Padova, la lettera del Papa per la Giornata contro la pena di morte viva Il Dubbio, 20 gennaio 2017 Oggi nella Casa di Reclusione l’iniziativa della rivista "Ristretti Orizzonti". Una giornata particolare quella che si svolgerà oggi nella Casa di Reclusione di Padova "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita". È la Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, e con i loro figli, compagne, genitori, fratelli, sorelle organizzata dalla rivista Ristretti Orizzonti dalla 9 alle 17. Nel corso della Giornata verrà letta da don Marco Pozza, cappellano della Casa di reclusione, una straordinaria lettera che Papa Francesco ha consegnato personalmente a un gruppo di persone invitato proprio in preparazione della Giornata contro la pena di morte viva. Non si tratta di una lettera con i rituali saluti, ma è una lettera che parla delle pene che non danno speranza, dell’ergastolo che è un problema e non la soluzione dei problemi, della necessità di un cambio di cultura sulle pene. E nell’omelia del 17 gennaio, nel corso della messa a cui ha assistito la delegazione padovana, il Papa ha anche parlato di cristiani pigri, cristiani "parcheggiati", e ha esortato a non restare fermi e incapaci di cambiare. "Noi prendiamo a prestito - si legge in una nota di - Ristretti Orizzonti - a nostra volta questa espressione curiosa del Papa per fare appello a tutte le persone "parcheggiate" nelle loro convinzioni perché cerchino di aprirsi a una cultura nuova della Giustizia, quella che il Papa chiama "Giustizia riconciliativa". Da tempo la redazione di Ristretti Orizzonti pensava a una giornata di dialogo sull’ergastolo, ma anche sulle pene lunghe che uccidono perfino i sogni di una vita libera, una giornata che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone detenute, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte unicamente sulla persona punita, ma annienta tutta la famiglia. "Per anni siamo rimasti intrappolati - scrive la redazione della rivista - in questa logica che "i tempi non sono maturi" per parlare di abolizione dell’ergastolo, e quindi non ci abbiamo creduto abbastanza, non abbiamo avuto abbastanza coraggio. Ma poi un pensiero fisso ce l’abbiamo, ed è quello che ci spinge a fare comunque qualcosa: non vogliamo abbandonare quelle famiglie, non vogliamo far perdere loro la speranza. Allora invitiamo a dialogare, con le persone condannate parlamentari, uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, perché ascoltino le parole del Papa; uomini e donne delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati. Per i nostri parlamentari è meglio la tortura della rieducazione di Filippo Facci Libero, 20 gennaio 2017 Un serio reato di tortura, in Italia, non verrà approvato: non, almeno, per come l’hanno approvato altri paesi e per come il diritto internazionale e la Convenzione Onu - firmata dall’Italia nel 1989 - lo prevedono. Perché non verrà approvato? O perché verrà approvato, al massimo, come inapplicabile aggravante di altri reati? Bisogna avere il coraggio di dirlo, e una parte di voi deve avere il coraggio di ammetterlo. Le ragioni sono le seguenti. Non verrà approvato perché molti italiani e parlamentari pensano che la repressione penale debba avere un carattere punitivo e non rieducativo (come prevedrebbe l’articolo 27 della Costituzione) che è la stessa ragione per cui si criticano i permessi-premio, le semilibertà, la condizionale e i benefici vari. In carcere si deve andare a star male, questo il sentire comune, e mettere la gente in carcere serve anche a levarla dalla circolazione. Non verrà approvato perché verrebbero meno anche strumenti come il 41 bis - il cosiddetto carcere duro - che da noi è considerato intoccabile nonostante sia pienamente equiparabile alla tortura, come hanno riconosciuto molti organismi internazionali: il suo fine vero, infatti, non è tanto l’isolamento del detenuto (per quello basterebbe molto meno) quanto fiaccarlo, mettergli pressione, intimorirlo al fine di ottenere una confessione o una collaborazione. Questo è noto, ma quasi nessuno protesta perché si tratta di mafiosi o presunti tali. Incarcerare un indagato per farlo parlare, non a caso, è stata anche la contestata prassi di Mani Pulite (contestata perché non riguardava mafiosi) e resta uno strumento a cui molti inquirenti non vogliono segretamente rinunciare. Il problema è che l’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura (1989) dice proprio questo: "Il termine tortura indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni". L’Italia ha già subito condanne da parte della Corte europea dei diritti umani. Ma a non volere un reato di tortura - serio, applicabile - sono specialmente le forze dell’ordine nel loro complesso, nonché quei cittadini persuasi che certi metodi ufficiosi siano inevitabili perché servono a trattare la malavita usando il suo stesso linguaggio. Come argomento si sostiene che la tortura sia già punita dalla legge attraverso reati come ad esempio lesioni più o meno aggravate, abuso, violenza privata, percosse, omicidio colposo eccetera: ma questo non impedisce che una tortura di prassi in Italia ci sia lo stesso (sempre meno, si spera) e che un cordone sanitario fisiologico ne impedisca mediamente la scoperta. Casi da citare non ne mancano, e spesso la difficoltà sta proprio nel contestare un reato che non sembri troppo punitivo (omicidio) o blando (abuso). E comunque nessuna fattispecie punisce le torture per come siamo abituati a vederle nei film: lasciare a digiuno o dare cibo schifoso, lasciare senza vestiti al gelo, al buio o con luce forte sempre accesa, costringere in piedi o in posizioni forzate. Di fatto, il Codice penale regolamenta il fermo di polizia ma non contempla un reato compiuto da un pubblico ufficiale che abusi della sua autorità verso i cittadini; in compenso punisce loro, i cittadini (articoli 581, 582 e 612) che si rendano protagonisti di minacce, lesioni, danni fisici o psichici. A primeggiare, in conclusione, è un legalismo all’italiana che non è particolarmente di destra o di sinistra ma secondo il quale non bisogna legare le mani alle forze dell’ordine, che un po’ di violenza ogni tanto devono usarla. Non viene presa in considerazione l’inaffidabilità delle confessioni estorte e quindi l’arbitrio del potere nel far confessare solo le verità gradite. Oltre a questo la paura, l’insicurezza percepita e infine l’ombra del terrorismo rimandano in soffitta ogni velleità garantista. Prepariamoci al nulla - la legge sulla tortura è attesa da 27 anni - o alla consueta legge parolaia e inservibile. Giustizia. Boom prescrizioni nel biennio. Civile, non cala la durata media di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 Sono stati 132.739 i processi penali andati in prescrizione nel 2015 e ben 78.054 quelli prescritti solo nel primo semestre del 2016. Si conferma, dunque, il trend negativo della prescrizione, che dal 2013 non accenna a diminuire, anzi va aumentando. Nel 2014, infatti, i processi mai arrivati a sentenza definitiva a causa del decorso del tempo erano stati 132.859 (anche se le statistiche dell’epoca ne indicavano 132.296) e 63.753 nel primo semestre di quell’anno, saliti a 67.420 nello stesso periodo del 2015. Il 2016 registra quindi un’impennata che non fa sperare in un’inversione di tendenza. Resta il fatto che la prescrizione fulmina il 4% dei processi penali definiti (che nel 2015 sono stati 3 milioni e 200mila). L’impietosa fotografia emerge dalle statistiche ministeriali trasmesse alla Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario del 26 gennaio, di cui Il Sole 24 è in possesso e da cui risulta anche che l’incremento maggiore (34,80%) delle prescrizioni si è avuto nei Tribunali (da 23.740 a 32.010), oltre che presso il Gip con le archiviazioni contro ignoti (53,30%). Lieve riduzione in Corte d’appello (22.552 rispetto a 24.304) mentre in Cassazione c’è stato un aumento significativo, con ben 767 prescrizioni (677 nel 2015), che però viene spiegato con l’aumento dei processi penali definiti, passati dai 51.509 del 2015 ai 57.725 del 2016, tant’è che l’incidenza della prescrizione sul totale dei processi decisi è dell’ 1,3% per entrambi gli anni. Giusto ieri il Consiglio d’Europa, nell’ultimo Rapporto sull’Italia, ha denunciato "l’allarmante" numero dei procedimenti penali non conclusi a causa della prescrizione e si è "rammaricato che la riforma di una questione così cruciale non sia stata ancora attuata". L’allarme (e il richiamo) riguardano i processi per corruzione, che di solito si fermano in Tribunale o in appello, ma di fronte a numeri come quelli certificati ancora una volta dalle statistiche ministeriali, l’allarme è ben più preoccupante. La riforma, però, è ancora impantanata nell’Aula del Senato per i mal di pancia trasversali a maggioranza e opposizione e finora a nulla sono servite le esortazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Che nella relazione di mercoledì al Parlamento ha rilanciato l’approvazione della riforma, pur tacendo sulla gravità dei dati. Dalle statistiche trasmesse in Cassazione risulta che anche la durata media delle cause civili non è migliorata nel 2016, attestandosi su 828 giorni in appello (819 nel 2015 e 869 nel 2014) e su 376 giorni in Tribunale (contro i 375 del 2015 e i 384 del 2014). Guardando le specifiche controversie, si scopre che la durata del contenzioso commerciale è un po’ scesa in Tribunale (da 927 giorni a 868) ma è aumentata in appello (da 1.309 giorni a 1.351; erano 1.344 nel 2014). In lieve calo i tempi delle esecuzioni immobiliari (da 1.534 a 1.238 giorni), ma in aumento quelle mobiliari (da 175 a 206 giorni). Lieve anche la riduzione della durata delle cause di lavoro, che comunque impiegano 522 giorni in Tribunale e 699 in appello. L’obiettivo del governo Renzi era "ridurre a un anno" la durata delle cause civili di primo grado e Orlando aveva già annunciato di averlo raggiunto, anche se va detto che nel calcolo della media si è tenuto conto dei decreti ingiuntivi e dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, notoriamente di più rapida definizione. Giustizia civile, i numeri dicono che l’Italia è sulla strada giusta di Luciano Violante* La Stampa, 20 gennaio 2017 La giustizia civile non è più la palla al piede della competitività italiana. L’indice di litigiosità è rientrato nella media europea, 2.600 procedimenti ogni 100.000 abitanti. Dal 2010 al 2014, ultimo dato disponibile per la comparazione, la nostra capacità di smaltimento dei processi civili è la più alta d’Europa. Da due anni, la Banca Mondiale ha integrato i propri indicatori sull’efficienza della giustizia civile con un fattore di qualità relativo agli aspetti organizzativi del sistema. Anche in questo caso possiamo vantare il risultato migliore tra i paesi europei comparabili al nostro per numero di abitanti, Francia, Germania, Polonia e Spagna. Dal 2010 al 2014 i tempi della giustizia civile sono aumentati in tutti questi Paesi; in Italia invece si sono fortemente ridotti, pur restando ancora troppo alti. Se si continuasse con questi ritmi nell’arco di pochissimi anni rientreremmo pienamente nella media europea. Siamo valutati molto bene per la disponibilità di sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, per gli investimenti in digitalizzazione e nell’informazione statistica. Torino, Milano e Genova sono le sedi capoluogo di distretto più virtuose in Italia; la durata del contenzioso civile di queste tre sedi è in linea con le durata media dei quattro Paesi indicati. Queste informazioni, insieme ad altre dello stesso tenore verranno esposte e discusse oggi a Milano nel corso di un incontro alle Gallerie d’Italia. Si tratta dei risultati di una ricerca effettuata da Italia Decide (italiadecide.it) insieme al ministero della Giustizia e in collaborazione con Intesa San Paolo, che smentisce le tradizionali lamentazioni sulla nostra giustizia civile come fattore di disincentivo per gli investimenti. Sia ben chiaro. C’è ancora molta strada da percorrere; ma i risultati ottenuti negli ultimi anni dimostrano con chiarezza che la strada imboccata dal ministro Orlando e dalle Commissioni Giustizia delle Camere, senza rullar di tamburi ma con determinazione, è quella giusta. La ricerca fa parte di un programma più vasto dedicato al ranking dell’Italia. Il ranking è una graduatoria fondata non su dati, ma su giudizi richiesti a grandi studi professionali, autorità politiche, importanti imprenditori. Si intende verificare la correttezza delle valutazioni che compongono questa particolare graduatoria. Risulta che i giudizi espressi sull’Italia da questi interlocutori sono sempre peggiori rispetto alla realtà. Perché l’autodenigrazione è così diffusa? Da cosa dipende? Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), Leopardi lamentava che gli italiani non avevano "gran cura del proprio onore…" e concludeva "Gli italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente". All’indomani della morte di Enrico Berlinguer, Giorgio Bocca in un articolo di commosso elogio definì il segretario comunista "anti-italiano". Nel 2013 un grande quotidiano, commentando una prestazione cinematografica di Checco Zalone, che impersonava la figura di uno spregevole individuo, intitolava "L’arci-italiano". Il cerchio si chiudeva, dall’anti-italiano all’arci-italiano; sempre sul crinale dell’autodenigrazione. Essere classi dirigenti non è un privilegio, è una responsabilità. Per questa ragione chi è classe dirigente deve ribellarsi al mantra autodenigratorio e fare la fatica della ricerca della verità, anche quando questa sembra meno elegante dell’irresponsabile sdegno. Domani a Milano si fa uno sforzo in questa direzione. *Ex presidente della Camera dei deputati Dalla prescrizione alla politica penale, quei silenzi di Orlando di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 L’incipit di Andrea Orlando suona come un’excusatio non petita. "Mi perdonerete se questa relazione non affronterà tutti i campi del funzionamento della giustizia", dice il guardasigilli alle Camere. E in effetti, colpiscono alcuni silenzi e qualche contraddizione su passaggi importanti di una relazione orgogliosamente rivendicativa di una politica della giustizia che sta dando risultati concreti: su prescrizione, proroga delle pensioni dei magistrati, riduzione dei detenuti, politica penale c’è stato qualche non detto di troppo. Anche stavolta, ad esempio, è assordante il silenzio sul numero dei processi prescritti, sebbene quest’anno il ministro abbia speso qualche riga in più sull’argomento, per rilanciare "l’intervento incisivo" ed "equilibrato" contenuto nel Ddl sulla giustizia penale, bloccato al Senato dopo il "no" dell’ex premier Matteo Renzi alla fiducia, prima del referendum costituzionale, e ora lasciato nel congelatore dalla conferenza dei capigruppo. Era andata così anche l’anno scorso, un po’ in sordina, come se il numero dei processi fulminati dalla prescrizione fosse tutto sommato secondario, con buona pace dell’appello per una riforma "non più rinviabile" e "radicale" lanciato, di lì a poco, dai vertici della Cassazione proprio sulla base di quel dato, sia pure limitatamente al primo semestre del 2015: 68.098 prescrizioni, rispetto alle 63.753 dello stesso periodo del 2014 (che in totale ne registrava 132.296), con un trend in aumento rispetto agli anni 2009-2012. Quale sia stato il trend successivo, non si sa: non risulta né dalle 109 pagine della "Sintesi della relazione del Ministro" né dalle 733 pagine della Relazione integrale né, tanto meno, dalle 18 cartelle lette dal ministro in Parlamento. A maggio dell’anno scorso, Orlando convocò una conferenza stampa per illustrare un’ampia analisi statistica sulla prescrizione, ufficio per ufficio, ferma però al 2014, dalla quale emerge una realtà a macchia di leopardo, frutto anche di una diversa organizzazione degli uffici. Come a dire che la prescrizione non è solo un problema di norme ma anche di capacità organizzative dei capi degli uffici. Si era alla vigilia della presentazione degli emendamenti al Ddl di riforma della giustizia penale in commissione Giustizia. Ma il silenzio sul dato della prescrizione non è l’unico. La relazione tace anche sul Dl 168/2016 dell’estate sorsa, con cui il governo, dopo aver abbassato da 75 a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, ha prorogato il trattenimento in servizio dei soli vertici della Cassazione. Orlando non ne ha parlato, e tanto meno dello scontro con l’Anm, dell’impegno suo e di Renzi di correggere il "vulnus" creato da quel decreto e del ripensamento successivo, nonché della decisione delle toghe, per protesta, di disertare l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, il 26 gennaio (decisione senza precedenti e non priva di rilievo istituzionale visto che alla cerimonia è presente anche il Capo dello Stato). Il ministro ne ha parlato solo nella replica, sollecitato da alcuni parlamentari, liquidando la questione come "non fondamentale" per il funzionamento della giustizia, e la reazione delle toghe come "sproporzionata". Eppure si tratta di una vicenda politico-istituzionale significativa, perché il "privilegio" della proroga è stato dato per decreto legge ad alcuni magistrati, creando un pesante precedente sulla possibilità che un governo si scelga le toghe da far rimanere e quelle da mandar via. Un incidente di percorso del precedente governo, ormai irrimediabile? Forse, ma non può essere silenziato o liquidato come "affare corporativo" delle toghe, tanto più se poi si dice che "devono essere contenute le prevaricazioni del potere esecutivo". Infine: carcere e politica penale. Sul primo fronte va dato atto a Orlando di aver fatto molto (anche con gli Stati generali) per far passare - nel governo, nella maggioranza, nel Pd, nel Paese - una diversa cultura dell’esecuzione penale, ma proprio per questo ci si aspetta trasparenza e coerenza. A cominciare dal numero dei detenuti, scesi, è vero, di molte migliaia, ma risaliti dai 52.164 a 54.653 nel corso del 2016. Indagare le cause di questa ripresa è doveroso, anche perché, forse, si annidano in una politica penale che, purtroppo, non ha archiviato - come Orlando invece rivendica - una logica "propagandistica e simbolica". Da un lato, il ministro stigmatizza la "costante dilatazione dei reati previsti dalla legge"; dall’altro, sembra dimenticare alcune discutibili scelte del governo Renzi, come l’introduzione dell’omicidio stradale (che non ha ridotto gli incidenti mortali), il mantenimento in vita (finora) del reato di immigrazione clandestina, l’aumento delle pene per i cosiddetti reati di strada. Un’evidente contraddizione, insomma, rispetto alla "tendenza di molti Paesi, compreso il nostro - denunciata ieri - ad affrontare con interventi penali problemi di carattere sociale". A meno che, con queste parole, il ministro non abbia voluto prendere le distanze da quelle perle di populismo penale. In Parlamento riforme della giustizia al palo di Roberto Turno Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 La riforma penale multitasking con annessa prescrizione che naviga tra veti incrociati e voglie (respinte) ministeriali di voto di fiducia da due anni. Quella del civile, addirittura collegata alla manovra 2015, che è arrivata a quota 679 giorni di ritardo e che è bloccata al Senato da 314 dopo il primo sì della Camera. Non hanno vita facile, anzi, in Parlamento le leggi sulla giustizia che secondo le promesse renziane, e non solo, avrebbero dovuto contribuire a risolvere questione antiche e spesso incancrenite. Insomma, tutto al palo. Al punto che martedì la conferenza dei capigruppo del Senato, la prima dopo le vacanze e in pratica anche la prima con Gentiloni premier, ha dovuto gettare la spugna: nel calendario dell’aula, almeno fino a tutta la prima settimana di febbraio, delle riforme sulla giustizia non se ne parla in alcun modo. Quella su penale-prescrizione, che un primo brevissimo passaggio in assemblea a palazzo Madama lo ha già fatto, continua a restare in naftalina. E intanto il tempo passa e la durata della legislatura si accorcia, mentre quella miscela di ben 41 articoli fitta di deleghe e che richiederebbero un grappolo di voti segreti, continua a fare anticamera. Un nulla di fatto che tocca anche alla riforma del processo civile: il Ddl è bloccato al Senato, in commissione Giustizia, dopo l’ok della Camera del 10 marzo dello scorso anno. Ma dopo più audizioni e confronti, la strada sembra ancora in salita e il Governo - più debole di quello precedente - dovrà impegnarsi a fondo, sempre che ci creda e lo voglia, per farcela. Mentre alla Camera è rispuntata la delega per la riforma della crisi d’impresa e la disciplina dell’insolvenza (è in commissione Giustizia) che, secondo le ambizioni, dovrebbe avere un duplice effetto di semplificazione in materia e di contributo al sistema economico innescando magari un surplus di competitività. Il provvedimento dovrebbe arrivare in aula a Montecitorio entro la fine del mese, salvo rinvii. E poi tentare l’eventuale avventura finale al Senato. D’altra parte i fortini parlamentari continuano a restare inespugnati per tutte le leggi da tempo considerate tra le punte di diamante del Governo guidato dall’ex premier Matteo Renzi. Emblematico il fallimento della "legge annuale sulla concorrenza": è quella del 2015. Circumnaviga il Parlamento da 665 giorni ormai, ma dopo l’approvazione della Camera a metà ottobre del 2015, è impantanato al Senato, in pratica alle porte dell’aula. Non è un caso che i capigruppo due giorni fa ufficialmente non ne abbiano parlato. E che il Ddl non sia nel calendario delle prossime settimane: troppi i nodi politici ancora da sciogliere e troppe le lobby che fanno pressing, con quella Rc-auto, ma non solo, che si sta rivelando un macigno. Intanto il testo, che la commissione del Senato ha ancora edulcorato, fa anticamera. E se anche supererà l’esame del Senato, dovrà poi fare tappa per la terza volta verso la Camera: altro giro, altra corsa di emendamenti? Non fare la legge, d’altra parte, fa gola a tanti. Dai notai ai farmacisti. L’ingorgo di leggi non fatte venutosi a creare al Senato tra l’altro non facilita l’iter dei provvedimenti. Anche perché su palazzo Madama premono in queste settimane i due decreti su banche e Mille Proroghe, che non a caso impegneranno l’aula - e intanto le commissioni - almeno per l’intera prima settimana di febbraio, con tanto di voti di fiducia pronti all’uso. Mentre alla Camera è in primo piano il decreto sul Mezzogiorno. E il Jobs act per gli autonomi, che però è ancora in commissione e aspetta una finestra per l’aula. In un clima politico che da martedì, con la sentenza della Consulta sull’Italicum, sarà imperniato sulla legge elettorale. E sulla scadenza del Parlamento. "Giudici in politica: ora basta, l’Italia faccia una legge" di Errico Novi Il Dubbio, 20 gennaio 2017 Richiamo del Consiglio d’Europa: "è un conflitto d’interessi". Chi indossa la toga non solo deve essere imparziale, ma non deve neppure suscitare in chi è sottoposto alla giustizia il timore di essere discriminato in ragione di un’appartenenza politica diversa da quella del giudice. È questa la raccomandazione che arriva al nostro Paese dal Consiglio d’Europa, più precisamente l’organizzazione "Gruppo di Stati contro la corruzione". Nel documento vengono rivolte 12 raccomandazioni, e alla numero 10 arriva quella su giudici e attività politica. Si esorta appunto a dotarsi di una legge che sancisca l’incompatibilità, e più in generale tratti "la questione dell’impegno dei magistrati nella vita politica sotto tutti gli aspetti sul piano legislativo". Secondo una logica semplicissima ed evocata solennemente un giorno sì e l’altro pure in tutti i convegni sul tema: "L’impatto sui principi di indipendenza e di imparzialità (reali o percepiti) del sistema giudiziario". Interessante il fatto che un tema simile confluisca in un raporto sulla corruzione. Interessante ma non casuale. L’Italia è in ritardo nel regolare l’attività politica dei magistrati. Lo dice il Consiglio d’Europa, più precisamente l’organizzazione "Gruppo di Stati contro la corruzione" (Gr.e.co.), che del Consiglio d’Europa fa parte. A far emergere la questione in realtà aveva provveduto anche il dibattito del giorno prima sulla relazione del guardasigilli Andrea Orlando: era stato il senatore socialista Enrico Buemi a ricordare lo stallo della legge sul conflitto d’interessi delle toghe in politica. Suona in ogni caso come un paradosso che a biasimare le istituzioni nazionali per un vulnus notissimo a Parlamento, governo e Csm, debba provvedere un ente sovranazionale con sede a Strasburgo. I rilievi sulla "incompatibilità tra l’esercizio simultaneo della funzione di magistrato e quella di membro di un’amministrazione locale" sono contenuti addirittura in un rapporto sulla corruzione e sugli strumenti adottati in Italia per prevenirla. Nel documento vengono rivolte 12 raccomandazioni, e alla numero 10 arriva quella su giudici e attività politica. Si esorta appunto a dotarsi di una legge che sancisca l’incompatibilità, e più in generale tratti "la questione dell’impegno dei magistrati nella vita politica sotto tutti gli aspetti sul piano legislativo". Secondo una logica semplicissima ed evocata solennemente un giorno sì e l’altro pure in tutti i convegni sul tema: "L’impatto sui principi di indipendenza e di imparzialità ( reali o percepiti) del sistema giudiziario". Chi indossa la toga non solo deve essere imparziale, ma non deve neppure suscitare in chi è sottoposto alla giustizia il timore di essere discriminato in ragione di un’appartenenza politica diversa da quella del giudice. Interessante il fatto che un tema simile confluisca in un rapporto sulla corruzione. Interessante ma non casuale: secondo il "Gr.e.co." del Consiglio d’Europa, infatti, "al Paese si possono riconoscere gli sforzi compiti nella lotta alla corruzione", ma manca ancora un tassello: ed è quello della "prevenzione e del contrasto ai conflitti di interesse". È qui che bisogna intervenire, e di fatto la questione dei giudici in politica è, secondo l’organizzazione di Strasburgo, uno dei tanti possibili risvolti del conflitto di interesse. Tra le altre raccomandazioni, ce ne sono alcune che richiamano l’urgenza di interventi legislativi come quello sulla prescrizione. Ma fa pensare che per il Consiglio d’Europa una delle prime cose da fare consisterebbe nel rafforzamento dei controlli sui reddito dei magistrati, "in particolare garantendo una verifica più approfondita delle dichiarazioni stesse e sanzionando in seguito le violazioni riscontrate". Addirittura. Parlamento italiano inerte in materia? Non proprio. Il testo è ora alla Camera e ne è relatore il capogruppo pd in commissione Giustizia Walter Verini. Il quale ricorda che sì, "la legge è in attesa da qualche mese, ma su un binario che ne frattempo ha visto sfrecciare parecchi convogli: abbiamo licenziato leggi come quelle su lotta alla mafia, beni confiscati, unioni civili, caporalato. Il diritto fallimentare è stato appena chiuso in commissione, così come il provvedimento sui testimoni di giustizia. Siamo andati al galoppo", rivendica Verini, "e si è ritenuto che la legge sull’attività politica dei magistrati fosse meno urgente di altre. Il che non significa che, visto il ritmo, la lasceremo morire lì". Al momento il progetto prevede di stabilire un "tempo di decantazione" per i magistrati che passano da una funzione all’altra: almeno due anni prima che un giudice possa tornare a esercitare le funzioni nel collegio in cui era stato eletto parlamentare, e viceversa. Si valuterà come regolare i mandati da assessori e simili. Certo è che la sesta commissione del Csm aveva adottato già nel 2015 una delibera con previsioni anche più severe: rientro in magistratura impossibile per quei giudici eletti alla Camera o al Senato, con assegnazione ad altri ranghi della pubblica amministrazione, seppur con lo stesso stipendio. Adesso arriva il richiamo di Strasburgo. Che sempre a proposito di magistrati osserva ancora: "Il ruolo di supervisione del Consiglio superiore della magistratura sui programmi organizzativi delle Procure dovrebbe essere rafforzato, per aumentare la trasparenza e l’obiettività della gestione". Altro rilievo che implicitamente allude al rischio di un’azione penale strumentalizzata a fini politici. L’avesse detto un parlamentare italiano, l’Anm sarebbe insorta. E invece il "Gr. e. co." entra nei dettagli, si preoccupa di ricordare persino che "i poteri decisionali e le funzioni di supervisione e di controllo dei procuratori capo sono logici ed accettabili in una struttura gerarchica"; ma che "le decisioni sull’assegnazione dei casi, come pure i meccanismi per risolvere potenziali conflitti all’interno degli uffici, dovrebbero essere guidati da criteri rigidi e prestabiliti, soggetti a controlli da parte del Csm". Che a pensarci bene è la ratio delle contestazioni di Alfredo Robledo a Edmondo Bruti Liberati. Ma in proposito, di sanzioni disciplinari nei confronti dei m in questione non ne sono mai arrivate Il richiamo del Consiglio d’Europa "in Italia giudici troppo vicini alla politica" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 gennaio 2017 Il Gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa (Greco) rinnova le sue critiche all’Italia. Ma questa volta oltre al parlamento, per la mancanza di una legge sul conflitto di interessi, nel mirino finiscono i magistrati. Il Gruppo anticorruzione del Consiglio d’Europa boccia ancora una volta l’Italia. Ma il quarto ciclo di valutazioni, dedicato stavolta alle misure di prevenzione della corruzione, riserva una sorpresa. Perché nel mirino dell’organizzazione che riunisce 47 stati (ci sono anche Russia, Israele, Turchia e Azerbaigian) finiscono non solo i partiti e il parlamento, ma anche gli stessi magistrati. Il Greco (all’interno del quale l’Italia è rappresentata da due magistrati, il direttore generale della giustizia penale del ministero, Raffaele Piccirillo, e il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone) riconosce alcuni passi avanti del nostro paese. Come proprio l’istituzione dell’Anac di Cantone, oltre a un generico aumento delle pene per i reati di corruzione e la prospettiva di "maggiore stabilità e un procedimento legislativo più semplice" in conseguenza delle riforma costituzionale e della nuova legge elettorale: in quest’ultimo caso l’ottimismo è superato dai fatti. Il rapporto infatti non è recentissimo - risale allo scorso ottobre - ma è stato pubblicato solo ieri. Quanto agli aspetti dolenti, questi riguardano innanzitutto la mancanza di una seria legge sul conflitto di interessi. Una legge in Italia ci sarebbe, approvata tredici anni fa da Berlusconi (la legge Frattini) ma è così blanda da non essere neanche presa in considerazione nelle valutazioni internazionali. Un’altra legge, che introduce un blind trust "all’italiana" e che è stata criticata perché ritenuta anche questa inefficace, è stata approvata solo dalla camera dei deputati, ormai quasi un anno fa. Per quanto il Pd di Renzi l’abbia presentata come "una priorità", è finita nelle sabbie mobili del senato. Non è andata oltre un ciclo di audizioni in commissione, dalle quali è venuto fuori che andrà radicalmente cambiata rispetto al testo approvato in prima lettura. Il Greco raccomanda che l’Italia introduca anche divieti stringenti per la carriera dei parlamentari a fine mandato, mentre elogia l’approvazione di un codice di condotta per i deputati (che vorrebbe venga esteso al senato). Si tratta di una decisione della giunta del regolamento di Montecitorio che qui da noi è passata inosservata. Anche perché si è risolta nella nomina da parte della presidente della camera di un ufficio di dieci deputati che dovrebbe vigilare sui comportamenti etici dei colleghi, senza possibilità di sanzionarli. La seconda parte del rapporto (52 pagine, in francese e inglese sul sito del Consiglio d’Europa) è dedicata all’amministrazione della giustizia. Per quanto raccomandi al parlamento di riformare la disciplina della prescrizione (ostacolo fin qui insormontabile per il ministro Orlando), si rivolge principalmente ai magistrati. Per criticare la mancanza di "una linea netta di demarcazione" tra l’attività politica e le funzioni giudiziarie. A colpire i membri del Greco è stato il fatto che in Italia per un magistrato sia ancora possibile essere eletto a cariche politiche locali, incluso presidente di regione e sindaco, con l’unico limite che la candidatura sia presentata al di fuori del territorio del distretto di competenza. "Il sistema italiano - si legge nel rapporto - presenta evidenti falle che alimentano dubbi sulla reale separazione dei poteri e sulla indispensabile autonomia e indipendenza dei magistrati" (nel rapporto ci si riferisce ai giudici). Una delegazione del Greco - composta da due deputati, uno spagnolo e uno tedesco, e due magistrati, un giudice portoghese e un procuratore slovacco - è stata in Italia per preparare il rapporto alla fine dello scorso aprile. Ha tenuto una serie di incontri e interviste con istituzioni, politici, magistrati e associazioni, e non si può escludere che nel suo lavoro sia rimasta traccia di una polemica che in quei giorni era molto forte, a proposito della decisione di una corrente della magistratura (Md) e di alcune toghe celebri di impegnarsi nella campagna per il No al referendum costituzionale. In ogni caso il rapporto sottolinea opportunamente come in Italia non siano ancora stati introdotti limiti al ritorno delle toghe nei tribunali, al termine di uno o più mandati politici. Una proposta che in realtà lo stesso Consiglio superiore della magistratura ha presentato al parlamento più volte, l’ultima nel 2015, sempre invano. No alla revisione della prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 Corte di cassazione, sentenza 19 gennaio 2017, n. 2656. No alla revisione per le sentenze che dichiarano la prescrizione. Anche quando la Corte d’appello e la Cassazione, nel dichiarare l’estinzione del reato, hanno confermato le deliberazioni della precedente sentenza in materia di risarcimento del danno a favore della parte civile. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 2656 della Seconda sezione penale depositata ieri. È stata così giudicata inammissibile la richiesta di revisione avanzata dalla difesa contro la sentenza di Corte d’appello diventata definitiva dopo il giudizio della Cassazione che aveva sancito l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, con conferma invece della condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile. La difesa aveva invece sostenuto, interpretando l’articolo 629 del Codice di procedura penale, che non ci sono limiti alla possibilità di revisione in caso di prescrizione, valorizzando il riferimento della norma "anche se la pena è già eseguita o estinta". L’interesse all’applicazione dell’istituto era poi evidente rispetto alla misura del risarcimento del danno. La Corte chiarisce, all’esito di un’attenta ricognizione della normativa applicabile, che l’articolo 631 del Codice di procedura penale nell’individuare i limiti della revisione stabilisce puntualmente e rigorosamente la casistica applicabile. La revisione cioè non è suscettibile di estensione a casi non previsti e, in generale, rappresenta una soluzione dell’ordinamento penale che ha come obiettivo l’eliminazione di una condanna ingiusta attraverso un giudizio che deve essere di proscioglimento. Non può quindi essere ritenuta ammissibile "rispetto ad una sentenza di proscioglimento quale quella in forza della quale è stata dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione sia pure accompagnata da una statuizione di condanna a carico dell’imputato per i soli fini civilistici, ostandovi, valutato il complessivo sistema normativo, il principio di tassatività di cui all’articolo 568, primo comma, Codice di procedura penale, e non essendo, pertanto, possibile un’applicazione in termini analogici alle ipotesi della (sola) condanna civile". È vero che c’è un precedente, recentissimo (Cassazione n. 46707 del 2016), che ammette la revisione in caso di condanna ai soli effetti civili, con prescrizione del reato. Una pronuncia che mette l’accento sul fatto che nel perimetro della revisione rientrerebbero tutti i verdetti di condanna, senza distinzione quindi. Anche quelli al risarcimento in sede civile pertanto. Si tratta però di una lettura alla quale la sentenza di ieri ritiene di non dovere dare seguito. Infatti, osserva adesso la Corte, è chiaro che la revisione è funzionale al proscioglimento del soggetto già condannato. Senza però che vi possano essere compresi i casi di condanna ai soli effetti civili. Tanto più in un caso dove il proscioglimento già si è verificato per l’avvenuta estinzione del reato per il trascorrere del tempo. In questo senso milita anche l’interpretazione data dalla Corte costituzionale nel 2011 con la sentenza n. 113 nella quale è stato messo in evidenza come la revisione è indirizzata al proscioglimento con la conseguente presentazione di tutti gli elementi necessari a corroborare la richiesta. Scatta la truffa per i permessi della legge 104 fruiti come giorni di ferie di Michele Nico Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 23 dicembre 2016 n. 54712. Il lavoratore che usufruisce dei permessi retribuiti di cui all’articolo 33, comma 3, della legge104/1992, pur non essendo obbligato a prestare assistenza alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare quei giorni come se fossero giorni feriali, senza quindi prestare alcuna assistenza al disabile. Questo il principio affermato dalla Corte di cassazione, sezione II penale, con la sentenza n. 54712 del 23 dicembre 2016, che pur tuttavia conferma un’interpretazione di favore nei confronti del dipendente, là dove rileva che "da nessuna parte della legge si evince che, nei casi di permesso, l’attività di assistenza deve essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa". Il ragionamento della Cassazione - Una siffatta interpretazione viene mitigata dal rilievo che i permessi "non possono e devono essere considerati come giorni di ferie (…), ma solo come un’agevolazione che il legislatore ha concesso a chi è si è fatto carico di un gravoso compito, di poter svolgere l’assistenza in modo meno pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliarsi in quei giorni in cui non è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona". Tenuto conto di ciò la Corte di cassazione, richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali in tal senso, conclude che è colpevole di truffa il lavoratore che, avendo chiesto e ottenuto di poter usufruire dei giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi all’estero in viaggio di piacere, non prestando, quindi, alcun genere di assistenza. La sentenza è degna di rilievo, in quanto ha il pregio di mettere a fuoco il delicato punto di equilibrio nella lettura di un dettato normativo che trova diffusa applicazione nei rapporti di lavoro pubblico e privato, quale strumento di politica socio-assistenziale che riconosce e promuove la cura prestata alle persone con grave handicap da parte dei loro familiari. Un punto di equilibrio che, va pur detto, si è rivelato mutevole nel corso degli anni, specialmente dopo che l’articolo 24 della legge 183/2010 è intervenuto sul disposto in esame per eliminare i requisiti della "continuità ed esclusività" dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti. La ratio della legge 104/1992 è però rimasta invariata, e con la recente sentenza della Corte costituzionale n. 213/2016 è stata definita quale "espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave". La condanna per truffa - Tornando alla pronuncia in commento la Sezione conferma, come si è detto, la condanna per truffa nei confronti di un dipendente che ha utilizzato i permessi retribuiti di cui alla legge 104/1992 non per assistere il familiare disabile, ma per recarsi in viaggio all’estero con la famiglia. La Corte respinge, quindi, la tesi difensiva a sostegno dell’insindacabilità da parte del datore di lavoro delle modalità con cui il lavoratore utilizza i permessi in questione e della loro assimilazione tout court ai giorni di ferie. I permessi hanno, invece, lo scopo di consentire al lavoratore di prestare la propria attività di assistenza con maggiore continuità, senza peraltro escludere la sua possibilità "di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali". La Sezione precisa anzi che "nei giorni di permesso, l’assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l’orario lavorativo", dacché tale modo di interpretare la legge non sarebbe conforme neppure agli interessi dell’handicappato, nel caso in cui egli abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il dipendente presti la propria attività lavorativa. Il precedente ribadito - Resta ferma l’esigenza, come ha statuito la Cassazione civile, sezione Lavoro, con la sentenza 13 settembre 2016 n. 17968, che "la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un’attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa e/o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un’assistenza comunque prestata". In definitiva, il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui alla legge 104/1992 può graduare l’assistenza al parente con handicap secondo orari e modalità flessibili che tengano conto sia delle esigenze del soggetto da assistere, sia delle proprie legittime esigenze di ristoro con la finalità, come si legge nella pronuncia in commento, "di poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle attività che non sono possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all’assistenza". Assegno figli minori: genitori non sposati fuori dalla norma penale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 19 gennaio 2017 n. 2666. La norma penale, prevista dalla legge sull’affidamento condiviso per sanzionare l’inosservanza degli obblighi di natura economica, non si applica ai genitori che erano solo conviventi. La Cassazione (sentenza 2666) annulla senza rinvio "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato" la condanna inflitta a un genitore parzialmente inadempiente nel versare quanto dovuto alla sua ex compagna per il mantenimento del figlio minore. Il ricorrente era stato condannato sia in primo grado sia in appello per il reato previsto dall’articolo 3 della legge 54 del 2006. Neppure la difesa, tra i motivi proposti, aveva messo in dubbio l’applicabilità della legge 54/2006. La esclude invece la Cassazione. L’articolo 3 prevede che "in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applichi l’articolo 12 sexies, della legge che introduce il divorzio (898/1970), il quale punisce il coniuge che, in caso di scioglimento del matrimonio, non corrisponde l’assegno di mantenimento. Le pene previste sono quelle dettate dall’articolo 570 del Codice penale per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’articolo 3 va letto nel contesto della legge 54 e in particolare dell’articolo 4 comma 2 il quale prevede che "le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati". La norma introduce una distinzione tra le diverse ipotesi: da un punto di vista sintattico le disposizioni della legge sono indicate come da applicare non "in caso di figli di genitori non coniugati" ma "ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati". Una precisazione rilevante - sottolineano i giudici - perché la disciplina dettata dalla legge 54 regola anche i provvedimenti relativi ai figli che il giudice deve adottare in caso di separazione e i profili processuali sull’esercizio della potestà genitoriale e di affidamento. Per la Suprema corte dunque, mentre in caso di genitori coniugati si applicano tutte le disposizioni della legge, per quanto riguarda i figli dei genitori non sposati il riferimento "ai procedimenti relativi" va inteso come circoscritto a quelli civili e vanno escluse le previsioni che riguardano il diritto penale sostanziale. La soluzione indicata risponde al principio del cosiddetto diritto penale minimo e non lede la posizione dei figli di genitori non sposati, la cui tutela è assicurata dalle azioni civili e dall’articolo 570 del codice penale. La Cassazione si era già espressa sull’articolo 3 (sentenza 36263/11) per chiarire che questo riguarda solo la violazione degli obblighi verso i figli e non verso il coniuge. Ora i giudici della sesta sezione aggiungono un altro tassello. Un piano Marshall per i bambini mai più muschilli di Antonio Mattone Il Mattino, 20 gennaio 2017 Nel 1979 il giornalista Joe Marrazzo realizzò un reportage televisivo girato nei vicoli di Napoli incontrando gli scugnizzi che compivano scippi e rapine e che si guadagnavano da vivere facendo i guardiamacchine o accompagnando i militari americani dalle prostitute nelle ore serali. Era l’epoca in cui si iniziò a parlare dei "muschilli", quei bambini che erano utilizzati per trasportare le dosi di droga e come i moscerini potevano muoversi velocemente e senza destare sospetti tra le forze dell’ordine, con il vantaggio di non essere imputabili per la giovane età. Il cronista voleva documentare cosa significava essere bambini a Napoli, una città notoriamente conosciuta per il buon cuore verso i suoi piccoli: "i figli so piezz’ e core" recita il famoso detto. Ne uscì uno spaccato drammatico e commovente, con i volti teneri di quei bambini, talvolta sporchi di muco, che vivevano di piccoli espedienti in mezzo alla strada. Le indagini e gli arresti al Pallonetto di Santa Lucia di due giorni fa hanno fatto venire fuori, a distanza di quasi 40 anni, una realtà non molto diversa da quella raccontata da Marrazzo. Ancora una volta i bambini sono utilizzati e sfruttati dai grandi, questa volta immessi nella catena di montaggio del grande business della droga a confezionare e vendere dosi. Dai muschilli di Marrazzo ai bambini del Pallonetto, perché non cambia mai nulla in questa città? Perché ai bambini napoletani continua ad essere negata l’infanzia? Forse l’unica cosa che cambia è l’abbassamento del l’età dei minori coinvolti. Essere costretti a otto anni a preparare le confezioni di cocaina, a convivere con la paura delle irruzioni della polizia o delle sparatorie intimidatorie è davvero inaccettabile, come ha detto il Procuratore Colangelo. Così come è inconcepibile che ragazzini tredicenni possano ricevere clienti nella propria casa e gestiscano una piazza di spaccio. Oggi, in quartieri "chiusi" come il Pallonetto di Santa Lucia, Forcella, la Sanità nulla cambia per i bambini perché si respira sempre la stessa aria. I minori che vivono in contesti come questi e in famiglie malavitose si abituano ai modelli del potere, della violenza, dell’illegalità. Si impara a diventare protagonisti negativi contando sulla forza e sulla sopraffazione. Le baby gang non sono forse il frutto di questi insegnamenti violenti? Esistono zone franche alla legalità che andrebbero presidiate in modo massiccio dalle forze dell’ordine e che invece sono saldamente in mano alla criminalità che controlla chi esce e chi entra dalle zone sorvegliate. Quante volte entrando in alcune strade vigilate dalle sentinelle della camorra ho sentito dire "tutt’a post", il lasciapassare per la presenza di un estraneo che comunque non destava sospetti. E in fondo le piazze dei parcheggi abusivi nel centro della città, che tutti conoscono e fingono di non vedere, non sono forse un baluardo in mano ai clan? E come non mettere al centro la questione della riqualificazione urbanistica degli antichi quartieri di Napoli? La scuola resta comunque l’unica chance per cominciare a cambiare. Dovrebbe essere il canale privilegiato per intercettare il disagio e i segnali di malessere dei bambini a rischio. Ma gli insegnanti non possono essere lasciati da soli, sarebbe una battaglia impari. Le altre istituzioni dovrebbero fornire quel supporto necessario ad individuare le famiglie "difficili" e accompagnare e monitorare le situazioni problematiche. Tuttavia gli assistenti sociali sembrano inesistenti, pochi e chiusi negli uffici non scendono più in strada come avveniva ai tempi di Joe Marrazzo. Manca un piano sinergico che metta sullo stesso tavolo chi, per un verso o per un altro dovrebbe occuparsi dei minori. Una strategia condivisa che riesca a coinvolgere anche il mondo dell’associazionismo, delle parrocchie e di tutte quelle realtà di cittadinanza attiva che pure esistono e operano in città. Se qualcuno pensava che qualche ora di lezione in più d’estate potesse risolvere il fenomeno della devianza giovanile, oggi si deve ricredere. Occorre elaborare programmi e progetti che portino ad uscire fuori dai quartieri chiusi e da quelli periferici, per interessare e appassionare questa infanzia marginale. Insomma, servono progetti seri e a lunga gittata, un piano Marshall per l’infanzia e l’adolescenza, altrimenti il passato finirà con l’inghiottire ogni speranza di futuro, come le immagini di quei muschilli di 40 anni fa. Teramo: carcere; rientra la protesta, 120 detenuti trasferiti di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 gennaio 2017 Niente luci e tutti al gelo anche nel carcere di Castrogno, a Teramo, dove un guasto agli impianti ha creato più di qualche disagio, tanto che si è temuta addirittura una rivolta, soprattutto in seguito alle scosse di terremoto che hanno gettato nel panico i detenuti. La situazione era stata già segnalata qualche giorno fa, ma nessuno si era mosso. Nella giornata di ieri, comunque, è stato organizzato il trasferimento di 120 persone, mentre in 100 tra 41 bis e sex offender sono rimasti nel carcere abruzzese, che si è attrezzato con gruppi elettrogeni alimentati a gasolio e ha contattato una ditta esterna per servire pasti caldi. Il trasferimento temporaneo dei detenuti serve soprattutto ad alleggerire la pressione sulla struttura e sugli agenti penitenziari: i problemi sono stati tanti, oltre alla mancanza di luce e riscaldamento, è stata segnalata anche una mancanza di mezzi adeguati per il trasporto nella neve, tanto che una scorta proveniente da Lecce è rimasta bloccata per ore in mezzo al gelo. Il rischio di paralisi totale dell’istituto di pena era stato denunciato dal Sappe, che aveva anche richiesto l’intervento del governo per il paventato rischio disordini. Messina: ancora 13 internati nell’ex Opg Barcellona Pozzo di Gotto hashtagsicilia.it, 20 gennaio 2017 A due anni dalla data fissata dalla legge 81 del 2004 per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, 13 persone, di cui 8 con misura di sicurezza definitiva e 5 con misura provvisoria, sono ancora internate nell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Lo denuncia il Comitato regionale Stop Opg in una lettera inviata al Presidente della regione e all’assessore alla sanità, ai ministri della Salute e della Giustizia, al Garante regionale per i diritti dei detenuti e a tutti gli altri soggetti istituzionali interessati. Gli internati, all’inizio di gennaio, sarebbero dovuti passare alla seconda Rems di Caltagirone (Asl di Catania), struttura residenziale sanitaria per la riabilitazione, la cui apertura è però prevista per il mese di maggio. Il Comitato chiede che "l’Opg sia chiuso definitivamente e queste 13 persone siano immediatamente dimesse disponendo la loro presa in carico dai Dipartimenti di salute mentale di appartenenza o il loro transito nelle due Rems già operative". Nella nota viene inoltre rilevato che nell’ex Opg, oggi casa circondariale con all’interno 224 persone di cui 43 minorati psichici, 11 con sopravvenuta malattia mentale e 8 in osservazione psichiatrica, "i detenuti vivono, nonostante l’impegno degli operatori, una situazione di grave disagio". "Noi chiediamo- dice Elvira Morana, del Comitato - interventi urgenti a garanzia dei diritti di chi è ancora ingiustamente internato nella struttura e del diritto alla salute e alle cure dei detenuti". A questo scopo il comitato Stop Opg ha chiesto al Dipartimento per l’amministrazione Penitenziari Dap di visitare la struttura di Barcellona Pozzo di Gotto e chiede incontri con le istituzioni regionali e provinciali preposte allo scopo di risolvere i problemi sollevati Bolzano: nuovo carcere, Kompatscher chiede garanzie "non intendo firmare contratti al buio" di Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 20 gennaio 2017 Dall’apertura delle buste sono ormai passati tre anni e la prima pietra non è ancora stata posata. L’areale accanto all’aeroporto è sempre vuoto, l’esatto contrario del carcere che invece è sempre pieno di detenuti. Una struttura fatiscente, difficile da controllare anche perché gli effettivi della polizia penitenziaria in servizio - si legge sul sito del ministero della Giustizia - sono 62 a fronte di una pianta organica di 81. Gli amministrativi invece sono solamente 9, un terzo di quelli previsti dalla pianta organica. La nuova casa circondariale di Bolzano era stata pensata proprio per creare una struttura più dignitosa, sia per chi è detenuto sia per coloro che debbono sorvegliarlo. La formula scelta - una sorta di project financing - prevede che lo Stato ceda l’immobile del carcere attuale alla Provincia che si impegna a costruire il nuovo penitenziario in project financing. Ovvero il soggetto che costruisce si occuperà anche della gestione del carcere in tutto e per tutto eccetto che per la sorveglianza che rimarrà il core business dello Stato. Una novità assoluta in Italia che però stenta a decollare. Lo Stato aveva già messo a bilancio i fondi che però poi sono stati stornati su un altro capitolo. E, fino a che non ci sarà certezza sul finanziamento, Kompatscher ha assicurato che non firmerà nulla. "La gara d’appalto è stata vinta da Condotte spa e la conferenza dei servizi ha ultimato il lavoro. Ci sono tutti gli accordi necessari, manca solamente una piccola operazione contabile. Non serve nemmeno una legge, un semplice provvedimento ministeriale basterebbe" spiega Kompatscher. "A questo punto è tutto nelle mani del Mef (Ministero delle Finanze). Già diversi mesi fa ho parlato con il sottosegretario Morando e - chiarisce ancora Kompatscher - mi aveva assicurato che la situazione si sarebbe risolta presto. Solo che non si è ancora mosso nulla". La caduta del governo Renzi non ha certo agevolato le cose e proprio per questo la settimana prossima Kompatscher scenderà a Roma per cercare di ottenere lo sblocco dei fondi per la nuova casa circondariale. "Fino a che non ci sarà certezza su questo punto non prenderò impegni con la società che, e questo dovranno capirlo anche a Roma, non può certo aspettare in eterno. Finora - conclude il Landeshauptmann - hanno avuto pazienza ma prima o poi potrebbero anche decidere di rivalersi passando alle vie legali". Un’eventualità questa che, almeno per il momento, i vertici di Condotte non sembrano prendere in considerazione. La società romana non vuole commentare lo stato delle cose ma già nelle scorse settimane i vertici hanno scritto all’Agenzia degli appalti per chiedere che cosa si attendesse per partire. Un segnale, inequivocabile, che la pazienza sta ormai raggiungendo il limite. Cagliari: Caligaris (Sdr); bimba di 14 mesi nel carcere di Uta con la madre Ristretti Orizzonti, 20 gennaio 2017 "Ancora una volta assistiamo a una sconfitta dello Stato. Protagonista-vittima una bimba che si trova in cella con la giovane madre. La piccola di appena 14 mesi è arrivata ieri notte. Una situazione che nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta risulta inaccettabile dal momento che in Sardegna, a Senorbì, è stato allestito da alcuni anni un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute (Icam) che ancora non è agibile". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme con riferimento alla vicenda giudiziaria di una donna di 34 anni di etnia Rom e della figlioletta con cui condivide la cella. "Madre e figlia - sottolinea Caligaris - sono assistite con professionalità e tenerezza dalle Agenti della Polizia Penitenziaria che hanno preso a cuore il caso con il contributo indispensabile degli Infermieri e dei Medici. La situazione è tuttavia molto delicata perché la bimba deve essere visitata da un Pediatra che ne accerti le condizioni di salute. Ciò comporterà il trasferimento in Ospedale della madre con la scorta, in un momento in cui peraltro il numero del personale penitenziario è ridotto all’osso". "Per quanto possano esservi esigenze cautelari gravi una madre con una creatura di 14 mesi non può stare in carcere. La sua presenza nella sezione femminile è una nuova pesante sconfitta delle Istituzioni che devono farsi carico di trovare delle strutture esterne a custodia attenuata. Si può garantire la sicurezza, evitando però a un neonato di pagare colpe che non ha. Oltre all’Icam, dislocato purtroppo in una località periferica, esistono - ricorda la presidente di Sdr - alternative alla detenzione che non possono essere ignorate. Tra l’altro il braccialetto elettronico consentirebbe alle forze dell’ordine di monitorare costantemente la donna nella dimora assegnatale e alla piccola di usufruire di un ambiente idoneo a ridurre i rischi di eventuali pericolose crisi". "L’auspicio è che i tempi della giustizia, in casi come questo - conclude Caligaris - non debbano essere così lunghi da costringere una creatura di 14 mesi a rimanere in una struttura carceraria. Nonostante l’impegno dei diversi operatori, un Istituto di Pena non è, per diversi motivi, un posto per neonati. Con la piccola a Cagliari-Uta sono due i bimbi nelle carceri sarde. Uno infatti si trova a Sassari-Bancali. È quindi ovvio domandarsi perché sia stato allestito un Icam e perché non si trovi un’alternativa che garantisca sicurezza per i cittadini e rispetto per gli innocenti. Trento: carcere di Spini, stato di agitazione per il personale di Polizia penitenziaria trentotoday.it, 20 gennaio 2017 La struttura, lamentano le sigle sindacali, ospita 360 detenuti a fronte di un limite di 240 mentre il personale è fermo alle 130 unità, un numero ben lontano dai 214 agenti previsti. Il risultato sono ore su ore di straordinario e il timore di vedersi negati in futuri i riposi settimanali. Stato di agitazione per il personale di polizia penitenziaria in forza al carcere si Spini di Gardolo. La struttura, lamentano le sigle sindacali, ospita 360 detenuti a fronte di un limite di 240 mentre il personale è fermo alle 130 unità, un numero ben lontano dai 214 agenti previsti. Il risultato sono ore su ore di straordinario e il timore di vedersi negati in futuri i riposi settimanali. Intanto la famiglia del 35enne di Rovereto che si era suicidato in carcere a metà dicembre dopo essere stato fermato con l’accusa di aver appiccato il fuoco ad un impianto di carburante a Rovereto, ha presentato una memoria alla procura di Trento, chiedendo giustizia. Il giovane fin da subito aveva dato segni di squilibrio mentale. Un’indagine dovrà chiarire se sia stato fatto il possibile per evitare il decesso, e perché il giovane non sia stato trasferito, in attesa dell’udienza prevista per il 7 febbraio, in una struttura protetta invece che in carcere. Alessandria: protesta in carcere, i pasti non consumati dagli agenti destinati alla Caritas alessandrianews.it, 20 gennaio 2017 Gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di San Michele, che da quattro settimane non consumano i pasti della mensa per protestare contro le condizioni di lavoro, hanno deciso di destinare i pasti non consumati alla Caritas. Si attende però il via libera della Direzione affinché consenta ai volontari della parrocchia di San Michele, che si occuperebbe del trasporto, ad entrare in carcere e prelevare i pasti non consumati dal personale. Un gesto di solidarietà voluto dagli stessi agenti verso chi "ne ha più bisogno". Lo sciopero della mensa è la protesta nata spontaneamente tra il personale di vigilanza, per denunciare la carenza di personale. Mancano infatti circa una settantina di unità in servizio. Dopo un incontro della direzione del carcere con il Provveditore regionale, si sono stabilite "misure tampone". "A breve dovrebbero arrivare tre agenti dalla casa circondariale Don Soria, ma siamo in attesa del nulla osta dei sindacati, trattandosi di rappresentanti di altre organizzazioni", dice il sindacalista Salvatore Carbone di Uil-Pa. "Abbiamo inoltre chiesto un tavolo urgente in Prefettura, siamo in attesa della convocazione - spiega ancora - la situazione è sempre più difficile. Gli agenti in servizio fanno turni anche di nove ore continuativa, contro le sei previste". Altre misure tampone previste sono il ricorso a strumenti tecnologici, come la videosorveglianza, e l’implementazione del servizio sanitario interno al carcere per evitare di dover accompagnare i detenuti alle visite fuori sede. Si attendono inoltre altre unità in supporto, dal carcere di Biella, chiuso da un anno per motivi sanitari. "Solo promesse, per ora, nulla di concreto", dice il sindacalista. Lo sciopero della mensa, quindi, prosegue. "Gli agenti hanno deciso di devolvere il loro pasto a chi ne ha bisogno. Si sono resi conto che con i loro pasti possono alleviare almeno in parte le sofferenze di chi ha più bisogno di aiuto e che la propria rinuncia potrà essere utile ad altri più silenti di loro", prosegue Carbone. A trasportare i pasti non consumati dal personale potrebbe provvedere la vicina parrocchia di San Michele, che si è già detta disponibile. Ma occorre, appunto, il permesso della direzione della casa di reclusione per consentire ai volontari di entrare e prelevare il cibo, che dovrà essere trasportato secondo le norme, alla mensa della Caritas. "Chiediamo alla Direzione di farsi parte attiva per la realizzazione di questa volontà e di dare indicazioni tramite avviso al personale". Se tale permesso non sarà concesso, gli agenti sono determinati a trovare altre soluzioni. La prossima settimana, intanto, anche i rappresentanti sindacali incontreranno il Provveditore regionale: "torneremo a chiedere soluzioni concrete", conclude Carbone. Taranto: apre il ristorante che dà lavoro a immigrati, detenuti e giovani delle periferie di Maria Luisa Prete La Repubblica, 20 gennaio 2017 L’associazione di volontariato Noi e voi e il suo fondatore - un sacerdote, don Francesco Mitidieri - cappellano del penitenziario tarantino, hanno concretizzato l’idea di un luogo di integrazione e valorizzazione delle diversità. Un luogo che è riuscito a creare anche nuovi posti di lavoro. Taranto non è solo la città martoriata dai fatti dell’Ilva, ha un cuore pulsante e ha sogni che a volte riesce a realizzare. Tra questi, quello dell’associazione di volontariato Noi e voi e del suo fondatore, don Francesco Mitidieri, cappellano del penitenziario tarantino, che ha concretizzato l’idea di un luogo di integrazione e valorizzazione delle diversità. Un luogo che è riuscito a creare anche nuovi posti di lavoro. Così, proprio a ridosso dello stabilimento, nel quartiere Tamburi al civico 2 di via Costantinopoli, ha aperto il ristorante Art. 21. Un esperimento che ha saputo convogliare storie differenti, accomunate tutte dal desiderio di riscatto. Lo staff, tra sala e cucina, è composto da giovani provenienti dalle periferie difficili della città, detenuti con la voglia di ricominciare e migranti alla ricerca di un lavoro onesto e dignitoso. In totale, sei dipendenti assunti con regolare contratto. Come nasce e con quale spirito. Aperto pochi mesi fa, il ristorante è un progetto sociale partito grazie al contributo della fondazione Megamark, impegnata nella promozione di iniziative rivolte ai meno fortunati. La cooperativa Noi e voi, costola dell’omonima associazione attiva su tutto il territorio da 25 anni, gestisce il locale e si occupa della formazione e dell’affiancamento del personale. "L’obiettivo - racconta Lucia, una delle volontarie - è quello di creare un luogo di incontro, sensibilizzazione e informazione perché solo dialogando e confrontandoci si possono abbattere i muri". Un nome dal triplice rimando. Si chiama Art. 21 e mai nome fu più azzeccato e ricco di implicazioni. L’articolo 21 al quale si fa riferimento è, innanzitutto, quello della Costituzione italiana che garantisce la libertà di pensiero ed espressione. Poi, quello del codice penitenziario che legittima il lavoro fuori dal carcere come occasione preziosa di reinserimento. Infine, quello del testo unico sull’immigrazione che regola i flussi dei migranti. I protagonisti del progetto. Motore del progetto è la cooperativa Noi e voi, presieduta da Antonio Erbante, e l’omonima associazione guidata da don Francesco Mitidieri. Al lavoro due giovani immigrati: Michael (Ghana), in sala e Suleiman (Gambia), aiuto cuoco. Nicola, in affido dalla casa circondariale, lavora in cucina. Dalle periferie arrivano Luca e Italo, impegnati in sala, e Mimmo, altro aiuto cuoco. A guidare la banda l’esperienza e la bravura dello chef Fabrizio Ragnati, genovese d’origine ma tarantino d’adozione. E poi, a chiudere il cerchio, il contributo dei volontari dell’associazione: Lucia, Maria Grazia, Ganxhe, Flavia, Gianluca, Emanuele, impegnati in un lavoro costante di affiancamento, formazione e supporto. Nel menù qualità, rispetto e integrazione. "Ristorante sociale. Il luogo delle calende: a tavola ci si incontra, ci si conosce e si scoprono nuove cose. Il luogo giusto per chi ha fame di conoscenza". È così che si presenta agli avventori Art. 21. Una volta entrati si soddisfa non solo l’appetito fisico, ma anche quello morale e culturale. Solidarietà e integrazione che non sovrastano un’altra caratteristica del luogo: la qualità. Il menù, di alto profilo, predilige pesce fresco e mitili. Varia ogni giorno in base al pescato, ma promette sempre freschezza e genuinità. C’è poi la possibilità di degustare cibi etnici. Pure il vino non delude, anche perché ha un valore aggiunto non da poco: proviene dalle terre sequestrate alla mafia. Cremona: stanze colorate per colloqui bimbi-genitori detenuti grazie ai Soroptimist Club cremonaoggi.it, 20 gennaio 2017 Stanze colorate e a misura di bambino in carcere per i colloqui con i genitori reclusi. Ci sarà il 25 gennaio l’inaugurazione delle stanze presso la Casa circondariale cremonese nell’ambito del progetto nazionale sui diritti dei minori. Il progetto è stato portato avanti dai Soroptimist International Club Cremona e Club di Crema. Tale progetto, volto a sensibilizzare l’attenzione sui minori che si rapportano alla realtà carceraria, sul loro diritto all’affettività e all’accoglienza in un ambiente a loro consono, è stato realizzato grazie alla disponibilità, alla collaborazione e alla condivisione da parte della direttrice della casa circondariale Lusi, del personale e dei detenuti stessi che hanno prestato la loro opera per dipingere, risistemare gli ambienti e posizionare libri e giocattoli. L’obiettivo è stato quello di rendere i locali in cui si svolgono i colloqui dei genitori reclusi con le loro famiglie ed i figli minori accoglienti e colorati, per creare e favorire un clima di relazione disteso e rassicurante dove i minori possano sentire di essere i benvenuti e abbiano la possibilità di trascorrere con il genitore detenuto momenti di serenità anche giocando, disegnando, leggendo insieme un libro. All’inaugurazione sarà presente una rappresentanza dell’Amministrazione comunale e ci saranno anche la vice presidente nazionale del Soroptimist International, Laura Marelli, e la programme director nazionale, Rosy Cappelletti. Arezzo: la filosofia in carcere, straordinaria esperienza da ripetere di Gianni Brunacci arezzonotizie.it, 20 gennaio 2017 In una sala disadorna, dal soffitto basso e l’acustica men che decente, ho assistito ieri, insieme a diverse decine di altri aretini, a un incontro spettacolo dedicato a riflessioni filosofiche e alla musica, ma soprattutto alle parole, di Fabrizio de André. Tutto questo, per quanto interessante, non sarebbe stato così straordinario se non si fosse svolto all’interno del carcere di Arezzo e con la partecipazione attiva di un gruppo di detenuti. Ho trovato tutto molto semplice, della massima sobrietà, eppure ho provato insieme agli altri una grande emozione. La lettura di alcune brevissime, ma intense riflessioni degli ospiti della nostra casa circondariale, stimolate da parole chiave come gioia, dolore e utopia, ha in qualche misura spiazzato e colpito gli intervenuti. La presenza dei detenuti, che hanno commentato quelle parole e le loro possibili declinazioni, ha fatto toccare momenti alti in un ambiente in cui non ci si aspetta che possa/debba accadere. Tutto questo, insieme agli intermezzi dedicati a canzoni di alto valore intellettuale e pure filosofico, ha fatto sì che l’atmosfera, in quella sala spoglia, diventasse magica nel giro di pochi minuti. Purtroppo in un carcere certe cose si possono fare soltanto a inviti e per un numero ristretto di spettatori, ma il solo fatto che dei detenuti abbiano potuto esprimere in pubblico il risultato del loro lavoro di gruppo (e personale) è stato avvertito dai presenti come qualcosa di straordinario e molto vicino alla filosofia della detenzione che deve tendere al recupero della piena dignità e alla riabilitazione/reintegrazione di chi ha sbagliato. È grazie ad iniziative come quella messa in piedi dall’impagabile Simone Zacchini, insegnante di filosofia dell’Università di Siena, che si può immaginare un percorso di analisi interiore capace davvero di arricchire le vite dei detenuti e di chi gli è familiare o amico, o semplicemente li incontra. Il punto di partenza spesso non è alto, per via delle più varie circostanze ed esperienze di vita, ma ieri chi era presente ha chiaramente compreso come la filosofia, con la sua semplice complessità possa ancora, come sempre, avere una forza dirompente sulle vite di chiunque, detenuti compresi. Vedere quanto gli ospiti del carcere tenessero a quell’incontro e come si siano aperti di fronte a un pubblico certo sensibile al tema, ma poco preparato a vederlo trattare in quell’ambiente e in quei termini, è stato qualcosa di straordinario, addirittura commovente. Si può fare, quindi; si può parlare di filosofia con chiunque e dovunque, senza che questo suoni "strano" o "poco accessibile". Certo, la presenza di un esperto capace di stimolare le riflessioni è necessaria, ma alla fine non c’è nulla di più semplice e vero rispetto al porsi delle domande e cercare di dar loro delle risposte (senza sfuggirle per paura o inutile modestia). Esperienza interessantissima e da ripetere, quindi, quella di ieri pomeriggio e del laboratorio di idee che l’ha generata. Grazie di cuore, in particolare, alla dirigente del dipartimento aretino dell’Università di Siena (Loretta Fabbri) e alla direzione della casa circondariale di Arezzo (Paolo Basco), per aver permesso che l’idea di Simone Zacchini potesse diventare realtà, anche perché da un’ora e mezza di musica e parole siamo usciti tutti più ricchi, e nemmeno di poco. Milano: nel carcere di Opera la presentazione del nuovo libro di Sandro Capatti La Repubblica, 20 gennaio 2017 È previsto per oggi, venerdì 20 gennaio, alle ore 14 nella Casa di Reclusione di Opera, a Milano, la presentazione su invito del libro del fotoreporter Sandro Capatti, "Teatro 360° riabilitare, educare, essere..." (Edit Faenza). Un evento che è molto di più di una semplice presentazione. Si tratta infatti di un particolare momento di incontro, tra il mondo dell’arte e quello della reclusione e dei carcerati. La lungimiranza di un’Amministrazione Penitenziaria, quella del Carcere di Opera che apre le sue porte al mondo esterno e riesce a creare un momento di intensa fusione come solo attraverso l’arte si riesce ad ottenere. Finalmente un carcere non più visto come istituzione distante ed alienante ma come una finestra che si affaccia al mondo circostante, uno specchio che riesce a riflettere idee ed emozioni. Da parte sua invece Sandro Capatti, per la presentazione della sua sesta pubblicazione, ha scelto questo luogo speciale, per restituire in anteprima, un tributo di riconoscenza ad uno di quei luoghi "reclusi" che si sono offerti e mostrati, con altrettanta generosità ai suoi occhi e al suo obiettivo fotografico per essere ripresi consentendogli di poter realizzare il suo tanto ambito progetto "Teatro 360° riabilitare, educare, essere". Il volume, porta con sé, unitamente al riconoscimento del Patrocinio del Ministero della Giustizia, anche quello della Regione Emilia Romagna, della Provincia e del Comune di Parma, dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Dipartimento delle Belle Arti. Nel libro, alla presentazione del progetto scritta dell’autore Capatti, si affianca, la Prefazione di Luigi Pagano, già Vice Capo DAP, attualmente Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia, Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta, l’introduzione per mano di Cristina Valenti, Professore Associato, Dipartimento delle Arti, dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna e il contributo scritto di Maria Inglese, Psichiatra presso l’Azienda Ausl di Parma. Napoli: a Scampia i figli dei poliziotti si allenano con i figli dei detenuti di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 20 gennaio 2017 A Scampia i figli dei poliziotti e i figli dei detenuti si allenano insieme. Succede nella palestra di Gianni e Pino Maddaloni, da anni impegnati nel recupero dei ragazzi a rischio attraverso lo sport. Nel giovane team di Maddaloni ci sono ragazzi come Biagio D’Angelo, super medagliato campione olimpico e probabile atleta per Tokyo, che è figlio di un poliziotto. Poi ci sono figli di finanzieri e vigilanti. Accanto a loro ragazzi che hanno i genitori in carcere come Antonio e Gennaro. "Si allenano insieme per quattro ore al giorno, sei giorni a settimana - racconta Maddaloni - Così raggiungono l’eccellenza e si allontanano dalla strada. È uno scambio, in cui chi è più fortunato dà il meglio di se per avvicinare alla legalità chi proviene da una realtà difficile". Venerdì 20 il team partirà per Firenze per affrontare una nuova gara. I ragazzi si allenano mentre Gianni Maddaloni cerca di trovare anche un’ occupazione per le madri di chi ha il papà in carcere: "Dobbiamo aiutarli a sostenere la famiglia. Per fare questo e consentire ai ragazzi di allenarsi gratuitamente, abbiamo bisogno dell’aiuto delle istituzioni. A 60 anni ho bisogno di forti motivazioni per andare avanti, segnali di interesse dalla società e invece c’è una crisi della coscienza politica, senza l’appoggio dell’ex procuratore Giandomenico Lepore forse sarebbe già saltato tutto: grazie a lui sono in contatto con imprenditori di marchi come Eccellenze campane". L’altro giorno però è arrivato in palestra Matteo Renzi: "la visita mi ha reso felice, significa che la sua attenzione continua. Per i ragazzi è stata una festa". Napoli: "Un angelo tra le stelle", maestri chef ai fornelli per i baby detenuti di Nisida metropolisweb.it, 20 gennaio 2017 Giovedì 26 gennaio, alle 20.30, il Circolo Nautico Posillipo ospiterà la terza edizione di "Un angelo tra le stelle", la cena solidale organizzata dall’associazione Progetto Abbracci Onlus insieme a Nati per Leggere Campania e alla Fondazione Pol.i.s a sostegno del progetto socio-culturale Liber - Aria di Lettura presso l’Istituto Penale Minorile di Nisida. Le stelle protagoniste della serata sono Peppe Aversa del Ristorante il Buco di Sorrento, Paolo Barrale di Marennà Feudi di San Gregorio, Michele Deleo di Rossellinis di Palazzo Avino Ravello, Danilo Di Vuolo de La Caletta dello Scrajo di Vico Equense, Peppe Guida dell’Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense e Enzo Piccirillo de La Masardona di Napoli. Una cena per 160 ospiti, il cui ricavato sarà impiegato per l’allestimento di Liber - Aria di Lettura, un punto di lettura all’interno del carcere minorile di Nisida, accessibile a tutti i baby detenuti e alle loro famiglie. Alla sua terza edizione, "Un angelo tra le stelle" si prende cura dei ragazzi di Nisida, l’isola che non c’è per tanti napoletani, luogo di recupero e non di mera detenzione, luogo dove coltivare progetti e speranze per un futuro possibile. "L’idea di poter sostenere con i ricavati della nostra cena la realizzazione di un punto accogliente di libera lettura all’interno del carcere di Nisida ci piace molto perché con Liber getteremo semi di conoscenza, di bellezza, di curiosità e di emozione, semi che un giorno daranno i loro frutti, in un futuro vicino o lontano che sia", spiega Claudio Zanfagna presidente di Progetto Abbracci. Un progetto di grande impatto educativo per avvicinare genitori e ragazzi attraverso la lettura: gli effetti positivi (migliore sviluppo dal punto di vista cognitivo, emotivo e sociale, educazione alla socialità, dell’ascolto e del dialogo) ricadono anche sui giovani detenuti, spesso già genitori, che imparano così a sviluppare relazioni solide e durature attraverso il linguaggio delle emozioni e dei sentimenti mediati dal libro. Terni: domani al Centro Sant’Efebo sarà presentato cd musicale realizzato dai detenuti di Adriano Lorenzoni terninrete.it, 20 gennaio 2017 Sabato 21 gennaio dalle ore 15 presso il centro giovanile S. Efebo sarà presentato il cd musicale realizzato dai detenuti nel carcere di Terni, dal titolo "Il sole non muore". All’iniziativa sarà presente il Professor Matteo Belli, uno dei massimi esperti italiani di "vocologia" che terrà una conferenza dimostrativa su un ipotesi metodologica di scrittura interpretativa. L’evento è organizzato dal Centro giovanile S. Efebo dalla Cooperativa sociale Actl, in collaborazione con l’associazione Musicarte, la polisportiva sociale Baraonda, con il patrocinio del Comune di Terni e del Cesvol di Terni. Durante la serata sarà presentato il progetto Rifiorita, promosso da Tracce Terni accessibile, che servirà a dare un sostegno alle popolazioni terremotate, attraverso una lotteria partecipata per realizzare un centro sociale in legno per la frazione di S. Pellegrino di Norcia. "Speriamo che la città risponda in modo positivo a questo evento che vede la partecipazione di un personaggio importante nel panorama culturale italiano", afferma Mauro Nannini coordinatore del centro S. Efebo. Massa: lo scrittore Malvaldi incontra i detenuti "le storie ci portano lontano dalla noia" di Libero Dolce Il Tirreno, 20 gennaio 2017 Lo scrittore pisano entra nel carcere per il ciclo "Scrittori in carcere". Premiati coloro che si sono distinti nei percorsi scolastici. Leggendo il tuo libro ho imparato una parola che non conoscevo: "ner". E che parola è? Resta in silenzio la platea di detenuti e tace anche lo scrittore dal palco, osservando il giovane senegalese che l’ha pronunciata. Lui ripete, scandendo le lettere: n-e-r. "Ah ecco - si illumina Marco Malvaldi - è una cosa pisana mettere la r al posto della l, significa "nel". Nell’incontro alla casa di detenzione di Massa nel ciclo "Scrittori in carcere" si è finiti a parlare di parole, i piccoli mattoni che fanno un racconto, della narrazione come pratica di salvezza dalla noia e esercizio di inveramento dei desideri quando tutto attorno pare franare. "La mia prima pagina bianca da scrittore la affrontai durante la tesi di dottorato - racconta Malvaldi per rompere il ghiaccio - quando il mio lavoro come chimico teorico era inserire dei calcoli nel computer, aspettare che li eseguisse e stare attento che non andasse via la luce. Iniziai a scrivere per la noia di quelle ore d’attesa, anche perché le due volte che mi portai un libro da leggere andò via la corrente e persi il lavoro di settimane". Sensibilità rara, forse involontaria, quello dello scrittore, che da uomo libero e scrittore di successo "per una serie di casi sfortunati" riesce a intercettare il possibile tratto comune con la sua platea di lettori detenuti: la lettura e la scrittura come rottura della fiaccante quotidianità di chi subisce una costrizione. Analogia in sedicesimo, si capisce, ma chi ascolta apprezza e durante l’incontro ripagherà con applausi convinti e una costante partecipazione al dialogo. E c’è un’esperienza dentro al carcere, un laboratorio di scrittura creativa guidato da Costantino Paolicchi, che ha portato alla pubblicazione del volume collettivo "Impariamo a volare". "Siamo partiti dalla domanda cos’è la scrittura - spiega Paolicchi - che non è la tecnica. Ok, ci siamo detti: la punteggiatura serve che migliori, la sintassi a volte va per i fatti suoi. Quello che importa è il raccontare, una dimensione che abbiamo perduto. Loro invece di storie da raccontare ne hanno tante, le loro prospettive, attese, emozioni. E sono venute fuori con questo percorso, che sta continuando". Malvaldi ha incantato l’uditorio parlando del personaggio di Ampelio, uno dei preferiti dai lettori tra quelli creati nei suoi libri. "È una versione edulcorata di mio nonno, in pratica ho dovuto togliere qualcosa per non renderlo troppo impenitente. Lui era uno di una sincerità totale, se pensava una cosa te la doveva dire. Quando il vescovo venne in casa per ufficializzare in qualche modo l’inizio della carriera ecclesiastica di mio zio, mio nonno, che era ateo socialista e altro un metro e cinquantasette si parò davanti a quest’omone tutto bardato e ingioiellato e indicando la croce che dal suo collo scendeva di fronte ai suoi occhi gli disse: "Oh per quelli come te c’è voto di povertà". Si girò e lo piantò lì". Sono in tanti dentro la sala piena fino all’ultimo posto ad avere letto Malvaldi. Qualcuno si lamenta che la serie tratta dai romanzi del Barlume è poco fedele: "Me l’hanno rovinata, con quelle facce così diverse da quelle che immaginavo io". Un altro, lettore fedele, rimpiange di aver letto i suoi libri in carcere: "La lettura non dipende solo da quando ma anche da dove la fai. Qui è diverso, ma mi sono piaciuti lo stesso". Alla fine della cerimonia, con il contributo della libreria Rinascita di Empoli di Tamara Guazzini, sono stati premiati con dei volumi gli studenti che nei percorsi scolastici interni si sono distinti. Ex Br e vittime al Senato, dialogo dopo le proteste di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 gennaio 2017 Le polemiche sono rimaste fuori dal palazzo, anche se uno dei brigatisti che sequestrarono Aldo Moro e uccise gli agenti di scorta è entrato dentro. Mescolato tra il pubblico, ad ascoltare il presidente del Senato, il ministro della Giustizia, alcune vittime del terrorismo (tra cui la figlia di Moro e il figlio dell’autista trucidato nell’agguato di via Fani) e alcuni ex compagni di bande armate parlare della loro esperienza di dialogo: prima condotto in segreto e riservatezza, per anni, e poi reso noto nel Libro dell’incontro. Non per riscrivere la storia né per dare "legittimazione politica al partito armato", come spiega il senatore Luigi Manconi, promotore dell’iniziativa, bensì "celebrare la forza e la vittoria della democrazia". Una presentazione contestata da qualche parlamentare e dall’Associazione vittime del terrorismo. "Anch’io avevo perplessità e diffidenze verso questa esperienza - spiega il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso - ma con la lettura del volume si sono dissolte. Perché questo è un percorso complementare e successivo a quello della giustizia penale, nel quale emerge ciò che di importante resta fuori dai processi: la ricomposizione delle vite, il futuro, una memoria condivisa". Un riconoscimento istituzionale importante per i familiari delle persone colpite negli "anni di piombo" e per i colpevoli di quei fatti che hanno scelto di incontrarsi e instaurare un rapporto che ha superato le contrapposizioni di un tempo. "Siamo tornati ad essere uomini, come ci esortava a fare padre Adolfo Bachelet - racconta l’ex brigatista Andrea Coi -, ed è un cammino non ancora concluso. Grazie alle nostre vittime, che ci hanno aiutato a trovare le parole adatte a dialogare con loro. E riscoprire valori che avevamo messo da parte". Esperienza non semplice, come hanno svelato non solo le vittime delle Br, ma anche Linda Evangelista, moglie del poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar, e Manlio Milano, che perse la moglie nella strage nera di Brescia, nel 1974: "Siamo riusciti a sanare le ferite private, ma quella collettiva è ancora aperta, e ha bisogno di uno spazio pubblico per riuscire a ripensare la memoria di quel tempo". Pure il ministro della Giustizia Andrea Orlando s’è interrogato prima di partecipare, anche sull’onda delle polemiche di chi ha contestato una simile iniziativa in una sede istituzionale. "Ma noi non siamo qui a rimuovere responsabilità, che non si cancellano, o dispensare perdoni - spiega il Guardasigilli. Né a chiudere i conti con una stagione storica. Anzi, semmai li riapriamo, stimolati dall’incontro di mondi diversi che offre la possibilità ai colpevoli di ripensare a ciò che hanno fatto, e riabilitarsi. Come prevede la nostra Costituzione". Stati Uniti. Amnesty a Trump "abbandoni la retorica dell’odio, protegga i diritti" di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 gennaio 2017 Nel giorno del giuramento come 45° presidente degli Usa, Amnesty International ha sollecitato Donald Trump ad abbandonare quella retorica dell’odio che ha caratterizzato la sua campagna elettorale e a impegnarsi a proteggere i diritti umani di tutti. Il presidente Trump e la sua amministrazione dovrebbero in particolare proteggere le persone affette dai conflitti armati e da quella che ormai è una vera e propria crisi umanitaria globale. Dalla Seconda guerra mondiale, non si era mai visto un così elevato numero di persone in fuga dalla violenza e dall’instabilità. Il presidente Trump dovrebbe ricordare che gli Usa hanno per tanto tempo accolto persone che cercavano un rifugio e sono un paese in gran parte fondato e costruito da migranti e rifugiati. Durante la campagna elettorale, Amnesty International aveva più volte espresso preoccupazione per le proposte di Trump, come l’istituzione di un registro dei cittadini musulmani o il divieto d’ingresso a rifugiati musulmani, e per i suoi attacchi contro le donne, le persone di colore, le persone con disabilità, le persone Lgbti, gli attivisti, i giornalisti e chi lo criticava. Le nomine in posti-chiave dell’amministrazione, a loro volta, non lasciano sereni. Rimangono poi questioni aperte, tra cui la grazia a Edward Snowden e a Leonard Peltier, la mancata chiusura del centro di detenzione di Guantánamo, l’uso indiscriminato e illegale delle armi da fuoco da parte della polizia. Se nei prossimi quattro anni il mondo sarà un luogo migliore in cui vivere o uno in cui l’odio, la paura e la discriminazione cresceranno sempre di più, dipenderà in buona parte da Donald Trump. Stati Uniti. Obama attacca il Congresso "insensato non chiudere Guantánamo" La Stampa, 20 gennaio 2017 La lettera del presidente uscente: "Ostacola la lotta al terrorismo: non ci sono giustificazioni". Il carcere ha da poco compiuto 15 anni. Domani sarà il primo giorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Prima di lasciargli le chiavi, Barack Obama si toglie un ultimo sassolino dalla scarpa attaccando il Congresso per aver impedito la chiusura di Guantánamo. Di fatto, facendo venir meno una delle promesse su cui si era impegnato in prima persona nel 2008. "Non ci sono giustificazioni, al di là della politica, dietro l’insistenza del Congresso a mantenere il supercarcere aperto", scrive il presidente uscente in una lettera. "I paletti imposti che ci impediscono il trasferimento dei detenuti negli Usa non hanno senso. Nessuno è mai scappato da uno dei nostri carceri di massima sicurezza o dai carceri militari". Secondo Obama, non consentendo al chiusura di Guantánamo, il Congresso ha messo la "politica sopra ai costi sostenuti dei contribuenti, ai rapporti con i nostri alleati, e ai rischi alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti". Il super carcere è stato condannato dai governi di tutto il mondo e "ostacola, invece di aiutare, la lotta la terrorismo. Guantánamo è contraria ai nostri valori ed è passato già da tempo il momento per mettere fine a questo capitolo della nostra storia. Il Congresso, ostacolando gli sforzi per chiudere Guantánamo, data la posta in gioco in termini di sicurezza, è venuto meno alla sua responsabilità nei confronti degli americani". Il carcere di Guantánamo ha compiuto 15 anni lo scorso 11 gennaio. Nato nel 2002, è stato aperto sull’isola di Cuba sotto l’amministrazione di George W. Bush. Nel suo picco, la struttura ha ospitato fino a 800 detenuti, la maggior parte dei quali non è mai stata formalmente accusata. Molti hanno subìto torture durante gli interrogatori. Il presidente eletto, Donald Trump, ha ribadito più volte la sua riluttanza a chiudere la struttura. Brasile. I militari nelle carceri l’ultimo azzardo di Temer La Repubblica, 20 gennaio 2017 Di fronte a due settimane di rivolte e a 134 detenuti morti (il 36 per cento di quelli deceduti in tutto il 2016), il governo di Michel Temer gioca la carta dei militari. Ho delegato la sicurezza e il controllo dei 32 penitenziari brasiliani alle Forze Armate. Non è una novità. L’uso dei soldati per garantire l’ordine pubblico è avvenuto spesso in passato. Ma si trattava di occasioni particolari, come i Mondiali e le Olimpiadi che avevano una risonanza internazionale. Adesso, si tratta di contenere un’ondata di sommosse che suonano come una sfida più che una protesta per il sovraffollamento e le condizioni disperate in cui versano molte prigioni. In Brasile è in corso uno scontro, feroce e sanguinario, tra i due grandi Cartelli della droga, il Primeiro Comando do Capital (Pcc), egemone a San Paolo, e il Comando Vermelho (Cv), presente a Rio de Janeiro, assieme ai suoi sodali, dopo due decenni di alleanza. La posta in gioco è il controllo del corridoio amazzonico per gestire il traffico di cocaina proveniente dal Perù, dalla Bolivia e in parte dalla Colombia, e della marijuana che arriva dal Paraguay, destinate al mercato europeo e africano. Un business da 1 milione di dollari a settimana. Delegare ai militari il controllo delle carceri, oltre ad essere una chiara sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, accusato di aver gestito male la crisi delle carceri, viene letta da molti come una mossa populista. La presenza dei soldati nelle strade è sempre stata accolta come un sollievo dalla gente. Vedere autoblindo e uomini in divisa, elmetto in testa e armati con fucili di assalto dà un senso di sicurezza, rafforza l’orgoglio nazionalista, soddisfa sentimenti che sembravano tramontati con la fine della dittatura e che ora, invece, riaffiorano nei commenti che raccolgo per la strada, nei negozi, dal barbiere, nei supermercati. La paura domina il senso comune del Brasile. La gente con cui parlo, che ama scambiare due parole nell’italiano imparato a casa dai propri nonni e padri, mi avverte sempre di stare attento. Con una frequenza e un’enfasi mai provate prima. Il Presidente è consapevole del clima che si respira nel paese. Sa che questa rivolta non è qualcosa di estemporaneo. Che il circuito penitenziario potrebbe esplodere improvvisamente, contagiando anche l’esterno. È accaduto nel 2002 e poi ancora nel 2008: per giorni i miliziani dei narcos misero in scacco città come San Paolo, con autobus incendiati, posti di blocco, assalti e rapine. Temer sa che le sommosse sono una sfida politica: i due Cartelli, oltre a lottare per il controllo di territori importanti, vogliono imporre il loro potere. Dentro e fuori il carcere. Mille soldati, avieri e marinai, saranno usati per perquisire le celle e scovare le armi, i cellulari, le droghe che circolano liberamente tra i detenuti. Faranno ciò che finora avrebbero dovuto fare agenti e poliziotti. I quali, a dire dello stesso Temer, "troppo spesso vengono contagiati dagli stessi detenuti". Un modo di denunciare la corruzione imperante tra gli addetti ai lavori. Il ministro della Difesa, Raul Jungmann, è scettico. Svolgerà il compito che gli ha affidato il Capo dello Stato ma ha chiaramente detto che la misura "non risolverà" il problema. "La soluzione passa attraverso l’azione congiunta delle varie istituzioni e dei poteri". Mette le mani avanti. Vuole evitare di diventare l’ennesimo capro espiatorio. Il rischio è di trasformare l’eccezionalità nella normalità. E di usare i militari dove falliscono i civili.