Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita Ristretti Orizzonti, 19 gennaio 2017 Giornata di dialogo con ergastolani, detenuti con lunghe pene, e con i loro figli, compagne, genitori, fratelli, sorelle 20 gennaio 2017, Casa di reclusione di Padova, ore 9-17 Nel corso della Giornata verrà letta da don Marco Pozza, cappellano della Casa di reclusione, una straordinaria lettera che Papa Francesco ha consegnato personalmente a un gruppo di persone invitato proprio in preparazione della Giornata contro la pena di morte viva. Non si tratta di una lettera con i rituali saluti, no, è una lettera che parla delle pene che non danno speranza, dell’ergastolo che è un problema e non la soluzione dei problemi, della necessità di un cambio di cultura sulle pene. E nell’omelia del 17 gennaio, nel corso della messa a cui ha assistito la delegazione padovana, il Papa ha anche parlato di cristiani pigri, cristiani “parcheggiati”, e ha esortato a non restare fermi e incapaci di cambiare. Noi prendiamo a prestito a nostra volta questa espressione curiosa del Papa per fare appello a tutte le persone “parcheggiate” nelle loro convinzioni perché cerchino di aprirsi a una cultura nuova della Giustizia, quella che il Papa chiama “Giustizia riconciliativa”. Da tempo la redazione di Ristretti Orizzonti pensava a una giornata di dialogo sull’ergastolo, ma anche sulle pene lunghe che uccidono perfino i sogni di una vita libera, una giornata che avesse per protagonisti anche figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle di persone detenute, perché solo loro sono in grado di far capire davvero che una condanna a tanti anni di galera o all’ergastolo non si abbatte unicamente sulla persona punita, ma annienta tutta la famiglia. Per anni siamo rimasti intrappolati in questa logica che “i tempi non sono maturi” per parlare di abolizione dell’ergastolo, e quindi non ci abbiamo creduto abbastanza, non abbiamo avuto abbastanza coraggio. Ma poi un pensiero fisso ce l’abbiamo, ed è quello che ci spinge a fare comunque qualcosa: non vogliamo abbandonare quelle famiglie, non vogliamo far perdere loro la speranza. Allora il 20 gennaio 2017 invitiamo a dialogare, con le persone condannate a lunghe pene e all’ergastolo e i loro figli, mogli, genitori, fratelli e sorelle: - parlamentari che si facciano promotori di un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo e che si attivino per farlo calendarizzare, o che comunque abbiano voglia di confrontarsi su questi temi; - uomini e donne di chiese e di fedi religiose diverse, perché ascoltino le parole del Papa, che ha definito l’ergastolo per quello che è veramente: una pena di morte nascosta; - uomini e donne delle istituzioni, della magistratura, dell’università, dell’avvocatura, intellettuali, esponenti del mondo dello spettacolo, della scuola, cittadini e cittadine interessati. Ma non vogliamo neppure dimenticarci di come vivono le persone condannate all’ergastolo o a pene lunghe che pesano quanto un ergastolo, quindi parleremo di condizioni di vita nelle carceri e di tutto quello che è possibile cambiare già da ora, senza aspettare che cambino le leggi, per rendere la carcerazione più umana e civile Di tutto questo vorremmo parlare il 20 gennaio a Padova, ma non vi chiediamo semplicemente di aderire a una nostra iniziativa. Facciamo anche in modo che non finisca tutto alle ore 17 del 20 gennaio, ma che si apra una stagione nuova in cui lavoriamo insieme perché finalmente “i tempi siano maturi” per abolire l’ergastolo e pensare a pene più umane. La redazione di Ristretti Orizzonti Hanno aderito e parteciperanno: - Ergastolani, detenuti con lunghe pene, e i loro figli, mogli, genitori, fratelli, sorelle - Esponenti dell’associazione Liberarsi, che da anni si batte per l’abolizione dell’ergastolo - Pasquale Zagari, ex detenuto, condannato all’ergastolo, la pena gli è stata rideterminata a 30 anni in seguito a una sentenza della Corte europea - Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti - Alessandra Naldi, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano - Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa, sindacalista ucciso dai terroristi nel 1979 - Gherardo Colombo, ex magistrato, è appena uscito “La tua giustizia non è la mia”, dialogo sulla Giustizia scritto a quattro mani con Piercamillo Davigo - Rita Bernardini, Partito Radicale - Il senatore Pietro Ichino, che ha avuto un interessante scambio sui temi del 41 bis e dei circuiti con i detenuti dell’Alta Sicurezza - Il deputato Alessandro Zan, che sta portando avanti con noi la battaglia a tutela degli affetti delle persone detenute - Il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - Il senatore Giorgio Santini, Partito democratico - La deputata Gessica Rostellato, Partito democratico - Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia - Francesco Cascini, Capo del Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità - Roberto Piscitello, Direttore della Direzione generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - Enrico Sbriglia, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto - Giovanni Maria Flick, giurista, presidente emerito della Corte costituzionale, ex ministro della Giustizia - Marcello Bortolato e Linda Arata, magistrati di Sorveglianza a Padova - Fabio Gianfilippi, magistrato di Sorveglianza a Spoleto - Sergio Staino, fumettista e disegnatore “storico” della sinistra, oggi direttore dell’Unità - Francesca De Carolis, giornalista, per anni in Rai, e curatrice del libro "URLA A BASSA VOCE. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai" - Piero Sansonetti, giornalista, direttore del quotidiano Il Dubbio - Giampiero Calapà, giornalista, Il FattoQuotidiano - Maria Brucale, avvocato della Camera penale di Roma e componente del direttivo di Nessuno tocchi Caino - Davide Galliani, Professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, è autore, tra l’altro, del saggio “La concretezza della detenzione senza scampo” - Giuseppe Mosconi, Sociologo, Padova - Francesca Vianello, Università di Padova - Fabio Federico, avvocato del Foro di Roma - Annamaria Alborghetti, avvocato - Lia Sacerdote, Associazione Bambini senza sbarre - Laura Marignetti, presidente del SEAC - Avv. Renato Borzone, responsabile dell’Osservatorio informazione giudiziaria delle Camere Penali - Diego Olivieri, imprenditore accusato di associazione mafiosa, un anno di carcere ma era innocente. È autore del libro “Oggi a me, domani a chi? Hanno aderito le seguenti associazioni: - Associazione “Liberarsi” - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - Associazione "Yairaiha Onlus" - Associazione "Forza dei Consumatori" - Associazione Memoria condivisa - Osservatorio carcere delle Camere penali - Associazione Bambini senza sbarre - Camera penale di Padova e di Milano - Nessuno Tocchi Caino - Associazione Antigone nazionale e Antigone Veneto - SEAC Il Papa appoggia la battaglia di Ristretti contro l’ergastolo. E promette: verrò a trovarvi Corriere del Veneto, 19 gennaio 2017 Da Roma al "Due Palazzi". Papa Francesco ha nel cuore i detenuti di Padova. E per questo prossimamente verrà a trovarli. Una promessa strappata nell’intimità dell’incontro, che il Pontefice ha concesso l’altro ieri a Santa Marta ad una delegazione del carcere "Due Palazzi". "Il Papa ci ha consegnato una lettera firmata di suo pugno - racconta Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista dei detenuti. La leggeremo venerdì, nel corso del convegno sul tema dell’abolizione dell’ergastolo, che abbiamo organizzato all’interno del carcere. Per il momento riportiamo a casa un messaggio di grande speranza da parte del Santo Padre". Assieme alla Favero erano presenti il cappellano del carcere, don Marco Pozza; il direttore della casa di reclusione, Ottavio Casarano; una volontaria; due "redattori" della rivista; e il segretario particolare del vescovo Claudio Cipolla, don Matteo Naletto. Il rendez-vous con il Papa è cominciato prestissimo, con la messa delle sette del mattino. Francesco ha speso parole di affetto e vicinanza al gruppo padovano. "Ci ha parlato di cristiani pigri e parcheggiati, che vanno esortati - dice ancora la Favero. Quindi ci ha incoraggiato nella nostra iniziativa". Dopo la messa, la colazione, sempre a Santa Marte e quindi l’incontro con il Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Domani, al "Due Palazzi" si terrà dunque il convegno "Contro la pena di morte viva. Per il diritto a un fine pena che non uccida la vita". All’iniziativa, organizzata da "Ristretti Orizzonti", si sono già iscritte oltre cinquecento persone. "Sarà un’interessante occasione di confronto tra le persone detenute, i loro familiari, e la politica - dicono da "Ristretti. Un’occasione per proporre alcune iniziative tra cui la creazione di un osservatorio su pene lunghe, e la promozione della rappresentanza dei detenuti in tutte le carceri". Il ministro Orlando deludente: le carceri sono di nuovo sovraffollate di Rita Bernardini* Il Dubbio, 19 gennaio 2017 La popolazione carceraria nell’ultimo anno è aumentata di 2.500 detenuti. Numeri che rendono urgente la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ho trovato deludente la relazione sullo stato della giustizia in Italia che il ministro Orlando ha presentato in Parlamento. Continuo a trovare incredibile come persino ai ministri della Giustizia sfugga il concetto per cui il nostro Paese debba ritrovare il principio di "legalità" costituzionale sia nell’esecuzione penale che nell’amministrazione della giustizia penale, civile, amministrativa e tributaria. Affermare, infatti, che ci sia un miglioramento nell’esecuzione penale perché la popolazione detenuta è diminuita di 10.000 unità negli ultimi 3 anni, senza evidenziare che nell’ultimo anno c’è una netta ripresa del sovraffollamento, significa soffermarsi sul dito e non sulla luna che il dito indica. Ma, ancora più grave è non rispondere al quesito se sia corrispondente o meno alla legalità costituzionale il modo in cui si vive in carcere o si accede alle misure alternative. Quanto ai dati forniti, mi permetto di rettificarli utilizzando quelli riportati sul sito del ministero della Giustizia. In tre anni la popolazione reclusa è diminuita di 7.883 unità, ma nell’ultimo anno si è passati dai 52.164 detenuti al 31.12.2015 ai 54.653 del 31.12.2016, il che vuol dire che c’è stato in un anno un aumento di ben 2.500 unità. Sottovalutare questa ripresa del sovraffollamento - facilmente rilevabile dalle visite che come Partito Radicale abbiamo fatto recentemente - non fa comprendere cosa rischia di accadere se non si interviene immediatamente e noi, con Papa Francesco, continuiamo a chiedere un provvedimento di amnistia e di indulto, modulato sulla situazione attuale di violazione del diritto e dei diritti umani fondamentali. Lo stesso vale per la giustizia lumaca che continua ad essere tale e sulla cui irragionevole lentezza non si interviene in modo strutturale. Non si fa una bella figura a dire che siano diminuiti i risarcimenti dovuti dallo Stato ai cittadini secondo la legge Pinto, quando si è fatto di tutto per contrastarne l’accesso a coloro che hanno subito un processo assurdamente lungo. Per non parlare dei risarcimenti dovuti e non corrisposti ai detenuti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Purtroppo, si continua a non vedere come l’amministrazione della Giustizia sia centrale per la vita democratica, civile, sociale ed economica del nostro Paese. Credo che non ci sia al momento alternativa alla ripresa dell’iniziativa nonviolenta; nonviolenza richiamata da Papa Francesco come metodo da praticare anche nell’azione politica: ricorda qualcuno? A me ricorda il leader Marco Pannella e la necessità di procedere con lo stralcio dal disegno di legge sul penale della Riforma, almeno, dell’ordinamento penitenziario. *Coordinatrice Presidenza del Partito Radicale La relazione del Guardasigilli: "sconfitte le emergenze del civile e del carcere" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017 È un lungo elenco di successi conseguiti nel 2016 quello che Andrea Orlando rivendica davanti al Parlamento con la relazione sull’amministrazione della giustizia, a cominciare dalle due vere emergenze - carcere e arretrato civile - considerate ormai sconfitte, visto che i detenuti sono a quota 54.653 (10mila in meno in tre anni) e le cause pendenti sono scese sotto i 4milioni (3.800.000, seppure al netto dell’attività del giudice tutelare, che conta 395.335 procedimenti). E poi: anche i processi penali pendenti sono diminuiti, nell’ultimo anno di ben 7 punti percentuali (3.229.284); le assunzioni del personale amministrativo si sono ripartite dopo 18 anni di blocco; l’organizzazione degli uffici ha beneficiato di investimenti per oltre 1 miliardo e 700 milioni, e il clima generale è "più disteso". In generale, "i numeri si avvicinano sensibilmente alla media europea" assicura il guardasigilli. Che fa una sola autocritica, là dove definisce un "errore" (evidentemente politico) non aver approvato, "quando c’è stata la finestra necessaria", la riforma del processo penale (che tra l’altro contiene le norme su prescrizione e intercettazioni), augurandosi che "le prossime finestre non restino inutilizzate". Un’autocritica che, in controluce, è più una critica all’ex premier Matteo Renzi, responsabile dello stop al voto di fiducia (sollecitato da Orlando) sul provvedimento prima del referendum costituzionale, e quindi dell’impantanamento della riforma. Nessuna critica o autocritica, invece, sulle tensioni con l’Anm, sfociate nella decisione delle toghe di disertare la cerimonia del 26 gennaio in Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una decisione senza precedenti contro il governo, che ha varato il Dl 168/2016 di proroga dell’età pensionabile dei soli vertici della suprema Corte e poi è venuto meno all’impegno di sanare quel "vulnus". "Non la reputo tra le questioni più importanti" ha risposto Orlando in sede di replica, ai senatori che lo rimproverano di non aver sfiorato l’argomento nella relazione. "Francamente, credo che la materia del contendere, che può essere rilevante per lo statuto dei magistrati, non sia una questione fondamentale per il funzionamento della giustizia", ha aggiunto, definendo "sproporzionate" le reazioni dell’Anm, anche perché "nel frattempo sono cambiati il governo e il presidente del Consiglio". Ma la relazione con cui quest’anno Orlando ha riferito al Parlamento ha un respiro politico più ampio del passato, perché parte dall’"impatto" della globalizzazione sugli ordinamenti nazionali e sullo "scarto impressionante tra questi fenomeni e gli strumenti di cui disponiamo per misurarci con essi". Come dire che ormai si legifera con uno sguardo diverso, attraverso convenzioni, accordi intergovernativi, meccanismi decisionali fondati sulla condivisione di poteri, da cui "finiscono per dipendere le stesse caratteristiche del diritto interno". A questo proposito il ministro ha ricordato la battaglia italiana per la nascita di una Procura europea "con un livello alto di indipendenza e di efficienza", competente, in prospettiva, anche su mafia e terrorismo, ma stoppata dall’Ue per la "miopia" di alcuni Stati, tant’è che l’Italia si è opposta alla creazione di un ufficio "svuotato" dei mezzi necessari. La "priorità", comunque, è "la cooperazione giudiziaria" e su questo fronte l’Italia ha dato un forte contributo e ha fatto passi da gigante. Così pure nel potenziare la cooperazione bilaterale con i Paesi extra-Ue per il contrasto al terrorismo, al crimine organizzato, alla corruzione. Tutti gli strumenti a disposizione "per rafforzare la rete sovranazionale ed europea sono stati utilizzati" ha detto Orlando, ricordando, peraltro, che l’Europa è anche "comunità di valori", "presidio a difesa della centralità della persona e riconoscimento di fondamentali esigenze e bisogni individuali e sociali". Il nostro sistema giuridico e istituzionale "protegge" i diritti dei cittadini ed è "un argine contro le pericolose derive populiste". "Fare giustizia non può mai significare ricerca del consenso", ha aggiunto, ma una giustizia efficiente, autorevole e giusta presuppone anche che "la ricchezza della nazione non sia fortemente diseguale". Parole da ministro della Giustizia, ma anche programma politico da cui ripartire. Il Ministro Orlando: "la magistratura ha in pugno le nostre vite" di Errico Novi Il Dubbio, 19 gennaio 2017 "Ai giudici un potere immenso, perciò vanno controllati". È una relazione ricca di traguardi raggiunti e obiettivi ancora da cogliere, quella che il guardasigilli Andrea Orlando ha proposto ieri alle Camere sullo stato della giustizia. Ma è anche l’occasione per riaffermare alcuni aspetti decisivi del sistema, a cominciare dall’enorme peso della magistratura. "La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione dei poteri", ha affermato il ministro nei due rami del Parlamento a proposito dell’attività ispettiva di via Arenula, "e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini". Andrea Orlando affronta per prima l’aula del Senato. È lì di fatto che apre l’anno giudiziario, considerato che la relazione al Parlamento letta in mattinata a Palazzo Madama e poi a Montecitorio, è il primo atto delle inaugurazioni. L’assemblea presieduta da Pietro Grasso è d’altronde croce e delizia per il guardasigilli, luogo di confronti "proficui" ma anche di fatale paralisi del ddl penale. E se tra le obiezioni dell’emiciclo c’è anche un "difetto di franchezza" rilevato da Corradino Mineo, che pure apprezza complessivamente il ministro, va detto che Orlando dosa toni secchi e abili perifrasi anche quando parla del peso della magistratura. Quando cioè all’inizio della sua relazione ne segnala l’immenso potere e la necessità di controllarlo: "La nostra azione è stata rivolta a garantire che i controllori siano sottoposti ad altri controllori rispondenti soltanto alla legge, nella piena garanzia del principio di separazione", dice il ministro, "e questa vigilanza deve essere tanto più stringente, tempestiva ed efficace in quanto riguarda poteri in grado di incidere in modo fortissimo e talvolta persino irreparabile sulla vita dei cittadini". È un passaggio che si intreccia con ripetuti richiami al populismo penale, all’eccessivo numero di reati e alla demagogia con cui se ne invocano sempre di nuovi. La cifra del garantismo e della ricerca di un equilibrio che faccia argine allo strapotere giudiziario, segna quella che potrebbe essere l’ultima relazione di Orlando da ministro della Giustizia. Non solo perché non è detto che la legislatura arrivi fino a gennaio 2018, ma anche perché il leader dei "giovani turchi", in qualche accenno, lascia trapelare l’aspirazione a occuparsi di giustizia anche in senso lato, la necessità di "agire perché non sia fortemente diseguale la ricchezza della nazione", come dice alla fine delle sue comunicazioni. Obiettivi da aspirante segretario del Pd più che da guardasigilli. Non a caso, a proposito del ddl penale, di cui invoca di nuovo l’approvazione in Senato, afferma che se diverrà legge, determinerà "un passo di qualità che consentirà, al prossimo ministro della Giustizia, di fare una relazione in cui molti problemi possano essere considerati alle spalle". Due colpi al Csm - Sui magistrati e la necessità di non tralasciare la vigilanza sul loro operato, il ministro torna più volte, sia nella relazione sia nelle repliche agli interventi in Aula. Quando parla di controllori si riferisce in particolare al sistema delle ispezioni, condotte "senza ricerca di sensazionalismo" e accompagnate da un "monitoraggio statistico" sulle "performance degli uffici". Sarebbe bene che "il Csm voglia sempre più affidarsi a simili criteri" nella scelta dei capi degli uffici, "che deve procedere senz’altro con maggiore speditezza". E dovrebbero essere più celeri, sostiene Orlando, anche "le pronunce disciplinari" che lo stesso Consiglio superiore è chiamato a emettere sulla base dell’attività ispettiva di via Arenula: "Spesso arrivano troppo tempo dopo che è stato segnalato l’illecito". A proposito di responsabilità civile, il guardasigilli allude a un possibile effetto deterrenza, invisibile nelle statistiche a quasi due anni dall’approvazione della riforma: "Ora i magistrati sanno che in caso di negligenza inescusabile sono sottoposti a valutazione di merito come qualunque altro cittadino" L’equo compenso - Ma alla magistratura come a tutti gli altri soggetti chiamati ad assicurare il servizio giustizia, Orlando rivolge il suo ringraziamento. Lo fa anche nei confronti dell’avvocatura, che "credo possa salutare con soddisfazione il completamento dell’attuazione della riforma forense". Agli avvocati il ministro assicura anche di voler portare fino in fondo l’impegno per assicurare compensi decorosi pur in un quadro ormai privato da anni delle tariffe minime: "Ho già mandato un disegno di legge a Palazzo Chigi sul tema dell’equo compenso: lo ritengo un elemento caratterizzante dell’attività di governo. C’è ormai una sperequazione inaccettabile nel rapporto tra professioni e grandi soggetti finanziari ed economici". Ci sono, dice senza mezzi termini il guardasigilli, delle "compressioni dell’autonomia del professionista dettati da posizioni dominanti che credo siano da contrastare". I Ddl civile e penale - Nell’intervento a più riprese del ministro c’è spazio per la difesa degli interventi compiuti sul carcere, dei riscontri anche internazionali alla deflazione del contenzioso sia penale che civile e al diffondersi delle soluzioni alternative al processo (i passaggi salienti sono riportati in altro servizio, nda). E non manca l’impegno a portare al traguardo progetti di legge come la delega sul fallimentare e la riforma civile, entrambi necessari per "dare sistematicità all’intervento realizzato finora per via amministrativa e con strumenti normativi diffusi". Ma è inevitabile che Orlando, soprattutto a Palazzo Madama, insista sui contenuti del ddl penale: ricorda che il testo sulla prescrizione è "un compromesso positivo", e che la delega sulle intercettazioni "è necessaria nonostante le circolari delle Procure vadano nella direzione auspicata: non si può essere esposti al rischio di usi impropri solo perché nella città dove si vive il capo dell’ufficio non ha dato le stesse istruzioni". Nella replica non manca di rispondere sui nodi sollevati dall’Anm con l’annunciata protesta contro il decreto Cassazione: "Sui termini per i trasferimenti siamo venuti incontro alle richieste e abbiamo posticipato l’applicazione del nuovo regime quadriennale. Sulle pensioni, la reazione mi pare eccessiva: è l’unico punto che resta e ora c’è un presidente del Consiglio diverso". Il che conferma l’impressione che alcune scelte compiute con Renzi premier siano state concepite a Palazzo Chigi più che a via Arenula. La Giustizia e il bilancio che non torna di Luigi Labruna Il Mattino, 19 gennaio 2017 Il guardasigilli Andrea Orlando, pronunciando ieri in Parlamento la relazione annuale sullo stato della Giustizia, su molti punti salienti è rimasto sul vago, evitando di entrare nel vivo di troppe questioni non ancora affrontate, annunciate quando venne scelto dall’allora premier Renzi. Un discorso di routine, apparentemente confezionato su argomenti "alti", ma incompleto su molte delle gravissime questioni che affliggono l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Una narrazione incentrata su quello che ha definito uno dei principali "punti critici del sistema", rappresentato - a suo giudizio - dalla "forza con cui la globalizzazione impatta sugli ordinamenti nazionali", dallo "scarto impressionante" che esiste fra l’ampiezza di tali fenomeni, gli strumenti (limitati) di cui disponiamo per governarli e la poca "consapevolezza" della loro gravità che, a suo dire, c’è nell’opinione pubblica e nella discussione nel Paese, fatta di "reiterate schermaglie" e nutrita da "stereotipi di altre stagioni". Il che ci fa correre il rischio - ha sottolineato - di "rimanere a far la guardia ad un bidone che si sta svuotando", mentre crescono i profili internazionali del contenzioso civile e cresce la criminalità transfrontaliera dedita al terrorismo, al traffico di stupefacenti, di migranti, alla contraffazione, agli abusi della tecnologia informatica. Una situazione per tanti versi drammatica che sarebbe necessario fronteggiare su scala comunitaria e internazionale tramite convenzioni, accordi, meccanismi decisionali intergovernativi, mentre il prevalere "delle preoccupazioni miopi degli Stati", indisposti a rinunciare alle prerogative dei sistemi nazionali, si è dimostrato un ostacolo insuperabile. Sicché progetti come l’istituzione di una "procura europea" indipendente e competente anche in materia di terrorismo e criminalità organizzata non si son potuti realizzare. Il rafforzamento della cooperazione giudiziaria resta comunque una priorità. Su di un piano un pò più concreto Orlando ha poi indugiato su quelli che, forse con qualche ottimismo di troppo, ha chiamato i "progressi del sistema giudiziario italiano". Le cause civili pendenti che nel 2016 sono "scese" a circa tre milioni e ottocentomila. Le mediazioni civili, che nello stesso anno sono state 196.247.I procedimenti penali pendenti calati del 7 per cento, cioè "attestatisi" a tre milioni (milioni) e 229.000. La introduzione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto. La depenalizzazione di alcune fattispecie criminose ormai prive di apprezzabile disvalore penale. L’impegno a "contenere" la grave penuria del personale amministrativo e ad assicurare agli uffici giudiziari un "adeguato supporto" anche attraverso "l’opera dei tirocinanti". Gli sforzi per cercar di risolvere l’emergenza carceraria, la cui popolazione era a fine dicembre scorso di ben 54.653 unità. La spinta ad una più ampia digitalizzazione dei processi. Quel che però, anche in questa enfatizzata enumerazione di meriti, è mancata è stata una valutazione degli effetti, sia pur provvisori, di tali misure, alcune delle quali (si pensi, per dirne una, al processo telematico) per gli insufficienti investimenti impiegati - che "pagano il conto di una finanziaria piena di spese elettorali con copertura dubbia" (hanno detto nel dibattito alcuni senatori) - rischiano di intralciare piuttosto che agevolare la risoluzione di quegli annosi problemi. Ma quel che nella relazione è mancato è stata il doveroso approfondimento delle questioni gravi irrisolte, che più da vicino riguardano i cittadini e che ancora costituiscono una scandalosa emergenza nazionale, per tentare di uscire dalla quale soprattutto fu creato il governo precedente di cui l’attuale ministro della giustizia era componente. Poco o niente infatti Orlando ha detto sull’impegno suo e del governo di adoperarsi perché finalmente giungano ad approvazione disegni di legge governativi a lungo propagandati come toccasana per guarire il Paese dalla irragionevole durata e farraginosità dei processi, dalla inefficienza della prevenzione e repressione dei crimini, dalla politicizzazione della giustizia, ma ben presto lasciati impantanarsi in Parlamento per le convenienze di questa o quella componente della maggioranza o per l’opposizione intransigente di potentati corporativi nei cui confronti il governo, nonostante il decisionismo proclamato, si è arreso per calcoli di natura elettorale e per l’indubbio timore reverenziale (diciamo così) che quasi tutti i politici avvertono nei confronti della magistratura. Parliamo innanzitutto della famigerata riforma del codice penale, del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Provvedimento che, tra l’altro, prevede la delega al governo perché adotti misure idonee a garantire la riservatezza delle conversazioni intercettate attraverso prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare, "con particolare riguardo" alla tutela delle persone occasionalmente coinvolte e impediscano la diffusione delle intercettazioni "non rilevanti ai fini penali", del cui abuso sono quotidianamente piene le cronache. A tal proposito Orlando si è limitato a dire di aver "notato" che la loro diffusione è quantitativamente diminuita, di aver "molto apprezzato le circolari diramate da alcune procure che invitano ad una maggiore sorveglianza", ma di ritenere ancora necessario un intervento normativo "secondo le linee della delega che il Parlamento", senza neppure accennare alla eventualità che il governo, per por fine agli effetti devastanti di quella pratica distorta, possa prendere in considerazione di porre la fiducia sul provvedimento. Eppure i governi di cui lo stesso Orlando ha fatto parte non hanno esitato a ricorrere in più occasioni a tale strumento straordinario in tema di giustizia. Anche di recente per fare approvare in fretta e in furia il decreto legge 31 agosto 2016, n. 168 che ha prorogato la possibilità di restare in servizio nonostante il superamento dei limiti di età previsti per il pensionamento ai soli vertici della magistratura. Provvedimento che ieri un autorevole senatore della maggioranza, Casson, già magistrato, non ha esitato a qualificare "una marchetta; una grande marchetta", fatta forse (è stato insinuato), per consentire a quei magistrati di candidarsi alla Corte Costituzionale, e che ha contribuito a provo care gravi contrasti con la magistratura associatala quale è giunta a minacciare lo sciopero per ottenere per tutti i magistrati una proroga nell’età del pensionamento, la cui anticipazione ha indubbiamente creato problemi di scopertura dell’organico dei magistrati apicali (a cui il Csm dovrebbe però sopperire accelerando le procedure per coprire i posti vacanti) e la molto meno comprensibile e scandalosamente corporativa richiesta di modificare la regola che prevede per i nuovi magistrati la possibilità di chiedere il trasferimento dalla loro sede solo dopo 4 anni, abbreviando tale termine a tre. Ebbene di tali questioni e dei contrasti con l’Anm nella relazione non c’è una parola. Solo nella replica al senato Orlando ha detto di ritenere la prima questione scarsamente rilevante ("sproporzionata la reazione all’oggetto del contendere") e di aver presentato un emendamento al Mille Proroghe per accogliere la seconda. Il che la dice ancora una volta lunga sulla capacità dei magistrati organizzati di influenzare, quando vogliono, le decisioni dei politici. Ma questo è un altro tema che il ministro ha ignorato. E non ha profferito verbo sulla improcrastinabile esigenza di una riforma del Consiglio superiore della magistratura, di cui egli stesso più volte ha affermato la necessità urgente e che poi è stata di fatto lasciata (sinora inutilmente) in balia dello stesso Consiglio di un organismo - è bene ricordare - che in talune occasioni (son parole di Napolitano, pronunciate qualche tempo fa) ha "mostrato consapevolezza della percezione, da parte dell’opinione pubblica" del fatto alcune sue scelte siano in qualche modo condizionate "da interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici", deviazioni che "finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dalla imparzialità e terzietà del magistrato". Ma neppure sui rapporti tra politica e magistratura, tema che con l’avvicinarsi di scadenze elettorali diventa ancora una volta di grande attualità, si è sentito ieri qualche parola significativa. Peccato. Per la Giustizia. Ddl riforma penale: parte la sfida in Senato, verdiniani per il no, la sinistra Pd apre di Errico Novi Il Dubbio, 19 gennaio 2017 Nella mattinata di Palazzo Madama il ministro della Giustizia parla di inutili "schermaglie" sull’applicazione di un diritto penale comune nell’Ue. Ma una schermaglia è pure quella che va in scena tra lui e i senatori. Un anticipo di quanto avverrà a breve con la riforma del processo che comprende prescrizione e intercettazioni. Ora che il ddl più tormentato, per Orlando, sembra riavvicinarsi all’esame del Senato, certi segnali del dibattito sulle comunicazioni del guardasigilli vanno letti anche in vista di quell’ultima sfida. E il segnale dell’aula è ambivalente. Perché se da una parte un osso duro come Felice Casson (che è nello steso tempo alfiere della minoranza dem e relatore del provvedimento) confida "nella capacità del governo di imporre la propria linea", dall’altra il ministro registra la definitiva perdita alla causa del gruppo di Ala. L’intervento del plenipotenziario di Verdini sulla giustizia, Ciro Falanga, è tra i più severi: per l’avvocato di Torre Annunziata "le norme non vanno solo scritte, bisogna anche verificarne l’attuazione", E diffonde giudizi apocalittici su carceri e processo telematico: "Ma lei sa cosa succede davvero nei tribunali?", è il passaggio più accorato dell’arringa. Nel bilancio complessivo non è detto che i numeri tornino: l’ala giustizialista del Pd potrebbe anche essere trascinata da Casson verso il sì alla riforma, ma è sul fronte centrista che si addensano le incognite. L’ex pm di Venezia peraltro si pronuncia con toni liquidatori sul decreto Cassazione ("una marchetta", addirittura) che però non possono competere con il cinquestelle Mario Giarrusso, il quale nel suo crescendo arriva ad accusare il governo di "tendere al garantismo per lasciare fuori dal carcere amici con cui avete compiuto delitti anche gravi". Una clamorosa quanto indefinita accusa. Carlo Giovanardi polemizza sulle unioni civili e il forzista Lucio Malan è l’unico a lamentarsi per l’assenza di dati sulla responsabilità civile dei giudici. Ma se dal Pd arrivano diversi riconoscimenti all’operato di Orlando, a cominciare da quello della presidente della commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti, una posizione netta sulla riforma del processo è quella dell’Unione Camere penali. Da una parte l’apprezzamento per i richiami di Orlando alla "deriva populista", dall’altra la richiesta di stralcio della delega sul carcere: è una parte "condivisa", dicono i penalisti, che "consentirebbe di migliorare" la situazione, anche se non di "risolverla integralmente". Le condizioni delle carceri, secondo l’Ucpi, "stanno tornando a essere drammatiche" e per questo meriterebbero "un provvedimento di clemenza come l’amnistia e l’indulto". Ma Orlando, ormai è chiaro, punterà al risultato pieno: lasciare le norme sull’esecuzione penale dentro i ddl. Ragioni e dubbi sulla protesta dell’Anm di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2017 Piercamillo Davigo, presidente dell’Anm, incontrò il 24 ottobre 2016 il capo del governo e il ministro della Giustizia i quali si impegnarono, per iscritto, a innalzare a 72 anni l’età pensionabile dei magistrati e a riportare a 3 gli anni di permanenza obbligatoria in una sede (aumentata a 4 nel 2016). Davigo, da persona perbene, aveva fatto affidamento su tale impegno che è stato, invece, regolarmente disatteso. Di qui la reazione dell’Anm che ha deliberato, all’unanimità, che i vertici dell’associazione diserteranno l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario (fissata il 26/01/2017) cui avevano sempre partecipato. Il vicepresidente del Csm ha subito "pontificato" che trattasi di una iniziativa che delegittima la più alta magistratura. In realtà, l’Anm non vuole affatto delegittimare la Corte di Cassazione ma solo non partecipare a una manifestazione alla quale prenderà parte il ministro che non ha rispettato l’impegno assunto, manifestazione, peraltro, inutile, stucchevolmente ripetitiva nella quale i vertici della magistratura elevano il loro consueto grido di dolore sulle disfunzioni della Giustizia (mancanza di personale, inaccettabili ritardi nella definizione dei processi, milioni di reati prescritti, ecc.) illudendosi - attesa la presenza del capo dello Stato e dei vertici delle istituzioni - che qualcuno prenderà in considerazione le loro doglianze adottando provvedimenti per migliorare la disastrosa condizione della nostra Giustizia. Speranza risultata in questi cinquant’anni sempre vana (basti pensare alla cronica mancanza di personale mai risolta e alla prescrizione mai modificata) sicché può oggi senz’altro convenirsi con quegli esponenti di magistratura democratica che negli Anni 70 avversavano tale cerimonia ritenendola una inutile passerella e ne chiedevano l’abrogazione. Ciò detto, deve rilevarsi che l’aumento a 72 anni dell’età pensionabile sanerebbe, sia pure in parte, gli effetti dannosi del provvedimento (dal sapore punitivo), adottato dal governo Renzi nel 2014, che, abbassando a 70 anni l’età pensionabile, creò un enorme vuoto di organico con ulteriori gravi disagi per il funzionamento degli uffici giudiziari. Ma la proposta di innalzamento a 72 anni non renderà per questo accettabile quello scandaloso provvedimento del governo Renzi che ha prorogato ancora al dicembre 2017 l’età pensionabile di circa 20 magistrati - i vertici della magistratura ordinaria, amministrativa e contabile - consentendo a costoro di mantenere, nonostante il superamento dei 70 anni, i posti apicali - che sono, poi, quelli che "pesano" - con odioso, inammissibile privilegio nei confronti di quei colleghi che, pur essendo meno anziani, sono dovuti andare in quiescenza avendo compiuto i 70 anni. È una situazione di palese ingiustizia, mai accaduta, inammissibile in uno Stato di diritto; ed è davvero strano che i giudici amministrativi non abbiano avvertito la necessità di sottoporre alla Consulta la eccepita questione di legittimità costituzionale della normativa che ha consentito una così grave disparità di trattamento. Quello su cui, invece, non può convenirsi è la richiesta dell’Anm di riportare a 3 anni il periodo di permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio. Anzi, gli attuali 4 anni andrebbero portati ad almeno 5 in maniera da procrastinare nel tempo i continui trasferimenti, soprattutto dei magistrati di prima nomina che aspirano a ritornare nelle regioni di provenienza o a essere trasferiti in uffici giudiziari più importanti. Tutto questo comporta una serie continua di rinvii dei processi sia per il "congelamento" dei ruoli di udienza del magistrato trasferito e, di regola, quasi sempre tardivamente sostituito, sia in virtù del principio della immutabilità del giudice che impone che sia lo stesso giudice (come persona fisica), che ha tenuto l’udienza, a provvedere alla delibazione, pena la rinnovazione del dibattimento che comporta, di regola, la nuova acquisizione di prove già lentamente e faticosamente espletate. La richiesta dell’Anm sembra, così, essere ispirata a meri interessi corporativi. Antiriciclaggio, la valutazione del rischio diventa più dettagliata di Luigi Fruscione e Benedetto Santacroce Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017 Procedure oggettive e verificate. Riscontri documentati e con aggiornamenti periodici. L’importanza della valutazione del rischio nella nuova disciplina antiriciclaggio emerge con tutta evidenza dalla volontà del legislatore di dedicare un intero articolo (il 15) alla valutazione del rischio da parte dei soggetti obbligati. È quanto si evince dallo schema di Dlgs che attende di essere esaminata dal Consiglio dei ministri, dopo la pubblica consultazione sul sito del Mef conclusasi lo scorso 20 dicembre. Nella disciplina attualmente in vigore tale aspetto è brevemente trattato all’articolo 3 ("Principi generali") in cui si pone l’attenzione dei destinatari sulla realizzazione di idonei e appropriati sistemi e procedure in materia di obblighi di adeguata verifica della clientela, di segnalazione delle operazioni sospette, di conservazione dei documenti, di controllo interno, di valutazione e di gestione del rischio, di garanzia dell’osservanza delle disposizioni pertinenti e di comunicazione per prevenire e impedire la realizzazione di operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Più articolata è, invece, la disposizione all’articolo 15 della bozza di modifica la quale stabilisce che: 1) i soggetti obbligati debbano adottare "procedure oggettive e verificate" finalizzate all’analisi e alla valutazione degli specifici rischi antiriciclaggio e finanziamento del terrorismo; 2) la valutazione deve essere "documentata, periodicamente aggiornata" nonché "messa a disposizione delle autorità competenti e degli organismi di autoregolamentazione, ai fini dell’esercizio delle rispettive funzioni e dei rispettivi poteri in materia di prevenzione del riciclaggio e di finanziamento del terrorismo". L’articolo 3 del Dlgs 231/2007, attualmente in vigore, invece richiede l’adozione, da parte dei destinatari della normativa, di "idonei e appropriati sistemi e procedure in materia di obblighi di adeguata verifica della clientela, di segnalazione delle operazioni sospette, di conservazione dei documenti, di controllo interno, di valutazione e di gestione del rischio, di garanzia dell’osservanza delle disposizioni pertinenti e di comunicazione per prevenire e impedire la realizzazione di operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo". Appare evidente come il tema della valutazione del rischio trovi maggiore enfasi all’interno delle possibili nuove disposizioni attraverso l’inserimento di una disposizione ad hoc. Inoltre il requisito della proporzione tra attività esercitata da parte del destinatario degli obblighi antiriciclaggio ed entità delle misure di gestione del rischio permane nel nuovo assetto; infatti l’articolo 16 ("procedure di mitigazione del rischio") espressamente prevede che "i soggetti obbligati adottano misure proporzionate ai propri rischi, alla propria natura e alle proprie dimensioni, idonee a rendere note ai propri dipendenti e collaboratori gli obblighi cui sono tenuti ai sensi del presente decreto, ivi compresi quelli in materia di protezione dei dati personali. A tal fine, i soggetti obbligati garantiscono lo svolgimento di programmi permanenti di formazione, finalizzati alla corretta applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto, al riconoscimento di operazioni connesse al riciclaggio o al finanziamento del terrorismo e all’adozione dei comportamenti e delle procedure da adottare". Caso Cucchi. Parla il Comandante dei Carabinieri Del Sette: "Fatto grave" di Silvia D’Onghia e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2017 Il comandante dell’Arma interviene sul caso ma non sospende i carabinieri. È grave il fatto che alcuni carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che alcuni altri abbiano potuto sapere e non lo abbiano segnalato a chi doveva fare e risulta aver fatto tutte le verifiche". A distanza di sette anni e tre mesi dall’arresto di Stefano Cucchi, l’Arma dei carabinieri assume una posizione netta contro i cinque suoi uomini indagati nell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, conclusa due giorni fa dalla Procura di Roma. Il comandante generale, Tullio Del Sette (che intanto risulta indagato per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito di un’altra indagine, l’inchiesta Consip) ha dovuto prendere atto dell’avviso di conclusione indagini (atto che prelude di norma a una richiesta di rinvio a giudizio) nei confronti di cinque militari, di cui tre accusati di omicidio preterintenzionale. "Non può lasciare nessuno indifferente quel suo corpo sottile - ha detto Del Sette, quel suo volto tumefatto che abbiamo visto nelle fotografie mostrateci con quei segni profondi delle vicissitudini e delle sofferenze patite". Segni dovuti - secondo la Procura - a "schiaffi, pugni e calci", che ne determinarono anche una "rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale" e poi il decesso. "Siamo io, l’Arma dei carabinieri e tutti i carabinieri - ha dichiarato ancora Del Sette - accanto alla magistratura per arrivare fino in fondo alla verità". Eppure, a questa presa di posizione non segue per il momento alcun effetto pratico: i "dovuti" provvedimenti, ha spiegato il comandante generale, saranno presi "poi" - al termine dell’iter processuale? - "con tempestività, con giustizia trasparente, equanime e rigorosa". Certo, tutti i cinque militari coinvolti sono stati trasferiti già tempo fa, ma nessuno di loro è mai stato sospeso, nonostante alcuni di loro si siano lasciati andare a commenti sui social network Roberto Mandolini, accusato di calunnia e di falso nel verbale di arresto di Cucchi è stato l’unico, in questi anni, a tenere aperta la sua bacheca Facebook. Seppur trasferito di reparto, ad agosto scorso è stato promosso maresciallo capo. Intanto i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco non sono più accusati di lesioni gravissime, ma di omicidio preterintenzionale. Tedesco, insieme con il suo comandante di allora Mandolini, e un altro militare, Vincenzo Nicolardi, sono accusati anche di calunnia: affermando il "falso davanti alla Corte d’Assise" avrebbero accusato "implicitamente" i tre agenti della Polizia penitenziaria (imputati e poi assolti nel primo processo) pur "sapendoli innocenti". Tanto che adesso i tre si costituiranno parte civile nel nuovo dibattimento, laddove il Gip dovesse decidere di rinviare a giudizio i carabinieri. Ma c’è un elemento che adesso potrebbe essere riletto con la svolta nell’inchiesta bis, condotta dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giuseppe Musarò. E riguarda la condanna di Emanuele Mancini, presente la sera dell’arresto di Cucchi. Mancini ha patteggiato un anno e due mesi con l’accusa di aver calunniato i carabinieri. Ora la Procura generale della Corte d’Appello, oltre allo stesso Mancini, potrebbe decidere di chiedere la revisione di quel processo. Niente interprete o traduzione se l’imputato si allontana prima della lettura della sentenza di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 16 dicembre 2016 n. 53609. L’imputato straniero, autorizzato ad allontanarsi dall’aula di udienza prima della lettura della sentenza, rinuncia sia alla traduzione dell’atto al momento della lettura, a cui avrebbe diritto qualora non si allontani, sia alla traduzione scritta della sentenza, alla quale avrebbe diritto nel caso in cui non sia mai stato presente in giudizio e ne abbia fatto esplicita richiesta. Tale precisazione è fornita dalla Cassazione con la sentenza 53609/2016. Il caso - Protagonisti della vicenda giudiziaria sono due cittadini stranieri che il Tribunale aveva condannato per i reati i reati di rapina aggravata e induzione alla prostituzione, dando lettura della motivazione in assenza degli imputati, autorizzati ad allontanarsi prima della pronuncia. La Corte d’appello aveva poi confermato la condanna ritenendo tardivo il deposito dell’atto d’appello in relazione al termine di impugnazione di cui all’articolo 585 lettera a) del Cpp. Contro tale decisione, però, i due stranieri ricorrevano in Cassazione ritenendo sussistente una violazione dell’articolo 143 comma 2 del Cpp, in quanto la sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere tradotta nella loro lingua e, di conseguenza, il termine per impugnare non poteva ritenersi decorso. Le motivazioni - La questione posta all’attenzione dei giudici di legittimità riguarda il diritto dei cittadini stranieri imputati in procedimenti penali, posto dall’articolo 143 del Cpp, a farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di comprendere l’accusa e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento del procedimento. Nel caso di specie, tale diritto non sussiste, in quanto gli stessi imputati erano assenti perché allontanatisi dall’aula prima della lettura delle motivazioni della sentenza. In tal caso, afferma la Corte, l’operato di un interprete "non avrebbe avuto senso alla presenza soltanto di persone che conoscevano la lingua italiana". Né può ritenersi, proseguono i giudici, che il Tribunale avrebbe dovuto procedere alla traduzione scritta della sentenza, in quanto tale incombente non era richiesto, in considerazione dell’assenza degli imputati, allontanatisi a seguito dell’autorizzazione ricevuta. In sostanza, conclude la Cassazione, "presenziando l’udienza e poi allontanandosi prima della lettura della sentenza, i ricorrenti hanno di fatto rinunziato sia alla traduzione dell’atto" cui avrebbero avuto diritto se non si fossero allontanati, "sia alla traduzione scritta alla quale avrebbero avuto diritto nel caso in cui non si fossero mai presentati in giudizio". Se non si offende l’onore si può criticare il politico di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017 Corte di appello di Roma - Sentenza 6078 del 14 ottobre 2016. Legittima la critica dell’operato di un politico, purché il giornalista non finalizzi l’articolo a colpirne la sfera privata con aggressioni verbali gratuite. Rispettato tale limite, a prevalere sul diritto all’onore e alla reputazione del personaggio pubblico sarà il diritto di critica. Lo precisa la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 6078 del 14 ottobre 2016. A muovere la questione, è la decisione di un senatore di citare, dinanzi al Tribunale, per diffamazione a mezzo stampa, i giornalisti che avevano firmato articoli, a suo dire lesivi della sua reputazione. Chiamata in causa, anche l’editrice del quotidiano. Richiesta respinta: le frasi incriminate non erano diffamatorie né frutto di "dileggio personale" ma mera espressione "della critica serrata e dissenziente dei giornalisti" inserita, peraltro, nel contesto di un acceso dibattito politico dell’epoca. Il senatore, però, propone appello. La sentenza impugnata, marca l’avvocato nel ricorso, aveva erroneamente escluso la natura diffamatoria di articoli che, invece, contenevano affermazioni oggettivamente infamanti, slegate dall’attività politica dell’assistito e tese solo a screditarlo. Ma il Collegio di secondo grado non concorda e boccia il ricorso. L’articolo, puntualizza, si era tradotto in un legittimo esercizio del diritto di critica, avendo gli autori rispettato i tre requisiti fondamentali: verità dei fatti esposti, continenza e interesse pubblico. Intanto, rilevano, va tenuto presente che "nella critica, a differenza della cronaca, non si riportano i fatti rilevanti, ma li si commenta, positivamente o negativamente, con taglio differente rispetto al loro protagonista, presupponendone la notorietà". Del resto, in caso di contemporaneo esercizio del diritto di cronaca e di critica, la giurisprudenza è chiara nel sostenere che occorre riferirsi all’interpretazione soggettiva dei fatti esposti, posto che la critica mira non a informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali (Sentenza 9746/00). La critica, pertanto, non potrà ritenersi diffamatoria per il solo fatto di essere astrattamente idonea a offendere la reputazione di un soggetto, se, bilanciato il diritto alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, detta critica risulterà comunque pertinente, ossia d’interesse pubblico. Pertinenza rinvenibile nel caso di specie, considerato che gli articoli miravano a diffondere iniziative politiche e legislative di personaggi di spicco. Nulla d’illegittimo, allora, non ravvisandosi a carico dei giornalisti alcuna forma di sanzionabile "aggressione gratuita distruttiva dell’onore o della reputazione del soggetto interessato" (Sentenza 12420/08). Della continenza verbale poi, prosegue la Corte romana, non può esigersi una valutazione formale, legata all’uso "di toni pacati e di vocaboli compiti" (Sentenza 25/09), essendo la critica, inclusa quella politica, caratterizzata di per sé da fervore polemico e dall’uso di toni forti e di un linguaggio "colorito e pungente" (Sentenza 17172/07). Ciò, purché - come ribadito da Cassazione 4325/10 - non vi si legga un attacco personale diretto a mettere in luce l’indegnità della persona nota. Si motiva così, riscontrato un corretto esercizio del diritto di critica politica, il rigetto dell’appello proposto dal senatore. Intermediazione finanziaria: fallisce l’avvocato che investe i soldi dei clienti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 18 gennaio 2017 n. 1157. Fallisce l’avvocato che svolge parallelamente alla professione forense, un’illecita attività di intermediazione finanziaria. La Cassazione (sentenza 1157) respinge il ricorso del legale contro la sentenza del Tribunale che decretava il suo fallimento. Il ricorrente, già condannato in sede penale, prendeva denaro dai clienti con la promessa di investirlo e farlo fruttare. L’avvocato negava di poter fallire perché l’attività parallela non era di tipo imprenditoriale ma un lavoro autonomo. Per la Cassazione ci sono le caratteristiche di impresa proprio per l’ etero-organizzazione e la funzione di intermediazione. Il ricorrente gestiva i fondi dei clienti, avvalendosi di una ramificata struttura esterna, creata ad hoc e attiva anche all’estero, attraverso una serie di società a lui riconducibili. Il legale inoltre assumeva personalmente i rischi di gestione, facendo confluire il denaro sui conti suoi o di collaboratori ed effettuando gli investimenti per conto proprio. Un sistema che rendeva chiaro anche lo scopo di lucro. È poi irrilevante stabilire se l’intermediazione fosse o meno preponderante rispetto alla professione legale. A proposito di Stefano Cucchi di Michele Serra La Repubblica, 19 gennaio 2017 "Era un drogato di merda, che cosa pretendono i familiari?". A proposito di Stefano Cucchi e della sua morte questa voce, esattamente in questa forma, registrata ieri nell’eccellente "Radio anch’io", è piuttosto popolare. L’idea che per lo Stato il corpo di chiunque, anche del peggiore dei criminali, sia inviolabile, è appunto un’idea. Un’astrazione. Una conquista culturale che come la democrazia, come lo stato di diritto, come la giustizia levata alla folla linciatrice e affidata ai tribunali, va difesa giorno dopo giorno dagli istinti e dagli umori di ciascuno di noi. Che senza la cultura, la democrazia e il diritto siamo solamente scimmie. La meravigliosa sorella di Stefano Cucchi conduce la sua battaglia nel nome degli ultimi: dei "drogati di merda". Impressiona notare che il concetto di "ultimi" è molto facilmente ululato e sbandierato, ovunque, in riferimento alla condizione economica. Ma tra quelli che non ce la fanno ci sono anche i deboli di spirito, i falliti, i piccoli delinquenti, i tossici. Non tutti poveri di censo, sicuramente tutti poveri di carattere. Le galere sono piene di ultimi. Ma così ultimi che i talk-show che pretendono di "dare voce agli esclusi" di loro non si occupano. Islam e tortura: la miope chiusura di alcuni sindacati di Polizia di Michele Passione* Il Dubbio, 19 gennaio 2017 Caro Direttore, nella rassegna stampa di Ristretti Orizzonti del 18 gennaio sono comparse due dichiarazioni di sindacalisti di Polizia, Donato Capece e Gianni Tonelli. Pur avendo ad oggetto due temi profondamente diversi, entrambe si segnalano per un comune atteggiamento di chiusura rispetto a proposte che meritano, viceversa, grande attenzione. Secondo Capece... "la Polizia penitenziaria non ha bisogno di conoscere l’Islam, anche perché noi siamo cristiani, e orgogliosi di esserlo". Basta questa affermazione, rispetto alla esigenza sottesa alla nomina di Youssef Sbai quale docente di islamologia nelle scuole di Polizia penitenziaria, per confermare una posizione incomprensibile, come se la stessa ponesse in discussione l’adesione ad una dottrina religiosa da parte di chi opera all’interno di un carcere. Vigilando redimere, e tanto basti. Quanto a Tonelli. Non è questa la sede per confermare quanto appaia vergognoso la mancata introduzione nel nostro Ordinamento del reato di tortura, l’unico costituzionalmente necessario, ma vale la pena, anche in questo caso, riprendere alcune delle considerazioni svolte dal sindacalista, che prende le mosse dalla decisione della Procura di Roma di contestare l’accusa di omicidio preterintenzionale ad alcuni carabinieri, coinvolti nella vicenda che ha riguardato il povero Stefano Cucchi. Secondo Tonelli il reato di tortura, e quel che segue, appare "una normativa che ha lo scopo di inibire le forze dell’ordine"; seguendo la logica (?) del discorso, par di capire che le stesse dovrebbero poter operare al di fuori della legge. Tonelli prosegue definendo "occhiaie" quelle presenti sul viso sfigurato di Cucchi, ed affida ad una "rapida ricerca in internet" la risoluzione nosografica di un caso giudiziario tra i più dolorosi del nostro Paese. Di più. Tonelli si improvvisa giurista, e stigmatizza la Corte Europea dei diritti umani, ritenendo che la batteria di norme esistenti sia più che sufficiente a sanzionare e prevenire episodi di tortura, che nel caso della Diaz e Bolzaneto... "la mancata irrogazione della sanzione fu unicamente da imputare alla prescrizione, una norma di carattere processuale, e non di diritto sostanziale" (sic!). Impossibile seguire l’ulteriore sviluppo del pensiero contenuto nell’articolo pubblicato sul Vostro quotidiano, quasi un ossimoro; "tutti i comportamenti che concretizzano la tortura sono sanzionati. Quello che occorre è un recepimento formale, la richiesta di una nuova legge è totalmente inutile", avendo l’Italia aderito formalmente alle convenzioni internazionali contro i comportamenti di tortura "perché sostanzialmente già accolte dall’Ordinamento". Dunque, par di capire, avremmo aderito a una Convenzione che prevede l’obbligo di sanzionare la tortura, e di dotarsi di strumenti preventivi e risarcitori, perché abbiamo già la soluzione domestica (!). Consiglio due letture utili. Quanto all’ossimoro, Tonelli richiama le bizzarre asserzioni proposte dal governo nella causa Cestaro contro l’Italia, che ha portato alla condanna del nostro Paese da parte del Giudice alsaziano, laddove si era sostenuto che in Italia vi era un iter avanzato di discussione per l’introduzione del reato di tortura, ci sarebbe comunque una batteria di norme idonee nel nostro Ordinamento, ed occorre in ogni caso considerare l’efficacia diretta (?) della Convenzione Onu del 1984. Manco a dirlo, la Corte ha rilevato esistere "contraddizioni logiche tra le tre categorie di argomenti". Quanto all’impossibilità di rilevare le acute sofferenze psichiche, rimando agli studi di Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini. Dimenticavo: il 15 dicembre scorso la grande Camera ha confermato la condanna dell’Italia (Khlaifia e altri contro l’Italia), anche per violazione dell’art. 3 Cedu. *Avvocato Puglia: maggioranza senza numeri, flop per nomina dei Garante dei minori e dei detenuti di Antonello Cassano La Repubblica, 19 gennaio 2017 Prove tecniche di una crisi di maggioranza. Sono quelle che si consumano l’altro ieri in Consiglio regionale. La maggioranza nel parlamentino di via Capruzzi si arena davanti alla nomina dei nuovi garanti per i diritti dei minori e dei detenuti. L’accordo tra le parti c’è, alla vigilia, promettono i vari capigruppo. La terna dei candidati al garante per i diritti dei minori è composta da Rosy Paparella, Ludovico Abbaticchio e Fulvia D’Elia, mentre per il garante dei detenuti ci sono Pietro Rossi, Massimo Brandimarte e Alessandro Pascazio. La maggioranza raggiunge un accordo puntando su Brandimarte e Abbaticchio. Per le nomine servono però 34 voti, ovvero i due terzi di tutti i 50 componenti del consiglio. Dai banchi del Pd rassicurano: "C’è un accordo raggiunto anche con parte di Forza Italia e Conservatori e Riformisti per chiudere la partita". Ma il punto è che si procede con voto segreto, ideale per la comparsa di franchi tiratori. E in effetti, dopo ripetute votazioni andate a vuoto le nomine vengono rinviate. I "traditori", si affrettano a segnalare alcuni dem, sono tra le due civiche composte da nove consiglieri regionali (Emiliano sindaco di Puglia e La Puglia con Emiliano, tre consiglieri tra cui il riottoso Alfonsino Pisicchio). "La maggioranza non c’è" si affrettano a segnalare i consiglieri del Movimento Cinque Stelle. Le versioni a questo punto divergono. Fonti qualificate del Pd fanno sapere che l’accordo sui nomi era stato raggiunto, "peccato che questa mattina (ieri, ndr) le civiche ci hanno fatto sapere che non avrebbero votato seguendo la maggioranza". Le motivazioni sono chiare e in molti indicano Alfonsino Pisicchio. Il consigliere della civica avrebbe approfittato dell’occasione per dare uno scossone alla maggioranza e avanzare le sue pretese. Da tempo infatti Pisicchio chiede un posto in giunta. Sta di fatto che la versione data dallo stesso Pisicchio è completamente diversa: "Non c’è stata alcuna condivisione all’interno della maggioranza e quindi ognuno ha votato secondo coscienza". La tenuta della maggioranza viene messa alla prova anche nel corso della successiva riunione di maggioranza del pomeriggio. Il tema al centro dell’incontro è quello spinoso della riforma dei consorzi di bonifica, oberati da oltre 200 milioni di euro di debiti: "Abbiamo raggiunto un accordo" rassicura però il capogruppo dem Michele Mazzarano. Un accordo in cui si conferma il testo arrivato in aula e l’idea del consorzio unico commissariato, mentre viene eliminato l’automatismo del passaggio dei consorzi ad Acquedotto Pugliese". Il passaggio avverrà previa valutazione finale della giunta. Sardegna: l’On. Pili alla Camera "infiltrazioni ‘ndrangheta legate ai detenuti in carcere" sassarinotizie.com, 19 gennaio 2017 "I detenuti legati alla ‘ndrangheta sono un pericolo per le infiltrazioni della malavita organizzata in Sardegna. La denuncia è contenuta nell’ultima relazione della Dia, depositata alla Camera dei deputati, dove la direzione investigativa antimafia afferma "la presenza negli istituti penitenziari sardi di soggetti affiliati alla ‘ndrangheta non è da escludere possa favorire contatti con esponenti della criminalità locale anch’essi sottoposti a regime detentivo". Nella stessa relazione la direzione investigativa antimafia scrive: "anche l’esecuzione di appalti pubblici nelle diverse province sarde, soprattutto nel settore delle infrastrutture stradale e del risanamento idrogeologico potrebbe tendenzialmente attrarre l’interesse dei gruppi criminali calabresi". Lo ha appena denunciato in aula a Montecitorio il deputato sardo di Unidos Mauro Pili presentando una risoluzione sullo stato della Giustizia in Sardegna nell’ambito della relazione del ministro Orlando. "Le affermazioni della Dia - ha sostenuto Pili sono di una gravità inaudita perché confermano quanto denuncio e sostengo da anni sullo sbarco dei più efferati criminali nelle carceri in Sardegna. Dalle relazioni degli organismi competenti emergo due elementi significativi che vanno posti in evidenza, in quanto delineano scenari suscettibili di ulteriore evoluzione e di sicuro interesse investigativo in Sardegna: il primo attiene alla indubbia conferma dei collegamenti tra le strutture criminali locali con gruppi di criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare modo con la "ndrangheta" calabrese, il secondo riguarda alcuni cambiamenti nel "modus operandi" di alcune organizzazioni indigene, nello specifico settore delle sostanze stupefacenti. Alla luce di queste affermazioni della Dia appare sempre più evidente una grave sottovalutazione dei fenomeni e la perdita di quella visione d’insieme dei fatti criminali che, sola, può garantire l’emersione del crimine organizzato, specie di tipo mafioso. Affermazioni già anticipate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Cagliari che aveva invitato in modo chiaro a sfatare il mito della Sardegna immune dalla malavita di stampo mafioso e nella propria ultima relazione ha essa stessa dichiarato di cercare soluzioni e modelli investigativi adeguati a quelli adottati nelle regioni dove la mafia esiste e controlla il territorio. Emergono fatti emblematici - sostiene Pili - che inducono un’immediata inversione di tendenza rispetto al dislocamento grave e massiccio nelle carceri sarde di gran parte dei detenuti ricadenti nella fattispecie della criminalità organizzata. Il rischio infiltrazioni mafiose in Sardegna è altissimo. L’impatto di quel piano di trasferimenti nell’isola rischia di diventare devastante considerato che in Sardegna sono stati dislocati oltre i 50% dei detenuti inquisiti e condannati per reati legati all’associazione di stampo mafioso, compresi quasi 100 detenuti in regime di 41 bis. Il trasferimento dei detenuti più pericolosi negli istituti penitenziari sardi comporta problemi devastanti prima di tutto per il grave pericolo legato alle infiltrazioni mafiose e camorristiche: la Sardegna finora è risultata estranea a fenomeni di questo tipo, ma il trasferimento di tali detenuti comporta un rischio altissimo come la possibilità che le stesse famiglie possano trasferirsi in Sardegna pur di stare a contatto diretto e costante con i propri congiunti detenuti. Tutto questo sta avvenendo nel più totale silenzio delle istituzioni, da quelle nazionali che regionali. Un silenzio inaccettabile e vergognoso dinanzi ad un argomento che non può essere tenuto in silenzio. Le infiltrazioni mafiose sono a portata di mano e la Sardegna, con questo atteggiamento nefasto del Governo, sta rischiando di subire un contraccolpo senza precedenti". Nel dispositivo finale proposto da Pili alla Camera e che sarà votato in serata si impegna il governo: a promuovere, per quanto di propria competenza, una valutazione delle possibili infiltrazioni della malavita organizzata in Sardegna alla luce delle reiterate segnalazioni, interrogazioni e denunce dell’interrogante; ad avviare un monitoraggio, per quanto di competenza, sulle potenziali attività che in Sardegna possano essere oggetto di attenzioni da parte di queste organizzazioni criminali, con particolare riferimento a quelle richiamate nel presente atto di sindacato ispettivo; a valutare se, nel caso riguardante l’Asl di Nuoro, sussistano gli estremi per avviare iniziative ai sensi degli articoli 143 e 146 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali; a revocare la decisione di trasferire in Sardegna gran parte dei detenuti legati alla criminalità organizzata anche alla luce delle denunce degli stessi inquirenti antimafia; a valutare il potenziale di infiltrazione negli appalti dei rifiuti solidi urbani anche alla luce dei fatti richiamati. Biella: meningite, ora la psicosi arriva anche in carcere Di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2017 Il Sindacato della Polizia penitenziaria Osapp ha lanciato l’allarme. Gli agenti legano il pericolo epidemia alla presenza degli extracomunitari tra i detenuti, ma la direttrice dell’istituto piemontese rassicura: "nessun caso critico". La psicosi meningite legata alla presenza degli stranieri arriva anche dentro le mura carcerarie. Al carcere di Biella è scattata la preoccupazione da parte dei sindacati di polizia penitenziaria. Gli agenti che lavorano alla casa circondariale, così come i colleghi in servizio presso gli altri penitenziari, non vogliono correre rischi. Il sindacato autonomo Osapp chiede per gli agenti la vaccinazione e lega il pericolo epidemia alla presenza egli extracomunitari. Si legge, infatti, nel loro comunicato: "È l’innegabile la presenza negli istituti penitenziari di condizioni di potenziale rischio tenuto conto dell’alta percentuale di detenuti provenienti da aree extracomunitarie e appartenenti ai notevoli flussi migratori, sottoposti, all’ingresso nel nostro Paese, a visite mediche sommarie. Il personale di polizia penitenziaria deve quindi essere considerato come particolarmente esposto al rischio di contrarre questa malattia". La direttrice Antonella Giordano non è stata colta in contropiede: "Al momento nessun caso critico ci è stato segnalato dall’area sanitaria della nostra struttura. Esiste una convenzione con l’Asl, che prevede che in caso di rischio si attivino protocolli di prevenzione come possono appunto essere le vaccinazioni, ad esempio per il rischio di contagio della tubercolosi". La direttrice aggiunge: "La preoccupazione per quanto concerne la meningite batterica è comprensibile, ed eventualmente potrò farmi interprete dei timori espressi dal personale con il referente Asl. Ma va ricordato che esiste comunque un piano regionale della Sanità per i vaccini". Sul rischio epidemia è intervenuto recentemente il ministero della Salute con un comunicato con il quale ha cercato di smorzare la paura incontrollabile che sta dominando molte persone: "Al momento non esiste alcuna situazione epidemica, la circolazione dei germi che causano la malattia è nella norma attesa in linea coi numeri degli ultimi anni, il presidio preventivo rappresentato dalla vaccinazione è disponibile per le classi di età a rischio e per le persone che presentano rischi particolari di contrarre una malattia invasiva grave e sarà in distribuzione gratuita secondo le previsioni del nuovo Piano nazionale, inserito per questi motivi nei Livelli Essenziali d’Assistenza che il Sistema Sanitario Nazionale eroga. I nostri ospedali e i nostri medici garantiscono comunque e sempre un’assistenza e una terapia di primissimo ordine ai pazienti che vengano ricoverati per meningite. Il ministero sta operando per garantire il consolidamento della copertura vaccinale, a supporto delle Regioni, anche con studi e ricerche che possano chiarire i meccanismi di trasmissione e di virulenza dei germi". Nella nota il ministero ha indicato le cifre reali dei decessi: "Per quanto riguarda il meningococco di tipo C, il più letale, le cifre dicono che ha causato 36 decessi negli ultimi quattro anni, in una popolazione di quasi 65 milioni di persone. Considerando tutti i ceppi di meningococco che danno la meningite, non si supera il 10% della letalità, anche in questo caso con 711 casi nel quadriennio (178 nel 2016) e 77 decessi registrati complessivamente (17 nel 2016). Se consideriamo l’intero quadriennio analizzato (dal 2013 al 2016), abbiamo 629 decessi per meningite da qualsiasi causa, a fronte di 6786 pazienti diagnosticati. Per dare un’idea comparativa, i decessi da incidente stradale nel nostro Paese sono stati 3419 solo nell’anno 2015". Grande è la speculazione politica sull’infondato legame tra questa infezione batterica e la presenza degli immigrati. Una psicosi che, come già detto, è entrata anche dentro le patrie galere. Il termine "meningite" si riferisce a una condizione clinica di gravità variabile, che, soprattutto, può essere determinata da germi assai vari che colpiscono in maniera episodica, difficilmente prevedibile, attraverso contatti con portatori sani, la cui identificazione è importantissima per sviluppare azioni di contenimento della diffusione dei germi stessi. Possono causare la meningite batteri come il meningococco (di vari ceppi, come il tipo B e il tipo C, molto aggressivo, di recente e alta visibilità nelle cronache a causa della sua concentrazione in Regione Toscana e della sua letalità, oppure altri tipi come A, Y, W135), lo pneumococco (l’agente della polmonite invasiva), l’emofilo influenzale, ma anche il bacillo della tubercolosi, così come stafilococchi, streptococchi e batteri coliformi (batteri comuni, ma con aggressività variabile, spesso secondo le condizioni di salute della persona colpita), che però non danno origine alla malattia nella sua forma invasiva. Nel 2016 sono stati segnalati 178 casi di meningite da meningococco, con un’incidenza in lieve aumento rispetto al triennio 2012- 14, ma in diminuzione rispetto al 2015. Ciò è dovuto alla presenza in Toscana di una trasmissione più elevata che nel resto d’Italia, dove la situazione è costante, soprattutto per quanto riguarda l’infezione da meningococco negli adulti già notata nel corso del 2014. E proprio in Toscana si è diffusa la notizia che il ceppo di meningite che ha causato decessi nella regione sia stato causato dalla presenza di extracomunitari provenienti dall’Africa del sud del Sahara, una notizia che ha gettato ulteriormente nel panico i residenti in Toscana, e alimentato la xenofobia verso gli immigrati. Ma gli infettivologi sono intervenuti sulla questione, smentendo categoricamente la correlazione tra l’epidemia di meningite in corso e la presenza di extracomunitari, chiarendo che il ceppo dell’infezione è radicalmente diverso da quello che notoriamente colpisce i paesi africani. Hanno spiegato che il ceppo diffuso nell’Africa Sub Sahariana è di categoria "C" mentre quello che ha causato dei decessi in Toscana è di categoria "A". Ma c’è un elemento importante che smentisce tutta l’isteria collettiva. Il periodo di incubazione della malattia è di qualche giorno (massimo dieci giorni secondo gli esperti). Un immigrato che proviene dall’Africa, prima di raggiungere l’Italia, morirebbe visto la grande traversata che dura mesi. Infatti se un immigrato muore di meningite la malattia l’ha contratta da noi. Alessandria: l’autopsia per chiarire le ombre sul suicidio di Antonio Marci alessandrianews.it, 19 gennaio 2017 Chiede di fare chiarezza sul suicidio, avvenuto in carcere la notte di venerdì 13, la famiglia di Tonino Marci, l’allenatore di squadre giovanili di calcio accusato di violenza su minori. Oggi il medico legale potrebbe eseguire l’autopsia. La relazione sarà stesa entro 90 giorni Chiede di fare chiarezza sul suicidio, avvenuto in carcere la notte di venerdì 13, la famiglia di Tonino Marci, l’allenatore di squadre giovanili di calcio accusato di violenza su minori. L’uomo, 63 anni, era stato arrestato martedì 10 gennaio, nel suo appartamento in zona Cristo ad Alessandria. Con lui, nell’abitazione, era presente un giovane allievo, di 13 anni. In casa i Carabinieri del nucleo investigativo avevano trovato centinaia di video e fotografie che riprendevano atti osceni e scene di violenza sui piccoli calciatori. Marci era stato rinchiuso nella casa circondariale di piazza Don Soria, in attesa di un trasferimento a Vercelli, dove c’è un’ala destinata ai responsabili di reati specifici. Nella serata di venerdì 13 il suo corpo è stato trovato, senza vita, steso sulla branda, con un sacchetto di plastica che gli copriva il volto. L’ipotesi è quella di un suicidio ma, secondo la famiglia e l’avvocato che la assiste, Taggiasco, l’uomo non aveva manifestato intenzioni suicide. Era scosso per la verità emersa. Era stato oggetto, sembra, di insulti da parte dei compagni di carcere. Per quel motivo era stato richiesto dall’avvocato il trasferimento a Vercelli, in alternativa ai domiciliari. Ieri il tribunale di Alessandria, che ha aperto un’inchiesta, ha disposto l’esame autoptico che sarà eseguito probabilmente oggi dal medico legale interessato. L’avvocato ha nominato un perito di parte, che assisterà all’esame. Poi, il medico si è preso 90 giorni di tempo per stendere la relazione. Se l’ipotesi del soffocamento sarà confermata, l’inchiesta dovrà chiarire perché Marci avesse a disposizione il sacchetto, chi lo ha fornito, se il detenuto è stato vigilato. Prosegue anche l’inchiesta sul reato di violenza, si disposizione della procura dei minori di Torino. Gli inquirenti visioneranno tutto il materiale, per escludere il coinvolgimento di altre persone. Teramo: terremoto e riscaldamento spento, i detenuti minacciano di non rientrare in cella di Diana Pompetti Il Centro, 19 gennaio 2017 Carcere a rischio disordini. Era già successo la mattina del 30 ottobre, quando quella lunga scossa era sembrata interminabile ai detenuti di Castrogno. Ieri mattina sono riprecipitati nell’incubo per ben tre volte in una situazione ancora più difficile visto che da giorno il penitenziario è al freddo perché manca la corrente elettrica. E i detenuti, fatti uscire nell’atrio interno dopo le scosse, per alcune ore non sono voluti rientrare nelle celle. Tanto che il segretario provinciale del Sappe Giuseppe Pallini ha lanciato un appello alle istituzioni parlando di "disordini". La situazione è rientrata nel primissimo pomeriggio, dopo che il direttore della struttura Stefano Liberatore ha ottenuto la garanzia che questa mattina arriverà un nuovo carico di gasolio per alimentare il generatore che consente di avere luce, ma non riscaldamento e gas per cucinare tanto è vero che ieri i pasti caldi sono stati assicurati dalla Protezione civile. L’amministrazione penitenziaria ha annunciato che da domani mattina 120 degli attuali 270 detenuti saranno trasferiti in altre strutture. Dice il direttore: "Stiamo cercando di gestire la situazione che non è facile anche perché le strade di collegamento per Castrogno sono impraticabili e quindi ogni collegamento è difficilissimo. Ho avuto l’assicurazione che nelle prossime ore un mezzo della Provincia provvederà a liberare la strada per consentire alla ditta di gasolio di portare il rifornimento. Ho incontrato tutti i detenuti dando loro la possibilità di parlare telefonicamente con i familiari che possono chiamarli in carcere. Il mio obiettivo è quello di tranquillizzarli il più possibile perché tutti ci troviamo ad affrontare una situazione difficile. Sono al freddo e con le scosse di terremoto ed è evidente che prevale la paura. Per me non è importante che vengano portati via dei detenuti, per me è fondamentale che quelli che ci sono siano nelle condizioni migliori possibili. Ed è questo quello che dobbiamo garantire sempre". Non è la prima volta che il carcere di Castrogno resta isolato e per questo più volte lo stesso sindacato Sappe aveva lanciato l’allarme. "Un allarme ignorato", dice Pallini, "visto che tutte le volte che c’è una situazione di emergenza legata al maltempo Castrogno resta praticamente tagliato fuori dal mondo. Una situazione difficile per i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria che hanno molte difficoltà a raggiungere la struttura. Più volte abbiamo chiesto che ci fossero interventi di sistemazione della strada ma senza avere mai delle risposte". Mamone (Nu): detenuti e agenti intrappolati dalla neve "gruppi elettrogeni fuori uso" di Fabio Ledda L’Unione Sarda, 19 gennaio 2017 "L’amministrazione penitenziaria dovrà spiegare perché, nonostante vi siano delle relazioni di servizio e richieste di intervento per riparare i gruppi elettrogeni, ha lasciato la Polizia penitenziaria ed i detenuti in queste condizioni". A dichiararlo è il segretario generale aggiunto regionale della Cisl Fsn Sardegna Giovanni Villa sulla vicenda della colonia penale di Mamone dove da 48 ore agenti di custodia e detenuti sono senza riscaldamento e isolati dalla neve. "Ieri sera lo spazzaneve partito da Nuoro per liberare gli agenti e i detenuti della colonia Penale di Mamone nell’altopiano di Bitti si è dovuto arrendere in località "Sa Pruna" a circa un chilometro dall’entrata del carcere a causa di un muro di tre metri di neve - spiega Villa. Il Sindaco di Bitti Giuseppe Ciccolini pare abbia dato disposizione ad ditta di Bitti di intervenire con un caterpillar o mezzo simile, quel muro di neve va abbattuto a tutti i costi. Intanto agenti e detenuti aspettano impazienti che si liberino le strade. Si tratta della seconda notte senza corrente quindi senza riscaldamento e con tutti gli altri disagi che si son venuti a creare". A Mamone su 10 contatori elettrici che forniscono elettricità nel villaggio, sei sono stati riparati ieri nel pomeriggio, ma quattro rimangono fuori uso. La situazione più critica nelle Diramazioni di S’Alcra e Nortiddi, in quest’ultima la situazione è la peggiore, "e impensabile avere soccorsi se non si interviene con mezzi idonei e dall’esterno" ha raccontato Villa. Ieri gli agenti di Polizia penitenziaria coadiuvanti i detenuti sono riusciti a chiudere il bestiame nelle stalle mettendolo al sicuro. Roma: il professore di Tor Vergata "detenuti più motivati ad apprendere degli studenti" di Simonetta Dezi Ansa, 19 gennaio 2017 "Carcere occasione per vedere mio lavoro da altra prospettiva". "Insegnare è un mestiere, se lo faccio in carcere o all’università non fa differenza per la professione in sé. Quello che cambia è la risposta degli studenti: tra i detenuti trovo persone più motivate ad apprendere rispetto ai ragazzi dell’ateneo dove tengo le mie lezioni". Fabio Pierangeli professore di letteratura italiana all’Università di Tor Vergata racconta la sua esperienza di docente a Rebibbia con la meraviglia di chi ha fatto una scoperta importante proprio lì dove meno se lo aspettava e proprio per questo tiene a precisare: "Il carcere è stata l’occasione per vedere il mio lavoro da un’altra prospettiva, ho capito meglio le potenzialità del ruolo del docente". Il progetto di dare ai carcerati la possibilità di conseguire una laurea, spiega il professore, è partito dieci anni fa dalla Facoltà di Lettere e Filosofia di "Tor Vergata" con l’intento di promuovere, sostenere e agevolare la formazione universitaria dei detenuti reclusi presso la Casa Circondariale di Rebibbia. L’obiettivo era un loro reinserimento sociale in un’ottica di piena equiparazione ad ogni altro soggetto di diritto. Si trattava di "Teledidattica-Università in Carcere". La madrina dell’iniziativa è stata Marina Formica docente di storia moderna. Sulla base di alcuni enunciati fondamentali e di certo provocatori ("Lo studio come strumento di libertà", "Il tempo della reclusione come risorsa da impiegare al meglio") si svolsero i primi colloqui di orientamento tra i detenuti comuni e i detenuti soggetti a regime di sorveglianza speciale. I primi quattro laureati nell’anno 2014. Nei cinque anni di collaborazione al progetto il professor Pierangeli è venuto in contatto con una quarantina di studenti. Laureati solo 8, dei quali due sono di nuovo in carcere per la recidiva, per uno però la vita è cambiata veramente. "E questo uno dà il senso al lavoro che stiamo portando avanti" sottolinea soddisfatto il professore. Attualmente, ci informa, i laureandi della casa circondariale di Rebibbia sono 34, il gruppo più nutrito è quello dell’alta sicurezza. "In carcere ho trovato alcuni studenti molto bravi", prosegue il racconto di Pierangeli, "tutti sono ossequiosi nei confronti del professore e intimiditi dall’esame, tutte condizioni che all’interno dell’università abbiamo in gran parte perso. È quello che io chiamo il paradosso del carcere. Sai che entri in un luogo dove gli ospiti hanno commesso delitti contro la società, ma ti ritrovi davanti a persone con un loro codice d’onore che hanno profondo rispetto del tuo ruolo di educatore e questo mi ha colpito profondamente". "Posso aggiungere che proprio in carcere ho compreso fino in fondo il valore dello studio come portatore di libertà". Sorride Pierangeli per quello che davvero può sembrare un altro paradosso, ma vuole spiegarlo bene questo passaggio: "C’è una frase che ho apprezzato molto alla fine del film dei Fratelli Taviani "Cesare deve morie" (la pellicola, girata nel 2012 narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli, ndr), quando il protagonista dice: Da quando ho conosciuto il teatro questa cella è diventata una prigione". Certo è una strada tutta in salita, tiene a precisare perché questo percorso non sembri scontato. "Anche quando lo studio va nel migliore dei modi la difficoltà è quella di utilizzare praticamente la laurea, si mette nelle mani di un uomo uno strumento che non sempre è in condizione di utilizzare". "Il momento più difficile, se non drammatico, è quello del reinserimento nella società. A qualcuno viene data la possibilità di uscire dal carcere in un periodo relativamente breve, istruito e magari avendo discusso una brillante tesi universitaria. Ma ha davanti a sé il rebus di come utilizzare il bagaglio culturale acquisito dietro le sbarre". La verità, chiosa con un senso di impotenza per non poter fare di più, è che "lo studio non basta, ci vogliono elementi affettivi che sostengano, un pizzico di fortuna nel trovare una persona disponibile a credere che chi ha compiuto un delitto sia realmente in grado di inserirsi nella società, la volontà di non ricadere nel malaffare. Lo studio può rappresentare però il primo fondamentale passo verso il cambiamento". Ivrea (To): diritti e speranza, una serata per conoscere il carcere La Sentinella, 19 gennaio 2017 "Carcere: luogo di diritti e speranza oltre che di esecuzione della pena" è il titolo della serata che si terrà venerdì 20, alle 20.45, nell’aula magna del corso di laura in Infermieristica, all’Officina H, in via Montenavale. L’occasione per un confronto sul mondo dentro il carcere e per chiedersi se sia possibile garantire i diritti fondamentali in carcere, costruendo percorsi di riabilitazione, cambiamento e speranza. Saranno presentate l’esperienza che le Acli e il Patronato Acli svolgono all’interno dei carceri di Torino e di Ivrea e l’esperienza del sacerdote salesiano Domenico Ricca, da 35 anni cappellano militare al carcere minorile di Torino. Don Ricca e Marina Lomunno presenteranno anche il libro di cui sono autor,i "Il cortile dietro le sbarre". Alla serata interverranno pure Roberto Santoro, presidente Acli prov. Torino, Armando Michelizza, garante comunale per i diritti delle persone private della libertà personale, e, in veste di moderatrice, Raffaella Dispenza, presidente Patronato Acli di Torino. Arezzo: "Filosofia in carcere", incontro-spettacolo sui primi temi affrontati dai detenuti gonews.it, 19 gennaio 2017 Prosegue l’iniziativa "Filosofia in carcere", promossa dal dipartimento di Arezzo dell’università di Siena. Da alcuni mesi il professor Simone Zacchini cura un intervento di filosofia pratica con i detenuti della casa circondariale di Arezzo. "Abbiamo proposto alcuni incontri seminariali su temi come la bellezza, l’utopia e il dolore e nei prossimi mesi si parlerà anche di natura, solitudine, fragilità con la partecipazione di detenuti e cittadini", spiega Zacchini. "A ognuno è stato chiesto di leggere un testo di filosofia e poi di svilupparne personalmente il tema confrontandosi con gli altri partecipanti". A conclusione di questa prima parte del lavoro, domani, giovedì 19 gennaio, alle 17 è in programma un incontro-spettacolo dal titolo "Fabrizio De André e la filosofia". Seguendo i temi già affrontati, lo spettacolo prevede l’esecuzione di brani del cantautore intervallati dalla lettura di scritti sui temi elaborati dai detenuti e da un loro commento. La parte musicale sarà curata da Alessandro Ristori alla chitarra e voce, Andrea Nocentini alla batteria, Elisa Pieschi al violoncello e Lorenzo Rossi al violino. L’iniziativa "Filosofia in carcere" si svolge nell’ambito del progetto di ricerca del dipartimento universitario di Arezzo sullo sviluppo di comunità riflessive nei contesti di vita, lavoro e cura, diretto dalla professoressa Francesca Bianchi. Radio Carcere: la questione dell’ergastolo ostativo, dell’articolo 4 bis e del 41 bis Ristretti Orizzonti, 19 gennaio 2017 Nell’ultima puntata del programma condotto da Riccardo Arena la questione dell’ergastolo ostativo, dell’articolo 4 bis e del 41 bis. L’ipotesi di chiudere il vecchio e degradato carcere Canton Mombello di Brescia, avanzata dalla Commissione sulle carceri della Lombardia. Link. http://www.radioradicale.it/scheda/497565/radio-carcere-la-questione-dellergastolo-ostativo-dellarticolo-4-bis-e-del-41-bis Terroristi e vittime al Senato. Scandalo e assensi per il dialogo impossibile di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2017 Oggi, con un saluto di Grasso, la presentazione di un volume collettivo sul dopo Anni di Piombo. Il volume dello scandalo s’intitola "Il libro dell’incontro". Curatori un sacerdote gesuita, padre Guido Bertagna, che a Milano collaborava con il cardinal Martini, e due giuristi che si occupano di giustizia riparativa, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Racconta di incontri molto delicati, a porte chiuse, protrattisi nel tempo, culminati con preghiere collettive sulla tomba di Aldo Moro. Incontri delicati perché mettevano insieme vittime e carnefici degli Anni di Piombo, famiglie che hanno perso i loro cari in attentati ed ex terroristi che quegli attentati li hanno fatti. Di qui il sottotitolo del libro: "Vittime e responsabili della lotta armata a confronto". Ebbene, tutti assieme, vittime e carnefici presenteranno oggi il testo che racconta la loro esperienza. Ed è scandalo ciò perché avviene al Senato, con saluto iniziale del presidente Piero Grasso, apertura dei lavori a cura del senatore Luigi Manconi e conclusioni del ministro Andrea Orlando. Del valore di questo dialogo diretto tra vittime e carnefici non sono mica tutti convinti, tra chi ha subìto lutti e dolore. C’è chi pensa che sia un percorso doloroso, ma fecondo. Chi è all’opposto, come Paolo Bolognesi, presidente delle famiglie vittime della strage di Bologna, deputato Pd. "Non c’è riparazione - sostiene - senza verità. Se gli ex terroristi vogliono veramente "riparare" inizino a raccontare la verità sulle stragi e sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro". A destare inizialmente lo scandalo di Bolognesi e anche di Roberto della Rocca, presidente dell’Associazione italiana vittime del terrorismo, è stato un passo falso dell’organizzazione. A dialogare con l’ex magistrato Gherardo Colombo, e con Lina Ghizzoni Evangelista (moglie del vicebrigadiere Francesco "Serpico" Evangelista), Manlio Milani (vittime piazza della Loggia a Brescia), Agnese Moro, Giovanni Ricci (figlio di un agente della scorta di Moro) e Luca Tarantelli (figlio del professore Ezio), erano stati annunciati due ex brigatisti famosi, ossia Adriana Faranda e Franco Bonisoli. Apriti cielo. La scelta è poi caduta su due ex terroristi molto meno noti, Andrea Coi e Grazia Grena. Ma la loro presenza nelle sale del Senato, resta per Bolognesi una "offesa" e "una vergogna istituzionale". Secondo Gian Carlo Caselli, il rischio è che la solennità del luogo faccia oltrepassare la linea di confine da percorso privato a pubblico, e che la giustizia riparativa diventi il grimaldello per una sorta di Commissione per la verità e la riconciliazione sul modello sudafricano. "Ma lì c’era un regime di apartheid, qui una democrazia aggredita". Perché li voglio incontrare di Agnese Moro La Stampa, 19 gennaio 2017 Perché una persona a cui è stato ucciso un familiare che amava teneramente potrebbe voler conoscere i responsabili di quello e di altri orrendi omicidi e intavolare con loro un dialogo serrato? Per me la molla è stata la speranza di avere giustizia e il desiderio di uscire dall’orrore della infinita e perenne ripetizione interiore degli avvenimenti del passato. Avere giustizia è il desiderio più forte che ho provato dopo la tragica conclusione della vita di mio padre e delle care persone che furono i suoi compagni di viaggio. Ma è anche la cosa più complicata che si possa chiedere. Sono importanti i falli fischiati dalla giustizia penale, gli arresti, i processi, le condanne e le lunghe pene scontate in tanti modi. So cosa si prova quando falli evidenti non vengono neanche fischiati. Ma sentirli fischiare non basta per avere giustizia. Ci sono risposte che la giustizia penale non può dare, ma senza le quali tu non puoi vivere. Ecco alcune delle domande a cui vorresti una risposta: Hai capito che cosa hai fatto? Chi era la persona che hai ucciso? Hai capito che cosa mi hai tolto? Come hai potuto mettere la sveglia una mattina, alzarti e andare a uccidere? Come hai potuto fargli e farmi questo? Chi sei ora? Sei dispiaciuto per quello che hai combinato? Ascoltare le risposte - e le domande - è quasi sempre molto difficile. Ma farlo aiuta una come me a capire senza scusare e a conoscere senza odiare. E a scoprire, con sorpresa, l’umanità degli "altri": il dolore sincero per l’irrimediabilità del male compiuto, la disponibilità disarmata nei nostri confronti, lo spiegare il male fatto senza mai giustificarlo o giustificarsi. Ovviamente non è l’unico modo, o quello giusto per tutti, di gestire il proprio dolore. È il cammino, nuovo per l’Italia, della giustizia riparativa, che le nostre Istituzioni vogliono esaminare con attenzione, perché, accanto a quella penale ci possa essere - per chi lo desidera - una giustizia che si prenda cura nel tempo - con personale adeguatamente formato e coinvolgendo le nostre comunità - delle ferite che il male compiuto lascia dietro di sé, e i cui effetti rischiano altrimenti di perdurare, toccando sempre nuove generazioni e nuove persone. La criminalità di padre in figlio, come nell’800 di Isaia Sales Il Mattino, 19 gennaio 2017 Napoli è l’ultima metropoli dell’Ottocento, secondo una definizione di Giorgio Agamben. Penso che abbia ragione. In genere si ritiene che le città ottocentesche siano caratterizzate innanzitutto dalla imponente crescita industriale che ne hanno modificato struttura sociale, urbana ed economica. In verità la caratteristica fondamentale delle metropoli ottocentesche all’inizio dell’Ottocento (Parigi, Londra, Napoli, Amsterdam, e se vogliamo anche S. Pietroburgo e Costantinopoli) è la sproporzione tra la popolazione che si è accumulata nel tempo storico precedente e i mezzi per fare fronte alle sue esigenze. Questa sproporzione viene via via colmata già nella seconda metà del secolo grazie ad un esteso processo di industrializzazione e di terziarizzazione (utilizzando anche le risorse che derivavano dagli imperi coloniali e dalle funzioni di capitali di grandi Stati), dalle trasformazioni urbanistiche che spingono le popolazioni a più basso reddito fuori dai centri storici, da una legislazione sociale che prova ad attutire la grandissima miseria dei ceti proletari e sottoproletari. Napoli è stata l’unica grande città italiana dell’Ottocento (e manterrà questo primato fino al 1931, quando sarà superata per numeri di abitanti da Roma), ma rispetto a Londra, Parigi e Amsterdam non riuscirà a colmare la vasta sproporzione tra popolazione e risorse, perché la sua industrializzazione, e poi le sue attività commerciali artigianali e terziarie, non saranno mai adeguate alla sua sovrappopolazione. Manterrà viva e aperta nel tempo una grande questione sociale (dovuta alla mancata integrazione per via economica e culturale della sua vastissima popolazione sottoproletaria) e un’altrettanta grave e duratura questione criminale dovuta all’accettazione delle attività illegali come parte integrante dei suoi equilibri economici. Se si leggono le descrizioni di Londra in "Oliver Twist" di Charles Dickens, o quelle fatte ne "I misteri di Parigi" di Eugène Sue, non si notano grandi differenze con la Napoli descritta dal nostro Francesco Mastriani in "Malavita" (ripubblicato recentemente e meritoriamente da Guida) con vicoli malsani, case miserrime, con la mancanza di ogni struttura igienico-sanitaria, con una diffusa mendicità, prostituzione, alcolismo, malattie infettive e con numerosi criminali che dominano sulla vita di migliaia di persone. Se oggi si leggono le opere di Saviano, Longo, Ferrandino, Petrella o De Silva, si potranno individuare tante affinità con quanto descritto da Mastriani nell’Ottocento, mentre è quasi impossibile un paragone con la Parigi o la Londra ottocentesche in opere di scrittori inglesi e francesi contemporanei. Certo, non esisteva allora il mercato della droga; l’impiego di bambini era comunque notevole nei furti dei fazzoletti di seta e negli scippi di gioielli ed orologi, nella mendicità di strada, nelle funzioni di palo per i furti negli appartamenti. Ma oggi, mentre a Londra e a Parigi, lo spaccio di droga è in mano a balordi o agli immigrati, a Napoli è in mano a tre generazioni di napoletani, nonni, padri e figli. Quando i traffici si fanno pericolosi, o si ha a che fare con merci pericolose, non si trova molta disponibilità tra la popolazione londinese o parigina a svolgerli. È questa, in verità, una tendenza delle grandi città del mondo occidentale: lo spaccio della droga o è in mano a balordi o è in mano agli immigrati. Napoli è una delle pochissime eccezioni. Qui i mercati illegali pericolosi, altrove abbandonati dagli indigeni, vengono attivati e svolti da manodopera locale, come se i sottoproletari napoletani (e ai loro figli e nipoti) fossero ciò che gli immigrati rappresentano in altri contesti, cioè l’esercito di riserva del crimine, quelli che possono rischiare tutto non avendo molto da perdere. Il criminologo Vincenzo Ruggiero definisce città "bazar" quelle realtà urbane dove coesistono strutturalmente terreni di azione legale e illegale, e dove il confine tra i due campi si sposta continuamente. Da questo punto di vista Napoli è, tra tutte le altre europee, città-bazar per eccellenza, dove si vende e si compra di tutto nel circuito illegale, e gli immigrati non sono gli unici protagonisti di questi mercati ma hanno una concorrenza agguerrita da parte della popolazione locale. Neanche questi mercati si possono lasciare nelle mani di esterni perché essi sono parte fondamentale per la sopravvivenza quotidiana. E anche dal punto di vista urbanistico Napoli è un’eccezione (e, per me, una felice eccezione): il suo centro storico è fittamente abitato da una popolazione promiscua, in cui prevale di gran lunga un sottoproletariato che è rimasto quasi intatto nella sua configurazione da diversi secoli. In altre città europee il centro storico si è trasformato socialmente e urbanisticamente. A Napoli tutto ciò non è avvenuto, nonostante le grandi risorse stanziate dopo il terremoto del 1980, servite solo a trasferire migliaia di famiglie verso le invivibili periferie o nei comuni della cinta urbana. Nel centro storico convivono ceti diversissimi per cultura, professione e aspirazioni, ceti che altrove da secoli o da decenni si sono separati andando a vivere in differenti quartieri a seconda del proprio reddito. È il mercato edilizio che ha deciso chi vive e lavora nei centri storici o chi ne viene espulso, non la storia, non la tradizione, non la volontà delle singole famiglie. La rottura della promiscuità nel cuore delle città europee è uno dei grandi problemi dell’urbanistica contemporanea. Il centro storico di Napoli, invece, ti offre da "vedere" una umanità, delle relazioni sociali e culturali che nessun altro luogo vissuto può darti al mondo. La visita è conoscenza di una cultura che vive per strada e non solo nei musei. Questa "eccezionalità" ha naturalmente un costo: il tipo di popolazione che vi abita non ha i capitali privati per fare fronte alle necessità di restauro di un patrimonio così esteso e mal ridotto, il pubblico (cioè il municipio) non è in grado di sostituirsi in parte o del tutto a questa carenza. E per vivere una parte di questa popolazione (e, nel caso della droga, tutta la struttura familiare) fa ricorso permanentemente ad attività illegali e criminali. Come consentire che la grande specificità e originalità della struttura urbana e sociale di Napoli sopravviva senza creare problemi quotidiani di ordine pubblico e di sicurezza, senza consentire che le attività criminali vengano svolte da bambini, dai loro genitori e dai loro nonni, è la grande questione che Napoli si trascina dall’Ottocento. Certamente, non è solo un problema del sindaco della città. Ma si tratta di un dato strutturale che non cambia, e che andrebbe posto assolutamente al centro del dibattito cittadino e nazionale. Migranti. Il garantismo di Orlando non vale per i profughi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 gennaio 2017 La relazione del ministro al parlamento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario contiene una chiara difesa del sistema costituzionale italiano e dei due gradi di giudizio. Contro il "garantismo sui generis". Ma quando si tratta dei diritti dei richiedenti asilo le cose cambiano. Che bisognerebbe "superare" il reato di immigrazione clandestina perché "non serve" il ministro della giustizia Orlando lo aveva già detto. Più di una volta, a cominciare dalla relazione al parlamento sull’amministrazione della giustizia con la quale aveva aperto l’anno giudiziario, nel 2016. Trascorsi dodici mesi ieri lo ha ripetuto, promettendo in qualche modo una rivincita sul ministro Alfano che l’anno scorso sull’immigrazione lo ha bloccato - così come ha costretto al rinvio l’approvazione della riforma del processo penale. Stavolta, però, nel discorso ai senatori prima e ai deputati poi, Orlando ha allargato il quadro, annunciando il disegno di legge che cambierà le procedure per il diritto d’asilo. Sarà un giro di vite: quattro mesi dalla richiesta per definire l’iter e abolizione dell’appello: dopo il primo grado di giudizio l’immigrato che si vede negato l’asilo dovrà essere espulso. Non solo: il richiedente asilo non potrà più comparire davanti al giudice per spiegare le sue ragioni e per decidere basterà visionare il filmato del suo colloquio con la commissione territoriale. "La nuova normativa potrà essere l’occasione per superare il reato di immigrazione clandestina", ha così promesso Orlando. Un annuncio assai stonato rispetto al resto della relazione, nella quale il ministro ha difeso "l’impianto costituzionale" del sistema giuridico italiano, "tra i più avanzati" perché riduce il rischio di errori giudiziari ai quali "non ci si deve rassegnare". "Difendo i due gradi di giudizio presenti nel nostro ordinamento", ha detto il guardasigilli, evidentemente escludendo dalla difesa i profughi. "Soltanto una nostra certa esterofilia - ha aggiunto - fa si che si prendano come riferimento modelli che dal punto di vista delle garanzie non ci devono insegnare niente". Ma per la stretta sulle richieste di asilo ha spiegato di volere "fare tesoro delle esperienze europee più efficaci". Una contraddizione notevole, anche perché accostata a un apprezzabile critica al "garantismo sui generis che spesso c’è nel nostro paese". In questo caso Orlando si riferiva ai detenuti in attesa di giudizio per i reati di strada. Che non possono essere assegnati alla custodia cautelare fuori dal carcere perché non hanno un domicilio. "In gran parte si tratta di persone extracomunitarie e questo determina una disparità oggettiva", ha giustamente detto il ministro. È questo il punto debole delle nuove norme che hanno ampliato il ricorso all’esecuzione penale esterna al carcere. "Ma non se ne parla", ha notato Orlando, proprio perché non è di colletti bianchi che continuano a riempirsi le celle. La cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario è stata cambiata nel 2005 dal governo Berlusconi, con l’obiettivo di depotenziarne l’impatto politico: erano gli anni in cui i magistrati coglievano l’occasione per mettere in scena le loro proteste contro le leggi del centrodestra. Adesso il dibattito politico si fa in parlamento - è successo, un pò, ieri - e la cerimonia in Cassazione (quest’anno il 28 gennaio) ha perso appeal. Se non, adesso, per l’annunciata diserzione dell’Associazione nazionale magistrati (che peraltro in genere presenzia senza intervenire) in polemica proprio con il governo e Orlando. Il ministro nella sua relazione ieri ha evitate completamente l’argomento, lo ha citato solo nella replica perché costretto dai parlamentari. Ha riconosciuto il problema della scopertura degli organici. Ha detto però che sarà risolto aumentando il numero dei concorsi per i nuovi magistrati. Ha ammesso però che "ci sono stati degli scompensi". E poi ha annunciato, en passant, che alla richiesta dei giovani magistrati di abbreviare il termine minimo per chiedere il trasferimento (adesso quattro anni) è stata data risposta parzialmente positiva con un emendamento del governo al decreto mille proroghe (ancora da vedere). Però sulla proroga dell’età pensionabile riconosciuta solo a un pugno di alti magistrati (presidenti di Cassazione, Consiglio di Stato e Corte dei conti) il guardasigilli non ha fatto autocritica. Tutt’al più ha cercato di ridimensionare la misura, introdotta dal governo Renzi per decreto, che invece l’Anm giudica "incostituzionale". "Io credo - ha detto Orlando - che ci sia una sproporzione tra le reazioni che sono avvenute e l’oggetto del contendere, la questione del pensionamento". Anche perché, ha concluso rivolgendosi ai magistrati che da lui e da Renzi avevano avuto promesse diverse, "nel frattempo il governo e il presidente del Consiglio sono cambiati". Migranti. Il piano di Orlando: "abolire il reato di clandestinità" di Francesco Grignetti La Stampa, 19 gennaio 2017 Causa una brutta influenza, per qualche giorno il ministro Marco Minniti è out. Così slitta di una settimana la presentazione del piano sugli immigrati alla Camera e alla Conferenza Stato-Regioni. Una settimana che può rivelarsi opportuna per sminare il percorso di un piano che trova ostacoli nei territori. Il progetto del governo ha anche un versante di giustizia in tre punti: abolire il reato di immigrazione clandestina, smontare il sistema delle impugnazioni per chi si vede rifiutato l’asilo politico, predisporre sezioni specializzate di magistrati. Il ministro Andrea Orlando di nuovo ieri in Parlamento ha invitato a "superare il reato di immigrazione clandestina". Può sembrare una contraddizione, la stretta annunciata dal governo sugli immigrati irregolari e l’abolizione del reato, ma non è così. Alla prova dei fatti, infatti, il reato di immigrazione clandestina (voluto dall’allora ministro degli Interni Roberto Maroni e ancora un totem dei leghisti) si è rivelato un boomerang: dato che la materia è portata nei tribunali penali, scattano tutte le garanzie, e quindi, ad esempio, avvocati d’ufficio pagati dallo Stato oppure diritto a essere presenti al dibattimento. Un pò come accade con le impugnazioni in sede civile: una commissione prefettizia acconsente o nega il diritto di asilo; immediatamente dopo scatta il ricorso al tribunale. Si è scoperto che ci sono avvocati che fanno incetta di clienti, tanto paga lo Stato. E i clienti guadagnano un paio di anni in più di permesso di soggiorno. Il ddl Orlando, fermo da quasi un anno, e ora ripescato da Gentiloni, prevede invece una linea telematica tra commissione prefettizia e magistrato, sezioni specializzate nei singoli tribunali, un grado singolo di giudizio, e una risposta definitiva da dare nel giro di 4 mesi. "La soluzione proposta - dice Orlando, rivolto soprattutto alle sensibilità della sinistra - è conforme al "modello internazionale" di giusto processo ed è pienamente in linea con i princìpi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo". Ma proprio da sinistra polemizzano con il Guardasigilli in quanto avrebbe snobbato l’Associazione nazionale magistrati. E lui replica: "Non la reputo tra le questioni più importanti. E non per mancanza di riguardo nei confronti dell’Anm, a cui ho sempre dedicato grandissima attenzione, ma perché ritengo francamente che la materia del contendere non è una questione fondamentale per il funzionamento della giustizia". Il tema è l’età del pensionamento dei giudici a 70 e non a 72 anni. L’Anm terrà al riguardo nei prossimi giorni una clamorosa protesta, disertando l’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione. "Io credo, lo dico con tutto il rispetto - replica Orlando - che ci sia una sproporzione tra le reazioni che sono avvenute e l’oggetto del contendere, tenendo conto che nel frattempo il Presidente del Consiglio è cambiato". La relazione di Orlando sullo stato della giustizia nel 2016 in verità segnala alcuni piccoli miglioramenti: cala l’arretrato civile (a giugno 2013 c’erano 5,2 milioni di procedimenti, tre anni dopo sono 3,8 milioni), calano i rimborsi per le lungaggini, migliorano i costi. Ma sono finiti i braccialetti elettronici. E restano i nodi: prescrizione e intercettazioni che hanno bloccato la sua riforma al Senato. Lui dice: "È stato un errore non approvare la riforma del processo penale quando c’è stata la finestra necessaria, mi auguro che le prossime finestre non restino inutilizzate". Migranti. Caso Mered, per i giudici di Roma nessun errore di persona La Repubblica, 19 gennaio 2017 Per il tribunale del riesame è il boss della tratta di esseri umani Mered Medhanie Yedhego, i legali dell’africano, detenuto a Palermo, avevano chiesto l’annullamento della misura cautelare emessa dalla procura della Capitale. Non ci sarebbe alcun errore di persona nell’indagine dei Pm di Palermo che ha portato all’estradizione dal Sudan di un eritreo accusato di essere tra i capi di una delle principali organizzazioni criminali che gestiscono la tratta dei migranti tra l’Africa e l’Italia. Il Tribunale del Riesame di Roma ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Mered Medhanie Yedhego, detto "il generale", detenuto nel carcere palermitano di Pagliarelli e considerato uno dei capi di una organizzazione che gestisce la tratta dei migranti tra l’Africa e l’Italia. Yedhego è stato arrestato in Sudan il 24 maggio scorso ed estradato in Italia il 7 giugno scorso su mandato della Procura di Palermo. Il difensore dell’indagato detenuto, l’avvocato Michele Calantropo, aveva presentato opposizione al provvedimento del gip di Roma affermando, tra le altre cose, l’errore di persona e lo scambio di identità. In carcere ci sarebbe - è la tesi difensiva - un falegname eritreo, Mered Tasmafarian, rifugiato in Sudan. I giudici del Riesame hanno confermato la custodia in carcere per il pericolo di fuga oltre che per il concreto rischio di reiterazione del reato ed inquinamento delle prove. Mentre per quanto riguarda l’identità il collegio presieduto da Maria Sabina Vigna sostiene: "In attesa di ulteriori approfondimenti investigativi, occorre valorizzare gli elementi che, anche sotto il profilo della esatta identità dell’arrestato, assurgono a gravi indizi e consentono di potere ritenere che - si legge nel provvedimento di 14 pagine - il soggetto tratto in arresto in Sudan ed estradato in Italia, sia l’indagato Mered". Sul punto "occorre sottolineare in primo luogo - osservano i giudici - che il soggetto è stato localizzato ed individuato all’esito di una complessa attività di intelligence tra le autorità britanniche, di concerto con l’autorità italiana e la polizia e la magistratura sudanese". Il Riesame inoltre richiama le considerazioni espresse dai pm presso il Tribunale di Palermo (l’indagine è stata dei sostituti Calogero Ferrara e Claudio Camilleri e coordinata dal procuratore capo Francesco Lo Voi), "ove il Mered è indagato del medesimo reato". Dell’indagine della procura di Roma a carico di Yehdego si è saputo direttamente nel corso del processo a Palermo, il 19 dicembre scorso, quando il legale ha depositato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per una indagine sulla tratta risalente al 2015 in cui è coinvolto "il generale" e altri esponenti di una "cellula romana" che gestiva i migranti giunti nella Capitale. Sul trafficante di esseri umani Mered Yehdego la Procura di Palermo guidata da Francesco Lo Voi ha lavorato incessantemente. E continua a farlo mentre è in corso il processo dinanzi alla IV sezione penale. Proprio ieri i pm Calogero Ferrara e Claudio Camilleri hanno sentito come teste Atta Weharabi, il primo "pentito" che usufruisce dei benefici concessi per chi collabora con la giustizia. Per questa ragione, a dicembre scorso, le indagini - condotte dal Nucleo Speciale di intervento di Roma del Comando generale della Guardia Costiera e coordinata dal pm romano Carlo La Speranza - e le dichiarazioni di un eritreo detenuto a Rebibbia avevano creato un certo "malumore" al palazzo di giustizia palermitano. Il pm capitolino infatti ha interrogato un eritreo, il 3 giugno 2015, che ha ammesso: "Conosco solo Medhane... giunto nel 2014 nella sua mezhra Tripoli mi reclutò e mi diede l’incarico di compilare e confrontare le liste (dei migranti, ndr)". Un incrocio - anzi un groviglio - di verbali di due Procure che indagano sulla stessa persona, raggiungendo risultati per certi aspetti diversi. Roma che asseriva che Mered Medhanie Yehdego - "il generale" - il re dei trafficanti di esseri umani che gestisce la tratta di esseri umani tra Libia e Italia - sia quello raffigurato nelle fotografie reperite su "fonti open source". La seconda, quella di Palermo, invece, che "il generale" lo sta processando dopo che il 7 giugno è stato estradato in Italia dal Sudan. Al di là della foto - sostengono i pm siciliani - la persona detenuta è "il generale". Un punto oggi ristabilito dal Tribunale del Riesame della Capitale. Brasile. I militari nelle carceri, l’ultimo azzardo di Temer La Repubblica, 19 gennaio 2017 Di fronte a due settimane di rivolte e a 134 detenuti morti (il 36 per cento di quelli deceduti in tutto il 2016), il governo di Michel Temer gioca la carta dei militari. Ho delegato la sicurezza e il controllo dei 32 penitenziari brasiliani alle Forze Armate. Non è una novità. L’uso dei soldati per garantire l’ordine pubblico è avvenuto spesso in passato. Ma si trattava di occasioni particolari, come i Mondiali e le Olimpiadi che avevano una risonanza internazionale. Adesso, si tratta di contenere un’ondata di sommosse che suonano come una sfida più che una protesta per il sovraffollamento e le condizioni disperate in cui versano molte prigioni. In Brasile è in corso uno scontro, feroce e sanguinario, tra i due grandi Cartelli della droga, il Primeiro Comando do Capital (Pcc), egemone a San Paolo, e il Comando Vermelho (Cv), presente a Rio de Janeiro, assieme ai suoi sodali, dopo due decenni di alleanza. La posta in gioco è il controllo del corridoio amazzonico per gestire il traffico di cocaina proveniente dal Perù, dalla Bolivia e in parte dalla Colombia, e della marijuana che arriva dal Paraguay, destinate al mercato europeo e africano. Un business da 1 milione di dollari a settimana. Delegare ai militari il controllo delle carceri, oltre ad essere una chiara sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, accusato di aver gestito male la crisi delle carceri, viene letta da molti come una mossa populista. La presenza dei soldati nelle strade è sempre stata accolta come un sollievo dalla gente. Vedere autoblindo e uomini in divisa, elmetto in testa e armati con fucili di assalto dà un senso di sicurezza, rafforza l’orgoglio nazionalista, soddisfa sentimenti che sembravano tramontati con la fine della dittatura e che ora, invece, riaffiorano nei commenti che raccolgo per la strada, nei negozi, dal barbiere, nei supermercati. La paura domina il senso comune del Brasile. La gente con cui parlo, che ama scambiare due parole nell’italiano imparato a casa dai propri nonni e padri, mi avverte sempre di stare attento. Con una frequenza e un’enfasi mai provate prima. Il Presidente è consapevole del clima che si respira nel paese. Sa che questa rivolta non è qualcosa di estemporaneo. Che il circuito penitenziario potrebbe esplodere improvvisamente, contagiando anche l’esterno. È accaduto nel 2002 e poi ancora nel 2008: per giorni i miliziani dei narcos misero in scacco città come San Paolo, con autobus incendiati, posti di blocco, assalti e rapine. Temer sa che le sommosse sono una sfida politica: i due Cartelli, oltre a lottare per il controllo di territori importanti, vogliono imporre il loro potere. Dentro e fuori il carcere. Mille soldati, avieri e marinai, saranno usati per perquisire le celle e scovare le armi, i cellulari, le droghe che circolano liberamente tra i detenuti. Faranno ciò che finora avrebbero dovuto fare agenti e poliziotti. I quali, a dire dello stesso Temer, "troppo spesso vengono contagiati dagli stessi detenuti". Un modo di denunciare la corruzione imperante tra gli addetti ai lavori. Il ministro della Difesa, Raul Jungmann, è scettico. Svolgerà il compito che gli ha affidato il Capo dello Stato ma ha chiaramente detto che la misura "non risolverà" il problema. "La soluzione passa attraverso l’azione congiunta delle varie istituzioni e dei poteri". Mette le mani avanti. Vuole evitare di diventare l’ennesimo capro espiatorio. Il rischio è di trasformare l’eccezionalità nella normalità. E di usare i militari dove falliscono i civili. Venezuela. La studentessa, attivista dei diritti umani, che il regime accusa di golpe di Carlo Lodolini e Marta Serafini Corriere della Sera, 19 gennaio 2017 Steyci Brigitte Escalona Mendoza è un’attivista dei diritti umani e si era recata a Bruxelles per consegnare al Parlamento europeo una petizione contro gli abusi del governo di Maduro. Ora è chiusa in un carcere militare ed è accusata di terrorismo. "È chiusa lì dentro da una settimana e nessuno è ancora riuscito a parlarci". "Lì dentro" è il carcere militare di Naguanagua, nello stato del Carabobo, 300 chilometri da Caracas, un posto che se lo nomini, in Venezuela, stai descrivendo un inferno di pestaggi e confessioni firmate in bianco. Piangono di angoscia le amiche di Steyci Brigitte Escalona Mendoza, 31 anni, studentessa di comunicazione e attivista per i diritti umani arrestata l’11 gennaio. "Era tornata per le vacanze di Natale dalla Svizzera, dove si è trasferita per mantenere la famiglia, ed era andata oltre frontiera, in Colombia, a comprare del cibo, come ormai fanno tutti", racconta un’amica della ragazza, che per ragioni di sicurezza chiede di rimanere anonima. Inflazione al 475 per cento, generi di prima necessità come la carta igienica e farmaci di base che mancano, in un Venezuela che nell’ultimo anno ha visto il Pil crollare di 6 punti, per sopravvivere, bisogna passare il confine. Una versione che però non convince chi tiene Steyci rinchiusa in cella. Durante quella gita fatta anche per vedere città lungo la strada come San Cristóbal e Merida, che la ragazza ancora non conosce, c’è anche il deputato Gilber Caro del partito di opposizione Voluntad Popular. "Lei lavora nel suo staff", spiega ancora chi la conosce bene. Passato il confine con la Colombia e rientrati in Venezuela, i due vengono fermati a un checkpoint a Guácara, a oltre cento chilometri dalla capitale. "Li hanno trascinati giù dall’auto e li hanno immediatamente portati in carcere", riferiscono ancora le amiche. Le accuse del Sebin, la temuta polizia politica di Maduro, sono pesantissime: "terrorismo", "detenzione di armi e di esplosivi" e "organizzazione di golpe". "Non ha visto un avvocato per oltre 53 ore e le accuse sono state formalizzate da un tribunale militare senza che si sia ancora svolta l’udienza preliminare che di norma dovrebbe tenersi entro 48 ore dal fermo", spiega al Corriere via telefono Tamara Sujú, avvocata del Foro Penal Venezolano che sta seguendo il caso. Alla detenuta non viene permesso di comunicare con nessuno. Nemmeno con il padre ultra settantenne che l’aspetta a casa. Riesce solo a registrare un audio disperato al telefono in cui, singhiozzando, dice di voler resistere per i diritti del suo Paese. Poi, più niente. "Ora rischia di venir condannata dalla corte marziale", aggiunge Sujú che vive anche lei all’estero per evitare le persecuzioni. A far finire una studentessa di comunicazione nel mirino del regime di Nicolás Maduro è stato il suo sostegno alle campagne per i diritti umani del Venezuela. "Di recente era stata a Bruxelles per consegnare al Parlamento europeo una petizione con cui abbiamo raccolto 5 mila firme", sottolineano gli attivisti della piattaforma Venezuela Somos Todos. Ma non solo. Steyci è anche una sostenitrice di Leopoldo López, altro deputato di Voluntad Popular, in carcere dal febbraio 2014 e condannato a 13 anni con una sentenza che l’ha reso il più noto degli oltre 100 oppositori detenuti nelle carceri venezuelane. Così, mentre l’attenzione sul caso cresce, il suo arresto viene descritto dalla stampa venezuelana come un atto di forza del vicepresidente Tareck El Aissami. Origini siriano-libanesi, El Aissami, fresco di nomina, è l’asso nella manica del presidente Maduro per rafforzarsi dopo che ha perso il controllo del parlamento. Non è un caso infatti che uno dei suoi primi provvedimenti sia stato quello di creare un team anti golpe. Lo stesso squadrone che ha portato in carcere Steyci.