Perché in galera ci vanno sempre i "soliti sospetti" di Luigi Manconi e Stefano Anastasia L’Unità, 18 gennaio 2017 Negli istituti di pena italiani è di nuovo in aumento il numero dei detenuti. Un fenomeno legato all’attività di demagoghi e giustizialisti che agitano i fantasmi dell’insicurezza. Lentamente, ma inesorabilmente, la popolazione detenuta ha ricominciato a crescere. 54.653 persone hanno salutato l’arrivo del nuovo anno da dietro le sbarre di una prigione. 2.500 in più di quante erano nel giorno di San Silvestro del 2015. Non sarà difficile scoprire che questo aumento dei detenuti non corrisponde a una particolare reviviscenza criminale. D’altro canto, gli ultimi dati del Ministero dell’Interno sull’andamento dei reati in Italia, presentati ad agosto scorso, registravano un calo del 7% dei delitti denunciati. Ciò nonostante, gli ingressi in carcere nel 2016 sono aumentati, mentre sono diminuiti gli accessi alle alternative al carcere, e lì dentro restano quasi diecimila persone condannate a meno di tre anni e addirittura ventimila a cui rimangono meno di tre anni da scontare. I detenuti per possesso e spaccio di droghe continuano a essere un terzo del totale, il triplo di quelli implicati in associazioni di stampo mafioso. Cosa sta succedendo, dunque? Succede che, calata l’attenzione e la mobilitazione pubblica e istituzionale, lo scandalo delle condanne europee per il sovraffollamento inumano e degradante, gli imprenditori politici della paura hanno ripreso a soffiare sul fuoco e gli operatori giudiziari, penitenziari e di polizia sono diventati più guardinghi: arrestano più che in passato, scarcerano di meno. Comprensibile, del resto: quegli operatori, che vestano una toga, una divisa o abiti civili, sono in prima fila e sono i primi a finire sul banco degli imputati quando qualcuno evade con il lenzuolo dal carcere di Rebibbia o quando qualcun altro viola gli obblighi della detenzione domiciliare. Sarebbe davvero un gran peccato se una legislatura per molti versi importante segnata dall’impegno alla decarcerizzazione - che in due anni ha ridotto i detenuti di circa diecimila unità - si chiudesse con i dati di un nuovo e ingiustificato sovraffollamento. Sarebbe davvero una beffa per chi, come i ministri Orlando e Cancellieri, il Presidente Napolitano, i radicali di Marco Pannella, le centinaia di associazioni e le migliaia di operatori che hanno in questi anni tenacemente lavorato in senso opposto. Ma non tutto è perduto, anzi. In Senato è all’ordine del giorno una proposta di riforma della giustizia penale che contiene, tra le altre, una delega alla modifica dell’ordinamento penitenziario e all’istituzione di uno nuovo per i minori. Potrebbero finirci dentro gran parte delle proposte maturate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro Orlando. E troverebbero, così, una cornice adeguata le misure non legislative che già oggi potrebbero essere prese dall’Amministrazione penitenziaria. Ma perché il percorso riformatore riprenda il suo slancio occorrono tattica e visione. Bisogna avere il coraggio di sganciare la riforma del penitenziario da quella generale della giustizia, affinché l’una non blocchi l’altra. Ma bisogna avere anche il coraggio di tenere il punto sulle scelte di decarcerizzazione, senza lasciarsi irretire dai fantasmi dell’insicurezza agitati da demagoghi e giustizialisti. Allo stesso tempo bisogna avere il coraggio di sottrarsi alla perversa equazione irregolare uguale criminale uguale terrorista. Se accogliamo la tentazione di rassicurazione le ansie sociali attraverso il ricorso massiccio alla detenzione amministrativa degli irregolari, inevitabilmente anche le carceri si riempiranno dei soliti sospetti. Così, in nome della sicurezza, anche una casa-famiglia per madri condannate con i loro figli - come quella che sta per aprire i battenti a Roma - finirà per essere vissuta come un’insidia al quartiere circostante. Viceversa, se saremo capaci di distinguere il necessario dal superfluo - la giusta pena dalla detenzione generalizzata, la prevenzione dagli abusi - la decarcerizzazione potrà riprendere il suo corso, garantendo i diritti di tutti, degli imputati e dei condannati, dei cittadini e degli operatori penitenziari. Mettiamoli alla prova di Lucia Castellano* L’Unità, 18 gennaio 2017 Le politiche dell’esecuzione penale del nostro Paese sono in fase di profondo cambiamento ed è bene coglierne gli aspetti salienti, provando a comprenderne la sostanza, senza cedere alla tentazione di compiacere l’opinione pubblica con posizioni solo apparentemente rassicuranti. Negli anni 90 e nel primo decennio del nuovo millennio la prospettiva "carcerocentrica" sembrava vincente. Una serie di leggi (la "ex Cirielli" sulla recidiva, la "Fini-Giovanardi" contro la droga, la "Bossi-Fini" sull’immigrazione) avevano portato, riempendo le nostre prigioni, al contenimento penale dell’emarginazione, all’intervento repressivo in sostituzione dell’accompagnamento sociale degli strati più esposti a un destino delinquenziale. Ben presto l’internamento come rimedio alla piccola criminalità bagattellare ha mostrato la propria insostenibilità economica, oltre che l’inefficacia in termini di sicurezza. Dopo la crisi economica del 2008 il sistema non ha più tenuto e l’Italia (come altri Stati) non ha sostenuto questo tipo di politica e ha cambiato rotta. Gradualmente, le leggi in questione sono state dichiarate incostituzionali e abrogate. Si sono succedute, da allora, norme che hanno diminuito i flussi in entrata in carcere e aumentato quelli in uscita, attraverso un massiccio ricorso all’esecuzione penale esterna e alle misure sanzionatone cosiddette "di comunità", in cui la pena viene scontata, ab initio, all’interno del contesto sociale. Nel 2010 il numero di detenuti aveva raggiunto quota 69.000, su una capienza regolamentare di 45.000 posti. Oggi siamo a poco meno di 55mila ospiti. È interessante constatare che la riduzione di oltre 10mila unità non ha comportato, negli ultimi anni, un aumento dei reati e un maggior pericolo sociale. Tuttavia, la percezione di insicurezza continua a crescere. Nel frattempo, la Corte Europea per i diritti umani, nel 2013, con la "sentenza Torreggiani" ha condannato l’Italia per "trattamenti disumani e degradanti" nei confronti dei detenuti e ha obbligato la politica e l’amministrazione a ripensare totalmente anche il proprio modo di irrogare sanzioni, ossia la qualità della pena, in particolare quella detentiva. Si è aperto dunque un doppio fronte riformatore, dentro e fuori dal penitenziario: il sistema retributivo e premiale, che crea adesività al meccanismo premio/punizione e nessuna reale responsabilizzazione rispetto al proprio reato, è gradualmente superato da un internamento che riconosce, per quanto possibile, all’utenza l’esercizio di tutti i diritti compatibili con la mancanza di libertà. Si fa strada, nel nostro ordinamento, l’organizzazione di una vita detentiva costituzionalmente orientata e di una, pur limitata, autodeterminazione del detenuto nella gestione della propria giornata. Non sfugge quanto questa rivoluzione "intra-moenia" sia imprescindibile per costruire una pena, da scontare sul territorio, che sia davvero efficace, che riduca la recidiva, n carcere e il sistema di esecuzione penale esterna devono cambiare insieme, nel segno di quanto ci chiede l’Europa: superare la passività della segregazione, chiedere agli autori di reato di essere protagonisti reali della ricostruzione della propria esistenza, dentro e fuori. La politica del Ministro, che ha voluto, attraverso gli Stati Generali dell’esecuzione penale, riunire le migliori intelligenze del Paese sul tema, sollevando un dibattito mai visto prima, ha tracciato un percorso preciso, nella direzione di risposte punitive esterne al carcere (e, come ultima soluzione, interne ad esso) orientate al riconoscimento dei diritti e della responsabilità degli autori di reato. Con la recente riforma del Ministero della Giustizia il Dipartimento della Giustizia Minorile è diventato anche "di comunità", ossia ha inglobato il settore delle misure alternative per adulti. Il messaggio politico è chiaro: come per i minori, anche nel mondo degli adulti la risposta punitiva primaria non è il carcere, ma la pena scontata sul territorio. L’introduzione della misura della "messa alla prova" anche per gli adulti, nel 2014, ha confermato questa linea, consentendo, agli imputati per un reato che preveda una pena non superiore ai 4 anni, di essere messi alla prova, ancor prima della condanna, e assegnati a lavori di pubblica utilità, da svolgere gratuitamente. Oggi abbiamo 33.873 condannati in misura alternativa alla detenzione e 9012 autori di reato "messi alla prova". È del tutto evidente che i numeri dell’esecuzione penale esterna sono ancora troppo bassi per realizzare davvero l’inversione di tendenza appena descritta. Ed è altrettanto lampante che sia questa la strada da percorrere per realizzare la sicurezza sociale: il tasso di recidiva per chi sconta la sanzione in misura alternativa rispetto a chi termina la propria pena in carcere si riduce dal 69 al 19%. La sfida che attende l’amministrazione della giustizia è oggi quella di costruire sanzioni alternative al carcere con contenuti talmente forti da non essere mai confuse con la mera depenalizzazione. n nuovo Dipartimento è impegnato a costruire un sistema di "probation" di stampo europeo che coordini i servizi territoriali e le agenzie pubbliche e private per offrire, a ogni autore di reato, una sanzione commisurata all’entità della violazione, che non perda i contenuti della pena, ma sia nel contempo efficace per allontanare dalla criminalità. Il primo esperimento che vede, insieme, il settore minorile e quello dell’esecuzione penale esterna riguarda i giovani adulti, ossia i ragazzi minori di 30 anni, detenuti negli istituti di pena del Lazio. Stiamo cercando, per ciascuno di loro, di trovare alternative di studio, lavoro, alloggio, che li sottoponga a una pena che non coincida con l’isolamento carcerario e la conseguente, quotidiana contaminazione con la criminalità degli adulti. Sono 186, ad oggi, questi ragazzi. Un buon numero di esistenze con cui lavorare, per ribaltare l’ingiusta consuetudine per cui solo chi ha già una struttura familiare e sociale, all’esterno, merita di uscire dal carcere. Dobbiamo diventare un’amministrazione che sia davvero regista del cambiamento, insieme agli enti territoriali e alla Magistratura di Sorveglianza. Vincere questa sfida vuol dire costruire sicurezza sociale, per gli incensurati e per i colpevoli (spendendo meno, peraltro). Sarà il caso di provarci, nell’interesse reale del Paese. *Direttore Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità Intervista al ministro Orlando: "il carcere da solo non può bastare a garantire sicurezza" di Massimo Solani L’Unità, 18 gennaio 2017 Il Guardasigilli: "Noi abbiamo deciso di procedere per la strada delle pene alternative, dello studio e del lavoro". "La nostra idea è che occorra usare il carcere laddove strettamente necessario e non come strumento di propaganda ideologica. Però al tempo stesso occorre pensare e realizzare un ordinamento penitenziario che abbia caratteristiche completamente diverse. Dire carcere e basta non è sufficiente a garantire la sicurezza, anzi rischia persino di essere controproducente". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando su questo tema ha idee chiare e condivise da quasi tutti gli "agenti" che si occupano di esecuzione penale. Dalle associazioni ai magistrati, dai sindacati di polizia penitenziaria alle camere penali. "Perché questo è l’unico modo - dice - per avere un carcere utile e non una semplice parentesi fra attività di carattere illegale, rappresentando in alcuni casi addirittura un salto di qualità criminale". Dopo le misure che negli anni scorsi hanno permesso di migliorare la situazione del sovraffollamento dei nostri istituti di pena e uscire così dal regime sanzionarono dell’Unione Europea, ora i numeri segnalano un nuovo progressivo aumento della popolazione carceraria. Cosa sta succedendo? "L’aumento è dovuto alla crescita significativa degli accessi nelle strutture carcerarie legata ad una forte attività di contrasto della criminalità delle forze di polizia. Però va segnalato che il sistema ha tenuto. Essenzialmente per tre ragioni: l’aumento del ricorso alle pene alternative, quello del numero dei detenuti tossicodipendenti affidati alle comunità e quello dei posti disponibili. I detenuti sono di più ma sono di più anche posti disponibili nelle strutture: nel 2013 erano 45mila, oggi sono 50.200 e aumenteranno di ulteriori 800 unità nei prossimi mesi arrivando così a quota 51mila con un numero di detenuti che si è più o meno assestato sui 54mila contro i 65mila del 2013". Nessun allarme, quindi? "In definitiva possiamo dire che se è vero che esiste un trend di crescita nel numero dei reclusi è altrettanto vero che questa tendenza non mette a rischio la tenuta del sistema. Occorre però anche ammettere che pur avendo oggettivamente migliorato le condizioni generali, a fronte di un aumento costante degli accessi non abbiamo raggiunto il punto di equilibrio a cui invece puntiamo ad arrivare innalzando il numero dei posti negli istituti, aumentando il numero dei detenuti tossicodipendenti affidati alle strutture riabilitative, perseguendo con determinazione l’attività di rimpatrio dei reclusi stranieri e lavorando all’utilizzo delle colonie agricole". La delega per la modifica dell’ordinamento penitenziario è ferma da qualche mese, assieme alla riforma della Giustizia, al Senato. A cosa aspirano le nuove norme? "Il nostro proposito è di insistere sulla forte accentuazione del carattere riabilitativo della pena. Non solo per aderire al dettame costituzionale ma anche come strumento per realizzare sicurezza. Abbiamo un sistema penale che costa ogni anno ai contribuenti 3 miliardi di euro eppure siamo costretti a registrare tassi di recidiva fra i più alti d’Europa. Il nostro obiettivo è di procedere per garantire una vera attività trattamentale che guardi non solo al momento dell’accesso negli istituti ma anche e soprattutto a quello dell’uscita. E la chiave di volta di questo ragionamento è la personalizzazione del trattamento, perché noi oggi abbiamo un carcere che tratta detenuti con profili diversi tutti allo stesso modo. E in questo maniera non riusciamo sempre a ottenere risultati seri in fatto di riabilitazione. Invece dobbiamo lavorare sul fronte della personalizzazione, aumentando la responsabilizzazione del detenuto e garantendo così l’accesso ai benefici in base ai comportamenti positivi tenuti nel corso dell’esecuzione della pena. Penso al lavoro o allo studio, ad esempio. Il sistema oggi, invece, produce una infantilizzazione che deresponsabilizza il detenuto e non produce effetti accettabili sulla riabilitazione". Ha parlato di recidiva. I numeri dimostrano che i detenuti che lavorano hanno tassi di ritorno al crimine decisamente più bassi (meno del 10% contro il 67% circa), eppure i numeri dei detenuti impiegati è ancora molto basso, specie di quelli che lavorano fuori dagli istituti. "Lavorare nel corso dell’esecuzione della pena non solo consente di scontarla in modo più produttivo e quindi finalizzato alla riabilitazione ma consente inoltre al detenuto di acquisire competenze professionali che gli permettono, una volta uscito, di non ricadere nella spirale delinquenziale. Il numero dei detenuti lavoratori in questi anni è aumentato costantemente, tuttavia non possiamo ancora essere soddisfatti. Per questo stiamo portando avanti un piano per il recupero delle colonie agricole e nei prossimi giorni ne vareremo uno per le case lavoro. Al momento è allo studio la creazione di una struttura che si occupi di procacciare lavoro e di distribuirlo all’interno degli istituti. Poi, con l’attuazione della legge Smuraglia, abbiamo creato delle condizioni di vantaggio per chi impiega detenuti". Il tema del lavoro dei detenuti, assieme a quello delle pene alternative, si scontra però spesso con un’opinione pubblica che su questi temi è ancora troppo spesso legata a concezioni legalitarie sbagliate quando non controproducenti. "Per molti anni si è raccontato che il carcere fosse lo strumento con il quale si realizzava sicurezza e nonostante i fatti abbiano dimostrato che la detenzione da sola non basta si è comunque continuato su questa strada. Noi invece ne abbiamo scelta un’altra che non passa per i "piani carcere" e un incremento esponenziale dei posti disponibili. Noi abbiamo deciso di procedere per la strada delle pene alternative, delle comunità come luogo in cui i tossicodipendenti possano scontare la propria pena, dell’incremento del lavoro dietro alle sbarre e dello studio. Per quest’ultimo strumento lo scorso anno abbiamo firmato un protocollo con il Miur che aumenta le possibilità di accesso all’istruzione superiore e all’università da parte dei detenuti". È di questi ultimi mesi l’allarme sulla radicalizzazione islamica in cella. Cosa sta facendo il ministero e l’amministrazione penitenziaria per affrontare questo pericolo? "Va detto innanzitutto che a quanto ci consta questo è un fenomeno ancora in fase incipiente e comunque non comparabile rispetto a quanto avviene in altri paesi europei. Però, nonostante questo, noi abbiamo deciso in ogni caso di mettere in campo da subito le misure necessarie a partire da un dettagliato monitoraggio. Posso dire che in questo momento abbiamo E quadro esatto del fenomeno e dei comportamenti delle persone che hanno dato segnali, anche marginali, di comportamenti che a nostro avviso vanno classificati e seguiti. Però contemporaneamente ci siamo spesi per garantire l’accesso al culto in modo da togliere qualunque pretesto ai predicatori d’odio. Per questo, ad esempio, abbiamo di recente firmato un accordo con l’Unione delle comunità islamiche e lo stesso faremo con altri soggetti che sono in grado di garantire la predicazione nelle carceri. Nel frattempo stiamo lavorando con l’università di Padova per emanare delle linee guida sulla de-radicalizzazione. Pensiamo che questo rappresenti un importante salto di qualità: una volta individuato il detenuto potenzialmente a rischio studiamo il modo per intervenire a livello culturale e psicologico in modo da spezzare il meccanismo di radicalizzazione ed evitare che il soggetto diventi una cellula di contaminazione rispetto al resto della comunità dei detenuti e fuori dal carcere". Il caso Amri e qualche idea per evitare il pericolo radicalizzazione nelle carceri di Alfredo Mantovano Il Foglio, 18 gennaio 2017 Ancora una volta prendo le mosse da Anis Amri. Un segmento della sua storia incrocia l’Italia: prima ancora della collocazione in un Cie, dal quale viene rimesso in libertà con un decreto di espulsione non eseguito, Amri trascorre qualche anno in carcere, la Polizia penitenziaria ne osserva il comportamento e lo segnala al nostro sistema di sicurezza. Non è bastato, per carenze che riguardano il nostro meccanismo delle espulsioni e la trattazione di questo tipo di segnalazioni da parte di altri stati europei, in primis la Germania. L’attuale ministro dell’Interno sta muovendo passi importanti nella direzione di rendere effettive le espulsioni. Ma si sono anche moltiplicati i reportage sui rischi del reclutamento jihadista nelle carceri, partendo dai casi concreti finora emersi. Che cosa possiamo fare di meglio e di più per circoscrivere quest’area di pericolo? Intanto descrivere l’entità del fenomeno: al 31 dicembre 2016 su un totale di 54.653 detenuti nei penitenziari italiani, ben 18.621 erano stranieri. La ripartizione per stati di provenienza vede al primo posto i cittadini del Marocco, 3.283, poi della Romania, 2.720, dell’Albania, 2.429, della Tunisia, 1.998, dell’Egitto, 705, dell’Algeria, 408. Per religione dominante, provengono da aree islamiche oltre 12.000 reclusi. La stima dei musulmani praticanti è di circa 8.000, quelli sottoposti a osservazione sono quasi 400, con differenti livelli di radicalizzazione: da chi manifesta scarsi indicatori esterni a chi fa individuare un profilo più deciso, a chi - era il caso di Amri - compie atti che non lasciano spazio a equivoci, come gioire alla notizia di attentati nei confronti di "infedeli". Colpiscono l’entità del numero e la potenzialità diffusiva. Queste cifre si possono abbattere? Gli stati che appartengono all’Ue condividono una normativa comunitaria che permette - a determinate condizioni - il trasferimento del detenuto nel carcere della nazione di provenienza. Con gli stati extra Ue esistono dei trattati bilaterali: alcuni prevedono questa possibilità - è il caso dell’Albania - altri no. È un terreno di obbligatoria intensificazione del lavoro del governo nazionale, chiamato a orientarsi anzitutto verso le nazioni con prevalenza musulmana: se nel giro di poco i detenuti marocchini, tunisini, egiziani e algerini proseguissero l’espiazione della pena ricevuta in Italia negli stati di provenienza, il livello di rischio del nostro circuito penitenziario calerebbe in modo significativo. Quali sono gli ostacoli? Intanto la notevole difficoltà a stringere e a rendere operativi gli accordi bilaterali: concludere un accordo non significa che poi funzioni realmente, se nel termine "funzionamento" rientrano tempi accettabili; non serve a nulla la decisione di un giudice tunisino di riconoscimento della sentenza di un giudice italiano a espiazione di pena conclusa, o quasi. Altri ostacoli. Anzitutto la giurisprudenza della Corte europea dei diritti, che da tempo autorizza il trasferimento di detenuti da uno Stato europeo ad altro stato solo a condizione che quest’ultimo garantisca un trattamento non qualificabile come inumano; nella categoria "dell’inumano" vi è pure uno spazio minimo per detenuto inferiore a 3 mq. In Italia la Cassazione rende più rigida questa previsione, perché calcola i 3 mq al netto di suppellettili o di oggetti in realtà collocati nella cella a vantaggio del recluso. Con un orientamento del genere, non sancito da norme europee ma elaborato per via di interpretazione, riesce già difficile il trasferimento del detenuto all’interno dell’Ue: la Romania, l’Ungheria e perfino l’Italia per questo hanno ricevuto richiami dalla Corte Edu; figuriamoci verso stati al di fuori dell’Ue. Evocare una Guantánamo europea può servire a provocare una discussione, ma quello sintetizzato - piaccia o no - è il quadro giuridico nel quale siamo inseriti. Quando nelle istituzioni europee si discute di prevenzione del terrorismo, è ormai ineludibile valutare con serietà e in fretta se quest’equilibrio fra sicurezza e garanzie soddisfa veramente; e quindi chiedersi se fra Guantánamo e la situazione attuale c’è una via intermedia efficace e realistica; se, per esempio, è più "inumano" che un detenuto occupi una cella di 2,8 mq netti o che 12 persone siano uccise in un mercatino natalizio. Nel frattempo l’Italia - adusa a fare da sé -non ha alternative alla complicata strada degli accordi, accompagnata da qualche sostegno finanziario per realizzare negli Stati di trasferimento dei detenuti strutture carcerarie più vicine a standard civili. In più. Perché mai uno straniero che termina l’espiazione di una pena e va espulso deve transitare in un Cie? Come mai l’essere stato in carcere ne ha impedito la certa identificazione? Accade perché, pur potendosi oggi utilizzare il profilo del dna per l’accertamento dell’identità, i tecnici disponibili nel nostro circuito penitenziario sono pochi e non ce la fanno. Accade perché si attende la conclusione della detenzione per attivare i contatti con gli stati di provenienza, cui inviare i soggetti da espellere. Non è un problema di norme, ma di risorse finanziarie da incrementare e di azione di governo da rendere più coordinata. Nelle nostre strutture penitenziarie si sta intensificando il lavoro di formazione degli operatori per una conoscenza più adeguata del modo di pensare dei sospetti terroristi e della lingua che parlano. Pure questo esige "a regime" professionalità e investimenti. È ovvio che si parla solo di un segmento del problema. La voce carcere non va enfatizzata come se fosse esclusiva: nelle storie di soggetti pronti a compiere atti di terrorismo oltre ai contatti in carcere sono emersi la frequentazione di alcune moschee e di alcuni centri culturali islamici. Il nostro sistema non è all’anno zero: ma la vicenda Amri conferma che ogni lacuna, grande o piccola, può avere esiti letali. "Corsi di pluralismo religioso per i detenuti" di Alberto Giannoni Il Giornale, 18 gennaio 2017 La proposta arriva dalla Comunità ebraica di Milano e testimonia che finalmente qualcosa si muove. Il problema del fanatismo nelle carceri, certamente, è ben presente a chi, come gli ebrei, rischia di viverlo sulla propria pelle. È grave e attuale, infatti, il rischio che i "cattivi maestri" possano infiltrarsi nei penitenziari italiani, completando il lavaggio del cervello di soggetti particolarmente deboli o predisposti alla violenza (lo dimostra l’esultanza con cui, negli istituti di pena, vengono accolte spesso le orrende "imprese" del cosiddetto "Stato islamico", o di terroristi che ad esso si ispirano). Ed è stato dedicato anche alla minaccia del fondamentalismo, l’incontro di ieri nella sinagoga fra l’arcivescovo Angelo Scola, il rabbino Alfonso Arbib e i vertici della comunità ebraica, in occasione della giornata per lo sviluppo del dialogo fra cristiani ed ebrei. "Nella nostra Milano, metropoli plurale - ha detto Scola - la comunità ebraica e quelle cristiane sono, a mio avviso, chiamate ad un compito profetico. Quello di essere un terreno fecondo in cui possa mettere radici e svilupparsi l’incontro e il confronto tra i membri di tutte le religioni, a partire dagli altri figli di Abramo, i musulmani". Hanno pregato insieme, il rabbino e il cardinale, nel corso della visita al tempio di via Della Guastalla, una visita che è già storica (è la prima per l’attuale vescovo della Chiesa ambrosiana). Era presente anche l’imam Yahya Pallavicini, leader della Coreis di via Meda e voce di un islam italiano dialogante e illuminato. Il vice presidente delle Comunità ebraiche italiane Giorgio Mortara, ha dato il benvenuto all’arcivescovo, parlando di un "percorso di comprensione e fiducia reciproca" che "in questa fase storica molto complessa, in cui intolleranze e radicalismi religiosi minacciano non solo la libertà di culto, ma la vita di milioni di persone, assume un valore ancor più significativo di lotta comune contro chi fomenta e istiga all’odio". Ha citato le molte iniziative condivise e fra queste un corso organizzato per il personale addetto alle carceri e svolto sotto l’egida della Curia, del rabbinato e della Coreis, per promuovere "azioni e interventi multiculturali-spirituali a supporto dell’attività di assistenza penitenziaria". "Ottimo esempio di collaborazione - ha commentato l’assessore alla Cultura della comunità milanese, Davide Romano - aggiungo solo che in tempi di fanatismo, dal momento in cui sappiamo che la maggior parte dei terroristi islamici viene indottrinato in carcere, sarebbe opportuno che insieme ci facessimo sentire di più dalle autorità perché ci permettano di lavorare non solo sul personale del carcere, ma anche e soprattutto sui detenuti". "Per salvare noi, e per salvare anche loro" ha concluso Romano. Sbai (Ucoii): "ecco come si riconosce il radicalizzato in carcere" di Daniele Gargagliano ofcs.report, 18 gennaio 2017 "Insegno alla Polizia penitenziaria quali sono gli atteggiamenti a rischio". "Il problema linguistico nelle carceri esiste ma la vera sfida è formare gli imam a consigliare i detenuti a rischio radicalizzazione". Youssef Sbai, co-fondatore ed ex vicepresidente nazionale dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucoii), la sua docenza di islamologia alla scuola di Polizia penitenziaria ha generato delle critiche da parte del sindacato Sappe, che ritiene prioritario lo studio delle lingue straniere. Il problema della lingua è reale? "Mi preme specificare che il corso, attivo da un anno, è rivolto non solo agli agenti ma anche agli psicologi ed educatori. Sono d’accordo il problema è linguistico. Ma bisogna capire quale arabo insegnare. Se quello parlato dai detenuti marocchini, egiziani o siriani. I carcerati provenienti dal Medioriente parlano ad esempio un arabo molto vicino a quello classico, mentre i nordafricani si esprimono con dei dialetti che sono un miscuglio di arabo berbero e parole francesi, spagnole o addirittura inglesi. Se un agente imparasse la lingua araba classica non riuscirebbe a comprendere quanto detto da un detenuto marocchino". Quindi è d’accordo che c’è un problema linguistico? "Certo. Gli imam che si sono autoproclamati in carcere parlano la stessa lingua dei detenuti e possono quindi trasmettergli un messaggio religioso scorretto, magari disapprovato dalle stesse comunità musulmane. Ciò avviene perché non è verificabile se lo stesso discorso fatto in italiano corrisponda a quanto detto in lingua araba". Si potrebbe quindi diversificare l’insegnamento dell’arabo a seconda della peculiarità di chi lo parla? "La formazione linguistica dovrebbe essere specifica, quindi non basata solo sull’arabo classico. Si potrebbero organizzare dei corsi di arabo per gli agenti in funzione dei paesi di origine dei reclusi. Il contesto linguistico in ogni caso è molto più complesso del conoscere l’Islam e la sua cultura. Se pensiamo anche ad altre etnie, come quella pakistana o bengalese, presenti nelle carceri italiane". Come garantire questa trasparenza linguistica? "L’unico modo per garantire che non ci sia un’opera di indottrinamento sbagliato è assicurare la presenza di imam accreditati. Questi devono arrivare quindi solo da fuori gli istituti di pena. Ma bisogna anche formarli in modo che svolgano un ruolo delicato, diverso da quello di un ministro di culto in una qualsiasi moschea. Un profilo che guidi e sostenga i detenuti praticanti quando si palesano i primi segnali di disagio psicologico o d’inadeguatezza". Cosa prevede il suo programma di docenza. Come si forma un agente a riconoscere possibili atteggiamenti di estremismo nel detenuto? "La mia docenza nelle scuole di Polizia penitenziaria è inserita in un corso di aggiornamento molto più ampio. Noi stiamo costruendo una base di conoscenze in merito alle pratiche religiose e a certi aspetti culturali dei paesi di provenienza dei detenuti, in particolar modo i nordafricani. Nello specifico insegno quali sono i comportamenti non consentiti dalla religione musulmana affinché gli agenti possano avere un bagaglio culturale utile a comprendere le abitudini del detenuto senza bisogno di chiedere nulla. Ad esempio se un recluso prega a un orario e l’altro no". Come si identifica un estremista e radicalizzato? "È un percorso lungo e complesso. Il mio è uno studio accademico che si basa sulla ricerca fatta dal professor Khalid Razzali dell’Università di Padova. Ci sono quattro o cinque fasi che non sempre vengono rispettate in toto. Di solito si comincia con un disturbo psicologico-sociale del detenuto, difficile da decifrare, che può essere raccolto e utilizzato da un altro soggetto già radicalizzato che lo trascina a sé. I primi segnali arrivano quando inizia l’indottrinamento ma non esiste una frontiera netta tra una pratica religiosa innocua e una deviante". Cosa preoccupa di più gli agenti di sorveglianza? "Quando il detenuto riprende a pregare dopo tanti anni. Oppure se un soggetto, che prima si rapportava con tutti, dopo un lasso di tempo decide di interagire solo con un gruppo di praticanti islamici. Sono delle indicazioni che vanno verificate, ma non è detto che ci sia poi un effettivo pericolo". Nella sua esperienza di volontario nelle carceri ha incontrato detenuti a rischio radicalizzazione? "Sono stato in istituti piccoli del nord Italia e non ho trovato fenomeni di questo tipo. Anzi segnalo il caso di Bologna, dove due anni fa è stato realizzato un progetto sui diritti rivolto ai detenuti arabi e musulmani. Un altro esempio di come si possono prevenire fenomeni di deviazione". Prevede che anche in Italia possa aumentare il rischio di radicalizzazione tra i giovani musulmani? "Il rischio c’è. Lo hanno già detto i vertici istituzionali del Paese. Dobbiamo essere tutti attenti e partecipi. Genitori, professionisti, imam, guide religiose e lo stesso corpo della Polizia penitenziaria, che ringrazio per la professionalità e la sensibilità con le quali lavora nel contrastare il fenomeno di radicalizzazione all’interno delle carceri. Siamo tutti chiamati a non lasciare spazio alla cultura dell’odio". Capece (Sappe): la Polizia penitenziaria non ha bisogno di studiare Islam di Daniele Gargagliano ofcs.report, 18 gennaio 2017 "Servono corsi di lingua straniera: in primis l’arabo poi il francese e l’inglese". "La Polizia penitenziaria non ha bisogno di conoscere l’Islam anche perché noi siamo cristiani e orgogliosi di esserlo". Donato Capece, segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria (Sappe), perché è contrario alla nomina da parte del ministero della Giustizia di Youssef Sbai, ex vice presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, come docente di islamologia nelle scuole italiane di Polizia penitenziaria? "Innanzitutto abbiamo bisogno di corsi di lingua straniera: in primis l’arabo poi il francese (molto parlato dai nordafricani) e l’inglese. Solo comprendendo la lingua riusciremo a impedire o reprimere i reati commessi da questi soggetti. Servono anche dei tavoli strategici di analisi in funzione antiterrorismo attraverso i quali formare gli agenti a osservare, intervenire e poi riferire alle autorità. Il tutto in un’ottica di contrasto alla radicalizzazione e prevenzione non tanto dentro il carcere ma rivolta a quando questi individui ne usciranno, diventando dei potenziali terroristi. Sono queste le priorità. Poi se un agente vuole conoscere meglio l’Islam si rechi nei luoghi di culto a esso dedicati". Non crede che una maggiore conoscenza della religione islamica possa quanto meno aiutare gli agenti a individuare un comportamento poco chiaro se non deviante da parte del detenuto? "Non cambierebbe le cose. Piuttosto Sbai si dedichi a formare gli autoproclamati imam che animano le carceri italiane. Sono 150 i capi religiosi abusivi presenti negli istituti penitenziari su un totale di 11mila detenuti di fede islamica. A oggi risultano 170 soggetti posti sotto attenzione e sorveglianza 24 ore su 24. A questi se ne aggiungono altri 200 seguiti non in maniera continuativa e 278 sono stati sorvegliati prima dell’avvenuta scarcerazione. Una volta usciti dal carcere 35 di loro sono stati sottoposti a provvedimenti amministrativi di espulsione per legami con ideologie jihadiste. Sono numeri che devono far riflettere". Il carcere di Rossano in Calabria è noto per aver ospitato negli anni numerosi terroristi al suo interno. Quanti sono i detenuti ritenuti vicini a posizioni jihadiste? "A Rossano i soggetti a rischio vengono isolati in sezioni ad hoc dove opera personale specializzato per svolgere questo tipo di controlli. Nell’istituto ci sono nove detenuti radicalizzati sotto il controllo costante della Polizia penitenziaria. Il fenomeno è sia circoscritto che isolato così da non creare proselitismo all’interno della struttura. Anche perché quattro di questi carcerati esultarono dopo gli attentati di Parigi e sono ancora pienamente convinti della propria idea". Come Sappe avete denunciato nel carcere Spini di Gardolo a Trento grosse carenze di organico. Ci sono altri istituti di pena che presentano tali criticità? "Trento è solo uno dei tanti dove manca personale di Polizia penitenziaria. Sicuramente possiamo considerare anche altri casi come quello di Rebibbia a Roma, Poggioreale a Napoli o ancora quello di Padova: sono quasi tutti con personale sottodimensionato. Rispetto ai 45.000 agenti previsti nel piano nazionale del 2001 oggi abbiamo 37.000 agenti in servizio. Quindi c’è una carenza di circa 8.000 unità. I nostri agenti lavorano sotto i livelli non medi ma minimi di sicurezza con turni straordinari che vanno dalle 40 alle 60 ore mensili. Spesso gli straordinari non vengono neanche retribuiti". Quali altre proposte avete messo in campo per una migliore osservazione e gestione dei detenuti a rischio radicalizzazione nelle carceri? "Ho chiesto al Ministro di inserire nei futuri bandi dei posti riservati ai giovani, figli di terza generazione, che conoscono l’arabo. La questione è molto seria, se questi detenuti non vengono intercettati e radicalizzati saranno i terroristi del domani". Cannabis e tortura: i due nodi più urgenti da sciogliere di Federica Resta (Giurista) L’Unità, 18 gennaio 2017 Dall’inizio della legislatura sono diversi i progetti di legge, in materia di giustizia e diritti, di cui le Camere hanno iniziato l’esame, senza concluderlo. Per alcuni di questi può forse sperarsi, alla riapertura dei lavori, un esito diverso. Così per la disciplina dell’uso della cannabis, rinviata dall’Aula della Camera in Commissione, per divergenze all’interno della maggioranza. L’esame dovrebbe ora riprendere in comitato ristretto, forse estendendosi - come previsto da alcune proposte ora abbinate - alla revisione del sistema sanzionatorio complessivo e all’introduzione di un regime autorizzatorio, che garantisca la qualità delle varie sostanze. Combinando depenalizzazione delle condotte prive di offensività e legalizzazione, in un’ottica di riduzione del danno, si realizzerebbe un congruo equilibrio tra istanze dissuasive e l’esigenza di evitare il commercio illegale degli stupefacenti, prodotto dal proibizionismo. Tra i temi cui il Governo dovrebbe assegnare priorità vi è poi la tortura, disciplinata da un disegno di legge fermo al Senato, in un testo addirittura peggiorato nel corso del suo esame. Il reato introdotto -configurato come comune (dunque realizzabile da chiunque) e non "proprio" dei pubblici agenti - non coglie la caratteristica fondamentale della tortura, che si radica su un rapporto non già tra pari, ma tra il cittadino e l’autorità che ne assume la custodia, con la disparità di potere che ne deriva. Inoltre la molteplicità dei requisiti, progressivamente aggiunti per l’integrazione della fattispecie (reiterazione delle violenze e minacce inferte, verificabilità del trauma psichico prodotto, crudeltà sottesa all’azione), disegnano un reato affetto da "gigantismo", che cioè assai difficilmente sarà possibile accertare. Spiace dunque che, nell’adempiere (sempre che ci riescano) all’unico obbligo di tutela penale sancito in Costituzione (rispetto a ogni "violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà"), peraltro con così grave ritardo, le Camere adottino un testo tanto insufficiente. Dovrebbe poi riprendere, sempre al Senato, l’esame - sospeso a settembre - del disegno di legge per la riforma del processo penale. Esso contiene tra l’altro una delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, tesa a valorizzare la funzione di reinserimento sociale della pena (anche mediante il lavoro, l’affettività, l’attività riparatoria), ampliando il ricorso a misure alternative e benefici penitenziari, riducendo anche le presunzioni di pericolosità a ciò ostative. Esso contiene anche una riforma della disciplina degli autori di reato infermi di mente, in favore di misure di cura o controllo modulate sulle necessità terapeutiche e sul principio del favor libertatis. Infine, è calendarizzato in Commissione giustizia del Senato l’esame dei disegni di legge per la concessione di amnistia e indulto, il cui iter si era interrotto anche in vista del referendum sulla riforma costituzionale, che avrebbe riservato alla sola Camera la competenza su tale materia. Minori assassini, il carcere e non solo per il loro recupero di Ennio Fortuna Il Gazzettino, 18 gennaio 2017 Mi ha colpito molto l’avvertimento di uno psichiatra esperto in malattie mentali dell’adolescenza: non metteteli in carcere, evitate ogni forma di privazione della libertà, se comporta la detenzione in comune con altri autori di delitti! Se lo fate, vi assumete la responsabilità di un fallimento. Può darsi benissimo che l’esperto abbia ragione, la custodia in un luogo di detenzione potrebbe peggiorare le cose e i due ragazzi assassini di Pontelangorino (Ferrara) potrebbero perdere ogni contatto con la realtà e con le esigenze dell’educazione. Ma allora che fare? È questa la domanda che tutti si pongono dopo fatti terribili come questo, e che vedono protagonisti degli adolescenti. Lo stesso esperto già ricordato si guarda bene dall’indicare un rimedio specifico, trincerandosi dietro la mancanza di approfondita conoscenza dei meccanismi mentali alla base del crimine. Per conto mio ho riguardato i codici sperando di trovarvi un suggerimento, una risposta adeguata a ciò che appare e forse è incomprensibile. Purtroppo ricordavo benissimo, il nostro ordinamento suggerisce il carcere (se il minore è imputabile), il riformatorio giudiziario, la libertà vigilata. Ovviamente parlo delle misure definitive, conseguenti alle condanne, perché durante il processo il giudice dispone di maggiore discrezionalità. Altro non c’è, e dal punto di vista del giudice, tutto sommato, la scelta è semplice e doverosa: di fronte ad un massacro tanto terribile - l’uccisione dei genitori di uno dei ragazzi - la nostra legge risponde con il carcere, e se l’accusato presenta deficit di volontà o di conoscenza, con il riformatorio, proprio il rimedio che la psichiatria consiglia di evitare. Non prendo neppure in considerazione la libertà vigilata perché non immediatamente applicabile e perché difficilmente potrebbe servire in un caso come questo (gli affidatari dovrebbero essere soprattutto i genitori e cioè proprio le vittime). E allora? Verosimilmente il nostro ordinamento è assai indietro rispetto alle esigenze di rieducazione, e non si dica che casi come questo una volta non si verificavano talché risulterebbe spiegabile la lacuna. In effetti massacri intra-familiari come questo sono sempre accaduti. Ricordo che quando ero bambino a Bari si verificò un massacro che presentava molte analogie con quello del ferrarese, e anche allora il giudice reagì con il carcere anche se non sono in grado di dire se la misura adottata si sia rivelata efficace o no. Probabilmente dovrebbe essere escogitata una misura correzionale definitiva di altro genere che però non solo l’ordinamento penitenziario ma neppure la psichiatria e la psicologia sembrano ancora in grado di indicare. Dopo tutto, almeno, il carcere o il riformatorio con la privazione della libertà degli autori rappresentano un rimedio in grado di incutere timore e quindi di indurre i potenziali criminali ad astenersi dal progetto. Non è moltissimo come terapia individuale, ma è almeno qualcosa di positivo sotto il profilo della prevenzione generale ciò che non è mai da sottovalutare. Credo fermamente che la psichiatria e la psicologia dell’adolescenza dovrebbero approfondire casi come questi fino a suggerire ai giuristi rimedi appropriati sul piano generale e sul piano individuale. Non è detto che sia impossibile escogitare qualche misura di nuovo conio oppure adattare a pene definitive taluni provvedimenti adottabili nel corso del procedimento, tanto più che le indicate discipline potrebbero e forse dovrebbero occuparsi più di quanto già facciano dei problemi di educazione di competenza della famiglia, altro campo importante e spesso decisivo per il controllo delle devianze infantili e dell’adolescenza. Nell’attesa non credo sia positivo sconsigliare decisamente la detenzione e il controllo personale del minore. Servirà a poco e certamente è pericoloso, ma in mancanza di altro è, allo stato, l’unico rimedio possibile non solo sotto il profilo legale ma anche sotto l’aspetto psicologico. Non fosse altro per il profilo di prevenzione generale che si è già sottolineato. Sicurezza, poteri ai sindaci: Daspo contro gli spacciatori di Cristiana Mangani Il Messaggero, 18 gennaio 2017 Oggi le misure del ministero dell’Interno. Cortei e movida molesta, previste zone rosse. Pronta anche la stretta sui clandestini: rimpatri ed espulsioni più veloci dai Cie. Immigrazioni e sicurezza urbana, sono due i binari sui quali viaggia il pacchetto di misure che verranno illustrate oggi dal ministro Marco Minniti, in Commissione affari costituzionali. Sempre che il responsabile dell’Interno sia riuscito a riprendersi da una brutta influenza che lo ha costretto a saltare il viaggio a Berlino. Strategico il ruolo dei sindaci ai quali verrà assegnato maggiore potere di ordinanza: potranno definire una sorta di "zone rosse", luoghi dove non è consentito l’accattonaggio, ma anche lo spaccio incontrollato, la presenza di posteggiatori abusivi, la movida "molesta". Tutto ciò, insomma, che riguardi il decoro e la sicurezza dei cittadini. L’ipotesi è che si proceda, nel caso dell’immigrazione, con un decreto legge, e lo stesso percorso dovrebbero seguire le nuove "regole" sul decoro urbano. Il piano, che ricalca quello approntato durante il ministero di Angelino Alfano, prevede interventi mirati contro spacciatori, anche minorenni, writers e mendicanti. Proposte ispirate in gran parte alle bozze circolate in questi mesi e, già discusse dall’Anci, anche con i sindacati di polizia. Obiettivo principale è garantire la vivibilità e la sicurezza dei cittadini in una serie di luoghi diventati problematici. Come le grandi stazioni dove convivono degrado, sofferenza, e rischi. Se fino a oggi la sicurezza urbana era completamente affidata a prefetto e questore, con il nuovo testo i sindaci avranno il potere di firmare ordinanze in materia di sicurezza. Poteri che includerebbero la possibilità di creare aree a "tolleranza zero" anche contro la prostituzione e il divieto ai cortei nel centro storico. Si rafforzano poi i poteri affidati al questore con la possibilità di punire con il cosiddetto "daspo urbano" i presunti responsabili di reati con forte impatto sociale. I denunciati per spaccio di sostanze stupefacenti, a esempio, anche minorenni, potranno subire il divieto di frequentare determinate zone, locali, scuole, per un massimo di cinque anni. Chi sgarra finisce in carcere. Più in generale, il testo prevede l’inasprimento delle pene per il furto in abitazione, lo scippo, il deturpamento e l’imbrattamento. Per rapine e furti, le pene potrebbero aumentare di un anno rispetto a quanto previsto attualmente (per il furto semplice oggi si va da sei mesi a tre anni). Sanzione a due anni per il furto in appartamento. Destinato a far discutere è l’introduzione di un nuovo reato per chi "tenga condotte lesive del decoro urbano" (ubriachi molesti, commercianti abusivi, accattoni e tossicodipendenti): la punizione sarà una multa da 300 a 900 euro. Infine, una ulteriore stretta potrebbe riguardare le manifestazioni politiche e sindacali. Oltre alla possibilità di vietare i cortei in centro attribuita ai sindaci, sarà punito con il carcere da due a cinque anni chi, presente al corteo, indossi caschi protettivi, lanci razzi o abbia bastoni o armi. Sempre oggi, il ministro illustrerà la parte del piano che riguarda l’immigrazione. Tra le priorità rimpatri, espulsioni e, allo stesso tempo integrazione. Il progetto è di riaprire i Cie e di introdurre tra i requisiti per accedere allo status di rifugiato la partecipazione ad attività lavorative socialmente utili. Ancora sul fronte immigrati sta per partire la distribuzione ai Comuni del bonus di 500 euro per ogni richiedente asilo ospitato, come prevede il decreto fiscale che stanzia complessivamente 100 milioni di euro. Si tratta, ha detto il sindaco di Prato e delegato Anci all’Immigrazione, Matteo Biffoni, di "un segno di attenzione che il governo Renzi ha dato ai sindaci, che ogni giorno si assumono la responsabilità della gestione di un fenomeno complesso. Un contributo una tantum, certo, ma sicuramente il primo atto tangibile". Le somme spettanti sono assegnate calcolando le presenze, anche di minori stranieri non accompagnati, in tutte le diverse tipologie di centri di accoglienza (centri di prima accoglienza, strutture temporanee e Sprar) alla data del 24 ottobre scorso. Risorse aggiuntive vengono riconosciute ai Comuni sede di porti di sbarco e di hotspot. Il contributo ha l’obiettivo di incentivare i Comuni "accoglienti", che sono solo un terzo del totale. Risorse maggiori a Roma, Torino e Milano, visto che nei grandi centri si registrano le presenze più alte di richiedenti asilo. Viminale e Anci puntano ad un’equa distribuzione, coinvolgendo il maggior numero di centri possibile in progetti di ospitalità, privilegiando la rete Sprar. Per i sindaci che non aderiscono, c’è il rischio di vedersi imporre presenze di stranieri da parte dei prefetti. E se il 2016 è stato l’anno record con 181.436 sbarchi, il 2017 è iniziato sulla stessa linea, anzi. Nei primi 17 giorni dell’anno, secondo i dati del Viminale, sono giunte via mare 2.397 persone, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2016, quando gli arrivi erano stati 1.073. Il ministro Orlando: con la riforma del civile arretrato dimezzato di Cristiana Mangani Il Messaggero, 18 gennaio 2017 Pendenze dimezzate nel processo civile, ma riforma penale al palo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenterà oggi la relazione di inizio anno alle Camere (al Senato la mattina, alla Camera il pomeriggio) per illustrare lo stato della giustizia in Italia e quanto fatto nell’anno appena concluso. Un appuntamento di routine che cade però in una fase particolarmente tesa dei rapporti politica-giustizia, a pochi giorni dallo strappo con l’Anm, che ha annunciato che diserterà l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione il 26 gennaio, e con i giudici di pace che si preparano al terzo sciopero in tre mesi. Un segnale di protesta inedito, quello dell’Anm, visto che la scelta è di non partecipare a una cerimonia organizzata al Palazzaccio i cui vertici, a differenza delle altre toghe, hanno ottenuto una proroga della pensione fino a fine anno. Una soluzione era attesa nel Mille Proroghe, ma non è arrivata. Un viatico potrebbe essere un emendamento presentato dal senatore Nitto Palma, Forza Italia, ma allo stato non c’è accordo. Un’apertura da parte del ministro è arrivata invece sui giovani magistrati per riportare da 4 a 3 anni il periodo di prima collocazione. Ma c’è un altro problema che attende soluzione: la riforma del penale, bloccata al Senato da 6 mesi, dopo due anni di gestazione parlamentare. Mancava un soffio alla possibile approvazione al Senato e per stare blindati serviva la fiducia. Ma era la vigilia del referendum costituzionale, e Renzi, allora premier, ha scelto di non forzare la mano, fermando il possibile via libera a un testo che al suo interno ha una norma, sgradita ai magistrati, una norma che fissa una tempistica rigida per la chiusura indagini. Ora quel ddl dovrebbe riprendere il cammino, e sarà comunque un cammino non facile. Se oggi Orlando, comunque non per sua responsabilità, non potrà citare la riforma penale tra le cose portate a termine, al suo attivo avrà però quella del civile, settore centrale anche per l’economia in cui le pendenze sono scese da 6 a 3,8 milioni; i progressi nel processo civile telematico; i concorsi per 360 magistrati (che arriveranno a 1.400 nel triennio) e un migliaio di cancellieri (che saliranno a tremila prossimamente); gli stati generali delle carceri che hanno fotografato la situazione e indicato linee di intervento. Sulle carceri è da tempo in corso un’azione per ridurre il sovraffollamento mantenendo intorno a quota 54 mila i detenuti. La radicalizzazione in cella è l’altro fronte di intervento: le ultime cifre riferite dallo stesso ministro al question time indicano in 375 i soggetti tenuti, a vari livelli, sotto osservazione. Caso Cucchi. I pm: è stato ucciso dai Carabinieri, non è stata l’epilessia a causare la morte di Floriana Bulfon L’Espresso, 18 gennaio 2017 La procura di Roma vuole processare i tre militari perché accusati di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia. La svolta dalla nuova perizia: "Non vi è alcuna evidenza che l’epilessia possa aver determinato la morte". Omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia. Questi i capi di imputazione per cui la procura di Roma chiede il processo dopo poco più di un anno dall’avvio dell’indagine-bis. Sono oltre sette invece gli anni trascorsi da quando il corpo martoriato di Stefano Cucchi è finito all’obitorio. Morto di carcere e di prevaricazione, abbandonato nell’indifferenza con la faccia gonfia e la schiena rotta. Pestato con violenza fino a fratturargli due vertebre, tanto che i carabinieri per nascondere la verità avrebbero detto il falso, arrivando persino a calunniare i colleghi pur di allontanare da loro la grave responsabilità. Dopo ben quattro processi si dirada la nebbia su una violenza negata e inspiegabile che fino ad oggi, di sentenza in sentenza, tra omissioni, atti falsificati, tentativi di depistaggio ha portato al nessun colpevole. La procura guidata da Giuseppe Pignatone porterà sul banco degli imputati chi avrebbe violato il principio basilare della sacralità di tutti i cittadini nelle mani dello Stato perché privati della loro libertà. I carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, secondo la ricostruzione del sostituto Giovanni Musarò, avrebbero: "provocato tumefazioni ed ecchimosi, lesioni personali con esiti permanenti. Una rovinosa caduta con impatto al suolo". La stessa "rovinosa caduta" di cui aveva parlato Raffaele D’Alessandro all’ex moglie Anna Carino, aggiungendo di essersi divertito a picchiare "nu drugato e merda". È la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Nel buio del parco degli Acquedotti, periferia sud-est della Capitale, fermano Cucchi mentre spaccia venti euro di fumo. Il verbale dà conto di poco più una ventina di grammi di hashish, due dosi di coca nascoste nel fondo delle tasche e due pastiglie di ecstasy, in realtà si tratta di un farmaco per la cura dell’epilessia. I tre militari perquisiscono la casa dei genitori, non trovano nulla e alla fine lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appia. Doveva essere una brillante operazione antidroga, ma il grosso quantitativo non si trova e allora le botte. Sul volto, sulla schiena, tanto da provocargli fratture e segni che rimangono indelebili. Per questo non può essere foto-segnalato, anche se è obbligatorio in caso di arresto. Ne rimarrebbe traccia negli archivi. Così secondo la Procura si mettono a scrivere il verbale d’arresto costruito ad hoc "per sviare le indagini, ostacolare la ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili". Ecco apparire il foto-segnalamento mai eseguito ma dato per fatto e sparire la circostanza che due carabinieri al momento dell’arresto fossero in borghese. In aula Francesco Tedesco e Roberto Mandolini, quella sera al comando della caserma, si giustificano di aver fatto un copia-incolla: c’era scritto persino che Cucchi era nato in Albania. Per la Procura invece hanno compiuto: "un falso al fine di provocare impunità". E poi c’è la calunnia nei confronti di tre guardie carcerarie finite a giudizio nel 2011 e poi assolte. Per l’accusa Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi avrebbero implicitamente accusato i colleghi pur sapendoli innocenti, tanto che Mandolini in Corte d’Assise ha sostenuto: "deambulava senza nessun problema fisico" e, per quanto riguarda il mancato foto-segnalamento, che Cucchi "detestava sporcarsi le mani. Aveva questo terrore". Bugie, depistaggi, verità di comodo. Dopo sette anni di giustizia negata è il corpo di Cucchi a parlare e ad accompagnarci verso la verità. Racconta i dettagli della violenza subita: un corpo entrato integro sotto la custodia di uomini dello Stato e finito cadavere. La svolta arriva dalla consulenza affidata dalla Procura al professor Federico Vigevano, neurologo di fama internazionale dell’ospedale Bambino Gesù di Roma che il 12 dicembre deposita una dettagliata relazione la cui sintesi è: "Non vi è alcuna evidenza che l’epilessia possa aver determinato la morte". È la parola fine a una delle due ipotesi formulate lo scorso ottobre, dopo dieci mesi di lavoro, dal collegio dei periti presieduto da Francesco Introna dell’Università di Bari che vedeva la "morte improvvisa e inaspettata per epilessia", come "dotata di maggior forza e attendibilità" rispetto alla "frattura traumatica della vertebra S4". Il professor Introna lo ribadisce anche all’indomani dell’udienza preliminare ai microfoni di Radio Norba: "60 per cento epilessia, 40 per cento per un trauma" licenziando quest’ultima possibilità con un "si tratta di due o tre violenti schiaffoni. Dire selvaggio, dire pestaggio sono delle parole che amplificano quello che magari realmente è stato". A supporto richiama la pubblicazione scientifica statunitense "Sudden unexpected death in epilepsy" (Sudep), la morte improvvisa causata dall’epilessia. Un’ipotesi che per Vigevano "non è affatto applicabile perché si verifica in pazienti sì epilettici, ma per il resto in buona salute, e Cucchi negli ultimi giorni non lo era affatto, oltre che scarsamente responsivi ai farmaci specifici, come del resto scrivono gli stessi ricercatori". I periti invece, a riprova che possa aver avuto una serie di crisi epilettiche, chiamano in causa i ben 17 accessi al Pronto Soccorso per cause accidentali negli ultimi dieci anni. In quegli stessi ricoveri però si attesta la regolarità con cui assumeva i farmaci. "Era libero da crisi da cinque anni, si trovava in una fase remissiva della malattia", constata Vigevano. Del resto già il medico di Cucchi, il neurologo Bruno Jandolo, aveva dichiarato: "da fine 2006 riduce i farmaci, inoltre se si fosse fatto male a causa dell’epilessia si sarebbe visto da un semplice elettroencefalogramma". Nessun medico invece, pur sapendo che si trattava di un soggetto epilettico, ha mai riscontrato neppure una sospetta crisi. Anche per Jandolo "la Sudep è improbabile e poi la ricerca Usa riporta che può verificarsi solo se dall’autopsia non emerge un’altra causa e qui c’è un’altra causa, a dirlo sono gli stessi periti". Per trovare qualche riscontro alla tesi epilessia, a pagina 197 della perizia di Introna, viene indicata "una lesione a livello di mucosa della guancia destra". Insomma Cucchi avrebbe avuto una crisi e si sarebbe morso, ma, come nota Vigevano, "non vi sono tracce di sangue né sul cuscino né in bocca". Il suo viso invece era stato percosso e a dirlo, oltre alle foto, è proprio la perizia appena 70 pagine prima: "al momento dell’ingresso all’istituto penitenziario di Regina Coeli, alle ore 16 del 16 ottobre 2009, il volto era tumefatto in corrispondenza delle guance". Sei giorni dopo, il 22, alle 6.10 l’infermiere dell’ospedale Sandro Pertini lo trova steso sul fianco destro con la mano sotto la testa. "I pazienti che muoiono in seguito a una grave crisi di epilessia vengono trovati nel 73% dei casi proni e comunque in posizioni non naturali", spiega il professor Vigevano. Cucchi invece si era addormentato sul fianco, senza riuscire a muoversi a causa delle fratture alla colonna vertebrale, fino a morire. Fratture, al plurale. Nonostante non ci sia nulla di più certo di una vertebra rotta, ci sono voluti 7 anni per stabilire che erano due e procurate pochi giorni prima del decesso. "Si tratta della S4, quarta vertebra sacrale, e della L3, terza vertebra lombare", chiarisce finalmente il 6 ottobre dell’anno scorso Carlo Masciocchi, presidente della Società Italiana di Radiologia Medica. Due fratture che definisce "recenti, contemporanee, prodotte da un unico evento traumatico ed è improbabile siano dovute ad una caduta accidentale". È quel trauma, provocato, ad aver determinato quindi, secondo la Procura, la morte. La famiglia Cucchi sostiene da sempre che le cause siano il pestaggio e la negligenza medica. Non è chiaro infatti come un ragazzo di 31 anni possa entrare in carcere pesando 52 chili e morire sei giorni dopo perdendone 14, tanto che nella conclusione delle indagini si fa riferimento al fatto che "non si alimentasse correttamente in ragione del trauma" e "alla condotta omissiva dei sanitari". I medici del Sandro Pertini sono stati però di recente assolti nel processo d’appello-bis perché "il fatto non sussiste"; una sentenza al vaglio della Cassazione. Oggi dopo perizie, contro-perizie, interrogatori e processi, la strada intrapresa sembra essere quella decisiva: senza più il pericolo che il reato si prescriva in tempi brevi, lasciando senza giudizio i responsabili. Caso Cucchi. Bugie ed omissioni sul verbale: "così coprirono i segreti di quella notte" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 gennaio 2017 Il documento redatto all’arresto del geometra, era pieno di falsità. Non è vero che l’identificazione avvenne tramite foto segnaletiche e impronte digitali. Anzi, proprio il fatto che il ragazzo non volle sottoporsi a quella procedura provocò, secondo l’accusa, il "pestaggio" ad opera dei carabinieri. Tutto comincia (e finisce) con un verbale d’arresto. Redatto la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009 a carico di "Cucchi Stefano, nato in Albania il 24.10.1975, in Italia S.F.D. (senza fissa dimora, ndr), identificato a mezzo rilievi foto-segnaletici ed accertamenti dattiloscopici. Pregiudicato". Tutto falso, a parte il nome e lo status giuridico. Non solo perché Cucchi era nato in Italia in un giorno diverso, e risultava regolarmente residente presso l’indirizzo dei genitori che i carabinieri avevano appena perquisito. Sono sbagliate anche la data e l’ora del verbale, ma soprattutto non è vero che l’identificazione avvenne tramite foto segnaletiche e impronte digitali. Anzi, proprio il fatto che il ragazzo non voleva sottoporsi a quella procedura provocò, secondo la ricostruzione dell’accusa, il diverbio sfociato nel "pestaggio" ad opera dei carabinieri che l’avevano arrestato. Due dei quali, Alessio Di Bernardo Raffele D’Alessandro, non compaiono nel verbale. Strano, visto che di solito la regola è che si aggiungono più nomi di quelli effettivi, giacché in questo modo si distribuiscono meriti a pioggia; in quel caso, invece, ce n’erano due in meno. Altra omissione: nel resoconto non si fa cenno alla resistenza opposta da Cucchi al foto-segnalamento. E ancora: in coda al verbale è scritto che "il prevenuto, interpellato, dichiarava di non voler nominare un difensore di fiducia", da cui la nomina di un legale di ufficio. Falso pure questo, contesta oggi la Procura di Roma. E suona grottesca la postilla che il prevenuto "dichiarava di non dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari", visto che l’avevano portato via in manette davanti ai genitori. Omissioni non casuali - Finora tutto questo era stato giustificato con la banale spiegazione di una sovrapposizione, fatta al computer, tra il verbale d’arresto di Cucchi e quella di un cittadino albanese, con quelle generalità, fermato poco prima. Adesso non più. Adesso errori, omissioni e bugie diventano un capo d’accusa grave quasi quanto l’omicidio preterintenzionale, perché in quel pezzo di carta si nasconde - sostengono i pubblici ministeri - il depistaggio per coprire ciò che accadde la notte dell’arresto, nei locali della Compagnia Casilina dei carabinieri di Roma (mai nominata negli atti ufficiali). Dove il giovane tossicodipendente si oppose al foto-segnalamento, probabilmente anche in maniera violenta, e per questo fu colpito "con schiaffi, pugni e calci" che ne provocarono la caduta, le lesioni e - come ultima conseguenza - la morte. Il lavoro minuzioso del sostituto procuratore Giovanni Musarò, coordinato dal capo dell’ufficio Giuseppe Pignatone, ha ricostruito gli eventi fino al dettaglio. Fino al registro delle operazioni tecniche sbianchettato per cancellare il nome di Cucchi (che però si legge in trasparenza). E con la testimonianza di un altro carabiniere animato da tutt’altro spirito, Pietro Schirone, che prese in consegna Cucchi la mattina seguente per portarlo in tribunale: "Chiesi al Tedesco se si erano resi conto delle condizioni dell’arrestato, riferendomi in modo palese al fatto che era fin troppo evidente che fosse stato pestato. Il Tedesco, senza mostrare alcuno stupore per le condizioni del Cucchi, rispose che l’arrestato non era stato affatto collaborativo al momento del foto-segnalamento". Confessioni registrate - Le intercettazioni tra gli indagati hanno svelato il resto. "Io me lo ricordo bene che lo portammo a fare il foto-segnalamento... si sbattette... io mi ricordo pure che ti dette uno schiaffo in faccia a te e si buttò a terra", confessa D’Alessandro parlando con Di Bernardo (i due militari scomparsi dal verbale d’arresto). E quello: "Ti ricordi?... In petto mi colse... mi diede un pugno a me e si buttò a terra e disse che non si voleva far toccare e ce lo portammo... ti ricordi?". E ancora a proposito della mancata verbalizzazione di questi particolari: "Io mi ricordo troppo bene quando chiamai a Mandolini e gli dissi... piglia e mettilo scritto nel verbale di arresto che questo non lo vuole fare". Commento di Di Bernardo: "Questo è perché la gente non sa lavorare, Raffae". L’ultimo atto delle coperture s’è tradotto nella calunnia contro gli agenti della polizia penitenziaria processati (e assolti) negli anni scorsi per le violenze inflitte a Cucchi. Secondo i pm Mandolini, Tedesco e Nicolardi, mentendo sulle condizioni di salute dell’arrestato e tacendo ciò che era successo in caserma, "implicitamente accusavano, sapendoli innocenti", gli imputati dei precedenti processi. Che adesso saranno parte civile nel nuovo giudizio, accanto ai familiari di Cucchi che prima erano i loro avversari. Un altro paradosso di questa brutta storia. Caso Cucchi. Sette anni per accertare l’elementare verità di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 18 gennaio 2017 Un tempo infinitamente lungo, intessuto di menzogne e depistaggi per impedire che si guardasse laddove era elementare guardare: al primo impatto tra Cucchi e gli uomini dello Stato, nel momento in cui veniva privato della libertà. Quante volte abbiamo scritto e riscritto questo stesso articolo, o qualcosa di assai simile? E, tuttavia, mai come in questa circostanza ciò di cui parliamo rappresenta una vera novità. Anche le poche note di esile ottimismo che in passato abbiamo potuto registrare non avevano, certo, la forza della prospettiva che oggi finalmente si apre. Ma ciò che conferisce un gusto acido alla fiducia che ora si può nutrire è il fatto che, per rintracciare il bandolo di una matassa tanto aggrovigliata, si è dovuto ripartire esattamente daccapo, a distanza di tanto tempo, spazzando via una rete di infingimenti e inganni, manipolazioni e deformazioni. E infatti, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma, è proprio nel primo atto della tragedia che l’inchiesta troverebbe la sua soluzione. Le violenze che portarono alla morte di Stefano Cucchi sarebbero infatti opera dei tre carabinieri che lo arrestarono nel parco degli Acquedotti, a Roma, la notte del 15 ottobre del 2009. Dunque, ci sono voluti 7 anni e 3 mesi perché le indagini si concentrassero sulla prima stazione della dolente via crucis del giovane geometra. Un tempo infinitamente lungo, intessuto di menzogne e depistaggi per impedire che si guardasse laddove era elementare guardare: al primo impatto tra Cucchi e gli uomini dello Stato, nel momento in cui veniva privato della libertà. È allora che comincia a morire, passando attraverso dodici tra luoghi dello Stato e strutture istituzionali (dalla camera di sicurezza di un tribunale al reparto detentivo di un ospedale) senza che una sola delle decine e decine di persone che vi incontra gli presti soccorso, fino al decesso avvenuto il 22 ottobre del 2009. Ma la violenza che ne causerà la morte avviene proprio nelle prime ore di quella atroce agonia. Perché è stato necessario tanto tempo per accertare questa elementare verità? Tante le ragioni, ma è difficile negare che - come già nella vicenda della morte di Giuseppe Uva, a Varese - le possibili responsabilità di appartenenti all’Arma dei carabinieri inducano gli inquirenti alla massima cautela e a una prudenza che si traduce spesso in omissione. Questi anni di sicuro non sono passati invano, dato che si sono susseguiti un processo di primo grado, due di appello e infine uno di Cassazione. E anche se diversi per imputati e per esiti, tutti i passaggi hanno avuto un denominatore comune: in nessuno di questi vennero nominati, sentiti e men che meno implicati i tre carabinieri che ieri sono stati rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale dalla Procura di Roma. Questa è la notizia e, senza voler cantare vittoria in anticipo, è d’obbligo qualche riflessione su quanto potrà ora accadere. Il fatto, cioè, che con ogni probabilità ci sarà un processo, in cui si proverà a dare un’adeguata spiegazione a quelle foto che ritraggono Stefano Cucchi sul tavolo dell’obitorio, scheletrico e gonfio allo stesso tempo, livido e irriconoscibile agli occhi dei suoi stessi familiari. I processi ai medici e ai dirigenti dell’amministrazione penitenziaria sono stati sicuramente importanti nella ricostruzione di quanto accaduto, ma non hanno risposto alla domanda essenziale: chi ha ridotto così Stefano Cucchi? Le ipotesi, a ben vedere, non potevano essere molte, considerato che il trentenne romano per più di sei giorni si è trovato nelle mani degli uomini e degli apparati dello Stato. Dunque, da qualche mese sappiamo che nelle indagini iniziali c’è stata un’enorme falla, rappresentata dalla mancata individuazione dei tre carabinieri oggi rinviati a giudizio. Figure rimaste nascoste, la cui partecipazione alle fasi dell’arresto, della perquisizione e della traduzione in caserma è stata ridimensionata a tal punto da riuscire, per lungo tempo, a renderle invisibili e inafferrabili. E, da quanto emerge dalle indagini concluse ieri, questa manovra di occultamento non è opera solo dei tre carabinieri interessati, ma anche di colleghi e superiori che pur di proteggerli - in nome di un perverso spirito di corpo - rischiano adesso un processo per calunnia e falso in verbale di arresto. La vicenda sarebbe potuta finire in modo molto diverso, con dei nomi cancellati col bianchetto e una ennesima morte senza responsabili, ma per una volta non è andata così. Il lavoro della Procura di Roma offre l’ultima occasione di sapere perché - parafrasando Oscar Luigi Scalfaro in occasione di una vicenda simile di ormai trent’anni fa - un cittadino è entrato vivo in un luogo dello Stato e ne è uscito morto. Il che ci aiuta a evidenziare come a "offendere l’onore dell’Arma" non siano certo quanti chiedono la verità sulla morte di Cucchi, bensì quei carabinieri che, se ne fosse dimostrata la colpevolezza, avrebbero tradito la divisa e il giuramento di fedeltà allo Stato. E, in ultimo, va ricordato che, se questa atroce vicenda potrà trovare una soluzione, lo si dovrà - in misura preponderante - alla forza di Rita, Giovanni e Ilaria Cucchi, che hanno saputo fare del loro dolore più intimo una risorsa di intelligenza civile. Il legale della famiglia Cucchi: "Abbiamo resistito e ora la verità è più vicina" di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 gennaio 2017 Parla l’avvocato Fabio Anselmo: "La procura di Roma è giunta a conclusioni diverse da quelle politiche tratte dal Prof. Introna nella perizia richiesta dal Gip. Che pure riconosceva quanto da noi sostenuto in tutti questi anni". "Ci sono voluti sette anni ma ce l’abbiamo fatta. Quando si sa di essere dalla parte del giusto, bisogna resistere, resistere, resistere e la verità prima o poi viene fuori". "Emozionato e felice", l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condiviso in questi anni la strenua lotta della famiglia Cucchi, usa quasi le stesse parole di Ilaria, la sorella di Stefano, per commentare la conclusione dell’inchiesta bis della procura di Roma che finalmente formula espressamente l’accusa di "omicidio preterintenzionale". Sulla sua pagina Facebook, Ilaria Cucchi pubblica la foto scattata nel 2013, nel giorno in cui la lettura della sentenza di primo grado gettava nell’angoscia e nello sconforto i familiari, e lei si sfogava in un pianto amaro sulla spalla dell’avvocato Anselmo. "Ci gettiamo alle spalle sette anni durissimi, di dolore, di sacrifici, di tante lacrime amare. Ma valeva la pena continuare a crederci", scrive nel post. E aggiunge: "Devo dire grazie soprattutto a questa persona". E Anselmo ricambia: "Ringrazio di cuore la famiglia Cucchi per la fiducia concessami". Avvocato, nell’avviso di conclusione delle indagini, la procura di Roma non ha tenuto in alcun conto le deduzioni tratte nella perizia fatta in incidente probatorio dal capo del collegio peritale nominato dal Gip, il prof. Francesco Introna, che considerava la morte "improvvisa ed inaspettata per epilessia" la più "attendibile" tra le ipotesi in campo. È così? Non proprio: la procura di Roma ne ha tenuto conto, eccome, di quella perizia. Infatti noi lo avevamo detto subito che avrebbe aperto le porte ad un processo per omicidio preterintenzionale. Solo che i pm non hanno condiviso il punto di vista politico del prof. Introna, secondo il quale non c’era alcun nesso causale tra "le lesioni riportate da Stefano Cucchi dopo il 15 ottobre 2009" e "l’evento morte". Ma è solo un punto di vista politico, perché poi è la stessa perizia ad affermare anche che la morte per epilessia è "non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata da rilievi clinico scientifici". È quanto scrive Introna insieme al prof. Dammacco, mi sembra… Esatto. E guardi che al prof. Dammacco - lo dimostrano le registrazioni che Ilaria ha pubblicato sulla sua pagina Facebook - chiesi a quante morti per epilessia avesse mai assistito nei suoi cinquant’ anni di esercizio professionale, e lui mi rispose: "Nessuna". Il collegio di periti riconosce però - per la prima volta - due dati oggettivi e conclamati: la frattura recente delle vertebre lombari e sacrali riscontrate sul corpo di Stefano, e il ruolo "esiziale" del globo vescicale. Giusto? Sì, e questo è un punto importante di quella perizia, che riconosce le fratture delle vertebre L3 e S4 causate dai traumi subiti. È quanto da noi sostenuto durante questi anni. Anche se poi il prof. Introna non ha il coraggio di arrivare alle giuste conclusioni scientifiche e scrive che "se il soggetto fosse stato adeguatamente sorvegliato e sottoposto a monitoraggio infermieristico, con controllo della diuresi, la dilatazione vescicale, del tutto attendibilmente, non si sarebbe verificata". Cosa vi attendente ora dal processo che quasi sicuramente verrà celebrato? Siete fiduciosi? Da un punto di vista probatorio il lavoro della procura è sicuramente encomiabile e di assoluto valore. Ringrazio il procuratore Pignatone e gli investigatori per la bravura mostrata nell’indagare a 360 gradi. Non ci resta che attendere il processo, ma questa volta di fronte alla Corte d’Assise. Con tempi di prescrizione abbastanza lunghi da non rischiare di veder naufragare ancora la vostra richiesta di giustizia? Sì, non c’è questo pericolo. D’altronde, a giudicare dalle intercettazioni, gli indagati contavano molto sulle perizie e sulle consulenze. Ora si ricomincia da capo, alla ricerca della verità. La gogna giudiziaria costa cara. Ora lo dice pure la Cassazione di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 gennaio 2017 Detenzioni ingiuste e risarcimenti, un caso che fa scuola. La Cassazione condanna la gogna mediatico-giudiziaria (di nuovo). È passata inosservata una sentenza emessa a maggio, ma depositata lo scorso 19 dicembre, in cui la Suprema corte ha deciso di risarcire un imprenditore di Reggio Calabria, vittima di ingiusta detenzione, per i danni commerciali e di immagine derivanti dal particolare trattamento subito dagli organi di informazione durante l’arresto. L’imprenditore era stato costretto a trascorrere 77 giorni in carcere e 88 ai domiciliari in seguito al coinvolgimento in una vicenda giudiziaria. Una volta scagionato da ogni accusa penale, l’uomo aveva presentato domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione subita. La Corte d’appello di Catanzaro aveva accolto la richiesta, riconoscendo un indennizzo pari a circa centomila euro, ma l’uomo non si era ritenuto soddisfatto. La Corte di cassazione gli ha dato ragione, smentendo la linea tracciata dai giudici di appello, che nel calcolare il risarcimento avevano tenuto conto solo del mancato stipendio incassato dall’imprenditore durante e dopo la detenzione (la sua azienda, infatti, nel frattempo era fallita). Per la Suprema corte, infatti, i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente considerato due aspetti legati all’incredibile ingiustizia di cui l’imprenditore era stato vittima. Da un lato, non sono stati calcolati i danni commerciali subiti dall’uomo e in particolare il fatto che, pochi giorni dopo l’arresto, un contratto dal valore di oltre duecentomila euro stipulato dalla sua azienda con una cooperativa era stato stralciato per mano di quest’ultima, evidentemente non a suo agio nel proseguire una collaborazione con un "arrestato". Dall’altro lato, la Corte d’appello ha omesso di considerare i danni derivanti dal cosiddetto strepitus fori, cioè il clamore mediatico che ha accompagnato la vicenda. La Corte, infatti, nella sentenza ricorda che la liquidazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione va "svincolata da parametri aritmetici o, comunque, da criteri rigidi" ma deve invece basarsi "su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, comprese le sofferenze morali e la lesione della reputazione". Nel caso di specie, secondo la Suprema corte "l’evidenza data dai mezzi di comunicazione alla notizia dell’arresto" ha provocato un ulteriore danno all’uomo, dal momento che questi era un "noto imprenditore nel settore del trasporto turistico". Spetterà, dunque, di nuovo alla Corte di appello di Catanzaro rideterminare la misura dell’indennizzo, a questo punto certamente superiore ai centomila euro stabiliti precedentemente. Non è la prima volta che la Corte di cassazione pone in rilievo il profilo mediatico nel valutare un caso di ingiusta detenzione. Si tratta però di un importante conferma del fatto che la gogna mediatica che accompagna le vicende giudiziarie risulta non solo inaccettabile dal punto di vista giuridico, cioè del rispetto dei diritti basilari delle persone (in primis all’onore e alla reputazione), ma rappresenta un elemento significato di spesa per le casse pubbliche. Dal 1992 al 2016 lo stato ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi venticinquemila vittime di ingiusta detenzione, e altri 36 milioni sono stati spesi per rimborsare le vittime di errori giudiziari in senso stretto (condannate in via definitiva e poi assolte dopo un processo di revisione). Se non si vuole quindi affrontare il fenomeno dal punto di vista culturale, lo si affronti almeno dal punto di vista del risparmio economico, ma in questa battaglia dove sono i grillini e tutti gli altri fautori della riduzione delle spese? La separazione di fatto non fa perdere il diritto alla cittadinanza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 17 gennaio 2016 n. 969. La separazione di fatto non pregiudica il diritto alla cittadinanza acquisito da una donna straniera dopo il matrimonio con un italiano. La Cassazione (sentenza 969) respinge il ricorso del ministero dell’Interno contro una signora di origine tunisina che, separazione di fatto a parte, aveva le "carte in regola" anche alla luce dei più stringenti requisiti fissati dal "Pacchetto sicurezza" del 2009. La norma subordina la cittadinanza alla residenza in Italia, "per almeno due anni dopo il matrimonio senza che sia intervenuto annullamento, separazione personale o divorzio". La Corte d’Appello aveva ritenuto irrilevante la separazione di fatto, inequivocabilmente avvenuta tra i due coniugi, perché la legge richiede una condizione ostativa diversa, ovvero la separazione personale giudizialmente accertata. I giudici, pur condividendo l’obiettivo della legge di evitare un uso del matrimonio strumentale, avevano sottolineato il carattere di minore stabilità della separazione di fatto rispetto a quelle legale e valorizzato, nel caso specifico, il carattere effettivo del matrimonio e la residenza da almeno due anni. Contro il verdetto fa ricorso il ministero, secondo il quale l’espressione "separazione personale" indica un genere più ampio che comprende anche la separazione legale e quella di fatto. Ai fini dell’acquisto della cittadinanza, sarebbe dunque irrinunciabile l’esistenza in concreto del rapporto matrimoniale. A supporto della sua tesi il Viminale cita anche la sentenza 6526 del 2005, con la quale il Consiglio di Stato ha espressamente stabilito che condizione per ottenere la cittadinanza sia non solo il matrimonio ma anche l’instaurazione di un vero e proprio rapporto coniugale. La Suprema corte respinge il ricorso del ministero, sottolineando, al contrario, che separazione di fatto e separazione personale sono due fattispecie non assimilabili. Una differenza evidenziata anche dal regime giuridico delle adozioni che prevede la possibilità di adottare un bambino solo se negli ultimi tre anni non è intervenuta tra i coniugi una "separazione personale neppure di fatto". Una diversità confermata anche da un regime giuridico distinto. Per la Suprema corte le condizioni ostative previste dalla legge "non possono essere fondate su clausole elastiche, ma su requisiti di natura esclusivamente giuridica, predeterminati e non rimessi ad un accertamento di fatto dell’autorità amministrativa". La Cassazione precisa che le altre condizioni interdittive sono: annullamento, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio. E a queste lo Stato non può aggiungere la separazione di fatto. Ma ora serve il reato di tortura, il Senato migliori il testo e lo approvi di Sergio D’Elia* Il Dubbio, 18 gennaio 2017 La legge in discussione non è fedele al diritto internazionale. Si vuole introdurre come un delitto comune, un delitto che può avvenire tra due privati cittadini. Nella Convenzione Onu invece è concepita laddove c’è un obbligo di custodia. Il processo per accertare finalmente le responsabilità sulla morte di Stefano Cucchi farà il suo corso e spero che sia condotto all’insegna del rispetto di tutte le garanzie per coloro che saranno imputati, e senza passare da un eccesso all’altro: dall’omertà corporativa tra i tutori dell’ordine alla ricerca di responsabili chiunque essi siano e alla loro condanna esemplare. Una riflessione, però, va fatta e riguarda una lacuna colossale nel nostro ordinamento, quella del reato di tortura, una fattispecie che avrebbe potuto essere rilevata nel caso di Stefano Cucchi, se il nostro Paese non avesse perso oltre un quarto di secolo senza ancora arrivare a sanzionare un crimine contro l’umanità come la tortura. Papa Francesco ha introdotto il reato di tortura in un giorno e ha abolito anche l’ergastolo, l’Italia non ha ancora ottemperato a un impegno preso nel 1989, quando ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura. Ma la cosa più grave è che, dopo 28 anni, nel momento di discutere la legge sull’introduzione del reato di tortura, l’ha fatto in una maniera singolare, all’italiana, cioè non sotto dettatura della norma internazionale come andava fatto, non come reato comune, ma come reato specifico, tipico del comportamento di un pubblico ufficiale nelle sue vesti di responsabile di investigazione o indagine giudiziaria su persone sospettate di reato, di custodia e tutela di una persona privata della libertà personale. Nella concezione del Diritto Internazionale e della Convenzione Onu, la tortura non è una fattispecie di reato che si può commettere tra due privati cittadini: è concepita laddove c’è un obbligo di custodia, dove c’è un obbligo giudiziario di intervento. Si vuole invece introdurlo come un delitto comune: un delitto cioè che può essere commesso in famiglia, fra criminali, in un consesso mafioso. Nella legge in discussione al Senato, è prevista in questi casi solo una circostanza aggravante che è quella per cui la pena è aumentata - per arrivare magari alla pena dell’ergastolo (ancora una volta, da un eccesso all’altro) - se a commettere atti di tortura è un pubblico ufficiale. Inoltre, la previsione del reato in discussione in parlamento è una fattispecie medioevale, vincolata a forme di violenza fisica, che lascia del tutto scoperte le più moderne forme di tortura come, ad esempio, lasciare senza cibo, lasciare nudi e al freddo, tenere sempre accesa, o sempre spenta, la luce nei luoghi di detenzione, mettere la musica ad altissimo volume, costringere a posture innaturali, etc. Infine, nel testo all’esame del Senato manca del tutto l’insieme di regole previste dalla Convenzione per prevenire gli illeciti, dalla formazione del personale di polizia, civile, militare, medico al sistema di identificazione degli agenti. Anche in questo caso, sullo Stato di Diritto e i Diritti Umani tende a prevalere la logica emergenzialista del Potere e della Ragion di Stato (con tutti i suoi segreti e armamentari di Stato), logica tipica non delle democrazie liberali, ma di quelle che Marco Pannella ha definito "democrazie reali". Perché il reato di tortura all’italiana non deve corrispondere al dettato del diritto internazionale? Basta leggere solo l’articolo 1 della "Convenzione contro la tortura" delle Nazioni Unite e si capisce perché. "Il termine "tortura" - è scritto nella Convenzione - indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona". Confrontiamo questa norma di diritto internazionale con la realtà di uno Stato pluricondannato dalla Giustizia Europea per la condizione "strutturale" di tortura e di trattamenti disumani e degradanti nelle carceri e dove, abolita la pena di morte, vige ancora la morte per pena e la pena fino alla morte. Non solo perché la detenzione - in una cella di sicurezza o in carcere in attesa di giudizio - e l’esecuzione della pena può accadere che si risolvano in "esecuzione" tout court, ma anche perché in Italia vigono ancora il "fine pena mai" dell’ergastolo ostativo e il regime del 41 bis, ai quali puoi sottrarti solo tramite il "pentimento" o la collaborazione attiva con la giustizia, che per essere considerati autentici, devono essere "a rischio della vita", propria e dei propri familiari. Noi rivendichiamo tutto ciò come "certezza della pena" e "carcere duro", ma secondo il diritto internazionale sono forme di tortura e trattamenti disumani e degradanti, perché - dice la Convenzione - sono "tortura" non solo il dolore o sofferenze forti, ma anche le pressioni fisiche o mentali che si esercitano nei confronti di una persona, "al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni". *Segretario dell’Associazione "Nessuno Tocchi Caino" Come vedete il reato di tortura non serve, le leggi ci sono già di Gianni Tonelli* Il Dubbio, 18 gennaio 2017 Una normativa che ha lo scopo di inibire le forze dell’ordine. L’odissea Cucchi prosegue e non so se dispiacermi o essere contento della richiesta di rinvio a giudizio per i tre colleghi carabinieri, che ovviamente dovrà essere accolta dal giudice dell’udienza preliminare. Giunti a questo punto, e viste tutte le ombre che sono state messe su questa vicenda e che rappresentano elementi ancora da dimostrare, sono convinto che il dibattimento pubblico sarà molto interessante e metterà gli imputati nelle condizioni di poter spazzare via le accuse, come è successo per i colleghi della polizia penitenziaria e i medici. Comunque, voglio sottolineare che lo stesso parere del professor Gaetano Thiene, perito della famiglia Cucchi, e la relazione della commissione bicamerale d’inchiesta presieduta da Ignazio Marino, certificano che non vi è alcun collegamento tra la morte e le lesioni riportate, indipendentemente da chi sia stato a infliggerle. C’è anche un altro motivo secondo me determinante a favore della difesa: nella fotografia all’ingresso in carcere l’immagine del volto di Cucchi, come anche la sua espressione, non erano quelli di un uomo sofferente e non vi era alcun tipo di lesione, mentre, quelle che si potrebbero definire ombrature nella zona sotto gli occhi, sono banali occhiaie. Infatti, come si può verificare facendo una rapida ricerca in internet, se uno prende un pugno, si crea un gonfiore facilmente distinguibile da ciò che invece può essere una caratteristica somatica. Qualcuno sostiene che questa lunga vicenda sia la dimostrazione della necessità di un legge per il reato di tortura, mentre dimostra semplicemente il contrario. In Italia i comportamenti di tortura sono già ampiamente sanzionati dalla legge. Quello che serve non è un nuovo strumento normativo, e ciò è dimostrato dal fatto che l’ordinamento è comunque in grado di far fronte alle circostanze e di individuare eventuali responsabilità. Analogo errore fu commesso dalla corte di Strasburgo, che, riguardo ai fatti della Diaz del 2001, rilevò la mancanza di una fattispecie criminosa espressa per il reato di tortura sostenendo che alcuni operatori delle forze dell’ordine non avevano subito la condanna a causa di questo vuoto normativo, mentre, per contro, la mancata irrogazione della sanzione fu unicamente da imputare alla prescrizione, una norma di carattere processuale e non di diritto sostanziale. Quindi, il reato di tortura è una sciocchezza, tutti noi vogliamo che i comportamenti di tortura vengano sanzionati duramente, ma il disegno di legge in discussione in Parlamento mira unicamente ad inibire l’azione delle forze di polizia, tentando di sanzionare le acute sofferenze psichiche, quando è impossibile confutarle, non sono rilevabili scientificamente e, comunque, possono essere lamentate soltanto dalla persona. Addirittura nel disegno di legge vi è l’istigazione alla tortura non accolta come fattispecie delittuosa, quando neppure la pedofilia, l’omicidio o i comportamenti mafiosi o terroristici, se non accolti, sono considerati un reato penale. Secondo noi tutto questo rappresenta senza dubbio un manifesto ideologico contro le forze dell’ordine. Solo se smettiamo di guardare attraverso lenti polarizzate ideologicamente potremo trovare la soluzione e l’adesione formale alle convenzioni internazionali contro i comportamenti di tortura che l’Italia ha sottoscritto perché sostanzialmente già accolte dall’ordinamento. Partendo dal sequestro di persona e proseguendo con la violenza privata, le lesioni, le percosse o l’abuso in atti d’ufficio, tutti i comportamenti che concretizzano la tortura sono sanzionati, e ce n’è per due vite di galera. Quello che occorre è un recepimento formale, la richiesta di una nuova legge è totalmente inutile. *Segretario Generale del Sindacato Sap Puglia: nomina del Garante dei detenuti rinviata, il Consiglio regionale non ha i numeri pugliain.net, 18 gennaio 2017 Nessuno dei candidati all’incarico di Garante per i detenuti ha ottenuto i 34 voti necessari al raggiungimento del quorum utile per l’elezione. La terna è composta dall’attuale Garante, Pietro Rossi (che ha ottenuto 16 voti), Massimo Brandimarte (25 voti) e Alessandro Pascazio (4 voti). Tre le schede bianche. Una decisione, quella del Consiglio Regionale, avvenuta dopo lo scrutinio segreto. E subito i consiglieri regionali M5S hanno puntato l’indice contro la maggioranza, accusandola di essere spaccata. "La maggioranza non c’è". Questo il primo commento degli otto consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle al termine delle due votazioni andate a vuoto. "Approfittando del voto segreto diversi esponenti di maggioranza e/o governo hanno deciso di votare diversamente da quanto deciso dal gruppo guidato da Michele Mazzarano e dal segretario di partito Marco Lacarra. Una volta di più ci chiediamo se una maggioranza talmente spaccata sia adeguata a governare la nostra Regione". Milano: "sei una spia degli sbirri", la rivolta dei 13 baby detenuti del Beccaria di Andrea Galli Corriere della Sera, 18 gennaio 2017 I ragazzi se la sono presa contro uno di loro, forse considerato il più debole. Per punizione, lunedì mattina, sono stati esclusi da ogni attività e hanno protestato urlando e rovesciando i mobili giù dalle scale. L’accusa è stata quella d’essere un infame, un spia, un informatore degli sbirri. Un’accusa tutta da dimostrare se non forse già in partenza viziata: potrebbe esser stata una menzogna, l’ennesimo pretesto del branco per picchiare un compagno di cella considerato il punto debole contro il quale sfogarsi a prescindere. Nessuna guerra tra bande, domenica intorno alle 20 al Beccaria, anche perché nei tredici ci sono italiani come sudamericani ed europei dell’Est. Semmai la violenza, che ha avuto una coda l’indomani mattina (con la protesta di due componenti del medesimo branco) e che ieri è stata resa nota dal sindacato Sappe, è la conferma della drammaticità del carcere minorile, affossato da dimenticanze dello Stato e da conti che non tornano mai. Il mistero del padiglione - A ieri i detenuti erano 57, nove unità in più rispetto alla regolare capienza dell’istituto. A un primo "esame", questi numeri sembrerebbero non essere significativi ma invece, in una piccola realtà, fanno la differenza. E anche profondamente. Il Beccaria (che ha ancora un direttore vicario in assenza d’uno in pianta stabile) è vecchio e a pezzi, in molte zone non è nemmeno a norma; due celle sono inutilizzabili e dunque chiuse; forse il mese prossimo dovrebbe aprire il nuovo padiglione sempre che l’inaugurazione ci sia per davvero, essendo stata rimandata d’anno in anno. Il padiglione aggiuntivo, che farà parte fisicamente dell’attuale struttura, dovrebbe permettere di ricavare spazio per 24 carcerati e abbattere il sovraffollamento. Al riguardo ci sono state promesse e rassicurazioni eppure nessuno tra chi lavora in carcere è disposto a scommetterci un euro. Troppe, fin qui, le prese in giro. Quei turni saltati - Fonti del Sappe ricordano l’emergenza del centro di prima accoglienza, dove confluiscono gli arrestati che possono rimanere non più di 96 ore, ovvero il tempo massimo per venir giudicati. Alcuni giorni il centro non registra ingressi e altri sì, e possono essere uno, due o pure di più. Poco cambia: non c’è personale specifico sicché bisogna dirottarlo da altri uffici. Il "pellegrinaggio" e il metterci una pezza sono costanti del carcere minorile, e riguardano anche il personale di polizia penitenziaria, bravo e tempestivo domenica e lunedì nell’accorrere scongiurando tragiche conseguenze per l’aggredito ("solo" contusioni), e soffocando il rischio che la rivolta s’allargasse all’intera popolazione carceraria. "La coperta è corta" sostengono i sindacati; non si riesce a garantire un’adeguata organizzazione dei turni "se non sacrificando giorni di riposo e di ferie dei colleghi". Una parte dei lavoratori tiene a precisare l’asse con direzione e vertici della polizia penitenziaria: non ci sarebbero fratture ma anzi un forte senso di responsabilità e la capacità di star uniti per far fronte comune. "In tempo di guerra" - Già a settembre don Gino Rigoldi, storico cappellano del Beccaria, aveva descritto "i muri ammuffiti, l’assenza d’ogni vero intervento di riqualificazione" e perfino l’impossibilità di servirsi della chiesetta, tanto è "in disastrose condizioni per dirci la messa" con le celebrazioni religiose confinate nella sala colloqui, "i tavoli sbaraccati manco fossimo in tempo di guerra". A volte le istituzioni dall’alto (governo) e dal basso (Comune) si sono interessate al Beccaria, e hanno garantito o forse meglio auspicato imminenti soluzioni. Risultati? Quasi zero. In questo scenario desolante diventa perfino fisiologico l’amplificarsi delle complessità tipiche d’un carcere minorile, della tipicità di mestieri (psicologici, educatori, guardie) che debbono per forza avere robuste basi, e soprattutto della necessità per i ragazzi di ricevere attenzioni, assistenza, di partecipare a corsi per imparare un lavoro e allontanarsi dall’idea del crimine che paga e dà un futuro. Via i colpevoli - Dice Alfonso Greco, segretario lombardo del Sappe: "Siamo prigionieri di una situazione assurda e grave, che merita interventi immediati". D’immediato, per intanto, ci sarà il trasferimento in altri istituti dei responsabili delle violenze. Si vocifera della volontà di procedere con vere sanzioni penali, ma qualcuno ha dei seri dubbi sull’efficacia. Il detenuto vittima del branco è stato "isolato" per sua protezione. L’aggressione di domenica è avvenuta nel corridoio delle celle. Per punizione, lunedì mattina, i tredici erano stati esclusi da ogni attività. Due di loro erano stati convocati in refettorio dopo la colazione per dar conto, ma avevano preso la richiesta di una spiegazione come un’offesa. Avevano reagito urlando e scaraventando le panchine giù per le scale, forse con la speranza di chiamare a raccolta i compagni e di scatenare la guerriglia. Sassari: caso Erittu, il giallo del detenuto morto in cella. La difesa "pentito inattendibile" di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 18 gennaio 2017 In appello gli avvocati di Sanna e Vandi: il reo confesso Bigella è un calunniatore. "Perché l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, una persona integerrima e stimata, si sarebbe dovuto prestare a una operazione di questo tipo? Perché rendersi complice di un omicidio? Neppure Giuseppe Bigella ha saputo rispondere a questa domanda cruciale". Ruotano intorno alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella le arringhe dei difensori nel processo che si sta celebrando davanti alla corte d’assise d’appello presieduta da Plinia Azzena per far luce sulla morte del detenuto Marco Erittu, trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. Caso inizialmente archiviato come suicidio e poi, proprio in seguito alle dichiarazioni del reo confesso Bigella (che indicava Pino Vandi come mandante del delitto e Nicolino Pinna e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna come suoi collaboratori nell’esecuzione), la Procura aveva riaperto le indagini. E si sono concentrate sulla scarsa attendibilità di Bigella le discussioni di Agostinangelo Marras (difensore di Sanna) e di Pasqualino Federici (legale di Pino Vandi). I dubbi sulla credibilità del reo confesso erano stati sollevati dalla difesa anche in merito alla ricostruzione del delitto fornita dal pentito il quale aveva sostenuto di aver ucciso Erittu soffocandolo con un sacchetto di plastica. A Pinna spettava invece il compito di simulare il suicidio per impiccamento tagliando una striscia della coperta che era in cella. I periti in primo grado hanno però stabilito che quella striscia non fosse dello stesso tessuto. Per la difesa, quindi, il pentito ha sempre mentito. "Mancano completamente - ha ribadito ieri l’avvocato Marras - i riscontri alle accuse di Giuseppe Bigella. Il sacchetto di cui ha parlato esiste solo nella sua fantasia considerato che di quella busta non c’è alcuna traccia. Il perito Avato aveva giustamente sostenuto che mancando l’arma del delitto fosse impossibile fare un’analisi del delitto medesimo. Quindi quale confinamento da busta? Erittu è morto per impiccamento". Riconosce poi, Marras, che qualche "pasticcio" gli agenti lo abbiano fatto "ma solo perché temevano sanzioni per negligenza". E poi torna a parlare di Bigella, l’avvocato Marras: "Non è vero che il suo racconto è disinteressato. Porta dei benefici la sua confessione. Non aveva nulla da perdere e aveva invece molto da guadagnare, doveva già scontare 30 anni per l’omicidio della gioielliera di Porto Torres Fernanda Zirulia e la condanna a 16 anni in abbreviato per l’omicidio Erittu non avrebbe modificato il quadro carcerario. Non dimentichiamo, poi, che Bigella è stato giudicato allo stato degli atti, gli altri imputati dopo un dibattimento che ha ribaltato tutto". "Mario Sanna, che nemmeno era in servizio quella mattina, serviva nell’impostazione accusatoria - conclude Marras - Perché aveva le chiavi della cella. Ma questo può bastare perché la versione di Bigella sia credibile?". Poi la parola passa a Pasqualino Federici, che difende Vandi. Anche lui punta il dito contro Bigella: "Il fatto che si sia autoaccusato del delitto significa che abbia detto la verità? Fermo restando il libero convincimento del giudice, un giudizio di responsabilità deve essere pronunciato oltre ogni ragionevole dubbio. Il primo vaglio è la credibilità soggettiva del chiamante in correità. Possiamo cadere nei tranelli di coperte corte o lunghe? Bigella è un assassino e basta, lo dice una sentenza passata in giudicato. È un assassino feroce che ha ucciso per lucro". "Nel processo penale non esiste l’inversione dell’onere della prova, non sono io che devo dimostrare e colmare le tante lacune di un racconto fantasioso" Ecco perché, secondo Federici, "la verità di Bigella va vagliata minuziosamente. Perché il riscontro è come l’indizio: deve essere certo, univoco. Qui, al contrario, non ce n’è uno che tenga" Milano: il pane di qualità che nasce tutti i giorni nel carcere di Opera di Valeria Pinoia ilcittadinomb.it, 18 gennaio 2017 C’è una villasantese al comando della cooperativa che anima il laboratorio di panetteria e prodotti da forno all’interno del carcere di Opera. Un forno che cuoce prodotti di qualità ed è occasione di riscatto per i detenuti. L’obiettivo per il nuovo anno è un nuovo negozio esterno. Un forno che cuoce a pieno ritmo, una manciata di detenuti in cerca di riscatto e una 28enne di Villasanta con un obiettivo chiaro fin da quando era ragazzina: lavorare in un carcere. È nato così il progetto In-Opera, un laboratorio di panetteria e prodotti da forno all’interno della casa circondariale di Opera. Elisa Mapelli, laureata in Lettere, è il volto femminile e giovane di una cooperativa che garantisce nove stipendi, sette dei quali a detenuti. Tutto gira intorno alla cosa più buona e semplice che c’è: il pane. I fornai, formati dal maestro di fama nazionale Ezio Marinato, ne sfornano 800-1000 chili alla settimana, dai francesini al pane integrale, al pane arabo. "Tra i nostri cavalli di battaglia c’è il Pan Tramvai - dice Elisa Mapelli - quello con le uvette. Noi abbiamo scovato la ricetta antica e abbiamo iniziato a produrlo". È proprio sulla ricercatezza che punta la cooperativa, nella consapevolezza che competere con i colossi nell’ambito della produzione industriale sarebbe impossibile. Meglio un articolo di alta qualità, sia per la materia prima che arriva da mulini di Pordenone e Ravenna, sia per la lavorazione. "Abbiamo scelto la lievitazione naturale - continua - procedimenti lunghi e accurati che escludono completamente prodotti chimici. Il nostro pane è buono". L’immagine promozionale, alla quale la cooperativa non è ancora in grado di dedicare troppe risorse, punta su una bontà che è anche etica: i carcerati imparano un mestiere (il progetto ne ha già formati 15), guadagnano uno stipendio e prendono a cuore la causa. "Anche quelli che ci lasciano quando terminano il periodo di detenzione ci telefonano una volta al mese per sapere come vanno le cose - racconta Pierangelo Mapelli, padre di Elisa, presidente della coop ed ex consigliere comunale - con alcuni si sono instaurati veri rapporti di amicizia". A monte però c’è tutta la serietà di un rapporto di lavoro. All’inizio, raccontano i Mapelli, non è stato facile far capire a lavoratori e direzione del carcere che In-Opera è un’attività imprenditoriale a tutti gli effetti e deve essere in grado di stare in piedi. I detenuti però sono stati coinvolti in modo diretto, investiti di responsabilità e ruoli precisi, e il forno è diventato anche un po’ loro. Il loro pane, i dolci, i grissini finiscono nei ristoranti di Milano (come il Bianchi Caffè), nelle Rsa del capoluogo, nelle scuole, ai ricevimenti, alle sagre, in piccoli punti vendita temporanei all’interno degli ospedali di Monza e Vimercate dove c’è un cliente, medico, che scrive ai fornai lettere piene di complimenti. Ora però è arrivato il momento di spiccare il volo, di andare oltre. L’obiettivo per il nuovo anno è un nuovo negozio esterno che porterebbe nuovi circuiti di vendita consacrando al successo il mix perfetto: qualità, business, promozione sociale. Napoli: il carcere di Nisida avrà una biblioteca grazie a una cena di 6 grandi chef campaniasuweb.it, 18 gennaio 2017 Giovedì 26 gennaio al Circolo Posillipo di Napoli si terrà la terza edizione di "Un angelo tra le stelle". Il ricavato sarà impiegato per l’allestimento di Liber, un punto di lettura per i giovani detenuti e le loro famiglie. Sei grandi maestri dei fornelli si cimenteranno in un’esclusiva performance gastronomica di solidarietà. È la terza edizione di Un angelo tra le stelle, che si terrà giovedì 26 febbraio presso il Circolo Nautico Posillipo. Una cena per 160 ospiti, organizzata dall’Associazione Progetto Abbracci Onlus, il cui ricavato sarà impiegato integralmente per l’allestimento di un’area di lettura all’interno dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida. Le stelle protagoniste della serata sono: Peppe Aversa (Il Buco di Sorrento), Paolo Barrale (Marennà di Feudi di San Gregorio), Michele Deleo (Rossellinis di Palazzo Avino a Ravello), Danilo Di Vuolo (La Caletta dello Scrajo di Vico Equense), Peppe Guida (Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense) ed Enzo Piccirillo (La Masardona di Napoli). Il punto di lettura a Nisida si chiamerà Liber e sarà accessibile a tutti i minori ospiti della struttura e alle loro famiglie in visita: non una semplice biblioteca, ma un luogo di ritrovo dove trascorrere del tempo con le ragazze e i ragazzi dell’isola, dove poter ascoltare una storia letta dalla voce accogliente di una mamma o di uno zio e perdersi tra le pagine di un libro coltivando la fantasia. Il progetto, realizzato da Nati Per Leggere Campania e Fondazione Pol.i.s., fa sì che i giovani detenuti, spesso già genitori, imparino a sviluppare relazioni solide e durature attraverso il linguaggio delle emozioni e dei sentimenti mediati dal libro. L’obiettivo è garantire a tutti i bambini, figli di detenuti, le stesse opportunità di sviluppo e di educazione. Br, non si gioca con le parole di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2017 Il 19 gennaio il Senato offrirà la sua prestigiosa sede per discutere "Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto". Un lavoro di anni (dal 2009 al dicembre 2015, data della pubblicazione), che ha coinvolto circa 60 persone per oltre 100 incontri (tra colloqui, circles e soggiorni estivi), con la partecipazione di tre mediatori (i curatori del libro) e di alcuni rappresentanti della società civile. L’esperienza non è del tutto nuova, se si pensa al libro del 1989, Tornate ad essere uomini, in cui padre Adolfo Bachelet - fratello di Vittorio, il vicepresidente del Csm ammazzato dalle Br nel 1980 - riferisce i suoi incontri nell’arco di cinque anni con oltre 200 detenuti per fatti di terrorismo: con percorsi molto diversi, ma con passaggi comuni che dall’autocritica possono anche sfociare in forme di riconciliazione con i parenti delle persone ferite o uccise. L’opera di padre Bachelet si inseriva in un ampio contesto di molteplici iniziative di cappellani delle carceri, laici credenti, vescovi e preti, associazioni ecclesiali e convegni, che si proponevano (spesso riuscendovi) di offrire forme di risposta al male - senza sminuirlo - ispirate a logiche di ricomposizione di una comunità divisa da lacerazioni profonde. A questi importanti "precedenti" va ricollegato il Libro dell’incontro. Non è quindi scandaloso che alcune vittime o familiari di vittime degli spietati "anni di piombo" pensino - ancora oggi - di incontrare, per dialogare con nuove metodologie, gli autori di stragi, omicidi, gambizzazioni e sequestri, cioè di delitti che oltre alle persone direttamente colpite e ai loro familiari hanno offeso e profondamente ferito migliaia di italiani contrari alla violenza e impegnati nella difesa della democrazia. Nello stesso tempo, appare discutibile la "pruderie" che sembra trasparire dal titolo del libro preferendo a "terroristi" l’espressione "responsabili della lotta armata". Parlare di "criminali" o di "banditi" ("banda armata" era la qualificazione giuridica delle Br) sarebbe stato un appiattimento sulla componente giudiziaria della tragedia degli "anni di piombo". Ma la parola "terrori sti" inserita già nel titolo del libro avrebbe testimoniato - al di là di ogni possibile (ancorché ingiusto) sospetto - la doverosa preoccupazione di non sbilanciare più di tanto la "equi-prossimità" fra le parti in causa. Indigesta è soprattutto la scelta di presentare il libro in Senato con tutti gli onori, persino con la partecipazione del suo presidente e del ministro della Giustizia. La protesta di Paolo Bolognesi (presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna) ha fatto sì che due terroristi appartenenti al gotha delle Br, la cui presenza era inizialmente prevista, non ci saranno. Rimane comunque la solennità del rito assicurata dalla cornice della Camera Alta. Il rischio è di assecondare certe letture che parlano di un "libro che cambia la storia d’Italia", di un "radicale cambio di paradigma storico", capace di farla finita con "la giustizia che si esaurisce nella pena inflitta ai colpevoli", legittimando tutti - vittime e terroristi - a intervenire per una ricomposizione della memoria. Di qui il pericolo di oltrepassare i confini di una riflessione soprattutto "privata", per dare spazio a una riedizione di quella "legittimazione" politica che per anni le Br in particolare hanno perseguito. Riedizione per qualcuno magari inconsapevole ma comunque nefasta. Tanto più che il modello del libro è la "giustizia riparativa" che ha trovato la sua espressione più significativa nella Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione. Ed è nota l’aspirazione di alcuni soggetti (ex terroristi e aree contigue) a ottenere una commissione analoga anche in Italia, coinvolgendo Parlamento e istituzioni. Per cui l’iniziativa del Senato del 19 gennaio potrebbe rappresentare un avvio in tale direzione. Di nuovo una forma imprudente di possibile "legittimazione". A parte l’improponibilità dell’esperienza sudafricana nel nostro paese: non un regime di apartheid, ma una democrazia aggredita da una dichiarazione unilaterale di guerra decisa da qualcuno nel mondo cupo della clandestinità. Merita rispetto la fatica (certamente penosa) di rielaborare il male ripercorrendo alcuni nodi della tragedia del terrorismo anche mediante la proiezione di se stessi nello specchio degli altri. Ma il solenne e paludato ingresso del libro nelle aule del Senato della Repubblica comporta il rischio concreto di indebolire se non vanificare quella fatica, rivestendola di implicazioni e conseguenze politico-istituzionali del tutto fuori luogo. I bambini della droga sotto il sole di Napoli di Roberto Saviano La Repubblica, 18 gennaio 2017 Guardare la condizione dei più piccoli significa guardare il futuro del Paese. Nei quartieri a rischio un minore su tre abbandona la scuola. Ma il tema è ignorato. Ecco, questa è una storia che vi farà girare lo sguardo perché è una storia che non avreste mai voluto leggere. Ma questa non è solo una storia che fa male raccontare e ascoltare, questa è una storia che non sarebbe dovuta esistere. Quarantacinque arresti sono scattati ieri a Napoli nei confronti del clan Elia, nella prima ordinanza che si occupa interamente del clan il cui capostipite è Michele, detenuto dal 2011. Il clan Elia è attivo in pieno centro, nel quartiere cosiddetto del Pallonetto a Santa Lucia e nella zona a ridosso di Piazza del Plebiscito. Attraverso intercettazioni telefoniche, telecamere di videosorveglianza e testimonianze di collaboratori di giustizia è emerso come il clan fosse una organizzazione familiare con a capo Antonio e Ciro (figli di Michele) alle cui dipendenze "lavoravano" gli altri fratelli e sorelle: Renato, Luciano, Anna e Giulia. E poi parenti e soprattutto nipoti, figli, anche minorenni. Sia chiaro, questa è una storia che non dovrebbe accadere in nessun luogo, ma se il teatro è l’estrema periferia, quella abbandonata, trascurata, dove a stento arrivano i mezzi pubblici, possiamo in fondo dirci innocenti. Innocenti per non aver visto. Quando invece la tragedia si consuma sotto gli occhi di tutti, quando il disagio è evidente, palese, manifesto, quando è uno schiaffo che si finge di non ricevere nonostante la guancia arrossata bruci, allora io credo che qualche domanda dovremmo iniziare a porcela e a porla a chi preferisce vivere nella menzogna o fuori dal mondo. Questa è la storia vera di bambini che imbustano droga e la vendono. Bambini napoletani identici a quelli di Rio de Janeiro, Ciudad Juárez, Johannesburg, ai bambini afgani. Questa è la storia vera di bambini napoletani che non vivono in squallide periferie, in sordidi casermoni, ma nella parte più bella della città. Quella del teatro lirico più prestigioso d’Italia all’occorrenza succursale del San Paolo. Napoli ora è cambiata, Napoli e un’altra storia, Napoli è ‘na carta sporca dove lo sporco è coperto dal fiume di turisti. Napoli ne è uscita, come i tossici che fingono di non farsi più e che invece si fanno di nascosto. Ma le occhiaie si vedono, il sorriso a denti stretti, cariati, sorriso finto, sofferente. E Napoli è sempre stata i suoi bambini, ma osservarli, analizzare i loro percorsi e le opportunità che gli vengono date, anzi negate, dice altro. Dice che la città è cambiata in peggio. Dice che la camorra ha un’età media drammaticamente più bassa. Dice che quelli che dieci anni fa erano i manovali di camorra, inconsapevoli facchini per poche decine di euro, sono diventati capi o peggio, se bambini, sono stati inseriti nella catena di montaggio del business della droga, consapevoli fare carriera. Saviano parla del sole. Sì, del sole che illumina queste miserie. Guardiamo i bambini più da vicino, per immaginare Giovanni Elia, 13 anni, figlio di Adriana Blanchi e Renato Elia che riceve, da solo in casa, gli acquirenti alle tre di notte; che da solo, di notte, gestisce la piazza di spaccio. Che esce di casa e consegna dosi di coca. Il 17 agosto 2015 Adriana Blanchi è al telefono con un acquirente (tale Luca) che è a casa della donna per comprare coca. Blanchi si fa passare il figlio Gianni: lei al bambino dice di non dare nulla senza prendere denaro, il figlio le risponde "lo so". Giovanni Elia, 13 anni, sa che deve dare coca in cambio di denaro. Ma la roba è finita e Giovanni lo dice alla madre: le dice che Luca vuole acquistare delle dosi, che lui sa che non può consegnarle senza ricevere denaro e aggiunge però che le dosi per quella sera sono finite. "È che deve avere come ieri, però non ce ne sta", dice il bambino. Come ieri, perché Giovanni il giorno prima era lì a occupare la sua postazione. Era al lavoro. E il suo lavoro era, a 13 anni, gestire una piazza di spaccio. E quindi guardiamoli bene questi bambini, non come uomini in miniatura, ma come esseri umani, con dignità, diritti. Guardare la condizione dei bambini in un Paese, significa guardare il futuro di quel Paese, guardarlo nel presente, nell’immediato. I carabinieri di Napoli hanno realizzato un’inchiesta difficilissima punto di vista investigativo, sociale e politico, perché quando si tocca l’infanzia, e soprattutto quando si tocca l’infanzia al Sud, il rischio è sempre quello di essere azzannati come speculatori, come manipolatori. I bambini erano utilizzati per confezionare dosi di coca, impacchettarle, trasportarle e venderle. Bambini che a Napoli sono vittime di dispersione scolastica che non trova soluzione. Nei quartieri a rischio un minore su tre abbandona la scuola, eppure questo è un tema ignorato, marginalizzato. Questa storia racconta di quartieri bellissimi come il Pallonetto a Santa Lucia, un tempo considerato la Fiat dell’illegalità, perché aveva una quantità di persone impiegate nel contrabbando di sigarette paragonabile a quella che poteva avere una fabbrica come la Fiat nella produzione di automobili. Finito il contrabbando di sigarette è arrivata la coca e il quartiere si è come spezzato: una parte ha cercato di rientrare nel mondo della legalità, un’altra è passata completamente alla droga. Qui oggi comanda il clan Elia, che controlla gli affari illeciti nella zona del Pallonetto, piazza del Plebiscito e Borgo Marinari, pieno centro di Napoli. Il clan si serve dei bambini per la loro manualità - grazie alle dita piccole riescono a confezionare molto velocemente le bustine di coca - perché destano meno sospetto quando si muovono per consegnare le dosi, ma soprattutto per il vantaggio più grande che ha un bambino: la possibilità, se minore dei 14 anni, di non essere imputabile. I bambini a quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, dalle intercettazioni telefoniche, sembravano consapevoli di ciò che stavano facendo, consapevoli del loro ruolo, e se a un occhio lontano tutto potrebbe sembrare in fondo una declinazione della miseria, c’è invece differenza, e tanta, tra il servire caffè in un bar, portare la spesa per il salumiere sotto casa, spaccarsi la schiena a trasportare mobili o intossicarsi in qualche autofficina. Perché gestire a 13 anni una piazza di spaccio ti dà accesso a un mondo diverso, un mondo nel quale chi ci vive riesce a non sentirsi ai margini. Di tutto questo nessuno parla, eppure non è una storia che riguarda solo il sud Italia. In Afghanistan i talebani, i più grandi produttori di eroina al mondo, utilizzano da sempre i bambini per la coltivazione e il traffico di oppio, loro principale fonte di autofinanziamento. Secondo i dati della polizia afgana, nel mese di novembre, nella zona dell’Herat 30 bambini sono stati arrestati per traffico di droga. Dall’altra parte del mondo, il feroce cartello messicano de Los Zetas da anni addestra bambini (spesso di nazionalità americana, perché insospettabili) per diventare sicari e narcotrafficanti: li chiamano "Los Niños Zetas", sono ragazzini di 12, 14 anni pronti a tutto pur di fare soldi, pur di avere una vita diversa, ma spesso vengono uccisi o finiscono in carcere ancor prima di raggiungere la maggiore età. Ora, immaginate se in Germania, Francia o Spagna fosse uscita una notizia del genere: un bambino di 13 anni che da solo in casa gestisce una piazza di spaccio, sarebbe esploso un dibattito accesissimo. E invece qui per parlarne dobbiamo andare oltre le solite, deprimenti dinamiche locali che ignorano, sottovalutano, marginalizzano, che parlano di emozione. Tra poco arriveremo a dire che di fronte a un’indagine o a un dato, prima le persone non aprivano il loro cuore, adesso lo aprono. Sono tutte declinazioni poetiche, manipolatorie e propagandistiche che celano rassegnazione, quella rassegnazione che impedisce di tenere gli occhi aperti, che fa preferire le partite di calcio, le feste e le inaugurazioni. Oramai non c’è altra soluzione, il racconto sul territorio è bloccato: che intervenga quindi il Capo dello Stato, immediatamente, che ci provi Gentiloni a portare cambiamento dove Renzi, anche lui per paura di lordarsi nell’abisso, ha fallito. Le scuole aperte fino a tardi in aree come Napoli sono scelte ancora fragili: i maestri di strada e le molte associazioni, insieme ad alcuni preti coraggiosi, sono l’unica possibilità di alternativa in città, ma da soli non ce la fanno. È fondamentale che la scuola formi i ragazzi, che li prepari al lavoro. È fondamentale che la scuola invada, letteralmente, le vite dei bambini e delle famiglie napoletane. Bisogna tornare a discutere del fallimento continuo e totale di qualsiasi tipo di politica sociale in questi quartieri e non stiamo parlando di Scampia, non stiamo neanche parlando di Forcella questa volta: si sta parlando di Santa Lucia, della zona del Pallonetto, un nome che a chi non è napoletano potrebbe far sorridere, chiamato così perché sembra proprio disegnato come se qualcuno avesse dato un calcio a un pallone e avesse disegnato quel territorio (mi si perdonerà questa interpretazione romantica del termine). Santa Lucia è uno dei posti più belli e raccontati della nostra terra, del Mediterraneo. C’è un verso bellissimo di E. A. Mario in "Santa Lucia lontana" che dice: " Santa Lucia, tu tiene sulo nu poco e mare ma, cchiù luntana staje, cchiù bella pare". Perché quello era l’ultimo pezzo di Napoli che gli emigranti vedevano partendo a bordo delle navi per le Americhe. Ora Santa Lucia è quel posto in cui nemmeno più i bambini possono essere bambini e a 13 anni gestiscono una piazza di spaccio. Da soli. Di notte. Le misure di prevenzione non si trasformino in strumenti di controllo del dissenso Il Manifesto, 18 gennaio 2017 L’appello dei Giuristi democratici. A febbraio la Corte d’appello di Roma sarà chiamata a decidere sui ricorsi presentati da due esponenti dei movimenti di lotta per il diritto all’abitare, Paolo Di Vetta e Luca Fagiano, colpiti da decreti che dispongono nei loro confronti la misura della sorveglianza speciale: provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale con sacrificio dei diritti di riunione ed espressione e manifestazione del pensiero e di movimento. Nel prossimo mese di febbraio la Corte d’appello di Roma, sezione applicazione misure di prevenzione per la sicurezza e la pubblica moralità, sarà chiamata a decidere sui ricorsi presentati da due esponenti dei movimenti di lotta per il diritto all’abitare, Paolo Di Vetta e Luca Fagiano, colpiti da decreti che dispongono nei loro confronti la misura della sorveglianza speciale: provvedimenti fortemente limitativi della libertà personale (con sacrificio dei diritti di riunione ed espressione e manifestazione del pensiero) e di movimento (con la sospensione della patente di guida). Nel recente passato, amministratori pubblici locali così come politici nazionali, proprio a seguito di incontri con tali attivisti hanno più volte espressamente dichiarato che il grave problema dell’emergenza abitativa non può essere ridotto a una questione di ordine pubblico. Ciononostante, nel corso dell’ultimo anno si è registrato, da parte della Questura di Roma, un inusitato e reiterato ricorso alle misure di prevenzione nei confronti di attivisti delle realtà associative per il diritto alla casa, dall’avviso orale fino alla proposizione, in ben sette casi, della sorveglianza speciale. L’utilizzo di questo tipo di armamentario, costruito fondamentalmente per il contrasto e la repressione del fenomeno mafioso e utilizzato invece nella specie al fine di comprimere e di fatto negare diritti fondamentali del vivere civile e sociale, è senza dubbio alcuno preoccupante. Al di là dei rischi immanenti di incostituzionalità - da tempo denunciati dalla gran parte della dottrina - dell’intero sistema delle misure di prevenzione per contrasto con i principi della riserva di legge, della tassatività, della non colpevolezza e dell’eguaglianza, pare di cogliere una concezione del diritto della prevenzione come diritto punitivo del sospetto, con l’elusione delle garanzie sostanziali e processuali. Quando al centro della valutazione giudiziaria si fa rientrare la presunta personalità "antagonista" dei proposti e dalla loro militanza politica si farebbero discendere i comportamenti di rilevanza penale, la valutazione di stampo preventivo assume particolare delicatezza: in discussione rientrano allora non solo la presunta capacità di mettere a repentaglio la sicurezza pubblica ma, soprattutto, i principi costituzionalmente tutelati della libertà di esprimere le proprie opinioni e di associarsi insieme ad altri per sostenerle. Il rischio di una torsione delle misure preventive e di un loro - improprio - utilizzo quali strumenti di controllo del dissenso e del conflitto sociale si fa così sempre più concreto. E laddove le misure preventive assumano una indebita funzione surrogatoria della sanzione penale, divenendo la "stampella" di questa, ad essere messo in discussione è il rispetto del principio di legalità, ossia l’accertamento delle specifiche situazioni di pericolosità attraverso un rigoroso rispetto degli indici tassativamente previsti dal legislatore. In mancanza di accertamento giudiziale delle condotte lamentate, in buona sostanza, si finisce per ricorrere alle misure di prevenzione proprio per aggirare le garanzie sostanziali e processuali, connesse all’accertamento dei reati, in tutti i casi nei quali, in mancanza del raggiungimento della prova certa della colpevolezza, ci si deve accontentare di sanzionare (meno gravemente) il dubbio. Così facendo, si realizza esattamente una torsione delle misure preventive ed un loro utilizzo quale strumento di controllo del dissenso e del conflitto sociale. Ciò che, dal punto di vista amministrativo, potrebbe essere definito come un eccesso, ovvero uno sviamento di potere. Torsione evidente ed allarmante quando, come nel caso di specie, certamente provata risulta la presenza dei due attivisti a tavoli ufficiali di dialogo con partiti politici nazionali, istituzioni politiche comunali, provinciali, regionali, nonché con i vari Prefetti di Roma che si sono avvicendati nel tempo, mentre oggettivamente inconsistente la presenza degli stessi in mobilitazioni a cui sono seguiti disordini (come ad esempio la manifestazione "No Expo") tenutesi lontano da Roma. Attribuire perciò la qualifica di soggetti socialmente pericolosi a due lavoratori impegnati nel volontariato sociale in aiuto di persone svantaggiate, attivisti dei movimenti sociali e costanti interlocutori politici delle autorità politiche ed amministrative locali ad ogni livello, protagonisti del percorso istituzionale di approvazione della recente delibera della Giunta della Regione Lazio che riconosce il diritto a coloro che abitano "immobili pubblici o privati impropriamente adibiti ad abitazione" (così le delibera 110/2016 Giunta Regione Lazio -approvata all’unanimità- e 50/2016 del Commissario comunale Tronca) all’assegnazione di una quota di alloggi di edilizia popolare, risulta un’evidente forzatura. Non riteniamo che si possa chiedere ai Tribunali di giudicare una dinamica sociale. Tanto più quando le denunce giungano in ragione del fatto di essere persone note e riconoscibili, per aver sempre agito una politica pubblica, per essere stati i referenti nei rapporti con le istituzioni. Ritenere oggi pericolose socialmente due persone perché, come espresso nelle richieste, hanno partecipato a manifestazioni anche sfociate in disordini non è accettabile. A meno che non si intenda far rispondere personalmente gli stessi di ogni comportamento di ogni singolo manifestante, o peggio, ricondurre a loro di tutte le dinamiche che si determinano in momenti di piazza. Laddove i "precedenti di polizia" addotti a sostegno delle misure richieste, pur quantitativamente non scarsi, siano qualitativamente inconsistenti (o addirittura riguardino persona incensurata) e difettino del necessario requisito dell’attualità, deve valere l’importante principio del nostro stato di diritto chiaramente espresso nella sentenza n. 177/80 della Corte costituzionale: "Il materiale probatorio ritenuto inidoneo o insufficiente per affermare la responsabilità penale in ordine a talune fattispecie di reato non può essere diversamente valutato quando si tratti di accertare, per l’applicazione di misure di prevenzione, la sussistenza del medesimo atto di preparazione". ***Hanno aderito allo stato attuale: Luigi Ferrajoli, Professore emerito di Filosofia del diritto; Livio Pepino, già Sostituto Procuratore presso la Corte di Cassazione; Antonello Ciervo, Avvocato, Ricercatore di Diritto Pubblico Università di Perugia; Daniele Nalbone, giornalista; Franco Russo, Associazione Forum Diritti/Lavoro. Rapporto di Amnesty su 14 Paesi europei: "le leggi antiterrorismo inutili e liberticide" Il Dubbio, 18 gennaio 2017 Leggi speciali, arresti preventivi, divieto di manifestare, attacco ai media, guerra a migranti e minoranze religiose. maglie nere Ungheria, Francia e Polonia. Le nuove misure antiterrorismo adottate dall’Europa stanno minacciando le libertà fondamentali e trascinando intere nazioni in stati di sorveglianza permanenti. È quanto denuncia Amnesty International, attraverso la pubblicazione di una dettagliata analisi rispetto ai diritti umani delle misure antiterrorismo adottate da 14 stati dell’Unione europea: Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Slovacchia, Spagna e Ungheria. Assente l’Italia, uno dei pochi paesi che non è ricorso a leggi speciali per fronteggiare l’allarme terrorismo. Il rapporto, intitolato "Pericolosamente sproporzionato: uno stato di sicurezza nazionale sempre più in via di espansione in Europa" e pubblicato alla vigilia dell’adozione della direttiva dell’Unione europea sul contrasto al terrorismo, rivela fino a che punto leggi e politiche definite "orwelliane" abbiano soverchiato la protezione dei diritti umani. "All’indomani di una scia di orrendi attacchi, da Parigi a Berlino, i governi hanno frettolosamente adottato leggi sproporzionate e discriminatorie", ha dichiarato John Dalhuisen, direttore per l’Europa di Amnesty International. "Considerate singolarmente, queste misure anti-terrorismo esaminate tutte insieme, compongono un quadro preoccupante in cui poteri incontrastati stanno compromettendo libertà che erano date per garantite". In diversi paesi sono state proposte o adottate misure che erodono lo stato di diritto, rafforzano il potere esecutivo, indeboliscono la supervisione giudiziaria, limitano la libertà d’espressione ed espongono chiunque a forme di sorveglianza governativa senza controllo. Il loro impatto sugli stranieri e sulle minoranze etniche e religiose è particolarmente forte. In Ungheria la nuova legislazione fornisce ampi poteri al governo, nel caso in cui sia dichiarato lo stato d’emergenza, di vietare le manifestazioni, ridurre la libertà di movimento e congelare conti bancari. In Francia lo stato d’emergenza è stato rinnovato cinque volte, standardizzando una serie di misure invadenti, tra cui il potere di vietare le manifestazioni e quello di condurre perquisizioni senza mandato. Molti paesi europei possono essere ormai qualificati come "stati di sorveglianza", a seguito dell’approvazione di leggi che consentono una sorveglianza indiscriminata e di massa da parte dei servizi di sicurezza e d’intelligence. La legge anti-terrorismo adottata dalla Polonia nel 2016 autorizza la sorveglianza segreta per tre mesi di cittadini stranieri attraverso le intercettazioni telefoniche, il controllo delle comunicazioni elettroniche e delle reti. Poiché le misure anti-terrorismo insistono sempre di più sul concetto di prevenzione, le attività "pre-criminali" dei governi si basano sempre di più su ordinanze di controllo per limitare la libertà di movimento e altri diritti. La libertà di stampa? Vacilla anche in Europa di Federica Bianchi L’Espresso, 18 gennaio 2017 Censure, pressioni, minacce. E controlli sulla Rete. Anche in Paesiche fanno parte della Ue, come Polonia e Ungheria. Mentre la situazione sta ulteriormente peggiorando quasi ovunque, dal Messico all’Egitto. Stampa e democrazia sono indissolubilmente legate. Impossibile che la libertà della prima goda di ottima salute quando la seconda entra in crisi. Difficile che le risposte populiste alla grande crisi democratica di questo inizio millennio non tentino di influenzare, quando non di imbavagliare, notizie e commenti per evitare notizie e critiche contro il proprio operato, non sempre corrispondente alle promesse e ai desiderata di chi ne ha agevolato l’ascesa al potere. E così il mondo occidentale, per la prima volta in mezzo secolo, sta riscoprendo la fragilità di una stampa super partes o, più spesso, di parte singolarmente ma pluralista nel suo insieme. Nel Vecchio Continente è stata l’Ungheria di Victor Orbán, l’euroscettico populista ante litteram a prendere di punta per primo i giornalisti indipendenti e critici verso qualsiasi accentramento del potere. Cominciò con l’online, con personaggi innovativi come Saling Gergo, ex responsabile delle notizie del più grande sito indipendente ungherese, Origo: lui e il suo team furono tra i primi ad essere mandati a casa dall’editore per motivi politici. Poi, passo dopo passo, tutti i media critici sono stati svuotati di uomini e contenuti, complice lo scudo della crisi economica, fino ad arrivare alla chiusura, lo scorso mese, di Népszabadsag, il principale quotidiano di opposizione, acquisito da uno dei più grandi gruppi editoriali ungheresi solo pochi mesi prima. Nella vicina Polonia una proposta di legge del partito di estrema destra al governo, "Legge e Giustizia", che avrebbe pesantemente ridotto i margini di manovra dei giornali, favorendo soltanto la stampa patriottica e cattolica, è stata bloccata da manifestazioni di piazza la scorsa estate. E tuttavia i gruppi editoriali non allineati col governo - un caso tra tutti è quello del principale quotidiano nazionale Gazeta Wyborcza - sono stati indeboliti economicamente con una massiccia deviazione degli investimenti pubblicitari verso media amici. Non solo. Poco prima di Natale duemila persone sono tornate in piazza per protestare contro la riduzione della stampa parlamentare, soprattutto quella discorde. A dimostrazione che giornalisti e libertà di espressione rimangono sotto scacco. Intanto negli Stati Uniti, a pochi giorni dal suo insediamento, Donald Trump, il populista per eccellenza, formalmente difensore dell’America contro lo strapotere economico di Pechino, incontra Jack Ma, che non solo è il miliardario cinese più famoso del mondo, ma soprattutto è un super consigliere del presidente cinese Xi Jinping e il volto della comunicazione online di Pechino. Se la sua Alibaba riuscirà a spalancare il mercato cinese a un milione di piccoli business dell’America rurale, sarà difficile che Trump si metterà davvero di traverso all’espansione commerciale di Pechino, che si intrometterà sulla mancanza di una stampa indipendente locale o che farà problemi sulle enormi limitazioni che la stampa americana subisce in Cina. Senza contare che proprio Trump, futuro leader del Paese che una volta era considerato la Mecca della libertà di espressione, ha già espresso pesanti critiche verso i giornalisti o i comici che gli contestano i comportamenti poco rispettosi dei valori democratici americani. Alcuni di loro stanno cedendo alle lusinghe e alle minacce. I vertici di Condé Nast, una delle società media più potenti d’America, e i direttori dei suoi principali giornali, da Vanity Fair al New Yorker, hanno organizzato un incontro con Trump a porte chiuse, attirandosi forti critiche da parte dei gruppi editoriali non disposti a rinunciare alla propria libertà di manovra. E se in Europa, con la peculiare eccezione dell’Italia dove la criminalità organizzata minaccia fisicamente i giornalisti scomodi, si tarpano le ali alle voci scomode con il tratto di una penna influente, ai suoi confini si utilizzano con rafforzata frequenza ben altri metodi repressivi. Sulla sponda meridionale del Mare Nostrum il 2015 è passato alle cronache come l’anno in cui il dittatore Abdel Fattah Al Sisi, autore del colpo di Stato contro il governo (democraticamente eletto) dei Fratelli musulmani, ha spedito in prigione il maggior numero di giornalisti nella storia dell’Egitto. Come ha insegnato all’Italia il drammatico caso del ricercatore Giulio Regeni, non tutti riusciranno un giorno ad uscirne. Sei sono già morti. Non contento, e onde evitare probabili rivolte future, Al Sisi ha poi istituito a fine anno scorso il "Consiglio supremo per la stampa e i media", il cui capo è nominato direttamente da lui e ha il potere di revocare le licenze editoriali, scegliendo a piacere quali media possono continuare a trasmettere o pubblicare e quali dovranno chiudere. Ma l’Egitto non è l’unico Paese che si è aggiunto in anni recenti alla storica lista dei tre Paesi peggiori per la libertà di stampa - Cina, Corea del Nord e Iran. Sul triste ma sempre più affollato podio sono saliti anche il Messico dei cartelli della droga, la Russia di Putin e la Turchia del sultano Erdogan. In tutti e tre i paesi fare il giornalista vuol dire rischiare la vita. Ogni giorno. Solo in Messico negli ultimi dieci anni sono stati uccisi ben 23 giornalisti. Secondo Marcila Zendejas, un’attivista dei diritti umani, oltre la metà degli attacchi contro i reporter arrivano direttamente dai vari livelli di governo locale, sindaci o governatori, spesso in affari con i trafficanti di droga dei grandi cartelli, a spese della popolazione locale. Le uccisioni sono violente, vere e proprie esecuzioni che i politici locali si affrettano a giustificare incolpando il giornalista ucciso di avere stretti legami con la criminalità. Celebre nel male è diventato Javier Duarte, governatore dello Stato di Veracruz, uno dei più cruenti per i giornalisti, costretto a dimettersi l’anno scorso e poi sparito nel nulla dopo l’inizio di un’indagine federale per peculato e corruzione. Anche ad Oriente l’ascesa di Erdogan e delle sue ambizioni assolutistiche è andata di pari passo con l’aumento del numero dei giornalisti arrestati: 120 solo dal luglio scorso, quando è fallito un tentativo di colpo di Stato contro di lui. Ormai la Turchia, allieva del metodo Al Sisi, è riuscita a superare perfino la Cina, da sempre al vertice della classifica dei paesi più repressivi, nel numero di giornalisti annualmente incarcerati. Oltre un centinaio di radio e televisioni minori hanno dovuto chiudere i battenti. E, con l’arresto di dieci giornalisti e del suo amministratore delegato, tirato fuori da un aereo in partenza dalla polizia di Istanbul, anche Cumhuriyet, l’ultimo grande giornale indipendente turco, ha chiuso i battenti con la fine del 2016. Metafora perfetta di un anno in cui potere e politica hanno inflitto un grave colpo alla stampa di mezzo mondo. Senza che i cittadini se ne siano davvero resi conto. Come se la libertà di stampa fosse un bene di consumo. E non, invece, una conquista quotidiana a tutela della libertà con la "L" maiuscola. Migranti. Raddoppiate in due anni le richieste d’asilo di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2017 Mini-Cie in ogni regione nelle linee guida che Minniti presenterà oggi in Parlamento. Un altro decreto (o ddl) riguarderà la sicurezza urbana. Un doppio pacchetto normativo: immigrazione e sicurezza urbana. Un duplice criterio di politica sugli ingressi: sicurezza e integrazione. E due profili istituzionali nella scommessa del ministro Marco Minniti sulla prevenzione del territorio: sindaci e prefetti. Oggi il ministro dell’Interno, alla Camera nell’audizione programmatica in commissione Affari costituzionali, rende ufficiali le linee guida sulla sicurezza del governo guidato da Paolo Gentiloni. Dopo le prime polemiche sui Cie, il 5 gennaio in una conferenza stampa a palazzo Chigi sulla radicalizzazione islamica Gentiloni ha espresso il suo "pieno apprezzamento" a Minniti. E quest’ultimo ha sottolineato come il suo pacchetto "debba essere condiviso nella sede naturale: il Parlamento". Oggi, dunque, si comincia. Si intravede un decreto legge sull’immigrazione e un disegno di legge - o decreto - sulla sicurezza urbana. Sui migranti, Minniti illustrerà uno scenario dove parlano i numeri già accertati dal Viminale. L’anno scorso 181.436 sbarchi, quest’anno già 2.397; 175.657 persone in accoglienza (dati al 17 gennaio dell’Interno), il triplo dei 66.066 del 2014. Negli ultimi tre anni 1.529 salme recuperate nel canale di Sicilia. Un dramma senza sosta: l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e l’Unhcr hanno già dato l’allarme sui morti in mare quest’anno, almeno pari a 200 persone. In Italia poi sono raddoppiati i minori sbarcati: 12.360 due anni fa, 25.846 nel 2016. Duplicate in un biennio le istanze d’asilo: 63.456 nel 2014, 83.970 nel 2015 e 123.600 l’anno scorso. I fascicoli in pendenza di giudizio sono una montagna pari a 105.744. Così Minniti illustrerà l’ipotesi di ridurre a uno i gradi di giudizio in caso di ricorso contro l’esito negativo delle commissioni. E per accelerare le procedure, vista anche l’età media molto alta dei componenti, le commissioni potrebbero essere rinforzate con giovani laureati. Il ministro ribadirà oggi un impegno già annunciato a palazzo Chigi il 5 gennaio: i nuovi Cie "non saranno quelli visti finora". L’idea è di aprirli in ogni regione escluse Valle d’Aosta e Molise, vicini agli aeroporti, capienza 80-100 persone al massimo. Con un garante in ogni regione e una commissione di controllo in ogni centro. I dati sugli irregolari, del resto, sono eloquenti quanto gli altri. Gli stranieri rintracciati nel 2016 in posizione irregolare sono stati 41.473: 18.664 allontanati - respinti alla frontiera, riammessi negli stati di origine, rimpatriati - e 22.809 non rimpatriati. Gli irregolari in totale erano 30.906 nel 2014 e 34.107 nel 2015. L’azione di Minniti si dispiega attraversi i due dipartimenti indirizzati su sicurezza e accoglienza: quello di Ps, guidato da Franco Gabrielli, e le Libertà civili dirette da Mario Morcone. Diventa necessario ridurre al più presto i centri più grandi, come quello di Cona (Venezia) teatro di proteste recenti, che annovera circa 1500 migranti accolti. Il Viminale in proposto ha avviato un programma di controllo sulla gestione dell’accoglienza; verifiche più stringenti sono state sollecitate di recente dal ministro con una circolare. La sfida più lunga, più ampia e più difficile è un’altra: distribuire i nuovi migranti e redistribuire quelli già presenti in proporzione alla popolazione. Ma, soprattutto, con almeno "mille Comuni in più", come ha auspicato Minniti con tutti i prefetti d’Italia riuniti lunedì a Roma, rispetto agli attuali 2600 centri urbani impegnati nell’ospitalità dei rifigiati. È il piano Anci (Associazione nazionale Comuni d’Italia) calibrato su un arrivo potenziale di 200mila stranieri nel 2016. Domani il ministro dell’Interno sarà alla Conferenza Stato Regioni dove parlerà di Cie e di piano Anci. È partita, intanto l’assegnazione degli incentivi - 100 milioni - per i comuni che hanno fatto accoglienza nel 2016, 500 euro per ogni richiedente asilo ospitato. Il pacchetto sicurezza urbana allo studio di Minniti punta a più poteri di ordinanza per i sindaci. Per individuare zone a rischio, come le stazioni ferroviarie, dove i primi cittadini potranno vietare l’accattonaggio per garantire minori situazioni di degrado e di rischio per la pubblica sicurezza. La dignità non si difende con i muri di Franco Uda* Il Manifesto, 18 gennaio 2017 L’orrore che ha caratterizzato le cronache internazionali a ridosso del passaggio d’anno, l’abisso di barbarie che sembra aprirsi intorno a noi, il degrado di secoli di conquiste nel solco della civilizzazione, sembrano far vacillare il principio di azione e reazione, caposaldo della fisica newtoniana ma anche eccellente descrittore delle dinamiche sociali e politiche. Cos’altro deve accadere nel mondo perché si levi una mobilitazione di massa che sappia affermare - con la massima chiarezza possibile - che gli atti di terrore, le stragi, la paura, non avranno la meglio su una società libera, democratica e secolarizzata? E che con la stessa fermezza dica - nel contempo e una volta per tutte - che non è con la negazione dei diritti umani, con la proliferazione degli armamenti, con la costruzione di muri, che si possono costruire le condizioni di convivenza, dignità, rispetto reciproco tra popoli e Stati? In questo senso la sponda sud del Mediterraneo, il Medio e Vicino Oriente hanno dimostrato una notevole reattività della società civile, ben superiore al Vecchio Continente, nonostante le oggettive difficoltà, come in Turchia - dove le libertà personali e i diritti civili sono oltremodo compromessi - o in Siria - dove la principale preoccupazione delle persone sarebbe quella di sopravvivere; di contro in Germania - neanche dopo il sanguinoso attacco terroristico a Berlino - si è levata una qualsivoglia forma di protagonismo dei cittadini. Non sono mancate diverse e contraddittorie congetture sull’assopimento della società civile in questo inizio di secolo, disponiamo di strumenti di conoscenza e di analisi sopraffini, abbiamo sviluppato una straordinaria ricchezza di iniziative sulle policy e nell’interlocuzione con le istituzioni, ma quello che sembra mancare è la capacità di coinvolgimento popolare, ampio e di massa, senza cui la stessa autorevolezza di rappresentanza della società civile organizzata è destinata a barcollare. Le forme di conflitto, la guerra asimmetrica, l’irruzione del terrorismo a tutto campo, rendono la realtà che ci circonda - e la sua descrizione - molto più complessa che nel passato: la semplificazione schematica - che non pochi risultati ha portato all’ampliamento del fronte di mobilitazione negli scorsi decenni - in buoni e cattivi, o aggressori e aggrediti, oggi è mutevole e cambia di volta in volta, a seconda dei luoghi o delle circostanze. Possiamo però subire passivamente l’irreversibile aumento di entropia - quella che Ignacio Ramonet definì come "la geopolitica del caos" - e rassegnarci quindi all’inazione sine die? C’è un lavoro immane da fare sulle fondamenta culturali di una nuova cittadinanza europea e globale: la strada percorsa durante il "secolo breve" per la definizione e codifica del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo è un patrimonio che ha formato le coscienze di intere generazioni, che hanno poi tradotto nella passione civile e nell’impegno politico quel dibattito e quella tensione a loro contemporanei. Alcune cose sono andate per il verso giusto, altre si sono arenate producendo sogni infranti e disillusioni, che rischiano oggi di essere l’elemento prevalente nella cultura condivisa delle giovani generazioni, che quella esperienza non hanno vissuto. È necessario ripartire proprio da qui, da una paziente e meticolosa opera di pedagogia dei diritti, di narrazione delle conquiste raggiunte, che sappia convincere e appassionare anche coloro che - per motivi anagrafici - a questo processo non hanno avuto modo di prendere parte, che àncori e ispiri l’azione concreta a principi universali. Possiamo e dobbiamo tenere insieme vocazioni e aspirazioni differenti del nostro vasto mondo, proseguendo sulla via dell’expertise e dei think tank, luoghi più ristretti dove condividere e confrontarsi su analisi, progetti e buone pratiche, ma non perdere di vista l’obbiettivo di essere soggetti includenti, popolari e di massa, missione alla quale siamo geneticamente vocati e che costituisce l’anima più propriamente politica del nostro agire come soggetti costituiti per rappresentare sogni e bisogni della società. *Responsabile nazionale Arci Pace, diritti umani e solidarietà internazionale In 74 per scortare 29 migranti in Tunisia, costo 115mila €: così funzionano le espulsioni di Vladimiro Polchi La Repubblica, 18 gennaio 2017 Il Garante dei detenuti racconta un rimpatrio forzato minuto per minuto. Fascette ai polsi, telecamere, audizioni. E un volo charter con 2 agenti per ogni straniero. Il piano di volo è da Fiumicino a Hammamet, con scali a Lampedusa e Palermo. L’aereo è un charter della Bulgarian Air affittato dal Viminale. I tunisini da espellere sono 29 e 74 gli accompagnatori: un funzionario della polizia di Stato, un medico, un infermiere, due delegati del Garante nazionale dei detenuti, 69 agenti di scorta non armati e in borghese. Fascette in velcro legano i polsi dei passeggeri. E poi: perquisizioni, carabinieri in tenuta anti-sommossa, riprese video delle operazioni, audizioni di due funzionari del consolato tunisino. Una spesa stimata in 115mila euro. Così il 19 maggio scorso sono stati riportati a Hammamet 29 migranti irregolari. Un rimpatrio forzato-tipo, raccontato in dettaglio da un rapporto del Garante dei diritti dei detenuti, che ben fotografa le difficoltà della macchina delle espulsioni. Un passo indietro: il Viminale in queste ore prova a far ripartire il complesso meccanismo di contrasto all’immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali ed espulsioni. Un sistema imponente che dà miseri frutti: nel 2016 i rimpatri sono stati meno di 6mila. Per questo, il ministro dell’Interno annuncia più Cie e nuovi accordi con i Paesi d’origine. Ma è l’iter stesso dell’espulsione a rivelarsi costoso e complesso. Lo dimostra bene il racconto di quanto avvenuto il 19 maggio 2016. La macchina si mette in moto - Il Viminale noleggia un volo della Bulgarian Air Charter, con decollo da Roma Fiumicino alle ore 8.40 e rientro alle 17 dello stesso giorno. A bordo, oltre al funzionario responsabile, siedono 71 persone appartenenti alla polizia di Stato. "Tra questi, un medico e un infermiere provenienti dai ruoli tecnici della polizia, che hanno garantito il presidio sanitario sino in Tunisia. Gli altri componenti avevano funzioni di scorta. Colpisce - si legge nel rapporto del Garante - il fatto che non vi fossero interpreti a bordo, anche se il caposcorta ha dichiarato la presenza di personale in grado di parlare inglese e francese". Gli agenti non sono armati, né in divisa, ma riconoscibili "per l’esposizione della placca, ovvero il distintivo di riconoscimento della polizia di Stato in cui non è visibile il nome, ma un numero identificativo. Sono presenti anche operatrici di sesso femminile ". Prima tappa: Lampedusa - Il primo scalo è a Lampedusa. Gli espulsi sono 30: "Il limite massimo che l’accordo bilaterale Italia- Tunisia prevede per una singola operazione". All’arrivo all’aeroporto, "i cittadini tunisini da rimpatriare, provenienti dall’hotspot, erano sulla pista all’interno di un pullman della Misericordia (onlus locale), scortati da circa dieci carabinieri in tenuta da ordine pubblico". Non mancano le tensioni. I tunisini devono ancora firmare i decreti d’espulsione, alcuni rifiutano di scendere dal pullman, arriva un nuovo contingente di carabinieri in tenuta anti-sommossa, la questura di Agrigento riprende tutto con una telecamera. La situazione rischia di precipitare. Alla fine, grazie al dialogo instaurato da due ispettori anziani, tutti scendono. Dopo le perquisizioni personali ("nella grande maggioranza dei casi viene chiesto di abbassare le mutande") e dei bagagli, vengono applicate ai polsi degli espulsi fascette di velcro, che terranno anche in volo. Su questo indugia il rapporto: "Il caposcorta ci ha informato che durante il volo i rimpatriandi avrebbero tenuto sempre le fascette per salvaguardare la sicurezza, specificando che per rimpatri più lunghi, per esempio quelli in Nigeria organizzati dall’Italia con il coordinamento di Frontex, le fascette vengono tolte. Sui voli brevi, le fascette vengono tenute il più possibile, essendo minore la necessità di usare i bagni e dovendo i rimpatriandi consumare un solo pasto, fornito dalla Polaria durante lo scalo". I controlli incrociati - Il secondo scalo è, appunto, a Palermo. Qui si svolgono le audizioni con due funzionari del consolato della Tunisia e due agenti della polizia italiana, per verificare "l’effettiva provenienza e cittadinanza " dei migranti. Durante i colloqui, un ragazzo in lacrime dichiara di essere minorenne. I funzionari telefonano a Tunisi e accertano effettivamente la sua minore età: il giovane non può essere espulso e resterà in Italia. Verso Hammamet - Quindi si riparte per Hammamet. Vista la stretta scala d’accesso all’aereo, che permette il passaggio di una persona alla volta, il caposcorta avverte che "la situazione è esposta a rischi di gesti di autolesionismo". Tutti, invece, salgono senza incidenti. Si atterra alle 15.10. All’arrivo, i 29 cittadini tunisini vengono liberati dalle fascette e consegnati alle autorità locali direttamente dalla porta anteriore dell’aereo. Alle 15.45 del 19 maggio il volo della Bulgarian è pronto a decollare per far ritorno a Fiumicino. Migranti. Milano, arrestato presunto torturatore che agiva in un campo profughi in Libia di Luca Fazio Il Manifesto, 18 gennaio 2017 Immigrazione. La procura di Milano, dopo mesi di indagini e grazie alle testimonianze di decine di migranti che soggiornano all’hub di via Sammartini, ha emesso un’ordinanza per omicidio e tortura a carico di un ragazzo somalo di 22 anni accusato di essere un aguzzino che organizzava viaggi dalla Libia all’Italia. Il procuratore capo Francesco Greco rivolge un messaggio al governo Gentiloni: "In un momento in cui fa trattati per la gestione dei flussi migratori, l’Italia deve chiedere il rispetto dei diritti umani". Il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, deve averne viste tante ma una valutazione di questo tipo ancora non si era sentita: "In 40 anni di carriera non ho mai visto un orrore simile". Il riferimento è a un’indagine che ha per scenario un campo in Libia dove venivano ammassati i profughi africani in attesa di imbarcarsi per l’Italia. "Un campo di concentramento". È lì che secondo l’accusa agiva come un torturatore un somalo di 22 anni fermato dalla polizia locale lo scorso 26 settembre a Milano nei pressi dell’hub di via Sammartini (Stazione Centrale) che ospita centinaia di profughi. Osman Matammud sarebbe stato riconosciuto da due ragazze che lo avrebbero visto all’opera nel campo di Bani Walid in Libia, a sud est di Tripoli. L’intervento degli agenti è scattato mentre il ragazzo stava per essere aggredito. A carico del somalo, che attualmente è detenuto nel carcere di San Vittore per "favoreggiamento dell’immigrazione clandestina", ieri è stata emessa dal gip Anna Magelli un’ordinanza per quattro omicidi commessi nel campo, per il sequestro a scopo di estorsione di centinaia di somali e per le violenze sessuali su decine di donne. I pm hanno chiesto l’autorizzazione a procedere al Ministro della Giustizia per i reati commessi all’estero. Il prossimo 20 gennaio è già stato fissato l’incidente probatorio per verificare nuovamente le testimonianze di alcune vittime che hanno riconosciuto il presunto torturatore. Nell’inchiesta dei pm Luca Gaglio e Marcello Tatangelo sarebbero state raccolte diverse testimonianze che concordano su molti episodi agghiaccianti. Secondo gli inquirenti, Osman Matammud per organizzare un viaggio dalla Libia all’Italia si faceva pagare 7.500 dollari a persona. Chi non riusciva a pagare veniva sottoposto a torture anche con scariche elettriche, le donne venivano violentate. In questi mesi di indagini sarebbero stati sentiti dieci somali che hanno verbalizzato le violenze subite, c’è chi ha parlato di pestaggi a morte e di decessi causati dalla mancanza di cibo e cure. "Era un sadico che si divertiva a torturare e stuprare", così è stato descritto. I profughi testimoni adesso vogliono "un processo pubblico" e, come ha spiegato Ilda Boccasini, potranno restare in Italia con un permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Questa inchiesta, al di là dei risvolti giudiziari, pone più di un problema al governo Gentiloni e soprattutto al nuovo ministro degli Interni Marco Minniti, già "il preferito" da quei pochi italiani che ancora si prestano a rispondere ai sondaggi. Lo sottolinea il procuratore di Milano Francesco Greco: "Il problema dell’esistenza di campi non riconosciuti apparentemente dai governi locali o clandestini in cui vengono smistati i rifugiati politici e quello del rispetto dei diritti umani nei campi sia clandestini che regolari". Greco dà un consiglio al governo: "In un momento in cui fa trattati con i paesi per la gestione dei flussi migratori, l’Italia deve chiedere il rispetto dei diritti umani". Asli Erdogan: "La mia Turchia senza parole" di Lirio Abbate L’Espresso, 18 gennaio 2017 Mass media ridotti al silenzio. Centinaia di giornalisti in carcere. Torture fisiche e psicologiche. E la paura che si è impossessata di tutti. La scrittrice racconta all’Espresso la trasformazione autoritaria del suo Paese. Porta lo stesso cognome del Presidente della Turchia, ma rappresenta nettamente l’altra faccia del Paese. Asli Erdogan ha 49 anni, è scrittrice, giornalista e attivista turca. Per 136 giorni è stata rinchiusa in carcere solo perché le sue armi sono la scrittura e il ragionamento ed è accusata insieme ad altri venti fra giornalisti ed editori del quotidiano filo-curdo Özgür Gündem di propaganda terroristica a sostegno e in favore del Pkk, il partito curdo dei lavoratori. Durante la detenzione un procuratore turco ha chiesto ai giudici la condanna all’ergastolo. Poche settimane fa Asli è stata scarcerata e da allora si è rifugiata a casa della mamma, poco fuori da Istanbul. È una donna che ha bisogno di raccogliere le forze e le energie che il carcere le ha sottratto. Da questa abitazione, sommersa dalla neve dopo la pesante ondata di maltempo che si è abbattuta sulla Turchia, risponde alle domande dell’Espresso. I genitori di Asli Erdogan sono stati attivisti e per questo motivo durante i colpi di stato del 1980 e 1990 hanno subito torture in carcere. Erdogan è laureata in Fisica ed ha studiato al Cern di Ginevra. Per gli studi e la ricerca sulla Fisica ha girato il mondo. Ma la scrittura è la sua vita. I suoi libri sono stati tradotti in dieci lingue. È stata ospite dell’anteprima di Tempo di Libri, la nuova fiera (in programma a Fiera Milano Rho dal 19 al 23 aprile 2017), durante la quale si è riflettuto sui contesti e i regimi che negano la libertà di pensiero e di stampa. Asli Erdogan, lei è una scrittrice, pubblica romanzi e poi commenta, anzi commentava i fatti del suo Paese sul giornale Özgür Gündem. Proprio perché lei usa la scrittura e la parola, che a quanto pare in Turchia sembrano essere diventate armi, è stata arrestata, e per 136 giorni è stata chiusa in carcere. Come è possibile? "Onestamente sono rimasta scioccata e probabilmente lo sono ancora. Mi occupo di letteratura, ho scritto otto romanzi. Ho lavorato per giornali e riviste negli ultimi diciotto anni, e nessuno dei miei articoli è mai diventato un caso giudiziario, neanche quelli pubblicati per Özgür Gündem. A un certo punto però mi hanno arrestato con la scusa che il mio nome risultava nella lista dei "consulenti" del giornale. Il mio nome era in quella lista da cinque anni, non c’erano problemi secondo l’avvocato del giornale, i consulenti non hanno responsabilità legali rispetto al giornale. Era puramente simbolico". Come ha vissuto la sua prigionia insieme alle altre detenute? Quali sono le condizioni delle carceri? "Sono stata tenuta in isolamento per i primi cinque giorni, la cella era indescrivibilmente sporca. Sono stati i giorni più difficili. Dopo essere entrata nella sezione dei prigionieri politici, sono riuscita ad adattarmi con l’aiuto e la solidarietà dei detenuti con maggiore esperienza. Eravamo ventidue donne nella sezione, la più giovane aveva vent’anni, la più vecchia sessanta. Nonostante fossi in una delle prigioni più "morbide" della Turchia, le condizioni peggioravano di giorno in giorno, con l’introduzione di nuove regole e nuove restrizioni. Più di 50 mila persone sono state arrestate dal mese di luglio, le prigioni sono al collasso, 220 mila detenuti tutti insieme, quando la capacità di accoglienza è di 180 mila. La Turchia è stata esentata dal rispetto dei diritti umani basilari per i detenuti, e chi è in carcere non ha alcuna difesa legale contro le torture fisiche e psicologiche". Nei giorni in cui il Parlamento Europeo vota il congelamento della procedura d’ingresso di Ankara - a cui il presidente turco ha risposto minacciando di "aprire i valichi" - viene confermata la cella, in attesa di una sentenza per "terrorismo armato", ad autori, intellettuali e giornalisti di un quotidiano sospeso ad agosto La libertà di stampa nel suo paese è di fatto abolita. Qual è la condizione dei giornalisti in Turchia, delle tv e dei giornali? "Al momento, in prigione, ci sono almeno 150 giornalisti, tra cui scrittori famosi come Ahmet Altan e Ahmet Sik e 12 editor del Cumhuriyet, il giornale socialdemocratico. Per un ordine speciale del governo, sono stati chiusi circa 140 tra radio, canali televisivi, giornali e agenzie di stampa. Rimangono ancora due o tre giornali di opposizione le cui attività sono soggette a una pressione incredibile. Perfino i giornalisti più blasonati della stampa più accreditata passano nottate insonni aspettando la polizia". Quanto fa paura in Turchia, in particolare al presidente Erdogan, un giornalista o uno scrittore libero? "Oggi i media sono completamente ridotti al silenzio, come anche le università, i circoli e le associazioni (sono state chiuse circa 1.300 Ong, inclusi sindacati e associazioni di avvocati). Più che dalla paura, probabilmente tutto questo è dettato dall’odio e dal rancore personale, dall’intolleranza contro la minima ombra di sensibilità civica". Il suo arresto, insieme a quello di centinaia di altri scrittori e giornalisti ha provocato tanta indignazione. La notizia della sua scarcerazione come è stata accolta dai turchi? "Erano in molti a essere davvero felici, ballavano e cantavano nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Io intanto piangevo in una stanza buia, tra i militari, dove rimangono i prigionieri prima e dopo l’udienza. C’era invece chi voleva ostinatamente una condanna per me, perché secondo loro, sono una traditrice". Cosa pensa della mobilitazione internazionale di rappresentanti del mondo della cultura che hanno fatto appelli per farla tornare libera? "Sono rimasta sorpresa e immensamente commossa. Senza il sostegno internazionale, mi avrebbero volentieri lasciato marcire in una cella. E sono infinitamente grata per il miracolo che avete fatto, la gratitudine è un sentimento difficile da esprimere, anche per uno scrittore". Nei suoi confronti a Istanbul si sta svolgendo un processo, il 14 marzo ci sarà la terza udienza e nel frattempo è obbligata a non lasciare il paese, quali sono le accuse nei suoi confronti? "I consulenti a titolo simbolico di Özgür Gündem erano sei, Necmiye Alpay (linguista e traduttore), Bilge Contepe (fondatore del partito dei Verdi), Ragip Zarakolu (editore e candidato al Nobel per la Pace nel 2012), Ayhan Bilgen (parlamentare del HDP e suo portavoce), tutti sono stati incriminati per il peggior crimine della legislazione turca: l’accusa è di aver fondato un’organizzazione terroristica, di esserne membri e di fare propaganda per l’organizzazione e per l’articolo 302: operare per la distruzione o la separazione dello stato turco. Per quest’ultimo reato in passato si veniva condannati alla pena di morte, oggi all’ergastolo in isolamento (Öcalan è stato condannato per l’articolo 302)". Tutto questo le fa paura a restare in Turchia? "Nessuno è più al sicuro in Turchia. Io ho capito la lezione che mi hanno dato: possono giocare con me come il gatto con il topo, in qualunque momento lo desiderino. Dato che non mi sono mai occupata di politica, non sono abituata ad avere costantemente paura della polizia. Ma ora, ho imparato tra le altre cose che la paura può essere il peggiore dei guardiani". Le parole che usa nei suoi libri possono aiutare a trovare la forza per resistere alla mancanza di democrazia? "Sono solo una scrittrice. Spesso, mi sono persa nell’immensa vastità delle parole, nel loro vuoto, Ma non ho altro a cui aggrapparmi se voglio rimanere in piedi. Sono zoppa, senza parole". Anche in Italia la parola sembra essere diventata una colpa. Se c’è una categoria che provoca discussione è proprio quella dei giornalisti, per il ruolo che svolgono e anche perché qualche volta la gente confonde lo specchio con la realtà. Su questo mestiere è stato detto di tutto, bene o male, e poi perché è un lavoro che si esercita nei pressi del potere, che tende sempre a condizionarlo perché talvolta al potere si oppone. E per questo ci sono giornalisti che vengono uccisi o imprigionati. Si può morire perché si sa o perché si parla... "Viviamo in un’epoca in cui l’informazione è potere, il potere è informazione. Le democrazie liberali hanno una storia lunga di libertà di espressione sopita e appresa attraverso amare lezioni, il desiderio di monopolizzare la realtà conduce al disastro. Negli ultimi anni, governi e leader autoritari stanno prendendo il potere in tutto il mondo. I metodi più "sottili" con cui vengono "controllati" i media vengono lentamente rimpiazzati da metodi più crudi per ottenere il silenzio, dalla prigione all’omicidio. Questo è il dilemma del giornalismo oggi, di molti, noi rappresentiamo il sistema e il potere mentre il sistema e chi detiene il potere, si sentono minacciati dalle nostre frasi". Lei ha scritto che "la recente crisi in Europa, conseguente al problema dei rifugiati e degli attacchi terroristici, non è soltanto una questione politica ed economica", dunque di cosa si tratta? "Forse si può riassumere come una crisi di identità. Lo splendido sogno di un’Europa unita ha cominciato a sostanziarsi, come se cercasse di trovare un appiglio nella realtà, un appiglio di ferro e pietra. Libertà, uguaglianza, fratellanza. I concetti più nobili tra tutti, ma elaborati da chi? Come possiamo rendere universali questi concetti in un mondo di disuguaglianza e ingiustizia? Che ruolo dovrebbe giocare l’Europa? Sono domande fondamentali. La tragedia che colpisce milioni di immigrati e rifugiati chiede una presa di posizione di carattere morale che molte persone non intendono prendere". Pensa ci possa essere un modo per migliorare queste condizioni politico-sociali? "La mia risposta probabilmente sarà ingenua. Noi viviamo tutti su un unico pianeta, un pianeta dalle risorse limitate. Chi ha di più ha un dovere nei confronti di chi ha di meno. Per me, "solidarietà" è uno dei concetti più sacri, la solidarietà ha senso solo se ci si mette dalla parte della vittima. Quando ci sono persone che sono state costrette a indossare una stella gialla, l’unico modo per rimanere liberi era indossare volontariamente quella stella". Per questo motivo la democrazia in Turchia ha fatto passi indietro? "Nessuno è davvero in grado di vedere o cogliere il quadro complessivo. Vediamo l’orrore. Non passa settimana senza attentati, omicidi di massa o assassini. Sembra che la Turchia sia stata spinta nel fuoco del Medio Oriente da forze interne ed esterne. Il terremoto più forte è stato il 15 luglio scorso, la terra però non si è ancora fermata e si sono aperte molte linee di faglia". Nelle ultime settimane la Turchia è stata bersagliata da attacchi terroristici sanguinari, cosa sta accadendo? "Mi piacerebbe avere una soluzione o una ricetta! Non uccidere! era il primo comandamento, il primo obbligo, ma per migliaia di anni, gli esseri umani non hanno fatto altro che inventare ragioni e concetti per cui morire o uccidere. Parlando da un punto di vista teorico, l’oppressione produce violenza e la violenza si traduce in maggior oppressione. E la libertà di espressione è l’unica via per combattere ogni tipo di fanatismo. Ma io non sono un politico che può trasformare queste affermazioni teoriche in prassi. In azioni concrete. Se avessi qualche potere politico al momento, farei tutto il possibile per fermare la guerra in Siria e stabilizzare il Medio Oriente, prima che il fuoco si propaghi ulteriormente". Egitto: Human Rights Watch "con al-Sisi la società civile è a rischio estinzione" di Brahim Maarad L’Espresso, 18 gennaio 2017 Il rapporto annuale dell’organizzazione traccia un quadro drammatico dei diritti umani in Egitto: "Repressione ben oltre i livelli prima della rivoluzione. Torture e sparizioni forzate atti quotidiani sempre impuniti. La Comunità internazionale deve agire prima che sia troppo tardi". In Egitto il dissenso pubblico e l’opposizione pacifica sono di fatto vietati. Nel 2016 le forze di sicurezza hanno torturato e fatto sparire in modo sistematico centinaia di persone. Restando sempre impuniti. La repressione ha superato persino i livelli antecedenti la rivoluzione del 2011. Se non si interviene subito, si rischia l’estinzione della società civile. È quanto emerge dal rapporto annuale di Human Rights Watch pubblicato il 12 gennaio scorso e che traccia un quadro drammatico della situazione attuale del Paese guidato dal generale al-Sisi. "Dopo aver imprigionato decine di migliaia di oppositori politici, il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi nel 2016 ha criminalizzato il lavoro sui diritti umani e soffocato, come non era mai avvenuto prima, l’attivismo dei gruppi indipendenti della società civile", si legge nella 27esima edizione della relazione. "La comunità internazionale deve riconoscere che i diritti umani in Egitto sono peggiorati molto superando di gran lunga la repressione esistente prima della rivoluzione del 2011", ha dichiarato Joe Stork, vice direttore della divisione Medio oriente e Nord Africa di Human Rights Watch. "È necessario da parte della Comunità internazionale un impegno coordinato per aiutare a preservare ciò che resta della società civile del Paese prima che venga completamente cancellata". Ad avallare i giudizi ci sono i numeri: tra agosto 2015 e agosto 2016 la Commissione egiziana per i diritti e le libertà ha documentato 912 vittime di sparizione forzata da parte della polizia. Di 52 casi di questi non si ha ancora nessuna notizia. Tra gennaio e ottobre 2016, secondo i dati raccolti dal Centro El Nadeem, 433 detenuti hanno denunciato di aver subito torture e maltrattamenti da poliziotti o guardie carcerarie. Nel mese di novembre le autorità hanno congelato il patrimonio del Centro El Nadeem, che si occupa della tutela e della riabilitazione delle vittime di tortura, e vietato al co-fondatore Aida Seif al-Dawla, docente di psicologia e da lungo tempo attivista anti-tortura, di lasciare il Paese. Una sorte toccata a decine di altri attivisti. Solo nel mese di settembre sono stati congelati i beni di tre associazioni. Almeno quindici dirigenti non possono lasciare l’Egitto perché accusati di aver ricevuto finanziamenti dall’estero. Un reato punibile con una pena fino a 25 anni di carcere. L’intenzione del governo attuale sembra sia proprio quella di annullare ogni presenza della società civile. L’ultima stretta è la legge approvata nel mese di novembre dal Parlamento con cui viene prevista la presenza di un rappresentante delle forze di sicurezza nei direttivi delle associazioni indipendenti. Una legge ritenuta incostituzionale ma che difficilmente sarà bloccata. Per l’entrata in vigore manca solo la firma del presidente. Nel rapporto è stato citato anche il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano rapito il 25 gennaio dell’anno scorso e ucciso dopo essere stato torturato per diversi giorni. "Il caso - si legge nella nota dell’organizzazione - ha creato tensione nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto". Tuttavia, vengono riportate anche le parole spese da Donald Trump durante il suo incontro, nel mese di settembre, con il presidente egiziano al-Sisi: "Massimo sostegno all’Egitto nella sua guerra al terrorismo. La nostra amministrazione sarà un fedele amico, non solo un semplice alleato". Stati Uniti. Obama grazia Chelsea Manning. Pena commutata, in libertà a maggio di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 18 gennaio 2017 Il presidente uscente Barack Obama ha accolto gli appelli di Julian Assange e di Edward Snowden che chiedevano di commutare la pena per la transgender accusata di aver passato documenti riservati a Wikileaks e condannata a 35 anni di carcere. Chelsea Manning, una delle "talpe" di WikiLeaks, sarebbe dovuta uscire di prigione nel 2045. Barack Obama, con uno degli atti finali della sua presidenza, gli ha condonato la pena: l’ex analista dei servizi di sicurezza militari potrà lasciare la cella di Fort Leavenworth, in Kansas, il prossimo 17 maggio. L’analista ha già scontato sette anni - Manning, 29 anni, ha già scontato quasi sette dei 35 anni previsti dalla sua condanna. Nel 2009 Bradley Manning, come si chiamava prima di diventare una transgender, era ancora un analista dei servizi di sicurezza dell’esercito. La sua unità fu inviata in Iraq. I documenti a Wikileaks e gli abusi sui prigionieri - Nel 2010 fu accusato di aver copiato e poi passato al sito di Julian Assange centinaia di migliaia di documenti classificati che riguardavano le attività dell’esercito americano nelle guerre in Afghanistan e poi in Iraq. Suscitarono scandalo e indignazione, in particolare, le rivelazioni sugli abusi commessi dagli ufficiali iracheni sui prigionieri. Il numero di vittime - Inoltre, le carte trafugate da Manning mostrarono come il numero delle vittime civili nel conflitto in Iraq fosse decisamente superiore alle stime ufficiali fornite dal governo di Washington. Guantánamo e i giornalisti della Reuters - E ancora, diffuse copie dei messaggi tra le sedi diplomatiche degli Stati Uniti che riportavano conversazioni riservate su temi "sensibili" per la politica estera; dossier sui detenuti senza processo, nella base di Guantánamo e infine un video che riprendeva l’attacco di un elicottero americano a Bagdad, in cui morirono, tra gli altri, due giornalisti dell’agenzia Reuters. Le differenze tra Manning e Snowden - La decisione di Obama non è inattesa. Venerdì 13 gennaio il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, aveva risposto alle domande sulle due ipotesi di grazia in campo: a favore di Edward Snowden, il contractor dei servizi segreti, ora fuggito in Russia; oppure a beneficio di Manning. "I due casi sono molto diversi - aveva osservato Earnest. Manning ha affrontato un processo, ha subito una condanna e ha riconosciuto di aver sbagliato; Snowden è volato via nelle braccia di un Paese avversario che di recente ha cercato di minare la fiducia nella nostra democrazia". Ecco dunque spiegata la scelta di Obama: perdono giudiziario per premiare il pentimento di Manning. In teoria il presidente avrebbe tempo fino a venerdì 20 gennaio per mostrarsi clemente anche con Snowden. La transizione di Chelsea e i tormenti - Il percorso di Manning è stato molto tormentato negli ultimi 7-8 anni. Il 22 agosto del 2013, il giorno dopo la condanna record a 35 anni, Bradley Manning annunciò che sarebbe diventata donna e da quel momento si fece chiamare Chelsea. Fu rinchiusa comunque del penitenziario militare, interamente maschile, nel Kansas. Nel 2015 ottenne il permesso di sottoporsi a cure ormonali e di indossare biancheria intima femminile. Ma evidentemente tutto ciò non era bastato per placare la sua angoscia. L’anno scorso ha tentato due volte il suicidio. Martedì la notizia più attesa: "Chelsea, il presidente ti ha concesso la grazia. Tra pochi mesi sarai libera". Stati Uniti. Il gesto di Obama umanitario, non politico di Federico Rampini La Repubblica, 18 gennaio 2017 Il perdono presidenziale non ha il valore giudiziario di un’assoluzione per le violazioni di 700.000 segreti diplomatici e militari che Manning aveva messo in circolazione. WikiLeaks canta vittoria, Edward Snowden (che pure aveva chiesto la grazia) resta a mani vuote, nel sicuro esilio in Russia. Insieme con una presidenza si chiudono anche le pagine più sgradevoli, imbarazzanti. "Move on", il passato è un capitolo chiuso, ora tutto cambia. E così Barack Obama, iperattivo fino alle ultime ore della sua presidenza, ha fatto il gesto di clemenza che molti si attendevano e invocavano da lui: compreso il fondatore di WikiLeaks Julian Assange che si era offerto perfino di auto-consegnarsi per l’estradizione in America in cambio della liberazione di Manning. Il perdono presidenziale di Obama non ha il valore politico né tantomeno giudiziario di un’assoluzione per le violazioni di 700.000 segreti diplomatici e militari che Manning aveva messo in circolazione. È un gesto umanitario dovuto alle gravi condizioni di salute della detenuta. Dopo la condanna a 35 anni di carcere Manning aveva deciso di procedere al cambio di sesso, ed era diventato donna. Ma scontava la pena in un carcere militare del Kansas con soli detenuti maschi. Aveva già tentato due volte il suicidio. 35 anni di carcere sono una condanna spropositata, senza precedenti per chi ha divulgato segreti. Tanto più che quelli dello scandalo Manning erano semi-segreti, nessuno raggiungeva il livello di riservatezza più elevato. Ma le ricadute internazionali sull’immagine dell’America, quelle sì erano state pesanti. Nato all’anagrafe di sesso maschile 29 anni fa, Bradley Edward Manning era soldato semplice - sia pure con incarico di "analista" - sul fronte iracheno quando divenne protagonista nel 2010 di una delle più ampie fughe di notizie militari e diplomatiche. Il danno che riuscì a compiere passando a WikiLeaks quei comunicati diplomatici e militari mise in luce le fragilità del sistema di gestione delle informazioni al Pentagono e al Dipartimento di Stato, accessibili con facilità sorprendente da un militare di basso grado gerarchico. Al processo la difesa di Manning invocò subito le attenuanti di ordine psichiatrico citando proprio la sindrome del "gender identity disorder" che era stata già diagnosticata al militare quando serviva sotto le armi. Fu condannato ugualmente, in base alla legge Espionage Act che risale addirittura al 1917, all’epoca in cui gli Stati Uniti combatterono brevemente nella prima guerra mondiale. Tra le rivelazioni che arrivarono a WikiLeaks grazie a Manning e che circolarono poi nel mondo intero, c’erano documentazioni sulle vittime civili dei bombardamenti in Iraq e in Afghanistan, nonché un blitz aereo contro civili in cui erano morti dei reporter della Reuters. In quanto al materiale di fonte diplomatica, si consolidò l’opinione che alcune di quelle rivelazioni contribuirono alla scintilla iniziale delle cosiddette "primavere arabe". I comunicati interni alla diplomazia americana, tra le ambasciate e Washington, rivelavano dettagli sulla corruzione ai vertici dei regimi nordafricani e arabi. In Tunisia, per esempio, grazie a WikiLeaks si scoprì che la figlia del presidente si faceva portare i gelati in aereo da Saint-Tropez. Manning ritroverà la libertà il 17 maggio. Resta da vedere se Assange vorrà consegnarsi alla Giustizia, prima svedese e poi presumibilmente americana, sotto la nuova Amministrazione Trump. Per ora WikiLeaks come prima reazione canta vittoria. Ed è singolare che tutto questo accada mentre è appena uscito in libreria un lungo saggio su Edward Snowden, l’altra talpa che diede segreti a WikiLeaks, dove viene confermato l’alone di sospetti sui suoi rapporti con l’intelligence russa. Ma quella che ieri era un’accusa infamante, domani diventerà un titolo di merito? Lituania. La Corte di Strasburgo riconosce il diritto all’accesso a internet per un detenuto tpi.it, 18 gennaio 2017 Per la Corte europea dei diritti dell’uomo vietare l’accesso alla rete per i carcerati per scopi relativi all’istruzione limita la libertà di espressione. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la restrizione dell’accesso a internet disposta nei confronti di un detenuto dalle autorità lituane è contraria alla libertà d’espressione sancita dalla Convezione europea per i diritti dell’uomo. Al detenuto Henrikas Jankovskis era stato proibito di navigare in rete per iscriversi a un corso di diritto, adducendo come motivazione ragioni di sicurezza. Ma la corte ha ritenuto che le autorità non avessero fornito ragioni sufficienti alla base del divieto. Ha inoltre sottolineato che i siti che Jankovskis voleva visitare erano finalizzati a migliorare la sua istruzione e che per questo il provvedimento violava l’articolo 10 della convenzione, che sancisce la libertà d’espressione. La legislazione degli stati europei prevede molte limitazioni all’accesso dei detenuti alla rete o a siti specifici sulla base di ragioni di sicurezza. Il diritto di accesso a internet è già stato oggetto di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. A gennaio 2016, la corte ha statuito che le autorità non possono impedire a una persona di ricevere informazioni, ma che questo non comporta un obbligo generale di garantire l’accesso a internet. Brasile. I morti ammazzati nelle carceri c’entrano con il commercio della coca di Maurizio Stefanini Il Foglio, 18 gennaio 2017 Regolamenti di conti negli istituti penitenziari e 130 morti in due settimane. Qual è il ruolo dell’accordo di pace nella vicina Colombia, e perché le violenze potrebbero essere solo all’inizio. "Qui è il crimine organizzato/ sta tutto monitorato/ stretto agli alleati/ rappresento il nostro Stato". Questo "Funk da Familia di Norte" è rimbalzato sui social network da quando sono iniziate le stragi carcerarie in Brasile. Questo rap è diventato la parola d’ordine con cui la mattina del 2 gennaio, nel Complesso Penitenziario Anísio Jobim di Manaus, stato di Amazonas, i detenuti appartenenti alla Familia del Norte, in nome dell’alleanza con il Comando Vermelho hanno prima preso in ostaggio 12 agenti, poi si sono scatenati nella mattanza degli aderenti al Primeiro Comando da Capital (Pcc). Tutti e tre i gruppi, Familia del Norte, Comando Vermalho e Primeiro Comando da Capital, sono potenti organizzazioni di narcotrafficanti che operano in Brasile e che hanno nelle carceri una delle loro principali centrali operative e fonti di reclutamento. "Decretato il potere/ l’ordine di dirò/ il Comando è uno solo/ è stato battuto il martello/ per fottere i Pcc", continuava la canzone. Quando dopo 15 ore le autorità hanno ristabilito l’ordine, hanno trovato 60 cadaveri. Gran parte di questi erano squartati e decapitati: un Grand Guignol rivendicato dal rap. "Era tutto dominato/ la galera nelle nostre mani/ e i detenuti tutti decapitati/ nel quadro del carcere". Erano passati cinque giorni, e la mattina dell’Epifania i Pcc hanno risposto uccidendo a loro volta 33 rivali nel Penitenziario Agricolo Monte Cristo di Boa Vista, sempre in Amazzonia, ma nello stato di Roraima. Anche qui, ci sono state decapitazioni e squartamenti. "Sono un po’ duro al riguardo, sono figlio di un poliziotto. Dovrebbero uccidersi di più. Dovrebbe esserci un massacro a settimana", è stato il giorno dopo il commento di Bruno Moreira Santos, segretario alla Gioventù del governo Temer. Non aveva fatto in tempo a dimettersi per il soprassalto di indignazione che ne è seguito, e la mattina dell’8 gennaio altri 5 cadaveri sono stati trovati nel Carcere Pubblico Raimundo Vidal Pessoa, altro istituto penitenziario di Manaus. Tre erano decapitati e, di nuovo, la responsabilità sarebbe della Familia del Norte. Criticato per la lentezza nel rispondere, il presidente Temer ha allora inviato in sette stati i rinforzi della Força Nacional de Segurança Pública, una unità di élite composta da poliziotti, vigili del fuoco e periti provenienti dai vari stati brasiliani. In particolare, 100 uomini sono stati mandati nell’Amazonas e altri 100 nel Roraima. Ma il pomeriggio di sabato 14 gennaio, una nuova battaglia tra bande rivali si è scatenata nel Penitenciaría Alcaçuz, un istituto carcerario del Rio Grande di Norte, dove 1.083 detenuti sono rinchiusi in una struttura da 620 posti. Anche all’Anísio Jobim c’erano 2.230 detenuti in una struttura da 590 posti, e in generale il Brasile costringe 622.000 detenuti, quarta popolazione carceraria mondiale dopo quella di Stati Uniti, Cina e Russia, in un sistema carcerario la cui capienza è di 371.844 posti. Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia - le autorità sono riuscite a recuperare il controllo del carcere con l’impiego di veicoli blindati solo 14 ore dopo l’inizio delle violenze - sarebbero stati i Pcc a invadere un padiglione dove si trovavano uomini del Sindicato do Crime, altro alleato locale del Comando Vermelho. Il bilancio finale è stato di 27 morti, il che porta il totale a ben 130 vittime nelle prime due settimane del 2017. La rivalità tra i clan è motivata, innanzitutto, dalle origini delle due bande: il Pcc, che ha 20.000 aderenti, è basato a San Paolo, mentre il Comando Vermelho, con 50.000 adepti, è stato fondato a Rio de Janeiro. Tutte e due le bande si sono formate in carcere, ma la più antica è il Pcc, creato nel 1969 da guerriglieri in lotta contro il regime militare. Prima della transizione alla democrazia, questo gruppo originario arruolò criminali comuni per poi finirne fagocitato a sua volta. A quel punto sono stati altri delinquenti comuni che nel 1993 hanno copiato il modello, organizzandosi nel Comando Vermelho. Dopo la transizione democratica, alcuni detenuti sono stati liberati e sono tornati alla vita politica, al punto che l’ex guerrigliera e rapinatrice di banche Dilma Rousseff è stata eletta presidente della Repubblica, nelle cui vesti ha ordinato dure operazioni di repulisti nelle favelas sotto il controllo di Pcc e Cv. Benché rivali, i due gruppi avevano raggiunto una tregua per far fronte comune all’offensiva dei governi di Lula e Dilma per ripulire le grandi città dalle gang in occasione dei Mondiali e delle Olimpiadi. Ma la scorsa estate la tregua è stata rotta e la guerra è esplosa all’inizio dell’anno. Il fatto che si combatta in Amazzonia è considerato dagli analisti un segnale decisivo, dato che lì, attraverso 17.000 chilometri di frontiera quanto mai porosa, passa la rotta della coca alternativa a quella del cosiddetto Narcosur, lungo la quale viaggia quella che va negli Stati Uniti, seguendo l’asse Colombia-Messico-Caraibi. L’offerta di coca in Sudamerica è aumentata del 30-40 per cento da quando il governo colombiano ha smesso di fumigare le coltivazioni in seguito alla nuova politica anti narcos concordata nel Trattato di Pace con le Farc. Pcc e Cv scommettono forse che il processo di pace porterà ad aumenti ulteriori, e una delle teorie più plausibili che giustifica questo aumento di violenza nelle carceri riguarda proprio le nuove possibilità aperte per il commercio della droga: potrebbe aprirsi una nuova rotta del narcotraffico che passa per il Brasile, e le violente gang locali si muovono in anticipo per approfittarne. Oman. Muscat accetta 10 detenuti di Guantánamo di Maddalena Ingroia agcnews.eu, 18 gennaio 2017 L’Oman ha annunciato che accetterà 10 detenuti dal carcere americano di Guantánamo Bay prima che il presidente Barack Obama lasci l’ufficio, riportava nei giorni scorsi l’Oman News Agency. Neo comunicato, il ministero degli Esteri dell’Oman ha detto di aver accettato i prigionieri su richiesta di Obama, senza farne i nomi. Il Sultanato dell’Oman, sul lato orientale della penisola arabica, in precedenza aveva già accettato 10 detenuti di Guantánamo dallo Yemen a gennaio 2016; Muscat ne ha anche accettati altri sei nel mese di giugno 2015. Nel frattempo, l’Arabia Saudita ha preso quattro prigionieri il 5 gennaio e gli Eau ne hanno presi 15 nel più grande-singolo trasferimento durante l’amministrazione di Obama, lo scorso 15 agosto. L’Oman, governato dal sultano Qaboos bin Said dal 1970, è stato un interlocutore tra l’Occidente e l’Iran, e ha inoltre negoziato una serie di rilasci di prigionieri negli ultimi anni per i paesi occidentali. Pochi giorni fa, le autorità Usa hanno detto che 19 dei restanti 55 prigionieri nella base militare statunitense a Cuba erano stati autorizzati per il rilascio e avrebbero potuto essere liberati negli ultimi giorni della presidenza di Obama che negli ultimi giorni di presidenza si è sforzato di ridurre la presenza nel carcere non potendo chiuderlo. Donald Trump ha detto durante la sua campagna elettorale che non solo vuole mantenere aperta Guantánamo, ma vuole portarci altri "cattivi". Occorre ricordare che gli Stati Uniti hanno iniziato a utilizzare la base militare nel sud-est di Cuba per detenere i prigionieri catturati durante l’invasione dell’Afghanistan; il primo aereo con i prigionieri afgani vi arrivò l’11 Gennaio 2002, e 18 mesi più tardi vi erano quasi 680 detenuti. Erano 242 i prigionieri quando Obama è entrato in carica nel 2009, impegnandosi a chiudere il carcere, al centro di forti critiche internazionali sul maltrattamento dei detenuti e sulla nozione di detenzione di persone a tempo indeterminato, senza processo. Infine, Barack Obama non è riuscito a chiudere Guantánamo a causa dell’opposizione del Congresso a detenere i suoi prigionieri negli Stati Uniti. La maggior parte dei prigionieri di Guantánamo rilasciati sono stati inviati in Afghanistan, Arabia Saudita e Pakistan.