Al termine di una giornata convulsa il recalcitrante presidente "uscente" costretto a lasciare il potere a Adama Barrow. Festa a Banjul. Ore decisive per le sorti di Yahya Jammeh, recalcitrante presidente "uscente" del Gambia, che ieri, alla fine di una giornata convulsa, con l’esercito senegalese praticamente alle porte e il suo che se ne lavava le mani, ha infine deciso di cedere alla valanga di pressioni internazionali e di lasciare - forse è già accaduto nella notte - il palazzo presidenziale. E possibilmente il paese, in modo da sfuggire ad eventuali ma prevedibili incriminazioni, visto che durante i 22 anni in cui è stato al potere - dopo un colpo di stato "incruento" - non ha lesinato il pugno di ferro nel trattare oppositori e libertà civili. Al termine del suo quinto mandato era ragionevolmente sicuro di avere in tasca il sesto, invece dal voto del 1 dicembre è uscito a sorpresa Adama Barrow, un ricco imprenditore a digiuno di politica ma sostenuto da sette partiti dell’opposizione. Ancor più a sorpresa Jammeh aveva accettato la sconfitta, ma poco dopo ci ripensava per presunte irregolarità commesse in alcuni seggi. Si era messo in testa di restare al potere per altri tre mesi, con il placet subito ottenuto del parlamento. Intanto, intorno a lui, il mondo come lui lo aveva conosciuto stava crollando. Nel giorno previsto, giovedì scorso, Adama Barrow - che ieri ha dato per primo via Twitter l’annuncio della "resa" di Jammeh - ha giurato ugualmente come nuovo presidente, avendo in tasca il riconoscimento unanime della comunità internazionale. Ma lo ha fatto a Dakar, nell’ambasciata del Gambia in Senegal. Anche perché Jammeh nel frattempo a Banjul aveva dichiarato lo stato d’emergenza. Intanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu esprimeva "sostegno agli sforzi" delle nazioni Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, per "garantire, con strumenti politici prima, il rispetto del volere del popolo". Avendo già il Senegal ammassato truppe alla frontiera, avendo la Nigeria e in misura minore Togo, Ghana e Mali promesso di dar man forte, incassato il "sostegno dell’Onu" è scattata subito una mezza invasione condita da due ultimatum. Da ieri infatti l’avanguardia del contingente militare preannunciato si trovava già in territorio gambiano, poco oltre il confine, mentre il grosso si attestava poco prima con mezzi blindati e armi pesanti. Contemporaneamente, alla voce "strumenti politici prima", Ecowas inviava a Banjul il presidente della Guinea Alpha Condé. Un tentativo estremo, l’ultimo di una discreta serie che hanno impegnato vari leader regionali, di convincere Jammeh. I due ultimatum posti nel corso della giornata scadevano senza esito. Poi, in serata la svolta, con le strade della capitale che si riempivano di gente in festa dopo il vuoto spettrale degli ultimi giorni. Ecowas si era detta pronta a mettere in campo 7 mila uomini, numero spropositato di fronte ai 2mila scarsi che conta l’esercito del Gambia, minuscolo paese incapsulato nel territorio senegalese; e soprattutto rispetto alla volontà zero dei militari gambiani, ad esclusione dei soliti commando scelti della guardia presidenziale, di mettersi di traverso.